26 aprile 2020. 3a Domenica di Pasqua
EMMAUS.SENTIERI DI PASQUA

Capiti in piazza e ti senti rinfacciare da Pietro che sei corresponsabile di un omicidio (1a Lettura). Ti allontani e lungo la strada un’ombra di morte incombe nell’anima come la puzza dei cadaveri appesta l’aria e ti senti dire: «stolti e lenti di cuore a credere» (Vangelo). Arrivi a casa e trovi una lettera che sembra consegnata dalle poste italiane tanto è il tempo che è stata spedita da Pietro (2a Lettura) e ti senti dire che è ora di smummiarti perché sei stato liberato da una condotta vuota. A questo punto ti viene spontaneo chiederti se la Pasqua è un messaggio di pace o una dichiarazione di guerra. Forse perché abbiamo un concetto di pace che è troppo simile alla tranquillità.
Preghiamo. O Dio, che in questo giorno memoriale della Pasqua raccogli la tua Chiesa pellegrina nel mondo, donaci il tuo Spirito, perché nella celebrazione del mistero eucaristico riconosciamo il Cristo crocifisso e risorto, che apre il nostro cuore all’intelligenza delle Scritture, e si rivela a noi nell’atto di spezzare il pane. Per Cristo nostro Signore.
Dagli Atti degli Apostoli 2, 14. 22-33.
Nel giorno di Pentecoste, Pietro, alzatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così: «Uomini d’Israele, ascoltate ciò che sto per dire. Gesù di Nàzaret era un uomo mandato da Dio per voi. Dio gli ha dato autorità con miracoli, con prodigi e con segni. È stato Dio stesso a compierli per mezzo di lui fra voi. E voi lo sapete bene! Quest’uomo, secondo le decisioni e il piano prestabilito da Dio, è stato messo nelle vostre mani e voi, con la complicità di uomini malvagi, lo avete ucciso inchiodandolo a una croce. Ma Dio l’ha fatto risorgere, liberandolo dal potere della morte. Era impossibile infatti che Gesù rimanesse schiavo della morte. Questo Gesù, Dio lo ha fatto risorgere, e noi tutti ne siamo testimoni. Egli è stato innalzato accanto a Dio e ha ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che era stato promesso. Ora egli ci dona quello stesso Spirito come anche voi potete vedere e udire».>

Salmo 15 Rit. Mostraci, Signore, il sentiero della vita.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.

Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu». Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non potrò vacillare.
Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 1, 17-21
Carissimi, quando pregate Dio, voi lo chiamate Padre. Egli giudica tutti con lo stesso metro, ciascuno secondo le sue opere. Perciò nel tempo che dovete passare in questo mondo, comportatevi con grande rispetto verso di lui. Voi sapete come siete stati liberati da quella vita senza senso che avevate ereditato dai vostri padri: il prezzo del vostro riscatto non fu pagato in oro o argento, cose che passano; siete stati riscattati con il sangue prezioso di Cristo. Egli si è sacrificato per voi come un agnello puro e senza macchia. Dio lo aveva destinato a questo già prima della creazione del mondo; ora, in questi tempi che sono gli ultimi, egli si è manifestato per voi. E voi, per mezzo di lui, credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato la gloria. Così la vostra fede e la vostra speranza sono rivolte verso Dio.

Dal Vangelo secondo Luca 24,13-35
Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista (afantos egheneto= invisibile divenne). Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio (Si alzarono subito) e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 SENTIERI DI PASQUA. Don Augusto Fontana
Capiti in piazza e ti senti rinfacciare da Pietro che sei corresponsabile di un omicidio (1a Lettura). Ti allontani e lungo la strada un’ombra di morte incombe nell’anima come la puzza dei cadaveri appesta l’aria e ti senti dire: «stolti e lenti di cuore a credere» (Vangelo). Arrivi a casa e trovi una lettera che sembra consegnata dalle poste italiane tanto è il tempo che è stata spedita da Pietro (2a Lettura) e ti senti dire che è ora di smummiarti perché sei stato liberato da una condotta vuota. A questo punto ti viene spontaneo chiederti se la Pasqua è un messaggio di pace o una dichiarazione di guerra. Forse perché abbiamo un concetto di pace che è troppo simile alla tranquillità.
Due sono i rischi che corro come discepolo: uno quello di lasciarmi stroncare la speranza dalle smentite della storia; l’altro quello di lasciarmi cullare dolcemente da una fede protettiva e insonorizzata. Oggi i due rischi li corriamo tutti: in presenza di smottamenti sanitari, economici e politici sullo scenario mondiale, di devastanti grandinate di quotidiane delinquenze attorno a noi e di glaciazioni del nostro cuore interiore, veniamo paralizzati dalla certezza che il mondo non cambierà mai e che la risurrezione sia una bella favola o al massimo una riparazione finale dopo che tutto, però, si è rotto. Oppure ci viene comodo spegnere finalmente gli occhi sulle miserie inquietanti della carne torturata per aprirli finalmente su pascoli tranquillizzanti alla ricerca di ferie distensive della nostra responsabilità.
La scenografia di Luca presenta tre scene in successione: un viaggio di fuga dalla chiesa, una sosta nella locanda di Emmaus, un eccitato viaggio di ritorno alla chiesa. Praticamente è la mappa del mio cammino: fuga, incontro, riconoscimento, annuncio. Praticamente è un Cantico sulla Domenica, un Poema sull’Eucaristia, una catechesi narrante e ammaliante sui miei percorsi di fede borderline, sui possibili esiti, sulle necessarie seppur tormentate fedeltà all’ascolto delle Scritture, sul procedere in compagnia, sulle soste liturgiche, sullo statuto irrinunciabile di una chiesa che cammina talvolta per stanchezza e fuga mortifera e talvolta con la levità dell’amante («Ora parla il mio diletto e mi dice: Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!» Cantico 2,10).
«E avvenne mentre conversavano e discutevano, allora Gesù stesso avvicinatosi andava con loro…E avvenne mentre era seduto a tavola con loro…»(vv.15 e 30). E’ importante per l’evangelista ciò che Gesù vive con quei due discepoli, uno chiamato Cleopa e l’altro senza nome perché ha il mio e il tuo nome.
Conversavano di ciò che era accaduto e di Lui. Ecco come si sta nella comunità: senza dimenticare ciò che accade intorno a noi e senza tacere di Lui e dei fatti che riguardano Lui. Parlarsi magari anche scaricandosi reciprocamente il proprio malumore. Gesù li lascia raccontare. Tace. Gesù non salta i fatti, anzi ne è curiosamente interessato: «Quali fatti?». E loro fanno l’annuncio che però è solo un annuncio di morte: «Gesù uomo potente in opere e parole è stato ucciso….». La mia ricerca di lui si ferma al sepolcro. La sua ricerca di noi ci porta oltre il sepolcro. Quella locanda di Emmaus, se non ci fosse stato lui, rischiava di diventare il muro del pianto, un lacrimatoio della camera mortuaria, Gesù camminava con loro. I loro occhi erano “posseduti” (traduzione letterale del verbo greco krateô) dalla coscienza della propria nudità come lo sguardo di Adamo ed Eva “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi” (Gen. 3,7); posseduti dal proprio nudo ombelico. Tra poco quello stesso loro sguardo si aprirà non più su di sé ma su di Lui. Gesù entra anche nelle loro cieche visioni («siete senza testa») e nelle nostre tardive speranze («siete bradicardici: lenti di cuore»). E fa la spiegazione delle Scritture. Rivela i limiti della loro fede. Poi, a sera, incappano in una locanda, brutta come un’osteriaccia, ma che si rivelerà la loro stupenda cattedrale. Gli dicono: «Dimora con noi». Infatti: «Ecco io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap. 3,20). E si sdraia a mensa con noi, di domenica in domenica: «E avvenne, mentre era sdraiato lui con loro», proprio come poeticamente descritto nel Cantico dei Cantici: «La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia» (Cantico 2,6). Gesù si sdraia a tavola, come sempre con noi, peccatori e discepoli miscredenti.
«Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Stupenda differenza tra “vedere” e “riconoscere”. Gli occhi si aprono non per vedere una persona, ma per riconoscere una presenza.
Scriveva don Casati in una lettera al Vescovo Tettamanzi: «Non si può equivocare: il gesto del pane era umile, era silenzioso, era semplice. Ma parlava. Loro guardavano e capivano. Capivano l’amore di Dio. In un pezzo di pane. Oggi per farlo vedere l’abbiamo circondato, oserei dire “assediato”, di mille cose e la foresta non per­mette più di intravedere il pane, di intravedere la cena, di intravedere il cuore. Siamo ormai nella necessi­tà di spiegare i segni, quando essi stessi per loro natura dovrebbero significare. Il pane, confessiamolo, non lo si vede più. Non si vede più la cena. Da tempo mi vado chiedendo se, anzi­ché aggiungere cose a cose nei riti, non sia l’ora, questa, di incomincia­re pazientemente ma fermamente a scrostare dagli ispessimenti, dai soffocamenti, dalle verniciature so­vrapposte nel tempo, l’affresco. Perché di affresco si tratta. L’affresco dell’amore incondiziona­to di Dio. E ritorni a splendere il colore di questa incondizionatezza del pane».
Nella Bibbia quante strade, luogo di conversione.
In quella stessa ora ritornano indietro: è notte, ma per loro è come un’alba. Sono stati bruciati dal roveto ardente (Esodo 33,25): «Non era forse, il nostro cuore, ardente?». Non scompare, Gesù, ma entra come una cicatrice di un’ustione profonda, la cui forza urticante sembra placarsi un po’ solo quando si torna sulla strada per ricongiungersi, annunciare, confermare, essere confermati. Leggendo e rileggendo la Bibbia, è tutto un camminare, un fare strada, un andare, un ripartire… Dalla partenza di Abramo al cammino di Israele verso la terra, dal viaggio doloroso verso l’esilio al rientro in Palestina, la strada è compagna della storia di Israele. I profeti amano uscire e fanno della strada il luogo principale dei loro incontri e della loro predicazione. Gesù, come il suo maestro Giovanni il Battezzatore, ha fatto della strada il luogo dell’incontro, dell’amore che aiuta i più deboli, dell’insegnamento, del dialogo. Le mappe dei suoi spostamenti sono una ragnatela di viaggi dal nord estremo dei territori pagani alle viuzze di Gerusalemme, al deserto della Transgiordania. Pensiamo all’apostolo Paolo: un instancabile “agente di viaggio del Regno di Dio”. Ma la strada è talmente esperienza centrale nel movimento originario di Gesù che i discepoli del nazareno vengono chiamati “seguaci della via” (Atti 9,2; 19,9 e 23; 24,14; le traduzioni usano il termine “dottrina”, ma il testo greco usa “odòs” = via). Seguire Gesù è una via, non una dottrina. Anzi Gesù stesso è “la via” (Giovanni 14,6) che conduce al Padre; ci fu, e c’è ancora, chi tenta di inchiodare quei suoi piedi su un legno per tenerlo lì, immobilizzato e innocuo.
Amo Giuseppe d’Arimatea, il discepolo che, con Nicodemo, va a schiodare Gesù dalla croce (Mt 27,59); amo pensare al loro gesto come ad un vero rito liturgico per rimettere Gesù sui sentieri e ridargli l’opportunità storica di camminare come risorto, benchè un po’ straniero, in mezzo a noi. Meglio la chiesa che gli schioda i piedi, di quella che tenta di incollarglieli. Maria di Magdala e l’altra Maria lo avevano incontrato nei pressi del sepolcro e «gli presero i piedi e lo adorarono» (Mt. 28,9-10), crocifiggendolo a sé in un’adorazione amante che Lo avrebbe però incaprettato. Ma Gesù dice: «Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno». L’evangelista Giovanni parla solo di Maria di Magdala che vuole «abbracciare i piedi»; Gesù le dice: «Non mi trattenere» (Gv 20,17).
La strada, esperienza e metafora dell’incontro e dell’immersione diretta nella realtà, è anche l’immagine di questa necessità di non fermarci al già acquisito, di non tuffarci nelle nostre cose, di non fasciarci di sicurezze o di certezze come per difenderci dai problemi del mondo. La strada, con tutto ciò che essa comporta nella realtà e nella metafora, è il luogo in cui Dio ci raggiunge con segni, voci, presenze che ci invitano a conversione. Nella mia vita è successo così: 26 lunghi anni di lavoro laico, esposto alle contingenti intemperie della quotidianità senza scudi protettivi, in strada con i lavoratori in sciopero, sui sentieri quotidiani nella intricata foresta amazzonica degli indigeni Shuaras e sui polverosi sentieri rossi con i sem-terra e i poveri dei bairros brasiliani, nei corridoi trasudanti incubi nel carcere e in quelli non meno dolenti degli ospedali e delle Case per anziani. La strada, cioè il cammino quotidiano dentro i fatti e in compagnia delle persone, per molti anni mi hanno cambiato la vita. Ora sono diventato, per età, uno spelacchiato e azzoppato gatto domestico, ma l’Emmaus domenicale resta il mio sogno ancora integro.
«Se la polvere della strada, con i suoi intoppi e le sue incertezze, con le sue fermate e le sue “persone ferite”, non ci tocca, noi rischiamo di “farci la nostra vita”, di ritagliarci i nostri spazi, ma perdiamo la sintonia con la realtà della carovana umana, specialmente con i passeggeri delle ultime carrozze. Un viaggio tra i “buoni, belli e sani” è la maniera più sicura per naufragare nella noia, per seppellirci nel narcisismo, per non capire nulla della storia. La strada è il luogo in cui, come Gesù, possiamo incontrare le “cattive compagnie” che ancora sanno gridare, sognare, esprimere il desiderio di un mondo altro, resistere, piangere ed abbracciare. Penso con grande gratitudine a Dio a quella parte della chiesa che accetta i rischi, le incertezze, gli incidenti, gli errori, le fragilità, le gioie e i sogni che nascono nella carovana dei viandanti e non ha la pretesa di dirigere il cammino, ma vuole vivere la compagnia e seminare lungo il percorso le parole e i segni dell’evangelo»[1].
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[1] https://donfrancobarbero.blogspot.com/2008/04/una-chiesa-apprendista.html. Franco Barbero è un ex presbitero italiano di Pinerolo, noto per le sue critiche alla dottrina, liturgia e magistero della Chiesa cattolica, a causa delle quali fu dimesso dallo stato clericale da papa Giovanni Paolo II° nel 2003.




2a domenica di Pasqua. 19 aprile
Dall’utero della Pasqua nasce una chiesa così…

Papa Francesco, nell’udienza generale dell’11 settembre 2013 aveva detto: «Un cristiano non è un’isola. Noi non diventiamo cristiani da soli e con le nostre forze, ma la fede è un dono di Dio che ci viene dato nella Chiesa e attraverso la Chiesa». Le Letture liturgiche di oggi ci offrono uno sguardo panoramico sulla vita della chiesa nascente dopo la resurrezione. La fede in Cristo risorto e l’aver ricevuto il suo Spirito ci incorpora alla comunità cristiana, alla chiesa, che ovviamente non si riduce al Papa, ai vescovi e ai preti, ma è costituita da tutti i credenti: uomini e donne di tutte le età, che esercitano in essa diversi ministeri e conducono diverse forme di vita, ma hanno molte cose in comune

Preghiamo. Signore Dio nostro, che nella tua grande misericordia ci hai rigenerati a una speranza viva mediante la risurrezione del tuo Figlio, accresci in noi, sulla testimonianza degli apostoli, la fede pasquale, perché aderendo a lui pur senza averlo visto riceviamo il frutto della vita nuova. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dagli Atti degli Apostoli2,42-47
Quelli che erano stati battezzati erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

Sal 117 Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre».
Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto.
Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza.
Grida di giubilo e di vittoria nelle tende dei giusti: la destra del Signore ha fatto prodezze.
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 1,3-9
Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.

Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-31
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
 

DALL’UTERO DELLA PASQUA NASCE UNA CHIESA COSI’…Don A. Fontana.
Papa Francesco, nell’udienza generale dell’11 settembre 2013 aveva detto: «Un cristiano non è un’isola. Noi non diventiamo cristiani da soli e con le nostre forze, ma la fede è un dono di Dio che ci viene dato nella Chiesa e attraverso la Chiesa». Le Letture liturgiche di oggi ci offrono uno sguardo panoramico sulla vita della chiesa nascente dopo la resurrezione. La fede in Cristo risorto e l’aver ricevuto il suo Spirito ci incorpora alla comunità cristiana, alla chiesa, che ovviamente non si riduce al Papa, ai vescovi e ai preti, ma è costituita da tutti i credenti: uomini e donne di tutte le età, che esercitano in essa diversi ministeri e conducono diverse forme di vita, ma hanno molte cose in comune, precisamente quelle che ci segnala oggi la lettura del libro degli Atti (insieme a 4,32-35; 5,12-16).

In primo luogo la fede comune, “gli insegnamenti degli apostoli“, il Vangelo insomma.
In secondo luogo la comunione, una caratteristica molto vistosa della prima comunità.
Viene poi “la frazione del pane”, il condividere il pane, cioè, la celebrazione eucaristica nel corso del pranzo comunitario, un’agape fraterna nella quale si fa memoria di Gesù, della sua morte e resurrezione.
Infine le “orazioni”, momenti speciali di preghiere comunitarie, forse nelle stesse ore in cui erano soliti farle i giudei: alba, mezzogiorno e pomeriggio.

E’ veramente la chiesa quella che viene ritratta in questa lettura? La risposta evidente è no: la lettura ci presenta piuttosto un progetto da raggiungere. E’ possibile che la comunità cristiana primitiva non sia stata cosi perfetta; lo stesso libro degli Atti ci informa delle sue imperfezioni e problemi. Ma Luca ha voluto lasciarci questo ritratto ideale forse per evitare che ci accontentiamo della mediocrità.

La seconda lettura è presa dalla prima lettera di San Pietro diretta ai pagani convertiti al cristianesimo, che vivono la loro fede in mezzo a gravi difficoltà in un ambiente ostile. E’ una chiesa pasquale che non fugge dalla società né la aggredisce: la paura genera fuga, piagnisteo, fondamentalismi, contrapposizioni, e una forma di sguardo negativo e manicheo su tutti quelli che ti circondano.

Il Vangelo di Giovanni ci presenta due apparizioni (parola da prendere con le pinze!) del Signore Risorto ai suoi discepoli, una nello stesso giorno della resurrezione, l’altra otto giorni dopo.

Gesù e i discepoli.

  1. I discepoli pur avendo visto la tomba vuota e avendo sentito la notizia della risurrezione da parte di Maria di Magdala, non avevano ancora incontrato Gesù risorto. Occorre arrivare a incontrarlo personalmente. I segni e i testimoni sono necessari, come tappe di avvicinamento, ma mi viene chiesto di arrivare ad incontrare Lui. La scena che si apre è speculare all’ingresso nel sepolcro da parte dei discepoli: qui è Gesù che entra nel sepolcro della comunità, sepolcro ancora chiuso dalla pietra della paura e dell’incredulità, non ancora ribaltata. Maria di Magdala lo cerca e Lui si fa trovare; qui i discepoli non lo cercano e Lui si offre (venne) prendendo l’iniziativa. Il Signore garantisce la sua presenza anche in mezzo a un popolo mormoratore che si chiede: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»(Esodo 17, 3-5).
  2. Bisognerebbe leggere questa scena dopo aver letto i discorsi d’addio nel cap. 16, dove Gesù diceva: “vi darò il mio Spirito“, ecco che dà lo Spirito; diceva ” vi darò la mia pace” ed ecco la pace; diceva “ritornerò a voi” ed ecco che è ritornato; diceva “avrete la gioia” ecco la gioia. Secondo Giovanni, Gesù non aspetta ad offrirci nell’altra vita i beni promessi, ma già ora, anche se evidentemente non in pienezza. Il racconto narra una solenne epifania, manifestazione, nel Giorno del Signore e mentre la chiesa è riunita sebbene per paura. La si potrebbe chiamare “La Pentecoste”. Per Giovanni avviene tutto all’interno di poche ore: morte, glorificazione, costituzione della Chiesa, dono dello Spirito. Non c’è bisogno di 50 giorni. E’ l’inaugurazione di un modo stabile di presenza d’ora in avanti.
  3. …soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo». Gesù fa un’azione simbolica: dopo aver detto “pace voi” alita su di loro. Il verbo che usa Giovanni (emfusaô) ricorre due volte nell’AT: una quando Dio crea l’uomo e gli soffia nelle narici l’alito di vita (Gen. 2,7) e l’altra in Ezechiele 37 dove lo Spirito plana su una valle di cadaveri e di ossa(Ger. 31,33)[1].
  4. «mostrò loro le mani e il fianco». Gesù è risorto ma con le stigmate da crocifisso. Le mani che mostra sono quelle stesse che hanno lavato i piedi ai discepoli, quelle inchiodate per sempre ad un amore crocifisso, quelle dalle quali nessuno può rapirci (Gv 10, 28). Il fianco (pleura= la stessa parola che usa Genesi per il costato di Adamo da cui fu tratta Eva) è la roccia percossa da Mosè e da cui scaturisce acqua per i nostri aridi deserti (Esodo 17,3-5), è il lato destro del tempio da cui scaturisce un fiume di acqua viva che svelena e feconda come aveva promesso il profeta Ezechiele 47, 1-12: «Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua sotto il lato destro del tempio…Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: ….quelle acque dove giungono, risanano e tutto rivivrà». Queste stigmate aperte sono l’Eucaristia domenicale e i poveri che vivono tra noi.
  5. Gesù dice «Accogliete (prendete) Spirito Santo». E’ una supplica più che un ordine: si riceve se si accoglie. Già sulla croce lo Spirito era stato donato; ora si tratta di accogliere quel dono. E siccome Spirito Santo è amore, eccone le conseguenze: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi». Il perdono è “iper-dono”, super-amore. «Noi sappiamo di essere passati da morte a vita se amiamo i fratelli» (1 Giov. 3, 14). La comunità da una parte deve presentare una parola che inquieta l’uomo e dall’altra deve far prevalere più la pazienza di Dio che l’impazienza efficientista ed escludente.
  6. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi“. La presenza di Gesù apre una direzione verso l’esterno. In Mt e Lc il discorso è più ampio. GV se la cava con una frase, però che contiene tutto. Oggi si direbbe: “Una chiesa in uscita”.
  7. C’è un passaggio dalla “paura” alla “gioia” dove però la “gioia” non si intende solo “il sorriso del devoto beota” ma la franchezza inossidabile della testimonianza. Il tema della paura è presente altre tre volte nell’Evangelo Giovanni:
    • 7,13, dove si dice che la folla aveva paura delle autorità a prendere posizione in pubblico in favore di Gesù.
    • 9,22: i genitori del cieco nato avevano paura di essere scomunicati dalla sinagoga.
    • 12,22: alcuni altolocati erano dalla parte di Gesù, ma avevano paura a dichiararsi perché non volevano rimetterci la loro posizione.

C’è una parola creata proprio dal quarto evangelista che testimonia la grande paura: apo-synagogòs (cioè “scacciato/scomunicato dalla sinagoga”).
* 9,34: il cieco nato riconosce pubblicamente Gesù e viene cacciato fuori dalla sinagoga;
* Gv 12,42: i farisei decidono di scacciare chi confessa Gesù come “Cristo”;
+ Gv 16,2: Gesù predice: «Vi cacceranno dalle sinagoghe».

Il vangelo di Giovanni scaturisce da una fede sofferta, che necessita una confessione a caro prezzo. Il vangelo di Gv è orientato a sostenere una fede “adulta”. La fede – secondo Gv – non è soltanto conoscenza intima, ma anche testimonianza. Ad esempio, Nicodèmo arriverà a fare la sua professione non a parole, ma con un gesto: insieme a Giuseppe di Arimatèa andrà ad accogliere Gesù calandolo dalla croce, con un’azione che lo escluderà addirittura dalla Pasqua giudaica. Infatti il libro dei Numeri legifera che chi tocca un cadavere si contamina e quindi non può celebrare la Pasqua (Nm 19,11-13). Quando Gesù muore, la Pasqua sta per essere celebrata ed è necessario togliere subito i cadaveri dalle croci; Nicodèmo e Giuseppe di Arimatèa preferiscono la Pasqua di Gesù alla Pasqua ebraica.
Gesù e Tommaso.
L’ultimo episodio riguarda l’incontro tra Gesù e Tommaso, il discepolo che elabora il proprio cammino di fede dentro una comunità, in giorno di domenica. “Tommaso” significa “gemello” in aramaico (in greco “Didimo”). Tommaso Didimo (Gemello) potrebbe essere il gemello di Giuda con cui condivide il rischio della incredulità; gemello mio e della mia incredulità.

«Non era con loro»: Giovanni intende valorizzare la comunità come laboratorio e utero per la germinazione della fede. Infatti tra poco finalmente «c’era con loro anche Tommaso».
Mettere le dita nel sigillo (impronta = tupos ) dei chiodi: sono il sigillo dell’identità di Gesù. Tommaso non vuole che le ferite siano rimarginate, ma restino aperte anche dopo la risurrezione. C’è un tocco di Tommaso che lo porta alla soglia della fede. Ma “Beati quelli che crederanno senza aver visto” non significa andare verso una fede spiritualizzata. Gesù risorto resta con le stimmate della crocifissione, nell’Eucaristia e nei poveri.
Lo stesso Giovanni nella sua prima lettera al cap. 4, 14: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi». L’incontro con Cristo è pasquale, ma è anche materialissimo, perchè abita nelle nostre relazioni, nell’incontro con gli altri, dentro la comunità.

Mio prefazio a Pasqua
David Maria Turoldo

Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la Chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto.
Perché allora è una potenza, schiava come ogni altra potenza?
Perché non battere le strade, come una follia di sole, a dire: Cristo è risorto, è risorto?
Perché non si libera dalla ragione e non rinuncia alle ricchezze per questa sola ricchezza di gioia?
Perché non dà fuoco alle cattedrali, non abbraccia ogni uomo sulla strada, chiunque egli sia,
per dirgli solo: è risorto! E piangere insieme, piangere di gioia?
Perché non fa solo questo e dire che tutto il resto è vano?
Ma dirlo con la vita
con mani candide
e occhi di fanciulli.
Come l’angelo dal sepolcro vuoto con la veste bianca di neve nel sole,
a dire: «non cercate tra i morti colui che vive!»
Mia Chiesa amata e infedele,
mia amarezza di ogni domenica,
Chiesa che vorrei impazzita di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare luce perché vive di noi:
noi questa sola umanità bianca a ogni festa
in questo mondo del nulla e della morte. Amen.

—-——————————————————————–
[1] «Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo».




Pasqua 2020
STUPORE E MOVIMENTO

PASQUA DI RISURREZIONE
Le crisi, che sembrano bloc­carci, in realtà aprono spazi, rompono gusci di comodità e creano le condizioni per mettersi di nuovo in marcia, in ricerca. Sono questi momenti di vuoto, di sospensione, di attesa, che rinnovano il mondo. Non dobbiamo temerli, ma viverli. Ciò che ci deve preoccupare, oggi, non è la crisi in quanto tale, ma l’indisponibilità a viverla. Non ci fidiamo del futuro, dell’inedito che con­tiene, e ci abbarbichiamo al presente per tratte­nerlo.

 Dal Vangelo secondo Giovanni 20,1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. 

Dal Vangelo secondo Marco 16,1-7
Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”».

Da Vangelo di Luca 24,13-35
Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

STUPORE E MOVIMENTO[1]
La parola libertà in ebraico, contiene la radice hfsh che vuol dire cercare. Un uomo è libero se continua a cercare. Le crisi, che sembrano bloc­carci, in realtà aprono spazi, rompono gusci di comodità e creano le condizioni per mettersi di nuovo in marcia, in ricerca. Sono questi momenti di vuoto, di sospensione, di attesa, che rinnovano il mondo. Non dobbiamo temerli, ma viverli. Ciò che ci deve preoccupare, oggi, non è la crisi in quanto tale, ma l’indisponibilità a viverla. Non ci fidiamo del futuro, dell’inedito che con­tiene, e ci abbarbichiamo al presente per tratte­nerlo. Questa crisi ha lo stato d’animo degli apostoli, che dopo le apparizioni di Gesù si rinchiudono nel cenacolo, intimoriti sul da farsi, o, peggio, di Giuda, appeso alla corda del contingente, del sicuro, incapace di guardare oltre. Il timore di perderci rallenta qualsiasi movimen­to di crescita. La vera crisi è dunque nell’assen­za di fiducia, nella cecità verso l’impossibile di oggi, che sarà possibile domani. Questa situazione può sbloccarsi solo riaprendo­ci al movimento naturale della vita, quel movi­mento del quale la crisi è parte, perché annullan­do le nostre sicurezze, ci apre al cambiamento.
Rileggendo i testi biblici di Pasqua possiamo riconoscere, fra altre infinite ricchezze e stimoli, almeno tre parole incandescenti che illuminano e ustionano i discepoli di ieri e noi, presunti discepoli di oggi: fermarsi, guardare/ascoltare, camminare.

 Fermati!
Il primo movimento che ci occorre è in realtà un non-movimento. Una sosta. Shabbat, chiamano gli ebrei il giorno del riposo. È il giorno in cui si cancella ciò che si crede di sapere, in cui si abbandona quello che si crede di avere. Questa sosta è necessaria per liberarci dal condiziona­mento mentale di ciò che siamo, per aprirci gli occhi. Shabbat è il tempo liberato dalla costri­zione del fare, dai vincoli del già visto, già cono­sciuto; per questo ci permette di vegliare su ciò che non si vede, di andare al di là del visibile, di inventare nuove strade, di ricreare e ricrearsi. Vorremmo trovare un immediato benessere per uscire dalla crisi, scoprire quel farmaco che possa cancellare il male. Ma la fretta, del credere o del vivere, è il demone della felicità senza sforzo e ci porta a non affrontare i problemi che stanno dietro le crisi e che, rimossi troppo velocemente, sono come veleni non smaltiti. La fretta non permette alle ferite di guarire, ane­stetizza solo la parte dolente, nega il vissuto, ci priva del diritto alla convalescenza. Chi si rialza troppo in fretta da una malattia sa che è destina­to a ricadute. Quello che ci serve è altro: accogliere con fidu­cia e abbandono le domande che ci salgono dal cuore e dal mistero della vita degli uomini. Tutti i discepoli della Pasqua e tutti i loro racconti sono pieni zeppi di soste, di Sabati, di stop.

Guarda dentro (Ascolta).
Il nostro punto di partenza è il luogo da cui vor­remmo fuggire, come i discepoli di Emmaus in fuga dalla comunità e da Gerusalemme. Il luogo del nostro quotidiano, dei sogni falliti e delle speranze deluse. È nel groviglio d’ogni giorno, nel piccolo fram­mento di pane spezzato, nella umile striscia di tela deposta nei nostri sepolcri, che si nasconde il senso della nostra esistenza. Dare valore al quo­tidiano o agli umili segni sacramentali, o alla Parola piccola come un seme, o al fratello che ci sfiora e a volte ci ferisce con gli artigli della sua impertinente debolezza: tutto questo ci permette di toccare la vita, di starci dentro senza scappare. Occorre uno sguardo profondo o almeno progressivo che faccia legge­re la realtà (“Vide e si fidò”; “lo riconobbero”) e porti alla luce ciò che sta dentro. Occorre un cuore attento e duttile, così agile da poter ve­dere fra i crepacci del presente il fiore che nasce.

Riprendi il cammino.
Nella vita noi avanziamo per scoperta di tesori:”Dov’è il tuo teso­ro, là sarà anche il tuo cuore“. Occorre quindi rimetterci fiduciosamente in cam­mino, consapevoli che la vita ha dinamiche di resistenza, ma che queste non ci devono bloc­care. In tutti noi c’è la capacità di ribellarsi e affrontare questa realtà. Non siamo di fronte a forze contro cui è impossibile combattere. È an­cora possibile recuperare la densità del presente e restituire all’esistenza la sua misura. E allora dobbiamo avere il coraggio di percor­rere strade che nessuno ha ancora percorso, di pensare idee che nessuno ha ancora pensato. La crisi del mondo non deve trascinarsi dietro la crisi della nostra speranza.

Angelo Silesio (mistico del XV° sec.) scrisse: «Cammina dove non puoi. Guarda dove non vedi. Ascolta dove nulla risuona: così sarai dove Dio parla»[2].


[1] Rielaborazione da Luigi Verdi NON FUGGIRE, E’ SOLO CRISI (Fraternità di Romena, Marzo 2012)
[2] Fonte: J.T. Mendonça, Padre nostro che sei in terra, Qiqajon, 2013, pag. 64




10aprile.Venerdì Santo
LA CROCE E’ TEOLOGA (Gregorio di Nissa)

LA PASSIONE GLORIOSA (Gv. 18-19)
“La croce è teologa” (Gregorio di Nissa)

Ogni evangelista ci presenta la Passione con una propria sottolineatura teologica. Giovanni narra tutta la vita di Gesù, e a maggior ragione la Passione gloriosa, sotto forma di:

  • GRANDE PROCESSO, di un vero scontro, senza chiaroscuri né aree di mezzo. Ci trascina a uscire dal nostro osservatorio, a entrare negli eventi per prendere posizione. Questo dibattimento processuale ha alla base una domanda di legittimazione: Da dove vieni? Chi ti manda? Chi sei? Gesù accetta la discussione, interroga lui gli inquirenti, allega prove, chiama testimoni.
  • INTRONIZZAZIONE REGALE, una cerimonia di incoronazione senza i particolari doloristici degli altri evangelisti. Dichiara che la risurrezione di Cristo incomincia sulla croce.

Giovanni, leggendo con noi il filmato storico degli eventi, ininterrottamente ci trasferisce sul piano del mistero che penetra al di là della superficie degli eventi e del loro involucro scandalizzante.

a) Prima scena: 18, 1-11, l’arresto di Gesù.
C’e una mobilitazione generale che rivela la pericolosità di Gesù e l’intensità della violenza messa in campo. «Disse loro Gesù “IO SONO”». «IO SONO» è il Nome di Dio, quello rivelato a Mosè. C’è una vera epifania, una “trasfigurazione”. E Pietro (noi) è sempre generoso, ma fuori tema. Ha in testa una sua idea di riforma religiosa. L’Ora di Gesù è venuta, ma la sua non ancora.

b) Seconda scena. 18, 12 – 27. Il processo giudaico.
E’ composta da quattro scene: Il giudizio di fronte ad Anna – negazione di Pietro – il giudizio di fronte a Caifa – negazione di Pietro. A confronto il coraggio di Gesù che si offre (IO SONO) e la paura di Pietro (noi) che si ritira (IO NON SONO).

c) Terza scena: 18, 28 – 19,16. Il processo romano. 
E’ la scena centrale e la più lunga della Passione. Se seguiamo il movimento di Pilato attraverso i verbi entrò… uscì, si evidenziano 3 scene esterne (Pilato che parla 3 volte con la folla, cioè con noi), 3 interne (Pilato che parla 3 volte con Gesù). Al centro la scena principale: Gesù re da burla con tanto di corona, mantello e genuflessioni; per Giovanni è il VERO RE.

I Giudei, però, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter partecipare al banchetto pasquale”. L’hanno portato perché Pilato mettesse una firma ad una condanna già sentenziata. Uomini scrupolosi di “non contaminarsi” per poter celebrare le feste di Dio; gente molto “religiosa”, ma poco “umana”; gente testarda nel resistere all’autorità politica che per 4 volte dichiara Gesù innocente e poi cede agli interessi di piazza e di potere.

Il primo balordo salvato da Gesù è un ribelle il cui nome ebraico Bar’abbã significa Figlio del Padre. Ma il vero Bar’abbã, Figlio del Padre, è Gesú che si sostituisce all’altro Bar’abbã, anche lui uno dei figli del Padre.

Nell’ora precisa in cui al tempio, alla vigilia della Pasqua, il popolo stava tradizionalmente pregando e dicendo «Noi non abbiamo altro re all’infuori di Te, nostro Signore», qui i Sommi sacerdoti dicono: «Noi non abbiamo altro re all’infuori di Cesare!». I sacerdoti diventano blasfemi, perdono autorevolezza. L’antico sacerdozio è finito: Gesù sarà il nuovo e vero Sacerdote.

d) Quarta scena : 19, 17-22. La crocifissione.
«Egli portando la croce da sé»: nei Sinottici Gesù viene aiutato da un cireneo. Mentre per Giovanni è lui che porta la croce. Gesù è un Kyrios, il Signore che va avanti.
«Lo crocifissero e con lui due altri, uno di qui e uno di là». Giovanni precisa puntigliosamente: «e Gesù nel mezzo». Per Giovanni la posizione del Signore Gesù è stare in mezzo. Nella risurrezione «venne Gesù, stette in mezzo a loro». Anche in croce Gesù «sta in mezzo», regna.
«Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce»: è il capo d’accusa che diventa un ”titolo” teologico proclamato in ebraico, greco e latino, per tutti. Lettera ai Filippesi. 2, 9-10: « …per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome affinchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre».

e) Quinta scena : 19, 23-30. La missione di Gesù. 
Come protagonista c’è un oggetto di Gesù, il kitòn, la tunica. L’unico che portava una tunica senza cuciture nell’interno del tempio era il sommo sacerdote. E quindi Gesù viene visto come sommo sacerdote. Per Giovanni l’abito sacerdotale di Gesù non viene lasciato in eredità alla Madre né ai discepoli; tocca in sorte a dei pagani, anzi ai suoi carnefici. È una tunica senza cuciture, che non viene squarciata. Gv. 11,52 «egli doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi». È la tunica indivisa che viene gettata addosso all’umanità perché ci sia una sola comunità.

Disse: «Tutto è compiuto in pienezza»: segnali non di una fine ma di un fine, di un grande approdo della storia.

E “…consegnò lo spirito”; per Giovanni, la Pasqua e la Pentecoste accadono in questo istante della morte di Gesù.

f) Sesta scena: 19, 31-37. I segni: croce/trono, ossa, sangue e acqua. 
Giovanni considera la croce come il trono di Cristo. L’Evangelo di Luca termina con l’ascensione. Per Giovanni questa “ascensione” è contemporanea alla “elevazione” sul palo della croce.
E’ “l’agnello le cui ossa non dovevano essere spezzate” come dice il libro dell’Esodo.
Lo hanno colpito al lato (in ebraico=selah). La Chiesa è la nuova EVA che viene tratta dal lato (selah) del nuovo Adamo. Ed esce sangue ed acqua. In Ezechiele cap. 47 e Zaccaria al cap. 14, 8 si immagina che dal lato del tempio esca un’acqua freschissima che dilaga fino al deserto di Giuda e precipita verso l’acqua salata del Mar Morto e dove passa tutto fiorisce. Una morte fonte di vita. Da “guardare con intensità”.

g) Settima scena: 19, 38 – 42. Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Il coraggio postumo degli amici. L’amicizia che Gesù aveva seminato nella sua vita comincia a fruttificare. Il compito fondamentale, per chi è interessato ad essere credente, non è tanto cercarsi le croci, ma continuare a squilibrare il proprio baricentro perché il sassolino della buona notizia possa lentamente mettere in movimento. Nicodemo aveva accettato la sfida…

PER MEDITARE
1. LUI E’ IL MIO RE. IN CHE SENSO, OGGI?
«Fino a quando zoppicherete con due piedi?» (1 Re 18, 21). La frase non è chiara, ma pare significhi «decidetevi per chi danzare» o «Se il Signore è Dio, seguitelo». Nel culto liturgico domenicale proclamiamo a favore di chi vogliamo muovere i passi o danzare la vita. Riconoscere che Cristo è mio-re significa – come dice il Card. Martini[1] – « che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese».
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa mantenere vivo il sospetto contro le multiformi idolatrie. Come scrisse Carlo Carretto[2]Mi sono chiesto sovente: dove risiede il pericolo dell’idolatria? Io penso che il pericolo è in noi e che il peccato di idolatria sia un peccato di tutti i tempi. L’uomo dell’Antico Testamento aveva la tentazione di farsi un idoletto per metterlo penzoloni alla sella del suo cammello e l’uomo d’oggi ci prende gusto a mettere un santino in tasca al posto di Dio. E’ la stessa cosa, più o meno. L’uomo vuol fuggire allo sforzo di pensare Dio nel suo Mistero e trova più comodo dargli un volto a buon mercato che rimpiazzi la sua intoccabilità con qualcosa che si possa toccare e che soprattutto abbia tanti poteri taumaturgici da guarire quando si è malati e da arricchirci quando si è poveri.
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa ridare anche consistenza al ruolo Sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benchè piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa che ogni battezzato dovrà scoprire il valore sacramentale e salvifico della sua pratica messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi.
Per suggerire una qualche forma di interpretazione di questa “regalità” cito una pagina di Fr.Enzo Bianchi che parla di MINORITA’:«La minorità è un modo di essere e non un modo di parlare o di scrivere. E’ uno stile di vita diffuso, capillare. E’ una “lateralizzazione” di sè rispetto al mondo, un abbandono della posizione di frontalità (o centralità), un mettersi fuori o, piuttosto, ai margini, è un “diventare eccentrici”. Il “farsi piccoli” implica uno stare nel mondo in un certo modo più che un giudizio sul mondo. La minorità, come l’amore, vive solo di GESTI, come ha fatto S. Francesco. La “mimica” di Francesco dello spogliarsi davanti al vescovo è il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di “dire” la minorità che appartiene invece all’orizzonte del comportamento senza “se” e senza “ma” più che a quello delle dichiarazioni di principio o dei documenti».

2 -L’INDIFFERENZA E LA TESTIMONIANZA.
Il conflitto, la provocazione, la violenza ci fa muovere quasi d’istinto. Nella vita e nella passione di Gesù è molto chiaro: non si può affrontare un conflitto stando fermi. Uno dei nostri problemi, nel seguire Gesù, è che stiamo sempre piantati su tutti e due i piedi. Non c’è mai lo squilibrio necessario perché la parola di Dio ci possa raggiungere e far rotolare improvvisamente in avanti. L’indifferente è colui il quale non avverte più la tragicità dell’esistenza, non è scosso più dalle questioni ultime. La metafora giusta è quella del turista. Il turista non mira ad incontrare, vede senza guardare, così come ode senza ascoltare. Il turista al più si presenta come vicino non come prossimo. Farsi prossimo implica invece un prendersi cura, un essere responsabili dell’altro e per l’altro.
Di fronte a questo clima che alimenta l’indifferenza, ha ancora senso testimoniare? E come testimoniare? È difficile pensare ad un cristianesimo senza testimonianza, senza cristiani che rendano ragione della loro fede con la loro vita. La testimonianza è il caso serio della fede, perché testimoniare il Vangelo comporta un continuo riferimento alla persona cui il Vangelo si riferisce, colui che ha fatto di sé una consegna: Gesù Cristo.


[1] C.M.Martini, Il Dio vivente, PIEMME, 1991, pagg. 59-61.
[2] Carlo Carretto, Ciò che conta è amare, Editrice A.V.E. 1966, pagg. 104-110.




Domenica di Passione. 5 aprile 2020
SE TU SEI FIGLIO DI DIO SCENDI DALLA CROCE

«Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare». Così ci disse Papa Francesco nella sua meditazione nella preghiera di venerdì 27 marzo scorso. E noi domenica abbracceremo il Vangelo della Passione secondo Matteo. I racconti evangelici della passione/resurrezione sono un Vangelo nel Vangelo, un finale sinfonico che ci fa capire tutta la melodia precedente, una lente interpretativa con cui capire parole e fatti narrati prima.

SE TU SEI FIGLIO DI DIO, SCENDI DALLA CROCE![1]
Matteo da 26,14 a 27,66
Premessa al racconto: tradire…consegnare…
Matteo 26,1-2Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso».  Matteo registra che Gesù affida più che mai il Vangelo alla sua testimonianza. Un’omelia afona affidata alla vita: è il tempo della consegna. Per 14 volte[2] Matteo ripete che Gesù viene consegnato, sta per essere consegnato, c’è uno che lo consegna… Ricordiamo che traditore vuol dire consegnatore. Tradire è esatta traduzione del latino tradere = consegnare. L’ultima citazione Mt 27,26 dice: Lo consegnò perchè fosse crocifisso. E’ l’unica volta in cui consegna e crocifissione vengono abbinati. E’ importante notare che questo consegnare è molte volte espresso al passivo: venire consegnato… E’ un consegnato e non parla più, o dice molto poco: il Gesù della passione è il Gesù che sta zitto e accetta di essere ridotto a cosa che passa di mano in mano; si fa di lui quel che si vuole, si dice di lui quel che si vuole. E’ l’accettazione dell’impotenza. Ma per Matteo è Gesù che “mena lo spago”, non sono gli altri; non sono vicende che gli piovono addosso.
  1
La Cena pasquale (26,14-29)
La passione prende inizio da una parola di Gesù: Terminati tutti questi discorsi Gesù disse ai suoi discepoli: Sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso (Mt 26,1). Gesù dice: Fra due giorni è Pasqua, ed è nella situazione della Pasqua che Gesù viene consegnato per essere crocifisso.
il primo giorno degli azzimi (v.17). Così è chiamato il giorno di Pasqua (il 14 di Nisan) con il quale inizia una settimana in cui si mangia pane azzimo, non lievitato. Gesù dà le disposizioni. Matteo precisa che i discepoli chiedono: «Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua?»; i discepoli vanno a preparare, ma è lui che deve compiere la Pasqua, la sua Pasqua. Noi quest’anno non celebreremo in assemblea la “nostra” Pasqua, ma parteciperemo – uniti anche se distanti – alla “Pasqua di Gesù”.
...
Uno di voi mi consegnerà (tradirà) … In ciascun discepolo c’è il dubbio che ciascuno possa essere un potenziale traditore, uno che “lo consegna”, che lo molla in mano ad altri. Ciascuno senta le parole di Gesù come rivolte a se stesso.
…Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?»… Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». I discepoli si rivolgono a Gesù con il titolo di “Signore”; Giuda invece lo chiama “maestro”. E’ una sottolineatura intenzionale e unica di Matteo. Gesù non è solo Maestro, ma Signore. Se Gesù è un maestro è più facile per me andarmene a cercare un altro. Se Gesù è il Signore, non è rimpiazzabile.
…Mangiate… In Genesi 2,17 Dio aveva intimato «dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare». Ora pare che quel divieto sia tolto. Gesù è il frutto che possiamo cogliere e mangiare. Uno vive di ciò che mangia: mangiando di lui viviamo di lui.
   2- Al Getsemani (26,30-56)
…«Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia (inciamperete su di me) in questa notte. Sta scritto infatti…». Giovanni Battista, gli abitanti di Nazareth, i farisei si erano scandalizzati di Gesù. Ora sono i discepoli che patiscono lo scandalo. Matteo dice: sta scritto. Il motivo è lo sta scritto. Lo scandalo del discepolo compie le Scritture. «Sta scritto che il Cristo deve patire»; ma sta scritto anche che il discepolo «si scandalizzerà».
…E Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai…Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò». Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli. Pietro ha il coraggio di dire: io non mi scandalizzerò mai, io non ti rinnegherò. E non ce la farà, povero Pietro. Matteo ha il coraggio di dire che anche Giuda si pente[3] e più di Pietro. Si pentì, dice Matteo. E va a buttare le monete, e subito dopo però va anche ad impiccarsi. In 2 Cor 7,10 Paolo parla di una tristezza secondo Dio e di una tristezza secondo il mondo. La tristezza secondo Dio opera il pentimento, la tristezza secondo il mondo genera, al massimo, un senso di colpa senza speranza.
…Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Dimorate qui, mentre io vado là a pregare». E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedèo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Episodio di grande importanza per capire la passione che segue. E’ una scena di rivelazione. Mentre la Trasfigurazione (Mt 17,1-9) rivelava in anticipo la gloria del Figlio dell’uomo pur incamminato verso la croce, qui viene rivelata la profonda umanità del Cristo, la sua “debolezza”. Quest’uomo che prova “tristezza e angoscia” è il portatore di una Rivelazione che il discepolo non comprende: anziché vegliare e condividere, si abbandona al sonno. Occorre notare un duplice movimento del racconto: da una parte Gesù che si allontana da solo (quasi a dire che la sua preghiera è un mistero inaccessibile); dall’altra Gesù che si avvicina ai discepoli intontiti. I racconti che seguono (processo, condanna, insulti, crocifissione) sono la faccia esposta della passione, i fatti, la cronaca; qui ci viene svelata la reazione intima di Gesù. E come reagisce la sua chiesa.
Getsemani (eb. Gat shemanim) significa torchio degli oli. Qui sarà torchiato colui nel quale la terra darà il suo frutto (salmo 67,7). Dalla sua umanità spremuta uscirà l’essenza del figlio.
Dimorate qui e vegliate…. rimanete (in greco: meinate da menô= continuare ad essere presente, sopportare, attendere qualcuno). Discepolo è colui che fa della passione di Dio per il mondo la propria dimora.
…cominciò a rattristarsi e angosciarsi… Questa notte comprende tutte le nostre notti. Il Figlio ci si immerge e le riempie della sua presenza. Gesù dice di vegliare con lui. In questa notte non siamo soli: lui è con noi e noi con lui.
…«Abbà». Da ora in avanti in ogni abisso, da una sponda all’altra del caos, risuona la voce del Figlio verso il Padre: «Abbà». Lettera agli Ebrei 5,7-10:« nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì».
Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?». Gesù si rivolge di continuo alternativamente al Padre e ai discepoli, sperimentando il silenzio di tutti. Lui sta tra noi e il Padre, è l’inter-cessore (in latino: inter-cedere=camminare in mezzo), colui che si mette in mezzo e cuce la lacerazione. I discepoli sono vicini e lontani da lui. Pietro Giacomo e Giovanni furono i testimoni della trasfigurazione (17,1); ora sono i testimoni della sfigurazione. Allora brillava la divinità nell’umanità di Gesù, ora la divinità fa trasparire la sua umanità.
... dormite ancora e riposate? Sarebbe meglio tradurre la frase come una domanda anziché, come le solite traduzioni, con una constatazione, poiché subito aggiunge “Svegliatevi, andiamo”.
… Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni… Le folle che erano andate dietro a Gesù sono le stesse che adesso cercano di impadronirsi di Gesù. Dove non basta il denaro si ricorre a spade e bastoni. Appropriarsi di Dio e dell’uomo: è questo il peccato. Una delle parole-chiave del brano potrebbe essere “impadronirsi” (gr. krateô) usato ai vv. 48, 50, 55, 57.
Anche i tre interventi verbali di Gesù possono costituire parole-chiave:
v.
50, E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!».
v.
52: Allora Gesù gli disse: «Rimetti la spada nel fodero…
v.
55: Allora Gesù gli disse: «Come contro un brigante siete venuti per prendermi….
Giuda gli si avvicina, lo bacia gli dice: Rallegrati, Rabbi. Il verbo rallegrati (in greco chaire) è il saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28), che ripete l’annuncio del profeta Sofonia (3,14) a Israele: «Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme». E’ un normale saluto, ma costituisce anche un’ironica “annunciazione”. E Gesù gli dice: Amico, usando un’espressione che Matteo usa in altri 3 casi[4]. Giuda è l’unica persona che Gesù chiama “amico”[5]. Sembra che Gesù abbia come sfondo il salmo 56(55), 13-15: «Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa».
… uno di quelli che erano con Gesù colpì il servo del sommo sacerdote staccandogli un orecchio. Il nostro zelo non colpisce il nemico alla testa. Gli taglia solo l’orecchio: gli toglie la possibilità di ascoltare la Parola.
…Rimetti la spada nel fodero…Spesso, nella Chiesa, dalla “crociate” in giù, si è ragionato così: Dobbiamo essere forti e non lasciarci calpestare da musulmani o da uno Stato laico e materialista. E’ una contaminazione dell’evangelo.
…Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono…Ciò che mi fa scappare è un Dio impotente. Ma questo è il modo della presenza di Dio fra gli uomini.
   3 – Il processo giudaico (26,57 – 27,10).
Gesù e condotto nel palazzo di Caifa, sommo sacerdote. Non si tratta di un vero processo ma di un’istruttoria preliminare anche se decisiva. Il racconto ha due scene congiunte: nella prima il protagonista è Caifa e nella seconda è Pietro. L’istruttoria non è sincera. Dicendoci che cercavano una ” falsa testimonianza“, Matteo vuole ricordarci un testo precedente (15,19): “dal cuore escono pensieri cattivi, omicidi, adulteri, fornicazione, furti, false testimonianze, bestemmie“.  L’unico atto di accusa che riescono a trovare è una parola di Gesù sulla distruzione del tempio. Esistevano gruppi giudei contestatori che si opponevano al tempio e al culto corrotto. L’accusa verrà ripresa dai passanti sotto la croce (27,40): ” tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso“. Anche ai discepoli Gesù avevano detto (24,3): “Amen vi dico, non resterà pietra su pietra“.
…Ma Gesù taceva…Gesù tace per compiere la profezia di Isaia 53,7 “maltrattato egli accettò la umiliazione e non aprì la sua bocca, come un agnello condotto al sacrificio“. Quando il sommo sacerdote gli chiede di identificarsi, Gesù parla di se stesso come del figlio di Dio.. il Cristo. Ora lo si può riconoscere come Dio: non c’è più rischio di ambiguità. Dio è questo “consegnato” e di cui tutti si sono “impadroniti”. Una bestemmia, come dice il sommo sacerdote.
…Che ve ne pare?…La domanda è rivolta al Sinedrio, ma ovviamente a noi: tu che ne dici?
…Sputarono…Per un attimo il volto umano di Gesù si scopre per rivelare il suo volto divino e gli uomini gli rimettono il velo coprendolo di sputi. Per meglio comprendere la scena degli oltraggi occorre confrontarla con la profezia di Isaia 50,6 da cui la descrizione evangelica sembra dipendere: “ho presentato il mio dorso alle percosse, le mie guance a chi mi strappava la barba; non ho sottratto il mio volto gli schiaffi e agli sputi“.
…Pietro lo seguiva da lontano…Gesù gli aveva chiesto “Seguimi”. Pietro per ora lo fa a modo suo: “da lontano”. Anche Pietro subisce un piccolo processo. Un Pietro che si allontana sempre più, anche scenicamente: all’inizio è seduto nel cortile; dopo la prima accusa va verso l’atrio; dopo la seconda esce in strada. E’ un Pietro che si allontana sempre più da Gesù. La riflessione che fa Matteo è che questo tentativo di Pietro di restare fedele diventa l’occasione esplicita del suo rinnegamento. Pietro sta con Gesù più degli altri e rischia più degli altri. E notiamo la progressione del suo (e nostro?) rinnegamento:… Pietro negò davanti a tutti … non conosco che cosa tu dici … negò di nuovo, giurando: non conosco l’uomo….cominciò ad imprecare e a giurare: Non conosco l’uomo. Pietro non mente quando dice di non conoscerlo. Per la prima volta si accorge di non conoscerlo. In Mt l0, Gesù aveva detto: Chi mi confesserà davanti agli uomini, io lo confesserò davanti al Padre. Chi non mi riconoscerà davanti agli uomini, io non lo riconoscerò davanti al Padre mio. Pietro ha una chiara coscienza del punto in cui è arrivato; piange quando si ricorda della Parola che gli aveva detto Gesù! Attendo anch’io una Parola che mi svegli come il chicchiricchio di un gallo mattutino. La vita del discepolo è un continuo prostrarsi dubitando.
      4- Il processo romano (27,1-31).
Matteo inserisce, prima del processo romano, un’ampia parentesi: il suicidio di Giuda; quasi una scena cuscinetto. La scena serve a illuminare non tanto la morte di Giuda (per la quale Matteo spende pochissime parole), ma i “30 denari” (espressione che ricorre 4 volte) e il “sangue” (espressione che ritorna 3 volte). Pare che i ” 30 denari” facciano riferimento al testo di Zaccaria 11,12-13 dove si legge che un profeta-pastore, inviato da Dio, fu valutato da Israele per 30 sicli d’argento; nel libro dell’Esodo (21, 32), invece, trenta pezzi d’argento era il risarcimento dovuto al padrone nel caso che il suo schiavo venisse anche incidentalmente ucciso. Ora è il Messia in persona che è barattato per soldi.
Gesù e Barabba. Matteo dà a Barabba lo stesso nome di Gesù; infatti lo chiama “ Bar àbba” (figlio del padre) o Bar rabban (figlio del maestro)”[6]. Dunque, per Matteo, l’alternativa che ci pone Pilato è molto netta: “Chi volete che vi rilasci: Barabba detto anche Gesù o Gesù chiamato Messia?”. Matteo non colora Barabba a tinte fosche, come fa invece Marco 15,7 (un rivoltoso, un omicida): dice solo che era ” carcerato famoso”, senza giudizi negativi. Si tratta di scegliere tra due Gesù (Jehoshuah in ebraico vuol dire “salvatore”), uno dei quali è “chiamato Messia”.
… liberò loro Barabba…. Barabba è il primo liberato da Gesù. Diventa davvero Bar-abbà=figlio del Padre.
Mentre Marco e Luca fanno ricadere la responsabilità della morte di Gesù sulle autorità giudaiche che sobillano la folla, Matteo accentua la responsabilità delle folle che vengono persuase dalle autorità giudaiche. Le folle nel Vangelo di Marco chiedono che sia Pilato a crocifiggere Gesù: “crocifiggilo”; nel Vangelo di Matteo gridano: “sia crocifisso“, come se fossero loro a decidere e a sentenziare; e infatti Pilato non emetterà alcuna condanna, si limiterà a consegnare Gesù ai soldati “perché fosse crocifisso”.
Il sogno della moglie di Pilato, caratteristica di Matteo, serve a proclamare l’innocenza di Gesù da parte dei pagani i quali si dimostrano più favorevoli dei giudei ad apprezzare la “giustizia” di Gesù. Anche la scena di Pilato che si lava le mani in segno d’innocenza è una caratteristica di Matteo: gesto non rituale nel diritto romano ma più simile a un rituale ebraico così come cita Deuteronomio 21,6: «tutti gli anziani di quella città, i più vicini al cadavere, si laveranno le mani… e prendendo la parola diranno: “le nostre mani non hanno sparso questo sangue e i nostri occhi non l’hanno visto spargere”».
5-
Il calvario ( 27,32-61).
Simone di Cirene (ossia di origine africana), e non Simone Pietro, è lì con Gesù. Discepolo è colui che porta la propria croce. Qui addirittura porta la croce del Signore completando ciò che manca alla passione di Cristo per la nostra salvezza (Paolo ai Colossesi 1,24). Rappresenta la numerosa schiera di tutti poveri e i dannati della terra; tutti i piccoli del mondo sono cirenei.
… lo spogliarono. E’ la nudità dell’antico Adamo e ora del nuovo Adamo[7] che non si nasconde più davanti agli occhi di Dio. E’ la nudità di Giobbe (Giobbe 1,21: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!»).
…gli diedero vino mescolato con fiele… si spartirono le sue vesti tirandole a sorte…lo insultavano scuotendo il capo… Ai condannati si dava una bevanda anestetica di vino e mirra[8] (o incenso), come ricorda Marco 15,23 secondo le usanze: “quando un uomo dev’essere ucciso, gli si fa bere un grano d’incenso in una coppa di vino perché perda coscienza” (cf. Proverbi 31,6). Per Matteo invece gli viene dato fiele (salmo 68,22). Il salmo 68 è il salmo del giusto innocente perseguitato. Tra poco Matteo aggiungerà nel racconto che Gesù in croce prega il salmo 21, altro salmo del giusto e innocente perseguitato, di cui non solo cita la prima frase “Dio mio perché mi hai abbandonato“, ma anche il versetto 19 “si dividono le mie vesti, e sulla mia tunica gettano la sorte. Matteo continua la citazione del salmo 21 ricorrendo al versetto 9: “ ha confidato in Dio, lo liberi (adesso) se gli vuole bene” e al versetto 7 «Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo» come bene descrivono i versetti di Matteo dal 39 al 44.
Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra. Due banditi o guerriglieri sono messi uno alla destra e uno alla sinistra, ironica allusione alla domanda della madre dei due figli di Zebedeo (20,21)[9]. Accanto a lui non ci sono i suoi discepoli bensì dei delinquenti (“è stato conteggiato tra gli empi” così profetizzava Isaia 53,12).
L’ora sesta è mezzogiorno; e l’ora nona sono le tre del pomeriggio. Sono le ore del buio in pieno giorno come era stato profetizzato da Amos (8,9): “in quel giorno farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurare la terra in pieno giorno”. Il giorno del Signore tanto atteso dai profeti e da Israele si rivela essere tenebra e non luce; siamo come alla fine del mondo. Matteo in 24,29 riportava una parola di Gesù: “subito dopo la tribolazione di quei giorni il sole si oscurerà e la luna non darà il suo chiarore… e allora apparirà in cielo il segno del figlio dell’uomo“.
…emise lo spirito... La morte è descritta con una frase significativa: “emise – rilasciò (apheken) -lo spirito”, modo di dire unico negli evangeli sinottici che quasi anticipa Giovanni 19,30 “diede lo spirito (paredoken to pneuma). Per tutti gli esegeti, queste frasi descrivono non solo la morte, non solo l’inizio della risurrezione ma anche l’inizio della Pentecoste.
…Costui era veramente il Figlio di Dio…. Il libro del Deuteronomio (21,23) scrive: “il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno“. Questo testo insegna che colui che è appeso è una maledizione di Dio proprio perché in lui l’immagine di Dio che è nell’uomo viene deturpata, e la legge ebraica vuole porre un limite a questo scempio della immagine di Dio nell’umanità. Tutto il Vangelo dei tre sinottici corre verso questa dichiarazione, questo Credo dichiarato non dai discepoli o dalle discepole ma da un pagano che riconosce il figlio di Dio nel figlio dell’uomo, l’immagine di Dio nel volto tumefatto e sconfitto dalla morte.
…Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. La scenografia che accompagna la morte (terremoto, apertura dei sepolcri, risurrezione, ingresso nella città santa) chiarisce la realizzazione della profezia di Ezechiele 37, la famosa profezia delle ossa aride che si ricompongono in un popolo di viventi.
….C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano…. Le donne, di cui Matteo fino ad ora non aveva parlato (a differenza di Luca) diventano le sole testimoni oculari della crocifissione e della sepoltura e in seguito protagoniste dell’annuncio pasquale. I discepoli sono fuggiti e dispersi. Vi sono però molte donne che, seppur da lontano, osservano. Il verbo usato è theoreo che indica non un’osservazione curiosa o neutrale ma contemplativa e partecipativa.
… in un sepolcro nuovo…. Profezia di Isaia 53,9: Gli avevano assegnato la sepoltura con gli empi, ma alla sua morte fu posto col ricco, perché non aveva commesso alcuna violenza e non c’era stato alcun inganno nella sua bocca. Il ricco Nicodèmo porta una mistura di mirra e di aloe di cento libbre (45 kilogrammi!) destinata a emanare un prezioso profumo. Ora, nell’offerta del Figlio, si rivela, come già nell’unzione di Betània, un’esagerazione che ci ricorda l’amore generoso di Dio, la “sovrabbondanza” del suo amore. Dio “diffonde per mezzo nostro il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero. Noi siamo infatti… il profumo di Cristo” (2 Cor 2, 14s). Nella putrefazione di molte ore del nostro oggi, la fede-carità potrebbe essere il profumo che ci riporta sulle tracce della vita. Nel momento della deposizione comincia a realizzarsi la parola di Gesù: “In verità, in verità, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Gesù è il pane di vita capace di sfamare l’umanità. Sopra la sepoltura di Gesù risplende il mistero dell’Eucaristia.


[1] Appunti di A.Mello. Inoltre: Maggioni “il racconto di Matteo”. Editrice cittadella
[2] Mt 26,2,15,16,21,23,24,25,45,46,48. Mt 27,2,3,4,18,26.
[3] Mt. 27 [3]Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani [4]dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente».
[4] Mt 11,19 «Ecco un mangione e un ubriacone, amico dei pubblicani e dei peccatori». Mt 20,13 «Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?». Mt 22,12 «Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale?».
[5] Nel greco classico il termine hetaîros (usato da Matteo) significa primariamente “compagno di mensa”.
[6] Molti manoscritti riportano così: «un noto {episêmon} carcerato {desmion}, detto {legômenon} Barabba o [anche] Gesù {Barabban e Iêsoun}». Non tutti i manoscritti conservano la versione del nome “Barabba-Gesù” che era conosciuta da Origene il quale tuttavia la esclude per il motivo che nessun peccatore può portare il nome di Gesù. I copisti devono aver fatto altrettanto per gli stessi motivi. Il Vangelo di Matteo è l’unico in cui questa variante si sia conservata, anche se le traduzioni ufficiali continuano ad escluderla.
[7] Genesi 3,10-11 Adamo rispose:   «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Dio riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
[8] ricordiamo la mirra offerta dai re Magi.
[9] Mt 20 [20]Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». [22]Rispose Gesù: «… non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio».




29 marzo 2020- domenica 5a Quaresima
ASPETTO

In tempi di pandemia noi entriamo come protagonisti nell’evento narrato dal Vangelo e nella profezia di Ezechiele: siamo sfiniti con i nostri medici e infermieri e con chi lotta per la guarigione, morti e sepolti con chi non ce la fa e con i loro familiari. Progetti, speranze, illusioni, persone: siamo una catasta di ossa inaridite. Ma drammaticamente capaci ancora di paure e di domande. Il nostro Symbolum (il Credo) non dice “credo nella risurrezione dei morti”, ma “aspetto la risurrezione dei morti”. Sono pochi a crederci, ma molti a sperarla.

Preghiamo. Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente; tu che hai manifestato la tua compassione nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, guarda oggi l’afflizione della Chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali a vita nuova. Per Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò».

Sal 129 Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora.
Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore, 
perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,8-11
Fratelli, quelli che seguono le inclinazioni dell’egoismo non possono piacere a Dio, perché vivono secondo il proprio egoismo. Voi, però, non vivete così: vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi.

Dal Vangelo secondo Giovanni 11,1-45 (Forma breve: Gv 11, 3-7.17.20-27.33b-45)
In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».Gesù si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

ASPETTO[1]. Don Augusto Fontana
In tempi di pandemia noi entriamo come protagonisti nell’evento narrato dal Vangelo e nella profezia di Ezechiele: siamo sfiniti con i nostri medici e infermieri e con chi lotta per la guarigione, morti e sepolti con chi non ce la fa e con i loro familiari. Progetti, speranze, illusioni, persone: siamo una catasta di ossa inaridite. Ma drammaticamente capaci ancora di paure e di domande.
Il nostro Symbolum (il Credo) non dice “credo nella risurrezione dei morti”, ma “aspetto la risurrezione dei morti”. Sono pochi a crederci, ma molti a sperarla. La spera chi è stato ferito a morte da un’improvvisa o martoriata scomparsa di un familiare che era carne della sua carne, la aspetta chi è sfinito dalle velenose porzioni di morti sul lavoro e stragi di piazza o dei Caini di casa, la spera chi vede i giorni rosicchiati dalla malattia o accelerati dalla vecchiaia. Molti la sperano con occhi accecati dalle lacrime, molti con occhi chiusi sul barato della preghiera, molti mormorando un dolce o amaro rimprovero al Padre del Crocifisso: «Dio, se tu fossi stato qui mio fratello Gesù non sarebbe morto». Sì, perché la storia di Lazzaro racconta tutti noi e anticipa l’altro sepolcro, quello di Gesù, con bende, massi e pianti al seguito, e dubbi e dialoghi e stupori sospesi e incredulità e adoranti prostrazioni. Tutto ciò che accade a Betania accade nel giardino del sepolcro di Cristo. E la Chiesa è la stessa, quella militante seppur ancora catecumena di Marta, Maria e discepoli, quella spettatrice curiosa, inquirente e scettica dell’entourage giudaica. E al centro sempre Lui, Gesù, un Dio in ritardo sulle nostre aspettative, un Dio capace di amicizia e di pianto, un Dio che non teme la puzza di vite putrefatte, un Dio che chiama il mio nome con la voce di una madre che risveglia da un sonno che tornerà e da una morte che non tornerà mai più: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Signore, per ora non credo, ma lo attendo. Anche perché non so cosa intendi per “risurrezione dai morti”. Quando diciamo Dio, vita, morte, risurrezione, occorre il rispetto che ci ha chiesto la Bibbia: Non nominare invano, a sproposito…Anche quando diciamo RISURREZIONE occorre l’afasia adorante e il silenzio rispettoso che si conviene al Nome di Dio. Tra l’altro quella di Lazzaro non fu vera risurrezione ma solo rianimazione di cadavere. Ma è un segno. Cioè un evento che ci fa sospettare di essere dirimpettai di un mistero davanti al quale non potremo mai dire “Adesso ho capito!”.
Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà».   C’è un fraintendimento. Pare che Gesù e i suoi interlocutori parlino due linguaggi diversi. L’evangelista Giovanni in altre parti del suo Vangelo dimostra questo scontro di incomprensioni. Gesù parla di «rinascere dall’alto» e quel burlone di Nicodèmo gli chiede se deve «rientrare nell’utero della madre» (Gv 3, 3-4). Gesù offre alla samaritana « acqua viva» e lei, sveglia, gli fa notare: «Signore, tu non hai un secchio per attingere e il pozzo è profondo» (Gv 4, 10-11). Gesù parla ai discepoli di «lievito» e loro pensano che li stia sgridando perché si erano dimenticati di prendere il pane per la colazione; e lui: «Come mai non capite ancora che non alludevo al pane?» (Mt 16, 6-12). Equivoci, diversi livelli di ascolto, allusioni incomprensibili, mancate sintonie tra Gesù e noi. Gesù parla in una lingua diversa dalla nostra; il nostro ascolto è fatto a partire dalle idee che abbiamo già dentro di noi. E’ difficile imparare la lingua di Dio. Gesù, spesso, quando parlava della resurrezione o compiva opere stupende, ordinava ai suoi di non parlarne a nessuno: perché gli eventi che toccano le fibre più profonde delle nostre attese, possono, nella promiscuità con le altre parole, deturparsi e cambiare senso. A questa legge appartengono parole come “risurrezione”, come “vita” e, ogni volta che dobbiamo parlarne, dobbiamo farlo con cautela. Noi gridiamo dai microfoni, dai video, parole che diventano profane ed equivoche. Da una parte l’annuncio va gridato, dall’altra va taciuto.
Scoperchiare i sepolcri.
La parola “vita”, in questi tempi, rimbalza in ogni ambiente con sensi diversi e con cariche normative diverse. Noi dobbiamo dichiarare guerra ai sepolcri e a tutti coloro che li costruiscono in una strategia di morte. Ancora oggi, il confronto tra due potenze – morte e vita – si è fatto radicale e si è esteso dovunque. Ma la speranza dobbiamo custodirla nel segreto e nel pudore. Per poterla gridare dobbiamo pagarla attraverso tutti i giorni della nostra vita. Allora possiamo dire: “resusciterò” ma dopo che avremo in concreto lottato contro ogni opera di morte: «Togliete la pietra… liberatelo e lasciatelo andare».
A noi non compete far risuscitare, ma togliere la pietra, slegare, rimettere in pista. Dare una mano al nostro Dio. Marta reagisce: “Signore, già puzza… è di quattro giorni!”. Gesù incalza la fede debole delle sorelle e coinvolge anche gli spettatori con tre verbi imperativi: «Togliete la pietra… liberatelo …lasciatelo andare». Tutti possono fare qualcosa per la risurrezione di un morto, di una persona spenta, depressa, schiavizzata. Siamo invitati ad essere figli ed operatori di risurrezione, a partire dalle concrete piccole situazioni della vita quotidiana. Così pare ci riveli anche la straordinaria pagina della prima Lettura presa dal profeta Ezechiele: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete». (Ez. 37, 12-14). Il profeta scrive dall’esilio di Babilonia per svegliare il popolo alla fiducia e far riemergere l’orizzonte della fine della deportazione. Ma anche per noi il pericolo di vivere congelati nelle abitudini, rassegnati a subire ciò che gli altri decidono per noi, costituisce un vivere nei sepolcri. Il vento di Dio, il Suo soffio vitale ci spinge ad uscire, a “risorgere” dai nostri sepolcri: «Lazzaro, vieni fuori!». Ci chiama tutti per nome ad “uscire” dai sepolcri della morte, della schiavitù, dell’egoismo, della paura. Forse ci crediamo vivi mentre siamo morti. Lazzaro è un nome promettente. Il suo significato ebraico è EL-AZAR=”Dio aiuta”. Dunque la risurrezione è per noi una speranza fondata sulla Parola di Dio, ma la risurrezione è prima di tutto una strada da percorrere. Le nostre risurrezioni, i piccoli passi di risurrezione che compiamo – in attesa di quelli definitivi – sono sempre fragili, precari, provvisori, incompleti. Ognuno di noi è tentato di rientrare in qualche “sepolcro” e deve ricollocarsi ogni giorno sui sentieri della risurrezione, non darla mai come una realtà scontata ed acquisita per sempre. Per questo leggiamo le Scritture, preghiamo, ci lasciamo correggere e cerchiamo di discernere i segni che Dio ci fa giungere dalla vita di ogni giorno. Risurrezione fa rima con conversione perché alla risurrezione occorre convertirci quotidianamente.
Dio è mio amico, che piangerà per me quando morirò.
Disse Gesù «Il nostro amico Lazzaro…»…Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!»…
Padre Ermes Ronchi scrive: «Gesù si reca a Betania chiamato dall’amicizia. Di Lazzaro non sappiamo nulla se non che era amico di Gesù. Questa la sua identità: colui che Gesù amava molto. Di Lazzaro sappiamo anche tutte le lacrime versate per la sua morte: piangono Marta e Maria, i giudei, Gesù stesso. Le lacrime sono l’annuncio che l’amore è sempre minacciato, che la felicità è fragile, perché troppe cose sfuggono al mio controllo. Io invidio Lazzaro non per la vita che Dio gli ha ridato, ma per il fatto di essere circondato da amici, segno di una vita riuscita. La sua santità è l’amicizia, sacramento che conforta la vita. Eppure a me che cosa importa di Lazzaro, cosa me ne faccio della sua resurrezione? Lazzaro non è mio amico, non è mio padre o mia madre, non è uno dei miei morti. A me non importa Lazzaro, a me importa Gesù e il suo amore per l’amico, amore fino alle lacrime. È questa la salvezza: il pianto di Dio. Io non morirò per sempre a causa del Suo amore che non accetta di finire. Ognuno di noi è Lazzaro malato e amato. Sono io l’amico che Egli non accetta di veder finire nel nulla della morte. Se amico è un nome di Dio, il mio nome è: amato per sempre. Quante volte sono morto! Quante volte mi sono addormentato. Era finito l’olio della lampada, finita la voglia di amare, forse anche la voglia di vivere. E mi dicevo in qualche grotta oscura dell’anima: Dio non mi interessa più, non mi importa se mi ama. Poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, né so perché. Una pietra si è mossa, è entrato un raggio di sole, un grido d’amico ha percosso il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le bende. La resurrezione è possibile per le lacrime di Dio. Perché il Signore prova dolore per il dolore del mondo. Se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe morto. Parole che sono mie: se Tu sei con me, non morirò. Parole gridate da Gesù sulla soglia della morte: Dio mio perché mi hai abbandonato, perché non sei qui con me? Nel giorno delle lacrime Dio sembra essere lontano. Il suo ritardo pesa. Quattro giorni pesò su Marta e Maria. Eppure Lui è qui, non come esenzione dalla morte, ma come resurrezione dentro la morte. Io lo credo, con la fede dell’anonimo morente che scriveva: “Credo nel sole, anche se non splende; credo nell’amico anche se non lo sento; credo in Dio anche quando tace”»[2].
«Gesù si commosse profondamente, si turbò….Gesù scoppiò in pianto… Intanto Gesù, ancora profondamente commosso…». Nella scena di Betania, la nostra attenzione è richiamata dalla efficace frequenza con cui l’evangelista mostra la commozione di Gesù. Il brano della resurrezione di Lazzaro è un evento fondamentale della rivelazione di Gesù. Ecce homo: ecco qui l’uomo perfetto nella sua umanità, che piange la morte dell’amico. Ecce Deus: ecco qui Dio, il Signore della vita e della storia. Umano, molto umano, uguale a noi in tutto. Tutti piangono. Gesù si commuove. Quando i poveri piangono, Gesù si emoziona e piange. Dinanzi al pianto di Gesù, gli altri concludono: “Vedi come l’amava!” Questa è la caratteristica delle comunità di Giovanni (e nostra?): l’amore mutuo tra Gesù e i membri della comunità. Alcuni ancora non credono e dubitano: “Non poteva costui, che ha aperto gli occhi del cieco, fare che questi non morisse?” Per la terza volta Gesù si commuove (Gv 11,33.35.38). È così che Giovanni mette l’accento sull’umanità di Gesù contro quelli che, alla fine del primo secolo, spiritualizzavano la fede e negavano l’umanità di Gesù.
«Lev Sestov ha fatto notare (Sulla bilancia di Giobbe) quanto sia per noi penosa l’attesa, presi come siamo dalle cose presenti, dal sistemarci comodamente nel mondo, quasi dovessimo starci per l’eternità. Al punto che nemmeno le cose più terribili sono in grado di svegliarci da questa pigrizia di persone sazie. Ci sono magari dei soprassalti, ma subito dopo ci si riconcilia con la realtà, in attesa paziente che le cose tornino a posto per poter ricominciare a vivere come prima, gradevolmente, senza pensieri. Marta e Maria non si adeguano alla morte del fratello, ma interrogano Dio e lo pungolano affinché si sbrighi a trasformare la realtà secondo le sue promesse di giustizia. Il perfetto disperato è un uomo tranquillissimo e annoiato che si è seduto impassibile davanti al cadavere di suo fratello. Noi comprendiamo che Gesù è uomo di speranza quando piange e grida di non voler morire, quando risuscita da morte e promette che risusciterà anche noi nell’ultimo giorno. Dio è morto per dirci che sta dalla nostra parte e che mai dobbiamo rassegnarci a morire. Croce e risurrezione sono inscindibili ormai, in Dio e nella storia dell’umanità: la speranza sorge dal grido di un crocifisso e dalle buie cavità di una tomba rimasta vuota»[3].


[1]Rielaborazione da: Ernesto Balducci, Adista 26/02/05; P. Stefani, Un tempo per cercare, Morcelliana, Brescia, 1997; Franco Barbero. 
[2] P. Ermes Ronchi La fede che resiste al dolore
[3] Daniele Garota, Fame di redenzione, Paoline.




22 marzo – domenica 4 quaresima.
ALLA TUA LUCE VEDIAMO LA LUCE (SALMO 35,10)

Cieco dalla nascita. Nervo ottico inesistente, compromesso irreparabilmente. Si può giocare a “mosca cieca” bendandosi gli occhi. Poi via la benda e si torna a vedere. Ma il cieco nato ha poco da divertirsi. Ha un’impotenza visiva radicale, insanabile. Mi sono chiesto come possa un cieco totale immaginare cose che non ha mai visto. Forse vede toccando, odorando e, così, crea il mondo nei suoi occhi spenti. Mi dicono che i ciechi affinano un invidiabile senso dello spazio ma soprattutto ascoltano, odono i fruscii delle cose e i sussurri dell’anima. Vedere o ascoltare? Così doveva essere quel cieco davanti a Gesù.

4° Domenica di Quaresima
Preghiamo. O Dio, Padre della luce, tu vedi le profondità del nostro cuore: non permettere che ci domini il potere delle tenebre, ma apri i nostri occhi con la grazia del tuo Spirito, perché vediamo colui che hai mandato a illuminare il mondo e crediamo in lui solo, Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore. Amen.

-Dal primo libro di Samuèle 1 Sam 16,1b.4.6-7.10-13
– Salmo 22 (23) R. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
-Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 5,8-14
-Dal vangelo secondo Giovanni Gv 9,1-41

ALLA TUA LUCE VEDIAMO LA LUCE(Salmo 35,10). Don Augusto Fontana.
Cieco dalla nascita. Nervo ottico inesistente, compromesso irreparabilmente. Si può giocare a “mosca cieca” bendandosi gli occhi come facevamo da ragazzi, urtando gli ostacoli tra le risate divertite dei compagni, ma era solo per gioco e per un momento. Poi via la benda e si tornava a vedere. Ma il cieco nato ha poco da divertirsi. Ha un’impotenza visiva radicale, insanabile. Mi sono chiesto come possa un cieco totale immaginare cose che non ha mai visto, il volto della sua ragazza, un panorama assolato, un pugno di cime dolomitiche. Forse vede toccando, odorando e, così, crea il mondo nei suoi occhi spenti. Mi dicono che i ciechi affinano un invidiabile senso dello spazio e del movimento ma soprattutto ascoltano, odono fruscii delle cose e sussurri dell’anima. Così doveva essere quel cieco davanti a Gesù. Così sono io, vedente e non-vedente nello stesso tempo: «Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero:“Siamo forse ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane”» (Gv 9,40-41). Anche le Chiese, come quella di Laodicea al tempo del veggente Giovanni, hanno occhi cisposi. Ce lo rivela l’Apocalisse (3, 14-17) «Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Tu dici “Sono ricco, non ho bisogno di nulla”, ma non sai di essere un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista». Preti, laici, comunità: «ciechi che guidano altri ciechi, cadendo tutti nella stessa fossa»? (Mt 15,14).
Il “vedere” è una vera ossessione biblica, un ginepraio contorto di divieti a guardare e di inviti a vedere, di sguardi e di cecità, di illuminazioni improvvise e altrettanto improvvise oscurità: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». E’ una Parola di Dio attraversata dal grido: «L’anima mia ha sete del Dio vivente: quando vedrò il volto di Dio?» (Salmo 41,3); paradossale invocazione di visioni, proprio in quella Bibbia che proibisce di andare a cercare Dio con gli occhi:« Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo» (Esodo 20,4). E per chi nutrisse ancora dubbi, ecco un mistico racconto di Esodo (33, 18-23): «Mosè disse al Signore: “Mostrami la tua Gloria!”. Rispose il Signore: “Farò passare davanti a te tutto il mio splendore…ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo…Quando passerà la mia Gloria, io ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”». Amo gli iconoclasti[1], coloro che spezzano l’immagine. E, se mi affidassi al mio istinto, vorrei esserlo anch’io, almeno un po’. In giro, oggi, c’è troppa bulimia di immagini sacre. E’ vero tuttavia che, con l’Incarnazione, Dio si è come fatto “vedere”: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Gesù donandoci il Pane pasquale non ci ha chiesto «Prendete e guardate!», ma «Prendete e mangiate!». Pane da ruminare nell’ascolto, nella stanza catacombale dei miei sepolcri putridi o nella stanza sponsale delle mie incomunicabili gioie luminose. E anche nella Trasfigurazione, agli apostoli istupiditi da un’apparizione straordinaria, il Padre sussurra: «Lui è mio Figlio: ascoltatelo!». Premessa di quell’inquietante domanda del Signore alla chiesa di ogni tempo, un po’ inchiodata al cielo dell’Ascensione: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (Atti 1,11).
Eppure sembra che il vedere diventi la parabola che ci racconta il nostro ascoltare e credere. Forse per questo Gesù ha guarito tanti ciechi e ne ha dato facoltà anche alla chiesa. I Battezzati, originariamente, venivano chiamati “gli illuminati”.
Guardare, vedere, credere.
L’evangelista Giovanni, soprattutto nel racconto della Risurrezione, usa tre verbi greci diversi (blepô, theôreô e horaô) per indicare quello che noi traduciamo con l’unico appiattito verbo “vedere”.

Blepô è usato per designare uno sguardo affrettato che accarezza la vernice dei fatti e dei volti: è riferito a Maria che si ferma a vedere solo la pietra del sepolcro. L’esito? Maria lascia il sepolcro pensando che Gesù sia stato portato via; rappresenta la fase di ricerca nel dubbio. Avrà bisogno di un …supplemento.
Theôreô è usato per designare una visione sempre materiale però più attenta e scrutante: è applicato a Pietro che osserva attentamente le bende e il sudario piegato. L’esito? «E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto» (Lc 24,12); rappresenta la fase di silenziosa rielaborazione interiore.
Horaô è usato per designare una visione in profondità, oltre la cortina dell’appariscente materia ed esprime l’atteggiamento di chi è lì sulla soglia, alla vigilia del credere: è il verbo usato per il giovane discepolo che corre con Pietro al sepolcro. L’esito? «Vide e credette»; rappresenta la fase della fede che si sta incamminando verso il “credere senza aver visto” o il “credere per poter vedere”: «Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”» (Gv 20, 29).
C’è dunque un cammino catecumenale per diventare “illuminati”. C’è un credere germinale o seminale, un credere acerbo, un credere maturo. Un esegeta francese, Jacques Briend, ha scritto: «Il credente deve accettare, se gli viene richiesto, di entrare in questa zona di turbolenza in cui egli oscilla tra la fiducia e il dubbio».
L’itinerario catecumenale.
La guarigione del cieco nato é narrato come una liturgia e come atto ecclesiale. E’ facile riconoscervi un modello di itinerario catecumenale così com’era praticato delle primitive comunità cristiane. Il tutto avviene in 3 contesti:

  • é un evento comunitario che coinvolge altri soggetti oltre il diretto interessato;
  • é un evento dialogico/catechetico dove lo scambio di battute rivela le perplessità e i conflitti che l’annuncio cristiano suscita, ed anche una necessaria progressione dell’adesione di fede del soggetto.
  • é un evento simbolico/sacramentale dove il segno visibile gioca un ruolo efficace ed espressivo: lo sputo era la solidificazione dell’alito di vita (quasi un’acqua battesimale e creativa abitata dallo Spirito); la terra richiamava la creta del Dio vasaio e la terra da cui fu tratto Adamo; lo spalmare era l’unzione di consacrazione; la piscina era l’acqua del Mar Rosso e la tomba pasquale.

Tutto accade dunque in un contesto ad alta densità liturgica. Una vera proclamazione di ciò che accade quando celebriamo di domenica in domenica.
Gesù vede[2].
«Passando vide un uomo cieco dalla nascita». Gesù è un veden­te attento, si accorge del mondo che lo circonda. Il suo non è un passare distratto, come di chi non si av-vede o come di chi non si interessa. Ed egli vede dentro, coglie il senso. Dentro le cose egli vede il mistero: «È così perché…­» (v. 3). Il libro dell’Apocalisse dice di Gesù: «Aveva gli occhi fiam­meggianti come fuoco».
Gesù dona la vista con segni e parole.
Egli è anche colui che può donare la vista. Il gesto è evidentemente estremo, come a dire che nessuna forma di cecità gli può resistere. Ma è un gesto anche so­speso, che troverà il suo esito felice solo dopo essersi lavato nella piscina, cioè solo dopo essersi fidato della Pa­rola che lo inviava alle acque battesimali. E’ la Parola che guarisce; Parola solidificata nel segno liturgico e caritativo: senza questa «neanche se uno risuscitasse dai morti» (cf. Lc 16,31) si potrebbe arriva­re a credere.

Gesù è la luce
«Finché sono nel mon­do, sono la luce del mondo» (v. 5). Il gesto miracoloso ha riguardato quel cieco, ma è qualcosa che vale sempre e per tutti. Per questa luce è possibile relazio­narsi, è possibile gustare bellezze, è possibile scansare ostacoli. Luce e vita, se ci pensi, sono sinonimi, così come luce e bellezza, bontà. Non a caso quando nasce un bambino si dice che è venuto alla luce, oppure di una persona santa si dice che la sua vita è stata luminosa. Per quanto impalpabile, come l’aria che si respi­ra, ma per la quale si può vivere, la luce è la condizione stessa del poter vedere.

Gesù va visto
Gesù è anche colui che va visto, cioè riconosciuto nella fede. Il racconto del cieco nato ha il suo vertice non nel momento in cui si compie il miracolo, bensì quando il cieco guarito vede bene Gesù, cioè lo riconosce nella fede. «”Tu credi nel Figlio dell’uomo?… Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo Signore!”. E gli si prostrò innanzi» (vv. 3,38). La fede fa appartenere alla luce stessa, che non sta solo fuori, ma penetra dentro, prende dimora. La fede non solo consente di vedere con occhi nuovi, non solo fa riconoscere la lu­ce al di fuori, ma illumina interiormente. Coltivata, fa ­risplendere a propria volta, trasfigura. Come per Mosè (Esodo 34,29): «Quando Mosè scese dal monte Sinai con le due tavole della Testimonianza, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio».

Il combattimento per credere
Non faremmo piena giustizia al testo di Gio­vanni se non accennassimo all’ampia parte centrale, riguardante i diversi e incrocianti dialoghi con l’ex cieco e con i personaggi che lo circondano. Questi dialoghi ci fanno intendere che, contraria­mente a una specie di luogo comune, il miracolo resta tutt’altro che e-vi­dente. L’incertezza sul riconosci­mento del cieco («Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”»), introduce un elemento quasi comico per la sua tragicità. Che aumenta quando si tratta di riconoscere chi può aver compiuto un miracolo del ­genere, mai visto «da che mondo è mondo». La gamma di quanto si dice di Gesù si presenta davvero ampia e diversificata: «Uomo che si chiama Gesù» (v.11); «Uomo che non viene da Dio» (v. 15); » «Profeta»(v. 17); «Peccatore» (v. 24); «Uno di cui non si sa di dove sia» (v. 29); «Timo­rato di Dio e che fa la sua volontà» (v. 31); «da Dio» (v. 33); «Figlio dell ‘uomo» (v.­35); «Signore» (v. 36). Il cammino per arrivare a chiamare col suo titolo più appropriato («Signore») quell’uo­mo «che si chiama Gesù» è tutt’altro che li­neare e scontato e appare anzi come un vero e proprio dibattimento, come un vero e pro­prio conflitto. Arrivare a credere e dunque a vederci chiaro, a vedere dentro, fino a «prostrarsi in­nanzi» (v. 38), è insieme dono, ma an­che frutto di limpidezza del cuore. «Si vede bene solo col cuore», scrive Saint-Exupéry ne Il pic­colo principe.


[1] Movimento sorto nel 730 e durato fino al 787 quando il Papa Adriano I° convince la reggente imperatrice Irene a convocare un concilio a Nicea in cui si deciderà che le icone possono essere venerate ma non adorate; e scomunicherà gli iconoclasti.
[2] Elaboro un articolo di Natanaele Fantini




15 marzo 2020. terza di quaresima
ABBIAMO BISOGNO DI AVER BISOGNO.

E’ venuto il momento di chiedermi se ho sete o quali desideri profondi mi fanno muovere alla ricerca di qualche sorso fresco per la mia arsura di senso e di amore. Sono alla ricerca di qualche linfa che torni ad animare la mia vita «disseccata» come la gola di Gesù di Nazareth o la vita di quella donna piena di amanti? Mi chiedo pure se ho mai ascoltato davvero, una volta nella vita, la Sua domanda: «Ho sete. Mi doni da bere?», così come l’ha ascoltata la donna al pozzo o i presenti sotto la croce:«Ho sete» (Giovanni 19,28).

Preghiamo. O Dio, sorgente della vita, tu offri Cristo salvatore all’umanità riarsa dalla sete d’acqua viva della grazia che scaturisce dalla roccia; concedi al tuo popolo il dono dello Spirito, perché sappia professare con forza la sua fede, e annunzi con gioia le meraviglie del tuo amore. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro dell’Èsodo 17,3-7. In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».
Sal 94 Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5,1-2.5-8
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42
Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. [Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica»]. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

ABBIAMO BISOGNO DI AVER BISOGNO[1]

Acqua.
Dopo l’incontro nella notte con Nicodemo (l’uomo della Legge di Mosè) e quello con il profeta Giovanni Battista, c’è l’incontro con la donna di Samaria. Due maschi e una donna. Due itinerari di “cattolici praticanti” e un cammino di una donna che rappresenta “gli eretici” e gli “erranti” . Storie di sete, di desideri più profondi. Protagonista di fondo è l’acqua, origine della vita. Ma c’è acqua e acqua. Come c’è vita e vita. L’evangelista Giovanni ama giocare sugli equivoci che Gesù crea quando pronuncia alcune parole (acqua, vita, nascere…) che hanno bisogno di molto dialogo e ascolto per essere raggiunte nella loro profondità. C’è infatti un’acqua stagnante, morta, inquinata come c’è una vita vegetativa, stanca, rutinaria. Giovanni sembra aprire il suo Vangelo con l’ossessione dell’acqua, sempre abbinata allo Spirito. Nel capitolo 1 c’è l’acqua del battesimo di Gesù nello Spirito; nel capitolo 2, alle nozze di Cana, si parla di anfore (brocche) vuote e di acqua diventata vino sponsale di gioia; nel capitolo 3, con Nicodemo, c’è la proposta di nascita dall’acqua e dallo Spirito; ora, al capitolo 4, vediamo Gesù e la donna che parlano di sete e, per 9 volte, di acqua; nel capitolo 5, alla piscina di Bethzaethà, abbiamo la guarigione di uno della moltitudine di paralitici «essiccati», in attesa dell’acqua prodigiosa che tornerà in scena al capitolo 7: «“Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui». Perfino il cieco del capitolo 9 ha bisogno, per guarire, di fango impastato con il fiato umido e sacramentale di Gesù. Nel capitolo 13 Gesù prende dell’acqua e lava/guarisce i piedi dei discepoli. Nel capitolo 19 dal costato di Gesù esce, insieme a sangue, anche acqua.
Cos’è l’uomo se non ter­ra, impastata di acqua e vivificata dal soffio di Dio?: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Genesi 2, 7).
E’ venuto il momento di chiedermi se ho sete o quali desideri profondi mi fanno muovere alla ricerca di qualche sorso fresco per la mia arsura di senso e di amore. Sono alla ricerca di qualche linfa che torni ad animare la mia vita «disseccata» come quel paralitico della piscina di Bethzathà? Mi chiedo pure se ho mai ascoltato davvero, una volta nella vita, la Sua domanda: «Ho sete. Mi doni da bere?», così come l’ha ascoltata la donna al pozzo o i presenti sotto la croce:«Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: “Ho sete”» (Gv.19,28).
Il pozzo di Giacobbe.
La Samaria fa parte dell’antico regno del Nord, eretico e scismatico. Si era se­parato ai tempi di Geroboamo, nel 930 a.c., ed era stato colonizzato dagli Assiri nel 722 a.c., evento che segnò l’inizio di una religione sincretistica; gli abitanti di quella terra avevano sposato donne assire e ne erano nati figli “meticci”, non di pura razza e religione ebrea. «Bisogna» (dice il testo evangelico) che lo Sposo passi per la Samaria, per incontrare la sposa perduta; «bisogna» che il Figlio vada incontro ai suoi fratelli lontani, per riportarli all’unica famiglia del Padre. Il suo è un viaggio missionario.
In Samaria ai piedi del monte Garizim, esiste ancora il pozzo che la tradizione attribuisce a Giacobbe; nella tradizione ebraica è un Pozzo-Roccia. Per la mistica ebraica, l’apertura del Pozzo, fu una delle sei cose create da Dio al crepuscolo prima del grande riposo del Creatore.
E’ un pozzo-roccia mobile, mi segue, è contemporaneo a me. A quali pozzi mi abbevero? «Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (Geremia 2, 13).
Lo sposo e la sposa.
Gesù stanco per il viaggio si siede vicino a quel pozzo, proprio nell’«ora sesta», quella stessa ora in cui dal fianco aperto del crocifisso sgorgherà sangue ed acqua.
L’incontro tra Gesù e la donna avviene nella solitudine. Chi avrà riferito a Giovanni questo dialogo tra la donna e Gesù, visto che non c’erano testimoni e non esistevano le “intercettazioni ambientali”? Che Gesù le parli, susci­ta meraviglia a lei stessa, oltre che ai discepoli (cf. vv. 9.27). Un rabbino non parlava con una donna per strada; anche a sua moglie si rivolgeva solo nell’intimità della casa.
La domanda che Gesù le rivolge pare strana alla Samaritana. Suona come l’avance di uno che vuole abbordarla. Ha capito bene. È proprio l’inizio di un corteggiamento. Ai bordi del pozzo il padre Giacobbe ave­va corteggiato Rachele (Gen 29,9ss; cf. Gen 24) e Mosè aveva abbordato Zippora che poi sposerà (Es 2,10-22). Ma Gesù, a differenza da loro, non esibisce forza e seduzione. Stanco e abbandonato sul pozzo, manifesta la propria debolezza. Ha sete anche lui, come la donna che viene ad attingere.
Anche qui, come altrove, ogni parola, quando non è allusione nasco­sta, è equivoco palese. I fraintendimenti sono fondamentali per…intendersi. Aprono infatti l’orizzonte al diverso: se si è disposti alla novità, i fra-in-tendimenti sono il principio dell’in-tendimento-fra le persone. Non bisogna quindi averne paura: anche se possono provocare chiusura, in difesa o in attacco, sono in realtà luogo fecondo di in­telligenza, di amore, di vita.
Oltre il pozzo con l’acqua materiale c’è anche quel pozzo profondo che è la donna e il suo cuore, mi­stero abissale. Così, oltre l’acqua che soddi­sfa la sete fisica, c’è un’altra acqua che la donna, pur avendo avuto sei uomini, anco­ra non ha trovato. È l’acqua della quale pure Gesù ha sete: l’amore tra Sposo e spo­sa. Gli equivoci, dopo l’acqua, riguardano appunto gli ex mariti mariti e l’attuale convivente (vv.16ss); si tra­sferiscono in seguito sui vari luoghi e modi di adorare Dio (vv. 20ss), per raggiungere infine il cibo, la messe e il raccolto (vv. 27ss). Acqua, pane, amore e Dio sono i biso­gni fondamentali che ognuno conosce e sui quali ci si fraintende. Ognuno infatti ne ha un’esperienza limitata e propria, diversa da quella dell’altro. Un botanico classifica la rosa, un giardiniere la coltiva, un fiorista la vende … e un innamorato la dona alla sua donna. La quale, a sua volta, non la mangia né la classifica né la coltiva né la vende: ne gioisce come segno di ciò che dà luce alla sua esistenza. Quante diverse reazioni può ispirare la stessa rosa!
Il racconto è una storia d’amore, un dialogo nel quale Gesù vuol portare la don­na a conoscere il suo dono. Lo Sposo è in viaggio: viene da lontano, in cerca della spo­sa. Il racconto è un dialogo tra la Gesù-Parola e l’ascoltatore, raffigurato dalla donna. Questa ha cambiato vari mariti (5+1), ma non ha ancora incontrato lo Sposo, di cui pure ha sete. Numerose sono le allusioni all’ Antico Testamento. In primo piano sta il profeta Osea, il quale dice che il Signore attirerà e condurrà nel deserto la sua sposa infedele, parlerà al suo cuore e le restituirà il canto della sua giovinezza. Allora essa lo chiamerà: «Mio Sposo» e dimenticherà il nome degli idoli ai quali si è prostituita. La non-amata sarà fi­nalmente amata; il «non-mio-popolo» sarà chiamato dal Signore: «popolo mio» e gli risponderà: «mio Dio». Così profetava Osea, in Samaria (cf. Os 2,16-25).
Il racconto è un cammino graduale che culmina nel riconoscimento di Gesù come Cristo. La donna viene al poz­zo e Gesù inizia il dialogo con lei. Quando essa si apre al dono, inizia il di­scorso sui vari mariti che la donna ha avuto e non l’hanno dissetata; anche l’uomo che ha ora, non è suo sposo. Le parole di Gesù sono un garbato ac­cenno alle sue delusioni amorose. «Gesù non aggredisce la donna dai cinque mariti, la incontra senza farla arrossire. Non dice, come i predicatori che hanno fretta di disamorarci del mondo e della vita: quest’acqua non è buona, gli amori umani sono cattivi. Non dice neppure: quest’acqua non ti da nessun sollievo. Dice solo: se bevi di quest’acqua avrai ancora sete, svelando che fra la nostra sete profonda e l’acqua dei pozzi umani la distanza è incolmabile. Gesù, e il cristianesimo vero, non disprezzano e non negano le brevi gioie della strada. Non è diminuendo l’uomo che s’innalza Dio. Il futuro nuovo non verrà con il rafforzare divieti e condanne – quante volte la donna aveva sentito proclamare la legge! – ma camminando insieme da una piccola sete verso la grande sete, da una piccola brocca abbandonata verso la sorgente stessa. Solo l’incontro cambia la vita, non la legge. In principio è l’incontro: con chi ti parla come nessuno, con chi «ti dice tutto» (venite, mi ha detto tutto…), con il Dio che ha sete che noi abbiamo sete di lui, ha desiderio del nostro desiderio»[2].
Abbiamo bisogno di aver bisogno[3].
Nel deserto si impara ad aver sete. L’acqua la si può chiedere solo a Dio: «Sono davanti a te come terra riarsa» (142,6). Un proverbio dei nomadi suggerisce: «Domanda il latte alla tua cammella, un figlio alla tua donna. Ma chiedi l’acqua solo a Dio». Gli Ebrei, apparentemente, l’hanno chiesta a Dio. Ma l’hanno chiesta nel modo sbagliato. Protestando, mormorando, rimpiangendo la schiavitù in Egitto, pentendosi di essersi im­barcati in quel cammino di liberazione. Hanno tentato, messo alla prova Dio: « Il Signore è in mezzo a noi, si o no? ». La loro è stata una sfida più che una richiesta. Gli Ebrei, nel deserto, avevano bisogno dell’acqua. Ma avevano bisogno, soprattutto, di fidarsi.
Pure la donna di Samaria aveva bisogno di qualcos’altro. An­che se fingeva di non accorgersene, e si rifiutava di confessarlo. Viene al pozzo, nell’ora più calda, con la sua brocca. E trova lì un uomo, che ha sete e fame pure lui e non dispone neppure di un secchio per attingere acqua. Ma anche Gesù ha bisogno di qualcos’altro. Lui ha sete di dissetare. In quest’incontro Gesù sfoggia la sua tattica preferita: portarmi a prendere coscienza del mio bisogno reale. Far sca­turire un desiderio, approfondire un’esigenza, rendere consape­vole di ciò che non ho, mettere a nudo la mia povertà, far esplodere una richiesta.
Se tu conoscessi il dono di Dio … Gesù non si limita a soddisfare le domande e le attese dell’uomo. Prima, le suscita. Il dubbio viene fatto scivolare sull’orlo del nostro pozzo: …Se tu sapessi di che cosa hai veramente bisogno … E anche: se sapessi ciò di cui non hai bisogno e cosa ti manca per essere uomo/donna, per avere una faccia un po’ più presentabile di cristiano … Purtroppo hai bisogno di una massa di cose inutili per nascondere le tue reali necessità, per non prendere coscienza dell’importante, dell’essenziale. Ti aggrappi al superfluo, per negarti il necessario. Insomma, hai bisogno di aver bisogno.
Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete … Era quello che Gesù aspettava con ansia. Portarla a chiedere, a riconoscersi bisognosa, insoddisfatta. Anche se lei chiede ancora quest’ acqua, Gesù le dona un’altra acqua. Il dono di Gesù sveglia, stimola, accre­sce il desiderio. Una volta che avrai gustato di quest’acqua, non ti rivolgerai più ad altri pozzi per estinguere la tua sete. Capirai che sono inadeguati, deludenti, inadempienti.
Gesù ha costretto la donna a manifestarsi, a esprimersi, a formulare le sue richieste. Ma poi le ha dilatate. Ha preso la donna, prigioniera delle proprie esigenze limitate, per condurla altrove, al di là delle sue attese. Gesù scava una sorgente all’interno di un individuo. «L’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua … » Importante notare il particolare «in lui». Non qualcosa di esteriore all’uomo. La fonte che assicura vita e fecondità è aperta dentro a ciascuno. Il credente non è uno a cui Dio dona – come a Mosè – una bacchetta magica. Non ha bisogno di andare a cercare o elemosinare all’esterno.
Il pozzo è scavato dentro di me. Resta da domandarmi se a Dio non riesca più facile spaccare la roccia e farvi zampillare l’acqua o aprirsi un varco nel mio cuore.


[1] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, I°, EDB
[2] Ermes Ronchi, Sorgente di fecondità, 03/03/02
[3] A. Pronzato, Parola di Dio, anno A, Gribaudi




8 marzo 2020-2a Quaresima
GRAZIA NELLA DIS-GRAZIA

Gesù, nella sua umanità quotidiana e debilitata, è il luogo scelto da Dio per rivelarsi, come anticamente aveva scelto un cespuglio da cui rivelarsi a Mosè. L’Eucaristia domenicale è il tentativo di stare sul Tabor per sperimentare e celebrare la grazia del volto e della tunica di Gesù (e nostre) che non perdono la loro struttura pur sotto gli schiaffi e le lacerazioni del nostro male. Quel che è accaduto durante quelle ore di intimità fra i discepoli e Gesù, è che loro si sono messi a guardarlo, ad ascoltarlo, a vederlo come sempre era, fra loro, ma come essi mai se n’erano accorti. La trasfigurazione non è un prodigio spettacolare: è lo svelamento di una realtà permanente alla quale avevamo dedicato, fino a quel momento, sguardi assonnati e increduli.

Preghiamo.
O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro della Gènesi 12,1-4
In quei giorni, il Signore disse ad Abram:«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Sal 33 (32) Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1,8b-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
Dal Vangelo secondo Matteo 17,1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». 

GRAZIA NELLA DIS-GRAZIA. Don Augusto Fontana
Un monaco diceva: «Dio è più vicino ai peccatori che ai santi. In paradiso, tiene ogni persona per un filo. Quando pecchi tagli il filo. Allora Dio lo riannoda…e così facendo ti avvicina un po’ di più a lui. E ancora i tuoi peccati tagliano il filo…e con ogni nodo Dio continua a tirarti sempre più vicino a sé».[1]. Paolo scrive nella sua lettera di oggi: «Dio ci ha salvati non in base alle nostre opere, ma secondo la sua grazia che ci é stata data in Cristo». Nel linguaggio comune il termine ‘grazia’ rimanda:
– a una persona («é davvero una persona graziosa»),
– a ciò che dà forza e sostegno («senza la grazia di Dio non ce l’avrei fatta»),
– a ciò che é invocato per cambiare un evento naturale («Signore fammi la grazia di guarire»),
– a ciò che sospende una condanna a morte o l’ergastolo («ha ottenuto la grazia dal capo dello stato»).
Questi significati ci possono introdurre al significato biblico della grazia: la persona si coglie alla presenza di un Tu dal quale si scopre amato e accolto incondizionatamente.  Nel Vangelo di oggi questi termini – grazia e benedizione – diventano icona nell’evento della Trasfigurazione. E anche noi oggi, siamo chiamati ad entrare come protagonisti dell’evento.
Prima di tutto é una questione di sguardo.
Gesù, nella sua umanità quotidiana e debilitata, è il luogo scelto da Dio per rivelarsi, come anticamente aveva scelto un cespuglio da cui rivelarsi a Mosè: “Il Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto che non si consumava” (Esodo 3). L’albero della croce non poteva che appartenere alla discendenza evoluta di quel cespuglio di migliaia di anni prima.

I discepoli della trasfigurazione sono gli stessi che avevano raccolto la tradizione orale di quanto era successo sotto la croce: “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: <Veramente quest’uomo era Figlio di Dio>” (Marco 15,38-39). Anche sulla croce, dunque accade una “trasfigurazione”, ma non è il crocifisso che si trasfigura bensì gli occhi del soldato pagano. La croce diventa diafana ed epifanica, si lascia attraversare dallo stupore e lascia intravedere la risurrezione in atto: «Questo ucciso è Dio!». Questa trasfigurazione dello sguardo era appena successo nell’orto del Getsemani: “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno, tuttavia restarono svegli e videro la sua Gloria” (Luca 9,32). La Gloria, nel linguaggio biblico, è il termine che descrive la presenza percepibile di Dio, sia nella storia che nella coscienza. La Trasfigurazione è l’intuizione dell’altra faccia di Gesù come si esprime il Salmo 27: «Il tuo volto, Signore io cerco. Nella debolezza del mio peccato non nascondermi il tuo volto».
L’Eucaristia domenicale è il tentativo di stare sul Tabor per sperimentare e celebrare la grazia del volto e della tunica di Gesù (e nostre) che non perdono la loro struttura pur sotto gli schiaffi e le lacerazioni del nostro male. Quel che è accaduto durante quelle ore di intimità fra i discepoli e Gesù, è che loro si sono messi a guardarlo, ad ascoltarlo, a vederlo come sempre era, fra loro, ma come essi mai se n’erano accorti: nella sua relazione filiale col Padre. La trasfigurazione non è un prodigio spettacolare: è lo svelamento di una realtà permanente alla quale avevamo dedicato, fino a quel momento, sguardi assonnati e increduli. Paolo nella sua Lettera ai Filippesi 3, 20-21, dice: « Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per configurarlo al suo corpo glorioso».
Grazia nella dis-grazia.
Grazia è sempre il «di più» che succede nella gratuità insperata. Quando diciamo grazia diciamo sempre un eccesso. Gesù eccede non con i sani, ma con i malati e lo fa nel contesto di una organizzazione religiosa che escludeva impuri e sciancati, infecondi e miscredenti. La grazia crea situazioni kairologiche (“opportunità provvidenziali”) anche negli spazi e nei tempi più maledetti. Cristo – diciamo nella formula del Credo apostolico – é disceso agli inferi; Paolo dirà di più: «si é fatto maledizione» (Galati 3,13) affinché non ci sia situazione in cui possiamo crearci l’alibi di una sua assenza o lontananza (prova a pregare il Salmo 139!).

Dio non si sente a proprio agio in questa nostra storia dove la sua volontà é sconfitta e la sua signorìa é sconosciuta. La Shekinà (la presenza) di Dio é in esilio. Celebrare l’Eucaristia domenicale vuol dire far tornare Dio dal suo esilio, riportare a casa sua la sua Gloria. «Se uno mi ama il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv. 14,23).
Il dramma dell’uomo è il dramma di Sara, moglie di Abramo : «Sono già avanzata negli anni e non ho ancora concepito». La nostra sterilità è il nostro dramma descritto in Isaia 26,18 : “Abbiamo sentito le doglie del parto ed invece era solo mal di pancia”. Dice S. Paolo:” Il creato è stato condannato a non avere senso, ad essere sotto il potere della corruzione”. Siamo una generazione che ha abortito. Come dice il profeta Osea e il Cantico dei cantici, Dio è come uno sposo che va a prelevare la sua sposa che si sta prostituendo agli idoli, per portarla nel deserto e parlarle al cuore come ai tempi del fidanzamento. Come oggi fa con i discepoli sul Tabor. Come fa di domenica in domenica con noi.
Paolo, nelle sue Lettere, medita su questo mistero: i giudei avevano tentato di diventare ” figli di Dio” imponendosi la circoncisione. Paolo nella sua Lettera ai Galati 6,14-16 dice : ” Perciò non conta nulla essere circoncisi o non esserlo. Ciò che importa è essere una nuova creatura “. Gesù aveva detto a Nicodemo “ Chi non rinasce non entrerà nel Regno dei Cieli”.
Per i giudei chi si convertiva al giudaismo (i “proseliti“) veniva designato come “nuova creatura” a motivo del suo ingresso nella Comunità di Israele: per lui non esisteva più il proprio passato; perfino i legami contrattuali o matrimoniali precedentemente assunti decadevano. Questo cambiamento di condizione era più giuridico che morale; era una ” nuova sistemazione legale”. Per Paolo, invece, è molto di più: Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me ” (Galati 2,19-20), ” Se uno è in Cristo è una nuova creatura” (2 Corinti 5,17).
La grazia è sempre accompagnata da una minaccia che è la dis-grazia. Può darsi lo scontro, la chiusura, il rifiuto del dialogo, l’assolutizzazione in se stesso. Per questo l’uomo è sempre un essere minacciato. Egli può essere contemporaneamente dis-graziato e graziato; omnis homo Adam, omnis homo Christus (ogni uomo è Adamo, ogni uomo è Cristo), scrive S. Agostino (En. in Psal. 70,21). La nostra esperienza concreta è sempre paradossale. L’amore di Dio che agisce nell’uomo peccatore, provoca una specie di crisi di crescita provocando una conversione, una presa di posizione, un mettersi in viaggio come Abramo. La grazia come crisi mi “giudica”, mi costringe a decidermi, a tirarmi fuori dal mio torpore. La crisi non é una situazione patologica della vita, ma la sua normalità.
Rendere grazie alla grazia.
«Com’é bello stare qui…!. Alla grazia corrisponde il “rendere grazie“, fare Eucaristia. Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio. Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità. E’ il modo più vero per riconoscere che siamo esseri in dialogo e in interscambio. Quando si è acquisito questo diffuso senso della riconoscenza non ci basta più “dire grazie” e si passa alla “azione di grazie” che è uno scambio concreto di gesti e di servizi.

Salire e scendere.
Nell’Evangelo di oggi c’è un doppio movimento: si sale verso l’alto monte e poi si scende. Salire, per Gesù, non è, come vorrebbe Pietro, andare alla ricerca di uno spazio comodo al riparo dai problemi, una fuga dall’impegno nel mondo. Per Gesù salire significa cercare il volto di Dio, il dialogo con Lui, concentrarsi sull’essenziale, sottrarsi alla cattura delle immediatezze, rivedere l’intreccio tra preghiera e azione. Dio cerca noi, ma noi siamo sollecitati a cercare il Suo volto, la Sua parola, la Sua presenza. Oggi è tanto difficile quanto necessario ritagliarsi momenti per “salire sul monte in disparte”. Soprattutto è controcorrente. “Beati quelli che cercano il Signore con tutto il cuore” (Salmo 119,2), “Dio, Dio mio, io Ti cerco fin dall’aurora; di Te ha sete l’anima mia; verso di Te anela la mia carne, come una terra deserta, arida, senz’acqua” (Salmo 63,2). Il secondo movimento è la “discesa dal monte”. Gesù scende verso la città, verso la vita quotidiana, verso l’ora difficile che si avvicina, ma portando, nelle pieghe del cuore, la rivelazione del Tabor.

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[1] A. de Mello UN MINUTO DI SAGGEZZA, Paoline 1987, pag. 141




1 marzo 2020. 1a Quaresima
DIMMI COSA PENSI DEL PECCATO E TI DIRÓ IN QUALE DIO CREDI.

«L’uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire “me ne pento” o “mi dispiace”; così scrisse Giovanni Paolo II. Oggi molti di noi, me compreso, non si sentono né santi né peccatori. Dall’ossessione del peccato si è passati alla presunzione di innocenza. Certo. Anche se all’origine della mia storia non c’è un “peccato originale”, ma una “Grazia originale”. S. Agostino e il Concilio di Trento ci hanno resi tutti un po’ manichei?

Preghiamo.
O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Gènesi 2,7-9; 3,1-7
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Sal 50 Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.

Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 12.17-19
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dal Vangelo secondo Matteo 4,1-11
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

DIMMI COSA PENSI DEL PECCATO E TI DIRÓ IN QUALE DIO CREDI. Don A. Fontana
«L’uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire “me ne pento” o “mi dispiace”»[1]; così scrisse Giovanni Paolo II nel 1984. Il problema vero sembra essere costituito dal fatto che oggi molti di noi, me compreso, non si sentono né santi né peccatori. Dall’ossessione del peccato si è passati alla presunzione di innocenza. «Se diciamo che non c’é in noi il peccato, inganniamo noi stessi e non siamo nella verità» (1 Gv. 1,8). Certo. Anche se all’origine della mia storia non c’è un “peccato originale”, ma una “Grazia originale”.

  1. La discussione, la vertenza, l’obiezione.

Isaia 1,18:«Dice il Signore “Su, venite e discutiamo“».
Nei 3 testi liturgici di oggi sembrano evidenziare un confronto serrato sostenuto da 3 “Ma“:
Ma il serpente disse alla donna…
Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..
Ma Gesù rispose al diavolo….
Dio tenta di sedurre gli uomini verso di sè, ma sotto l’albero l’uomo e la donna accettano l’altra seduzione. L’albero divenuto croce rappresenta la fedeltà di Dio: «tutti ci eravamo allontanati da te, ma tu ti sei fatto vicino a tutti perchè quelli che ti cercano ti possano trovare» (Pregh euc. IV).
L’Eucarestia di oggi, la Quaresima e il Sacramento della Riconciliazione celebrano il ma di Dio sulla nostra vita; sono tempi profetici per visitare le nostre obiezioni a Dio e gioire di quella obiezione che Dio ci ha mandato in Cristo. Veniamo stanati dalla neutralità impossibile. Sono l’occasione per restare nella vertenza, come Giacobbe, Giobbe, i discepoli di Emmaus. L’obbedienza della fede non é obbedienza muta ma dialogica. Il peccato accade quando va in corto circuito questo flusso.

  1. Dimmi cosa pensi del peccato e ti dirò il Dio in cui credi. E viceversa.

“Ogni medaglia ha il suo rovescio”; ” Non c’é rosa senza spine”: alcuni saggi proverbi popolari insegnano che ogni vicenda umana é talmente complessa da non riuscire a parlare in profondità di una cosa senza guardare, almeno con la coda dell’occhio, il suo rovescio, la sua altra metà o il suo profondo.
Non si può parlare evangelicamente del peccato lontani dall’Ultima Cena, dalla croce, dal mattino di quel primo giorno dopo il sabato o della Pentecoste.
Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo e dopo il battesimo. C’é un modo cristiano e rivelato di parlare del peccato. E c’é un modo ateo: un modo che si basa su valutazioni della maggioranza o da moralismi che sono più tradizioni di uomini che volontà di Dio. E facile l’equivoco: ci possono essere azioni da noi considerate sacrosante e che sono peccato secondo Dio, come per esempio ci ha detto Gesù nei riguardi del culto lontano dalla solidarietà (Mt.5,23). E’ stato detto che il nostro stile di vita rivela in quale Dio crediamo e che l’immagine che abbiamo di Dio influenza le nostre scelte quotidiane. Mentre parliamo del peccato stiamo parlando di Dio….un Dio che si manifesta diverso da come lo immaginiamo.
Quali sono le raffigurazioni negative ricorrenti e che anche oggi potremmo rischiare di equivocare nelle letture bibliche di oggi?

  • Il Dio che giudica e punisce, che conduce a sè gli uomini con la paura e che é irremovibile nel punire ogni mancanza, incurante della fragilità dell’uomo, rigoroso nell’applicare adeguate punizioni ad ogni colpa. E’ il Dio-poliziotto.
  • Il Dio nemico della vita, che vuole il sacrificio per essere placato o che esige castrazione del lato positivo e piacevole della vita.
  • Il Dio contabile, che tiene conto di ogni sbaglio nei confronti di una legge e li registra per il rendiconto finale. E’ il controllore ossessivo e pedante, il ficcanaso fastidioso, un polipo soffocante.
  • Il Dio efficiente, cottimista del bene. E’ il Dio che dice “quanto più produci in opere buone, tanto farai carriera nell’eternità”.

Ed ecco il “Ma” della Santa Scrittura:  «Ma tu, Signore, Dio-di-pietà (misericordioso:El-rahom), compassionevole (hannon) lento all’ira e pieno di amore (hesed) e di fedeltà (hemet), volgiti a me e mostrami la tua compassione (hanneni): dona al tuo servo la tua forza, salva il figlio della tua serva». (Salmo 86,15-17;cfr. anche v. 5; Es. 34,6).
Quando Paolo, nella sua lettera a Tito, scrive che in Gesù «è apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza per tutti gli uomini», coglie e rivela il cuore del mistero cristiano. Gesù è “l’incarnarsi” di questa misericordia che mette in discussione la logica mondana dello scambio, della simmetria, della reciprocità, del ‘dare per ricevere’, dell’amare i propri simili e dell’evitare i dissimili. Un perdono concesso dopo il pentimento potrebbe essere un atto di giustizia dovuta. Il termine misericordia invece, significa partecipare in modo talmente immotivato, cordiale e concreto alla situazione del disagio altrui da cambiargli radicalmente la sua situazione. Quando diciamo “Signore pietà!” significa appellarsi alla profondità del sentimento e dell’energia del Signore sottoponendogli la propria situazione da cambiare. Paolo, in modo scandaloso, dirà che ogni debolezza é grazia e mi mette in grado di lodare Dio. Per questo la nuova liturgia della Riconciliazione chiede di confessare la fede e la lode, prima ancora che confessare il peccato. Affinché sia chiaro che miseria e misericordia non fanno mai monologo, ma duetto: «Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..».
Quando abbiamo celebrato “la confessione” pensando prima a Gesù che a noi? 

Quale peccato allora?
Solo ora sono in grado di parlare di peccato. “Peccato” è un termine che la lingua ebraica dell’ Antico Testamento chiama con sfumature terminologiche diverse per indicarne la complessità di ciò che siamo, ma anche di ciò che non vorremmo essere: (hata’ = mancare l’obiettivo o un bersaglio, commettere un errore; pasa’ = ribellarsi contro qualcuno, attentare alla sua dignità, violare un patto; ‘awon = essere storto, camminare su un sentiero sbagliato; rasa’ = essere senza una legge, essere ingiusto. Tutto questo esce dalla filigrana delle letture bibliche di oggi da cui evidenzio 3 coordinate:

1- Dio e l’altro. L’albero della vita. Il peccato prima di essere una serie di trasgressioni è la rottura o l’inquinamento di una relazione. Desolidarizzare con il creatore sfalda la relazione di mutuo aiuto tra l’uomo e la donna, tra fratello e fratello, tra uomo e creazione. Gesù dirà: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo essere vivente e il prossimo tuo. Qui sta tutta la Torà e ogni profezia».  Nell’Eden Dio soffia nell’uomo l’alito della vita e l’uomo diventa essere vivente. Poi consegna 2 alberi di cui uno è l’albero della vita. Matteo: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma della parola di Dio». Noi crediamo in un Dio che ama la vita in tutta la gamma dei suoi significati e vuole che la vita sia vitale e significativa tanto da prometterci che é eternizzabile. Peccato é inquinare, turbare, dominare, impigrire, spegnere, far soffrire l’alito di vita, l’albero della vita, e tutto ciò che nutre la vita dell’uomo ben oltre la semplice sopravvivenza. E Lui é sempre lì ad obiettare sulle nostre scelte, a mandarci profeti per servirci la Parola di vita, lo Spirito della vita, i suoi comandi che danno vita, la beatitudine della pacifica convivenza, il pane di vita eterna. «Io sono la vita…Io sono la vite…» dice Gesù.
Dove e quando crocifiggo la vita e i suoi poveri cristi? Sappiamo narrare e lodare il Dio che spalma la sua vitalità sulla nostra vita e sulle nostre morti? Faccio l’esperienza che senza di Lui non porto frutto? E’ davvero l’amore che determina le mie scelte?
2- L’albero del bene e del male. Sia nel racconto della Genesi che nella tentazione di Gesù emerge chiaro il ruolo della Parola di Dio, ma si evidenzia anche come é difficile porsi nel versante giusto di ascolto. La Parola di Dio può essere utilizzata dal serpente e dal diavolo, cioè é strumentalizzabile. Anche i demoni, dicono gli evangelisti, riconoscevano che Gesù era il Cristo. C’é un uso astratto della conoscenza. C’é un uso utilitaristico. E’ possibile l’equivoco. «Ma sta scritto anche…» dice Gesù.

Sto percorrendo un itinerario di discernimento con la mia comunità attorno alla Parola di Dio, albero del bene e del male? Questa Parola passa dalle orecchie alle mani?
3- Il diavolo o il serpente: per dire che ciascuno di noi non é l’inventore del male e delle maledizioni. L’uomo é preceduto dal limite e dalla malizia, si trova in una rete di relazioni attraversate dal male, dalla malizia. Noi nasciamo peccatori. Il salmo 51 dice: «Ecco, colpevole io sono nato, peccatore mi ha concepito mia madre».  Enzo Bianchi commenta: «Noi diciamo che i bambini sono innocenti. No. I bambini sono un fascio di peccato e solo diventando grandi noi abbiamo meno peccati. Un bambino è un fascio di sentimenti opachi, caotici, violenti, aggressivi, fusionali. E man mano che avanziamo nella vita noi razionalizziamo le forze caotiche che ci abitano e sempre più cerchiamo di diventare puri. Ma l’impuro per eccellenza è il bambino. Non è vero che dietro le spalle abbiamo l’innocenza e la bella virtù. Noi possiamo arrivarci forse in vecchiaia. Noi nasciamo con questa attitudine al peccato, con questa inclinazione al male, all’egoismo, alla aggressività». Primo Levi nel cap. 2° de “I sommersi e i salvati” propone il concetto di “zona grigia” é cioè quello spazio occupato da una grande massa che svolge, volente o nolente, mansioni necessarie al delitto, compreso l’omissione. La zona grigia rappresenta la NORMALITA’. Non è sinonimo di colpa, ma neppure di innocenza. E’ il luogo della “banalità del male”, come dice Hanna Arendt. Spesso il crimine é l’organizzazione di una catena di innocenze individuali, che si nutre della normalità, dei riflessi condizionati dell’individualismo e della paura di denunciare e intervenire, di piccole decisioni e calcoli che possono oliare il sistema repressivo pur rendendo la partecipazione alla violenza un qualcosa di asettico ed ignaro del sangue e della morte. Morendo lasceremo in eredità un po’ di bene, ma anche un po’ di male. Ciascuno di noi fa esperienza del male che lo porta là dove non vorrebbe andare (Paolo). I documenti ecclesiali parlano di “strutture di peccato”. Adamo ed Eva rappresentano una complicità che era stata creata per il mutuo aiuto e che si corrompe nella complicità per farsi del male. Anche questo é peccato. Eppure interviene il “Ma” di Dio: Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..

Come entrerò in un cammino attivo di santificazione e liberazione comune con altri uomini ben oltre la mia santificazione individuale? A chi perdonerò il male ricevuto in eredità e a chi chiederò perdono per il malessere che infetto fino a lasciarlo in eredità?


[1] Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia n. 26, Giovanni Paolo II, 1984