IL SERVO CHE FU FATTO RE. 24 novembre 2019
Don Augusto Fontana

Il trono di Gesù, di volta in volta, fu una mangiatoia per animali, un palo sospeso, un catino, una mensa, un asinello. E per ambasciatori si scelse affamati, assetati, nudi di casa e di vestiti, ammalati, carcerati, stranieri impuri. Un re da burla: «intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a lui, si burlavano di lui dicendo: “Salve, re dei Giudei” e gli sputavano addosso» (Matteo 27,29-30). Macabra liturgia di investitura regale.

Preghiamo. O Dio Padre, che ci hai chiamati a regnare con te nella giustizia e nell’amore, liberaci dal potere delle tenebre; fa’ che camminiamo sulle orme del tuo Figlio, e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso. Egli è Dio, e vive e regna con te…

Dal secondo libro di Samuèle 5,1-3
In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero (dall’ebraico mašīaḥ=messia)  Davide re d’Israele.

Sal 121 Andremo con gioia alla casa del Signore.
Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!».

Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme!
È là che salgono le tribù, le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele, per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési 1,12-20
Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.

È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

Dal Vangelo secondo Luca 23,35-43
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male (niente fuori luogo; dal greco: udèn àtopon)». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «Amen io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». 

UN RE COL GREMBIULE. D. Augusto Fontana
L’ultima Domenica dell’Anno liturgico accentua le connotazioni della festa di Pasqua-Ascensione. La festa di oggi, di fatto, celebra in sintesi tutto il mistero di Gesù di Nazareth: «Cristo è morto ed è ritornato alla vita per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,9). Paolo, nelle sue Lettere, per 243 volte chiama Gesù con l’attributo di Signore e 358 volte lo chiama Cristo; ma è cosciente che questi titoli, di origine pasquale, portano scompiglio: «noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23). Crocifisso…scandalo…stupidità (in greco: morìan). Parole blasfeme per orecchie pie e devote.
Oggi il 2° Libro di Samuele e l’Inno liturgico riportato dalla Lettera ai Colossesi privilegiano titoli solenni: Re, Capo, Pastore, Messia, Signore, Christòs, Primogenito. Parole strane, d’altri tempi. Parole che hanno tuttavia travolto e trasfigurato mistici, martiri, discepoli. Ma che a me oggi -forse per mia colpa – non mi svelano granché, non mi scardinano, non mi buttano in ginocchio, non mi fanno trattenere il fiato, non mi accelerano i battiti. Eppure sono ancora curioso. Cosa avrà voluto dire l’apostolo Tommaso con quel suo «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28)? E Marta e Maria: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11, 21.32)? E Maria di Màgdala quando annuncia ai discepoli: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18)?
E poi: che senso avrà oggi il “Cristo Re” per i sette presbiteri nigeriani sequestrati (tra cui due uccisi durante la prigionia) in meno di otto mesi?
“Cristo Re”, è l’opposto di ciò che Gesù di Nazareth è stato: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc. 22,27). “Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”(Mt. 20,28).
I suoi discepoli, di ieri e di oggi, spesso sono tentati di sognare poltrone, visibilità, invidiabili share, ola da stadio: «E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate”» (Mc 10,35-38). Lui, il maestro laverà i loro piedi dicendo: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».(Gv 13,13-14). E sul Golgota, alla sua destra e sinistra ci saranno due banditi con-crocifissi. Nel Vangelo di Giovanni, dopo la narrazione del segno della condivisione dei pani e dei pesci, viene detto che “Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (6,15). E quando Giuda sta per consegnare Gesù si sente chiamare così:« Amico…». (Matteo 26,50).
Dunque Gesù servo e amico più che re. Allora decidiamoci una buona volta di fare una petizione al Papa per cambiare la festa di CRISTO RE in festa di CRISTO SERVO. Toglierebbe molti equivoci, a partire dalle motivazioni originarie della festa istituita da Pio XI nel 1925 per reagire al laicismo e per rivendicare il ruolo di una chiesa regina[1].
Già il Concilio Vaticano II° aveva dato una sterzata: “Lo stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della solidarietà umana. Prese parte alle nozze di Cana, entrò nella casa di Zaccheo, mangiò con i pubblicani e i peccatori. Ha rivelato l’amore del Padre e la magnifica vocazione degli uomini ricordando gli aspetti più ordinari della vita sociale e adoperando linguaggio e immagini della vita d’ogni giorno. Santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali trae origine la vita sociale. Si sottomise volontariamente alle leggi della sua patria. Volle condurre la vita di un artigiano del suo tempo e della sua regione. Nella sua predicazione ha chiaramente affermato che i figli di Dio hanno l’obbligo di trattarsi vicendevolmente come fratelli. Anzi egli stesso si offrì per tutti fino alla morte, lui il redentore di tutti. «Nessuno ha maggior amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici» (Gv15,13)[2].

Un re da burla.
Il trono di Gesù, di volta in volta, fu una mangiatoia per animali, un palo sospeso, un catino, una mensa, un asinello. E per ambasciatori si scelse affamati, assetati, nudi di casa e di vestiti, ammalati, carcerati, stranieri impuri. Un re da burla: «intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a lui, si burlavano di lui dicendo: “Salve, re dei Giudei” e gli sputavano addosso» (Matteo 27,29-30). Macabra liturgia di investitura regale.
Luca ha sviluppato il racconto della crocifissione con sapiente abilità compositiva indirizzandolo al suo particolare interesse di annuncio. Gesù appare come il prototipo del martire che affidandosi a Dio sopporta ogni derisione. Nella richiesta di perdono per i carnefici e nella parola a uno dei delinquenti egli si mostra come il salvatore dei peccatori. La scena della crocifissione è un dramma sacro, una liturgia[3]: «Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui… Il popolo stava a guardare… Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando queste cose» (Luca 23,27.35.48-49). Ai piedi della croce si va formando la sua e nostra comunità. I conoscenti di Gesù e le donne rappresentano il nucleo della Chiesa.
Visto che tutti “assistevano da lontano”, chi avrà raccontato a Luca questo dialogo di tre morenti che avevano ancora la forza di emettere fiato in agonia? Luca è l’unico tra gli evangelisti che riporta questo dialogo. Forse si ricordava di aver scritto il capitolo 15 con le tre parabole della misericordia verso i perduti. Durante la passione Gesù incrocia 4 criminali: Barabba liberato durante il processo, il centurione che glorifica Dio dicendo “veramente quest’uomo era giusto” e i due crocifissi con lui di cui uno “santificato”. Per ora è un raccolto che sta nel palmo di una mano per questo Rabbi-agricoltore che ha seminato e sprecato a piene mani. Gesù non è un re politico arruffapopolo che agglutina le masse; si rivolge spesso, e anche qui, all’uno, a me o a te come se non esistesse nessun’altro.
La catechesi di Luca si concentra sulla triangolazione di un dialogo:

 -«Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».
 -«Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di straordinariamente fuori luogo
 -«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
 -«Amen io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Qual è il senso e la portata di questa festa per la mia e tua esistenza?

Dio aveva posto l’uomo in un giardino di delizie (in ebraico: gan ‘eden); giardino che verrà poi chiamato in greco paràdeisos che designa un giardino recintato, un parco. Vale la pena citare il libro del Cantico dei cantici (4,13): «Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, i tuoi germogli sono un paradiso di melograni, con i frutti più squisiti». Il giardino chiuso o paradiso non è un luogo ma è una persona amata: “sarai con me” come ora “sei con me”.

  1. Riconoscere che Cristo è mio-re significa adattarmi gradualmente a pensare che Lui è Dio vivo, e quindi – come diceva il Card. Martini[4] – «significa che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese, proprio perché è vivo».
  2. Riconoscere che, per Cristo, regnare significa servire ci porterà a capire «che il cristianesimo non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello Stato. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo che sarà sempre più un fermento, una luce, una profezia, un esempio che non impone nulla e si presenta nell’umiltà»[5].
  3. Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa ridare anche consistenza al ruolo Sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benché piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.
  4. Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa che ogni battezzato potrà scoprire il valore sacramentale e salvifico della sua pratica messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi. Domenica scorsa anche tu, forse, hai vissuto la 3a Giornata mondiale dei poveri. Papa Francesco, tra l’altro, ha scritto: «La speranza si comunica anche attraverso la consolazione, che si attua accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo. I poveri acquistano speranza vera non quando ci vedono gratificati per aver concesso loro un po’ del nostro tempo, ma quando riconoscono nel nostro sacrificio un atto di amore gratuito che non cerca ricompensa…Agli occhi del mondo appare irragionevole pensare che la povertà e l’indigenza possano avere una forza salvifica; eppure, è quanto insegna l’Apostolo quando dice: “Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1 Cor 1,26-29). Con gli occhi umani non si riesce a vedere questa forza salvifica; con gli occhi della fede, invece, la si vede all’opera e la si sperimenta in prima persona».

[1] Dall’Enciclica Quas primas di Pio XI: «La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi… Tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio… La celebrazione di questa festa sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi ».
[2] Gaudium et spes n. 32
[3] Josef Ernst, Il vangelo secondo Luca. Vol. 2°, Morcelliana, 1990, pag. 891
[4] C.M.Martini, Il giardino interiore. Una via per credenti e non credenti, PIEMME.
[5] O. Clèment in “Il potere crocifisso”, Qiqajon




Domenica 33a – 17 novembre 2019
CRISIS. Don Augusto Fontana

Nel “Credo” diciamo: “ di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”. Chiamare Dio con il nome di giudice potrebbe ingannarci perché gli attribuiamo le caratteristiche dei giudici della nostra società. Di fatto la nostra parola italiana «giudizio» deriva dalla parola greca «crisis» che significa «valutazione, scelta». Dio allora é una persona, un evento che ci mette in crisis cioè non ci lascia nell’indifferenza, ma ci conduce a prendere posizione, a esprimere il nostro parere, a schierarci, a prendere parte. Di solito diamo valore negativo alla crisi, e quando vogliamo comunicare il nostro malessere diciamo: «Sono in crisi!»; ma esistono crisi e destabilizzazioni molto positive e desiderabili, come per esempio le fasi di crescita e di progresso. 

Preghiamo.
O Dio, principio e fine di tutte le cose, che raduni tutta l’umanità nel tempio vivo del tuo Figlio, fa’ che, attraverso le vicende, liete e tristi, di questo mondo, teniamo fissa la speranza del tuo regno, certi che nella nostra pazienza possederemo la vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Malachìa 3,19-20
Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.
Salmo 97   Il Signore giudicherà il mondo con giustizia.
Cantate inni al Signore con la cetra, con la cetra e al suono di strumenti a corde;

con le trombe e al suono del corno acclamate davanti al re, il Signore.
Risuoni il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene a giudicare la terra.
Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 3,7-12
Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
Dal Vangelo secondo Luca 21,5-19
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 CRISIS. Don Augusto Fontana
Nel salmo 98 abbiamo proclamato: «il Signore giudicherà i popoli con giustizia». Nel “Credo” diciamo: “ di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”. Chiamare Dio con il nome di giudice potrebbe ingannarci perché gli attribuiamo le caratteristiche dei giudici della nostra società. Di fatto la nostra parola italiana «giudizio» deriva dalla parola greca «crisis» che significa «valutazione, scelta». Dio allora é una persona, un evento che ci mette in crisis cioè non ci lascia nell’indifferenza, ma ci conduce a prendere posizione, a esprimere il nostro parere, a schierarci, a prendere parte. Di solito diamo valore negativo alla crisi, e quando vogliamo comunicare il nostro malessere diciamo: «Sono in crisi!»; ma esistono crisi e destabilizzazioni molto positive e desiderabili, come per esempio le fasi di crescita e di progresso. Dire che Dio é giudice, che è la nostra crisi, potrebbe allora significare che noi dobbiamo sentirci responsabili davanti a lui. La vita é un’amministrazione di ciò che ci é stato affidato e quindi é responsabilità.
L’immagine di “Dio giudice” non ci garba. Il biblista André Wénin, in un suo Corso su Genesi 1-11 affronta il problema: «Davvero un giudice è una figura così negativa? Di per sé un giudice è una figura positiva, naturalmente se fa bene il suo mestiere. Ma di per sé un giudice non è una persona cattiva. E’ una persona temibile da parte di chi si sente colpevole. Ma per la vittima…meno male che ci sono i giudici… Un giudice, di per sé, è una figura positiva anche per il colpevole. Penso che un giudice abbia un doppio ruolo. Primo. Stabilire la verità dei fatti, chi è colpevole e chi innocente, chi ha fatto una cosa e chi l’ha subita; e se chi lo ha fatto ha delle circostanze attenuanti. E se chi si crede innocente ha provocato. Secondo. Deve rendere o fare giustizia agli innocenti e rimediare il torto subìto con una compensazione. Ma anche rendere giustizia al colpevole dandogli una pena adeguata per fargli prendere coscienza del danno che ha causato alla vittima e alla società. Rende quindi un servizio anche al colpevole».

Nelle ultime 3 domeniche del ciclo liturgico, prima dell’avvento, la liturgia ha accentuato l’attenzione verso la direzione del nostro cammino, il “giorno del Signore”. Nella religiosità popolare degli ebrei “il giorno del Signore” significava

  • giorno di liberazione da ogni minaccia incombente
  • giorno di realizzazione delle sue promesse e quindi un giorno dolce e invocato per l’oggi.
  • giorno del rendiconto anche per la comunità di Dio, come dicono i profeti dall’8° secolo a.C., e quindi un giorno severo di scadenze e di responsabilità tanto da desiderarne il rinvio o di volerne conoscere la data per difenderci o non farci trovare impreparati.

Noi usiamo il termine “giorno del Signore” per indicare la Pasqua, la domenica.
La prima domanda che mi viene spontanea é chiedermi se quando mi alzo alla mattina della domenica ho la percezione di trovarmi di fronte a un giorno di liberazione da ogni minaccia incombente, giorno di realizzazione delle promesse del Signore e di responsabilità davanti a Lui.
Giorno, quindi dolce e attraente, ma anche giorno severo e preoccupante.
Proviamo rileggere le letture sante di oggi per ritrovare questi spunti, facendoci accompagnare dalla preghiera che inaugura l’assemblea liturgica: «O Dio, principio e fine di tutte le cose, che raduni tutta l’umanità nel tempio vivo del tuo figlio, fa’ che attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, teniamo fissa la speranza del tuo regno, certi che nella nostra pazienza possederemo la vita».
Il profeta Malachia scrive il suo libretto dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia, in un tempo in cui le speranze e la gioia iniziale si erano spente di fronte al risorgere di tutte le miserie, le truffe, le ingiustizie di prima. Gli uomini giusti e onesti, i fedeli di Dio, si chiedono se valga la pena continuare e se il Signore interverrà mai un giorno a rendere giustizia. Non posso cavarmela puntando il dito solo su determinate persone. La superbia e l’autosufficienza hanno radice e germoglio anche dentro di me. In me c’é un mondo decrepito e inaccettabile agli occhi di Dio sul quale anch’io desidero la fine. E non posso essere sicuro di essere catalogato tra coloro che onorano il suo Nome. Stando a certe affermazioni del Vangelo («Non chi dice Signore, Signore…») non posso escludere di essere anch’io tra coloro che hanno continuamente il Nome di Dio in bocca. Il Nome di Dio infatti é più affidato alle mani che alla bocca («…ma chi fa la volontà del Padre mio…»).
La differenza tra gli idoli e Dio é questa: Dio abita il nostro tempo e non assiste impassibile, come gli idoli, alle vicende del mondo. Jahweh porta a termine la storia. Il profeta assicura: «Tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia che brucia…per voi invece che rendete culto a Dio verrà come un calore benefico». Si tratta, come dice Gesù nel Vangelo, di paziente perseveranza. Di resilienza[1]. Una vigilanza attiva, direbbe Paolo nel testo liturgico di oggi, ai suoi cristiani di Tessalonica che avevano tirato i remi in barca in una spiritualità disinteressata del mondo e a cui ribatte: «Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace». E si vanta di essere prete-operaio per darne l’esempio: «Noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi». La storia, la politica, l’amore, il lavoro non perdono consistenza davanti alla «attesa del Suo Ritorno». L’illusione e la delusione, lo sbadiglio e l’abbaglio sono atteggiamenti non consoni alla vigilanza di fronte al giorno del Signore. Scrive Daniele Garota[2]: “Léon Bloy ri­porta una riflessione di Ernest Hello, nella quale un uomo divorato dalla consapevolezza di essere «sulla strada dell’inferno», con sentimenti di noia e con l’età che avanza verso la morte, dice: «Tuttavia se Dio mi proponesse di lasciare per un istante queste cose noiose, monotone, bugiarde, mo­ribonde e mortali, che mi portano alla disperazione presente e a quella eterna, per cambiarle con la vita, con la gioia, con la beatitudine, mi rifiuterei, non lo ascolterei neppure! Me n’andrei a un divertimento noioso, dicendogli: “Vattene! Vattene, padrone del­l’estasi e proprietario della gioia; vattene, sole che ti levi nella tua raggiera di porpora e d’oro! Vattene, maestà. Vattene, splendore! Vattene, tu che hai suda­to sangue nel Giardino degli Olivi! Vattene, tu che sei trasfigurato sul Tabor! Vattene, io vado al caffè dove mi annoio”.
“E perché ci andate?”.
“Perché ho preso l’abitudine”».

Il caffè, la distrazione, la noia: ma c’è forse alla fi­ne un morbo più devastante di questo nelle nostre so­cietà sazie e goderecce? «Il caffè è la casa aperta, al livello della strada – dice Lévinas[3]luogo della so­cialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete … perché si può andare al caffè a rilas­sarsi e così si sopportano gli orrori e le ingiustizie di un mondo senz’anima … Luogo di dimenticanza, dell’o­blio dell’altro: ecco il caffè ».

Non sarà subito la fine…Prima:

  • Non seguiteli…Non lasciatevi turbare
  • Guardate di non lasciarvi ingannare.
  • Questo vi darà occasione di testimonianza
  • Con la vostra perseveranza salverete le vostre vite.

Chiudo citando un testo del rabbino chassidico di Berditschev (XVIII secolo) divenuto preghiera di alcuni ebrei ad Auschwitz:
Dovunque io vada, Tu!
Dovunque io sosti, Tu!
Solo Tu,
ancora Tu,
sempre Tu,
Dio Tu!
Cielo, Tu.
Tu, Terra, Tu!
Dovunque mi giri e dovunque miri, Tu!
Solo Tu!
sempre Tu!
Se mi va bene, Tu!
Se sono in pena, Tu!
Solo Tu, ancora Tu!
Sempre Tu!
Dio Tu!


[1] dal latino: resilire rimbalzare, saltare indietro. Si paragona spesso al comportamento dell’acqua che si adatta ad ogni forma o recipiente, può ricordare la duttilità, la malleabilità.
[2] Daniele Garota, Il coltello di Abramo (ed. Paoline)
[3] E. Lévinas, Dal sacro al santo, Città Nuova, Roma 1985, p. 49




Domenica 32a – 10 novembre 2019
SPERARE E ATTENDERE. D. Augusto Fontana

«Non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo i segreti dell’avvenire, tutta la più alta sapienza di un uomo consisterà in queste due parole: sperare e attendere» (Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo). In questi ultimi scorci del tempo liturgico 2019 si respira aria delle “cose ultime” o, detto meglio, delle “cose nuove”: « quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti…non possono più morire, perché sono uguali agli angeli … sono figli della risurrezione, sono figli di Dio». Ignazio Silone, a chi gli chiedeva perché avesse abbandonato la Chiesa, rispondeva che «si era stancato di stare con cristiani che dicevano di attendere Gesù Cristo e la risurrezione, ma poi l’aspettavano con la stessa indifferenza con cui si aspetta un tram»

 Preghiamo.
O Dio, Padre della vita e autore della risurrezione, davanti a te anche i morti vivono; fa’ che la parola del tuo Figlio, seminata nei nostri cuori, germogli e fruttifichi in ogni opera buona, perché in vita e in morte siamo confermati nella speranza della gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal secondo libro dei Maccabèi 7,1-2.9-14
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». [E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
Salmo 16 Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa, sii attento al mio grido.

Porgi l’orecchio alla mia preghiera: sulle mie labbra non c’è inganno.
Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.
Custodiscimi come pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 2,16-3,5
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca 20,27-38
Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

SPERARE E ATTENDERE. Don Augusto Fontana
«Non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo i segreti dell’avvenire, tutta la più alta sapienza di un uomo consisterà in queste due parole: sperare e attendere» (Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo). In questi ultimi scorci del tempo liturgico 2019 si respira aria delle “cose ultime” o, detto meglio, delle “cose nuove[1]: « quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti…non possono più morire, perché sono uguali agli angeli … sono figli della risurrezione, sono figli di Dio». Ignazio Silone, a chi gli chiedeva perché avesse abbandonato la Chiesa, rispondeva che «si era stancato di stare con cristiani che dicevano di attendere Gesù Cristo e la risurrezione, ma poi l’aspettavano con la stessa indifferenza con cui si aspetta un tram» (E.Bianchi Da forestiero. In compagnia degli uomini. PIEMME, Casale Monferrato, 1995, pag. 62).
Stephen Covey nel suo “The 7 habits of highly effective people” (I sette pilastri del successo, Free Press, 1989) indica come 2° dei 7 pilastri: Begin with the end in mind (traduz. letterale: “comincia con lo scopo finale in mente”) ossia “qualunque cosa inizi a fare abbi coscienza dell’obiettivo che vuoi raggiungere”. La vita oltre la morte, la vita nella morte. Covey parla ai manager per la loro attività di leadership e management, ma il consiglio ha un sapore analogamente evangelico.
Il tema della resurrezione é ancora oggi soggetto a discussioni per il cambiamento di linguaggio affermatosi e per una recente apertura dell’occidente alla esperienze religiose orientali tra le quali si crede nella reincarnazione. L’antropologia giudaica che considera una forte unità tra corpo e spirito é diversa dall’antropologia e filosofia greco-ellenistica che ha maggiormente impregnato il cristianesimo occidentale e che separa corpo da anima.
Paolo parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali e assurde per un greco. Il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità limitata e colpevole. Invece il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1,27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste» (1Cor 15,49).
Il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti».
Insomma: a questo punto mi sta venendo il mal di testa e il capogiro. E a te?

I sadducei di ieri e di oggi. E Gesù. (Luca 20,27-38)

I sadducei, risalenti al sommo sacerdote Sadoq del periodo di Salomone, erano liberali conservatori dell’alta borghesia e tra loro c’erano molti dell’aristocrazia sacerdotale. Dal 6 al 70 d.C. fornirono quasi tutti i Sommi sacerdoti. La loro abilità politica con gli invasori romani permise loro di occupare posti chiave sotto Erode e i governanti romani. Erano in polemica contro i farisei su due punti:
– solo la Torah scritta nei 5 libri di Mosè (pentateuco) aveva autorità in materia di fede;
– non c’é resurrezione dai morti.
Tuttavia anche tra i farisei c’erano differenti interpretazioni sulla risurrezione: «Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba. Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre» (Salmo 114,17-18). Alcuni concepivano la risurrezione in modo molto materialistico, quasi che fosse una riedizione corretta di questa vita.
Tutto avveniva su riferimenti scritturistici e a colpi di citazioni bibliche.
Si dice spesso che l’idea della risurrezione fosse una novità piuttosto recente nata, nella riflessione religiosa ebraica, durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164 a.C.). Ne abbiamo numerosi cenni nel secondo libro dei Maccabei e nel capitolo 12 del libro di Daniele in risposta a una grave questione di giustizia: non è giusto che i buoni periscano e i criminali vivano a lungo. Il concetto di risurrezione sarebbe nato dall’idea di una retribuzione dopo la morte per ciò che gli esseri umani avrebbero vissuto sulla terra. In realtà quella fede affonda le sue radici più profondamente nel pensiero sia dei profeti che nei Libri sapienziali, non tanto per il desiderio di risolvere il problema della morte dei giusti, quanto per la riflessione sulle relazioni tra il Dio eterno e l’uomo effimero che pure è immagine di Dio. Si pensi ai testi come Isaia 26,19: «di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno. Svegliatevi ed esultate voi che giacete nella polvere» (vedi anche Osea 6,2; 13,14; Isaia 25,8); il testo di Ezechiele 37,1-14 invece (le ossa aride che si rivestono di carne e di soffio vitale), più che riferirsi alla resurrezione dai morti sarebbe una parabola del ritorno del popolo dall’esilio. Si pensi anche alla nota proclamazione di Giobbe (19,25-27): «Poiché io lo so: il mio redentore è vivente, ultimo sulla polvere si emergerà. Dopo che avranno distrutto la mia pelle, anche dopo ciò, dalla mia carne vedrò Dio, io stesso lo vedrò, i miei occhi lo vedono non più straniero». Però per i sadducei questi testi non appartengono al Pentateuco e quindi per loro non sono normativi[2]. E quindi tendono una trappola a Gesù appellandosi al Pentateuco e precisamente a Deuteronomio 25,5-10 dove vengono regolamentati, per la donna vedova, i doveri per assicurare la discendenza: «Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato». Le dettagliate prescrizioni vanno sotto il nome di “legge del levir” ossia “del cognato”. I sadducei, in modo palesemente ridicolo raccontano la storiella di una donna rimasta vedova sette volte e risposatasi con 7 cognati. Poi la domanda, per ridicolizzare: «La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie?».

Il nome di Dio si intreccia con il nome di uomini.
Gesù non si perde in virtuosismi esegetici e non va a riferirsi a testi che parlino esplicitamente della risurrezione per non ridurla ad una questione esegetica o a una disputa di scuola rabbinica. Egli cita sorprendentemente Esodo 3 che é un testo su Dio e non sulla resurrezione: «Il Signore è Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Gesù si rifà al centro delle Scritture cioè alla rivelazione del Dio vivente, all’amore di Dio e alla sua fedeltà. Se Dio ama l’uomo non può abbandonarlo in potere della morte. Dio non può più essere senza Abramo. Non lo si può più chiamare semplicemente “Dio”, ma lo si deve chiamare “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”.
Scrive P.Ermes Ronchi: «Dio “di”: in questo “di”, ripetuto cinque volte, è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell’eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio. Così totale è il legame, che il Signore giunge a qualificarsi non con un nome proprio, ma con il nome di quanti ha amato. L’amore si mostra e si qualifica con il nome degli amati. Il nome di Dio si intreccia con il nome di uomini, è tutt’uno con il mio nome, anch’io amato per sempre, anch’io appartenente a un Dio vivo. Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre… Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste. Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza»[3].
C’é un testo molto significativo che é bene riascoltare dal Libro della Sapienza 11,22-12,1: «Tutto il mondo davanti a te é come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Ma tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se disprezzassi qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe resistere in vita una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita, poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose».
Gesù dunque parla di Dio e ne annuncia le caratteristiche di vita e vitalità fedele e amorosa. Risponde così, sia ai sadducei che negavano la risurrezione e sia ai farisei che la banalizzavano nelle dispute di fantareligione. La vita dei morti sfugge agli schemi di questo mondo, é una vita diversa: «uguali agli angeli … figli della risurrezione … figli di Dio».
Indirettamente risponde anche alla filosofia greco-ellenistica che non accetta la risurrezione del corpo ma solo l’immortalità dell’anima in quanto, afferma, solo lo spirito interiore ha diritto alla incorruttibilità. Per Luca la risurrezione non significa una semplice rianimazione di cadavere, ma un salto qualitativo; nella liturgia dei defunti esprimiamo questo dicendo “la vita non é tolta ma trasformata”.
Oggi sarebbe bene parlare di resurrezione della persona.
Nel nuovo Testamento dopo la resurrezione di Gesù la chiesa primitiva lentamente riformula la sua fede. Esiste in noi una forza vitale (energia) espressa dalla vita cosciente e capace di amore: tutto questo ci é dato in germe. Vita non solo dono da trasmettere, ma anche da ricevere.
L’unica parola forte di speranza é la parola di Gesù al ladrone in croce: «Oggi sarai con me!». Il ladrone moribondo non ha chiesto il dove e il come. Forse non era nelle condizioni ottimali per fare una discussione teologica o un dibattito cultural filosofico! S.Ambrogio scrisse: “la vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno” (In Lucam X, 121).
Scrive il teologo Carlo Molari[4]: «Sappiamo che non esiste un luogo chiamato cielo dove risiede Dio e dove andranno i corpi dei risorti alla fine della loro vita o della storia umana. Sappia­mo che gli elementi che compongono il no­stro corpo nel momento della morte riman­gono sulla terra fino alla fine dei tempi. In un modo o in un altro verranno assunti da molte altre creature e finiranno nella grande fornace in cui la terra terminerà la sua esi­stenza per altre modalità di esistenza. Per noi quindi la risurrezione consiste nell’entrare in un’altra dimensione di vita, che non pos­siamo immaginare. Come il feto nell’utero materno non è in grado di pensare la sua esistenza futura all’aria aperta, così noi non possiamo pensare in che cosa consista la mo­dalità del risorto».


[1] Nel linguaggio greco del Nuovo Testamento la parola è ta eskata. Da cui deriva “escatologia”, un ramo della teologia.
[2] Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon, 2015,pagg.557-559
[3] Padre Ermes Ronchi – Se Dio intreccia il suo nome col nostro –Avvenire (07 Novembre 2004)
[4] Rivista Rocca, 1 novembre 2015. Pro Civitate Christiana, Assisi.




Domenica 31a – 3 novembre 2019
UN SICOMORO PER AMICO. D.Augusto Fontana

Ciò che cambia la vita di Zaccheo è… un albero! È quell’albero che permette a Zaccheo di superare la folla che gli impedisce di vedere Gesù. E tutti noi abbiamo una “folla” che in qualche modo ci oscura lo sguardo e sembra ostacolarci nell’incontro con il Signore. Siamo tutti di “bassa statura”. Dobbiamo avere il coraggio, qualche volta, di andare al di sopra della folla, del rumore, delle tante voci che ascoltiamo e delle cose che facciamo, per giocarci nell’incontro con Gesù. A tutti noi quest’oggi è offerta la possibilità di salire su di un “albero”. Ad una condizione: capire qual è l’albero su cui possiamo arrampicarci!

 Preghiamo.
O Dio, che nel tuo Figlio sei venuto a cercare e a salvare chi era perduto, rendici degni della tua chiamata: porta a compimento ogni nostra volontà di bene, perché sappiamo accoglierti con gioia nella nostra casa per condividere i beni della terra e del cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 11,22-12,2
Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.
Sal 144   Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
O Dio, mio re, voglio esaltarti e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.

Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza.
Fedele è il Signore in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 1,11-2,2
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo. Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.
Dal Vangelo secondo Luca 19,1-10
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

UN SICOMORO PER AMICO. Don Augusto Fontana
«Venga il mio amato nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti» (Cantico 4,16). Gesù allunga la mano fra il fogliame del sicomoro e raccoglie un frutto squisito: Zaccheo.
«Tu ami tutte le cose, Signore amante della vita» così prega oggi il Libro della Sapienza. Tutte le cose recano il segno sacramentale della sua tenerezza. Queste cose, compreso gli uomini, sono come polvere e come goccia di rugiada. Eppure, “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, scrive S. Ireneo di Lione[1]. Pare che la nostra istintiva natura sia invece quella di saccheggiare non solo le cose, la creazione, ma anche la stima degli uomini, con disprezzi o sospetti. Sotto, sopra e attorno a quel sicomoro accade una Rivelazione di chi è Gesù, di chi siamo noi, di come debba essere ogni chiesa e ogni assemblea liturgica.
Quando ero parroco a S. Evasio avevo realizzato un sistema di accoglienza per detenuti, chiamato con il nome dell’albero di Zaccheo: Progetto SICOMORO. Sogno che in ogni parrocchia (in ogni famiglia o cuore umano) esista una stanza, un angolo, un appartamento, un luogo che diventi come l’albero di Zaccheo. Scrive Vincenzo Andraous, un detenuto[2]: «Perché non ho mai visto alcuno salire sull’albero di sicomoro? Nessuno si arrampica sul sicomoro per tentare di guardare nel mare sommerso al di là del muro di cinta di un carcere. Non c’è traccia del sicomoro né di Zaccheo quando si parla di carcere, di pena, di lacerazioni inferte agli altri e a se stessi. Ho pensato al sicomoro di Zaccheo, forse perché c’è bisogno di miracoli, di speranza, di parole di bene, chiare e non buoniste. Ho pensato al sicomoro, perché ha consentito al pubblicano corrotto di elevarsi a persona, di alzarsi dalla sua bassa statura morale. Il carcere avrebbe bisogno di una speranza per ogni persona detenuta, speranza che nel dolore e nella sofferenza di una perduta libertà possa coesistere la possibilità di una dignità da riacquistare e una rinascita da intraprendere. Ma non c’è traccia del sicomoro nei pressi di questa sorta di terra di nessuno, quale è il carcere. Il sicomoro è albero di terra che ricorda l’albero della croce. Ho ricordato Zaccheo, perché ha saputo “trasgredire” nella rinuncia ai beni della conformità e del potere, e pensare a lui significa consentire al cuore di rimuovere il filo spinato della diversità, delle regole della strada, dei disvalori che imperversano al di là dell’alto muro di cinta».
Da questo albero fa capolino un frutto: Zaccheo. Gerico è luogo di dogana per le merci provenienti dall’oriente. Era l’ideale per un collaborazionista romano che raccoglieva le tasse per conto dei militari che occupavano il paese. Triplamente odiati, quindi, sia per il collaborazionismo con l’invasore, sia per l’idolatria del denaro, sia per l’uso di estorcere più del dovuto a propri fini economici. Gli esattori non erano ammessi a testimoniare in tribunale perchè inaffidabili e indegni. La vita amata da Dio si corrompe e si contamina.
Ma ecco il protocollo di avvicinamento: quell’uomo coltiva una qualche curiosità (come Erode per vedere i miracoli o le folle per vedere i segni o quel figlio scapestrato della Parabola il quale ritorna al Padre per fame). E Gesù passa sotto e dentro questa curiosità che si presenta ancora come un feto senza forma ben definita. Non sempre gli va bene. Nè per Erode nè per le folle. Ma Lui scommette sempre sulla parte migliore di noi. E per Zaccheo è andata bene. Accade il mistero pasquale, oggi. 

Cercare. Il testo inizia e termina con il verbo zētéō: nel v. 3, Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù»; nel v. 10, «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era per­duto». Il verbo ‘cercare’ è importante nella teologia di Luca, do­ve è associato a realtà diverse come la verità, la salute, il senso della vita o della salvezza. In Luca 11,9 Gesù dichiara: «Cercate e troverete»; in Luca 9,9 anche il re Erode cercava, come Zaccheo, di vedere Gesù, un desiderio che si avvererà durante la passione (23,8), senza tuttavia portare salvezza. Il cap. 15 di Luca è il capitolo del­la ricerca: della pecora perduta, della moneta perduta, di due figli perduti. Il verbo “cercare” (vv. 3.10) fa da cornice del racconto e indirizza il lettore a leggere il brano come una ricerca: prima che Zaccheo decidesse di porsi alla ri­cerca di Gesù, Gesù si era messo in cammino per cercarlo. Nello stesso momento in cui Gesù rivela l’identità nascosta/perduta di Zaccheo, «figlio di Abramo», Zaccheo confessa l’identità di Ge­sù: è «il Signore» (v. 8).  Il cambiamento è causato dall’essere ‘visto’ e incontrato dal Cristo: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Notiamo il verbo dēi (devo), lo stesso utilizzato nel contesto della passione, ed il verbo ‘fermarmi’ che cambia la dinamica interna al racconto. Se, infatti, fino a questo punto l’evangelista aveva proposto una serie di verbi di movimento (entrare, passare, salire, scendere), ora utilizza il linguaggio del fermarsi per rimanere nella casa di Zaccheo. Il viaggio di Zaccheo termina dunque faccia a faccia con Gesù, riconosciuto come il suo Signore.

Vedere. Il cammino di Zaccheo è scandito dal verbo ‘vedere’ (vv. 3. 4. 5. 7): non solo dal suo sguardo, ma anche dallo sguardo di Gesù, quello che ci ricorda l’incrocio di sguardi tra Gesù e Pietro nel cortile del tribunale «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto…e uscito, pianse amaramente». (Luca 22,61-62)

 Oggi . Luca usa questa cifra del tempo per 11 volte nel suo primo Vangelo e per altre 11 nel suo secondo Vangelo (Atti degli apostoli). Gesù dice a me e a te: «oggi devo fermarmi a casa tua». Altre volte gli uomini si alzano in piedi, sorgono. Zaccheo invece scende. Presto e con gioia. Nella prima fase Gesù non gli chiede qualcosa, ma si offre ospite e compagno. E’ nella compagnia, nel dialogo che matura una decisione. Il Vangelo non riporta alcuna professione di fede. Altre volte gli uomini dicono: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente“. Oggi si passa subito alle conseguenze della professione di fede: “La metà dei miei beni la do ai poveri e se ho rubato restituisco 4 volte tanto“. Zaccheo scopre ciò che gli impediva di vivere e ciò che corrompeva l’intenzione originaria del Creatore. Si riconcilia con la vita liberandola dal peso soffocante dell’avere. Sul sicomoro e in casa, in famiglia, matura un frutto nuovo. Occorre cogliere cosa c’è di insolito in questo evento. 

Dal basso verso l’alto![3] Zaccheo, un uomo forse di una certa età, incuriosito dalla figura di Gesù desidera vederlo, ma a motivo della sua bassa statura è costretto ad arrampicarsi su di un albero. E quando Gesù giunge in quel luogo è lui ad alzare lo sguardo e a chiamarlo per nome, potremo dire lo incontra là dove si trova, nell’esperienza del limite e del peccato. Talvolta siamo convinti che il Padre guardi la nostra vita “dall’alto in basso”. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo “dal basso verso l’alto!”, uno sguardo che si posa con delicatezza sulla vita di ciascuno di noi. È attraverso questo sguardo misericordioso, che Zaccheo recupera una giusta coscienza di sé ed è pronto a sanare con la carità il male che ha commesso.

Un albero… per andare oltre la folla! Ciò che cambia la vita di Zaccheo è… un albero! È quell’albero che permette a Zaccheo di superare la folla che gli impedisce di vedere Gesù. E tutti noi abbiamo una “folla” che in qualche modo ci oscura lo sguardo e sembra ostacolarci nell’incontro con il Signore. Siamo tutti di bassa statura. Dobbiamo avere il coraggio, qualche volta, di andare al di sopra della folla, del rumore, delle tante voci che ascoltiamo e delle cose che facciamo, per giocarci nell’incontro con Gesù. A tutti noi quest’oggi è offerta la possibilità di salire su di un albero e di guardare il mondo, la vita, con occhi diversi, con gli occhi con cui siamo guardati da Gesù, occhi pieni di misericordia e di perdono… ad una condizione però: capire qual è l’albero su cui possiamo arrampicarci!
Domenica prossima Gesù sarà il sicomoro che il Padre ci fa trovare sul cammino, quell’albero della croce su cui arrampicarci e da cui scendere per sedersi alla “tavola eucaristica” dove Lui sta bene con noi e ascolta volentieri i nostri buoni propositi sociali e pasquali.

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[1] Contro le eresie. Libro IV, 20,7.
[2] Vincenzo Andraous, classe 1954, detenuto ergastolano, da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno svolgendo attività di Tutor presso la Comunità “Casa Del Giovane “di Pavia. E’ impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, e movimenti. E’ titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, ha conseguito premi letterari.
[3] Pino Pulcinelli




Domenica 30a-27 ottobre 2019
LA CHIESA DEL PUBBLICANO. Don Augusto Fontana

La Chiesa del fariseo è la Chiesa maledettamente devota, presuntuosa della propria identità e della verità che presume di possedere, è la Chiesa che non sente il bisogno di confrontarsi con l’uomo (“peccatore”). La Chiesa del pubblicano è la Chiesa che non vanta prerogative o meriti né davanti a Dio né davanti agli uomini. Scriveva Enzo Bianchi in “La differenza cristiana”(Einaudi): “Sovente gli interlocutori dei cristiani sem­brano attendere una chiesa che ascolti pri­ma di parlare, che accolga prima di giudica­re, che ami questo mondo prima di difen­dersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare profe­ticamente piuttosto che accusare”.

 Preghiamo.
Padre, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del Siràcide 35,12-14.16-18
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.

Salmo 34(33) Il povero grida e il Signore lo ascolta.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.

Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Il volto del Signore contro i malfattori, per eliminarne dalla terra il ricordo.
[I Giusti] gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi; non sarà condannato chi in lui si rifugia.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 4,6-8.16-18
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal vangelo secondo Luca 18,9-14
Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano (nientificavano) gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé (davanti a sé): “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza (lontano), non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato (reso giusto), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

LA CHIESA DEL PUBBLICANO. D. Augusto Fontana
Il brano del Vangelo di domenica terminava con la domanda di Gesù: <Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?>. La fede è l’architrave della porta di ingresso al Regno, ma la preghiera e l’umiltà ne sono le colonne. La fede senza quelle muore asfittica, ma la preghiera senza fede e umiltà diventa presunzione. La parabola di oggi parla della preghiera, ma in realtà è in gioco tutto il modo di concepire l’esistenza religiosa, cioè il rapporto con Dio e con gli uomini.
Siracide 34,18-35.
Il Libro del Siracide fu scritto nel 2° secolo a.C. da Yehoshua Ben Sirah. Intenzioni dell’autore: difendere il giudaismo tradizionale e ortodosso dagli influssi greco/ellenistici tra cui l’idea che Dio esiste, ma é lontano da noi. Il Libro[1] fu tenuto in grande considerazione dalla Chiesa primitiva e lo si offriva ai Catecumeni come una specie di Sillabario cristiano: forse per questo fu anche chiamato con il nome di ECCLESIASTICO.
Il brano della liturgia di oggi è breve e risulta sacrificato rispetto al tema generale rappresentato da tutto il contesto dei capitoli 34-35. Il tema affrontato è quello del sacrificio offerto al Tempio. L’autore immagina una scena del Tempio dove il ricco offre numerosi sacrifici perchè Dio chiuda un occhio sulle sue ingiustizie, mentre il povero offre al Tempio solo il proprio lamento.
Secondo Ben Sirah la pratica della Thora’ è un vero e proprio culto. Anzi, il culto costruito con l’offerta al Tempio delle primizie del raccolto e di un decimo dei guadagni dovevano anche sfamare il forestiero, l’orfano e la vedova:
Deuteronomio 26: <[1]Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possiederai e là ti sarai stabilito, [2]prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che il Signore tuo Dio ti darà, le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per stabilirvi il suo nome. [3]Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nel paese che il Signore ha giurato ai nostri padri di darci. [4]Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore tuo Dio [5]e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. [6]Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. [7]Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce” Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio; [11]gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia. [12]Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, [13]dirai dinanzi al Signore tuo Dio: Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova secondo quanto mi hai ordinato; non ho trasgredito, né dimenticato alcuno dei tuoi comandi.> Vedi anche Deut. 10,17 ss e Esodo 22,22-24.
Il sacrificio vero non è quello in cui si offre a Dio quello che si è sottratto agli altri ed il valore del dono non dipende dalla sua abbondanza, ma dalle disposizioni del cuore. Il vero adoratore in spirito e verità è il “povero”, “il giusto”. Il Siracide censura gli atti liturgici di quegli uomini che sfruttano il loro prossimo e credono di trovare il gradimento di Dio nel conformismo religioso. Si tratta di un”concorso” tra due tipi di sacrificio, proprio come il “concorso” tra il sacrificio di Caino e quello di Abele (Genesi 4,1-10), quello di Elia a confronto con quello dei profeti di Balaam (I Re 18, 20-40). Spesse volte il Primo Testamento affronta il problema della “crisi” di quel culto considerato impropriamente come “dare qualcosa a Dio”. (Isaia 1,10-17; 58,3-9; 29,13-14; Geremia 7,1-15; Amos 5,21-27). Anche Gesù, nella più pura tradizione profetica caccia i venditori dal Tempio (Matteo ,12-17) e dice che i veri adoratori adoreranno Dio in “spirito e verità” (Giovanni 4,23) dove per “adorare in spirito” significa che “solo Dio può aiutare a pregare” (I Cor. 12,3; Rom.8,26-27) e dove “adorare in verità” significa che “solo la Rivelazione crea adorazione”.
E’ d’obbligo un’altra puntualizzazione e riguarda il termine GIUSTIZIA. La nostra parola traduce in modo inadeguato il termine ebraico ZEDAQAH. Quando Israele loda la giustizia di Dio non pensa a quel tipo di giustizia da tribunali che consiste nel pronunciare una sentenza giusta; il popolo, invece, lo ringrazia perche’ Dio parteggia per il suo popolo. La giustizia di Dio è la sua fedeltà alla alleanza il cui frutto è la liberazione/salvezza. Quando il Salmo 48,11 dice “Della tua giustizia è piena la tua destra” è come se dicesse:”tu continui a intervenire nella liberazione”. Anche per l’uomo il suo “essere giusto” significa “essere fedele alla comunità” come fa Dio.
Secondo Matteo 6,33 la giustizia è un dono che Dio dà a coloro che lo desiderano. Paolo dirà che non è l’operare dell’uomo che fonda la comunione con Dio, ma l’azione di Dio attraverso Gesù: <Ora invece, indipendentemente dalla Legge (Torah) sì è manifestata la giustizia di Dio… per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono> (Romani 3,21ss).
Luca 18,9-14.
Nella preghiera si rivela chi si sente giusto e chi si sente “reso giusto”.
I protagonisti sono 3: Dio, il fariseo, il pubblicano[2].
Esistono due introduzioni del brano.
Una é esplicita: «Disse questa parabola per alcuni che confidavano su se stessi di essere giusti e disprezzavano (il testo originale greco “exuthenéo” significa: nientificavano) i rimanenti (il termine greco “loipùs” usato da Luca indica “gli avanzi”; gli altri sono considerati come gli avanzi lasciati in un piatto) ».
L’altra introduzione é l’ouverture della parabola: «Due uomini salirono al tempio per pregare»

Due uomini. Il fariseo e il peccatore più che due persone sono due atteggiamenti che possono convivere in noi. Proprio come diceva Gesù: dentro di noi può esserci il lievito dei farisei (Lc. 12, 1ss) o il lievito del regno (Lc.13,18-21).
Salirono al tempio. La stessa azione “buona” può essere fatta con uno spirito e un risultato opposti.
Per pregare. Come noi oggi. Il fariseo dice: «Io non sono come quel peccatore là!». Il pericolo nostro é di dire: «Io non sono come quel fariseo!».
Il fariseo. Un uomo maledettamente praticante e separato da coloro che non praticano gli insegnamenti della Toràh.
In piedi. E’ la posizione corretta della preghiera; significa “davanti a Dio”.
Pregava davanti a sé. In realtà sta davanti al proprio io. Il suo non é un dialogo, ma un monologo.
Ti ringrazio“. Fa “eu-carestia”, ma invece di elencare le opere di Dio (come fa il “Magnificat”), elenca le proprie opere e si differenzia dagli altri.
Dio ha detto “Io-sono”; il fariseo dice “Io-non-sono”: mentre cerca di dichiarare la sua diversità, di fatto dichiara il suo nulla. Mentre si confronta con “questo pubblicano” non s’accorge di essere davanti ad uno specchio.
Io-non-sono come i rimanenti uomini. Sta cercando di differenziarsi, ma, come vedremo, lui é ciò che rimprovera agli altri.
…che sono rapaci: i rapaci si appropriano delle cose altrui; anche il fariseo di fatto si appropria dei beni di Dio.
…ingiusti. Gli ingiusti sono coloro che non fanno la volontà di Dio. Il fariseo trasgredisce il comandamento dell’amore.
…adulteri. Sono coloro che non vanno con il proprio amore. Anche il fariseo si prostituisce all’idolo del proprio io.
Digiuno…pago la decima. Non solo osserva le prescrizioni della Torah, ma le supera. Il digiuno era prescritto una volta all’anno nel Giorno della Espiazione (Levitico 16,29 ss) e questo super-digiuno del fariseo mirava a riparare le molte violazioni della Legge da parte del popolo non osservante. La decima doveva essere pagata dal produttore e non dal consumatore: ma lui, per scrupolo, in caso il produttore non lo avesse fatto, versa la decima al suo posto.

Anche il pubblicano parla di sè, ma in maniera diversa. Il fariseo <pregava>, il pubblicano <diceva>; la differenza sta nel fatto che la preghiera del pubblicano non pretende di essere tale ed è solo un <dire> (egli forse pensava: <Non so se le mie preghiere valgano qualcosa o addirittura se sono vere preghiere>). La vera diversità tra i due non è il modo di valutare se stessi, ma nel diverso modo di valutare Dio.

Dio. Come il padre della Parabola del “Padre misericordioso” vede questo figlio “da lontano” e gli corre incontro (Lc. 15,20)

Per Gesù non esistono uomini giusti, ma uomini giustificati (resi giusti).

La Chiesa del fariseo è la Chiesa maledettamente devota, presuntuosa della propria identità e della verità che presume di possedere, è la Chiesa che non sente il bisogno di confrontarsi con l’uomo (“peccatore”). La Chiesa del pubblicano è la Chiesa che non vanta prerogative o meriti né davanti a Dio né davanti agli uomini. Scriveva Enzo Bianchi in “La differenza cristiana”(Einaudi): “Sovente gli interlocutori dei cristiani sem­brano attendere una chiesa che ascolti pri­ma di parlare, che accolga prima di giudica­re, che ami questo mondo prima di difen­dersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare profe­ticamente piuttosto che accusare”.
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[1] E’ considerato ispirato solo nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre è escluso dal canone ebraico e protestante perché considerato apocrifo.
[2] La loro cattiva fama di collaboratori del governo d’occupazione romano ed esattori delle tasse era spesso peggiorata dal fatto che alcuni usavano le grandi somme che guadagnavano per praticare l’usura.




Domenica 29a-20 ottobre 2019
RIMANI SALDO. Don Augusto Fontana

Il cristiano è uno che si arruola nella “resistenza”. Paolo, nella lettura odierna, invita Timoteo a “rimanere saldo“: «Insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina». Il tempo dell’attesa deve essere occupato dalla preghiera nella fedeltà alla Parola di Dio e alla testimonianza. Mosè sulla cima del colle pianta il bastone di Dio come richiamo a non arrendersi e a fare resistenza. La pietra, che viene messa sotto le braccia di Mosè, è Cristo; non serve per sederci sopra, ma per rimanere in piedi.

 Preghiamo.
O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro dell’Èsodo. Es 17,8-13.
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
SALMO 120 Il mio aiuto viene dal Signore.
Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?

Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra.
Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele.
Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre.
Dalla seconda Lettera di Paolo a Timoteo 3,14-4,2.
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
Dal Vangelo secondo Luca 18,1-8
Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

RIMANI SALDO!
<<Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?>>

Resistenza nella fede e nella vita.
Il cristiano è uno che si arruola nella “resistenza”. Paolo, nella lettura odierna, invita Timoteo a “rimanere saldo“: «Insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina». Il tempo dell’attesa deve essere occupato dalla preghiera nella fedeltà alla Parola di Dio e alla testimonianza. Mosè sulla cima del colle pianta il bastone di Dio come richiamo a non arrendersi e a fare resistenza. La pietra, che viene messa sotto le braccia di Mosè, è Cristo; non serve per sederci sopra, ma per rimanere in piedi. La vedova, che appartiene alla categoria dei poveri sconfitti, sa ancora chiedere giustizia. Si tratta della resistenza nella fede aggrappandosi alle Sante Scritture. La preghiera è una faccia della resistenza. Per me è difficile resistere in preghiera quando non provo nulla, non sento nulla, quando Dio pare nascondersi. Il cristiano sa resistere, per fede, anche nei momenti di emergenza sociale quando si presentano deviazioni e mostri inquietanti, quando i valori sono minacciati e il senso della vita è in pericolo. Nei periodi di tranquillità spesso le minacce stanno nascoste tra le pieghe di un apparente benessere. Il cristiano fa resistenza contro tutti i fanatismi, le intolleranze, i settarismi, gli integralismi anche nella comunità cristiana. Il cristiano sa scegliere la libertà compiendo azioni significative di disturbo contro le conformità della moda, le liturgie del conformismo, le prepotenze del padrone di turno. Il cristiano sa gettare lo scompiglio in mezzo ai cortei del consenso organizzato, della piaggeria smaccata, della vendita del cervello all’ammasso. Sa resistere nonostante l’implacabile martellamento della pubblicità e della propaganda, i ricatti e i condizionamenti dell’ambiente. Egli è un…partigiano che compie azioni di sabotaggio contro tutte le pratiche idolatriche. [1]
La preghiera che vince.
Esodo 17,8-13. Con qualche tonalità di una religione ancora un po’ “magica” e molto guerrafondaia, siamo nel contesto della battaglia di Israele contro Amalek[2] e gli Amaleciti. Gli Israeliti erano decisi a occupare le terre di Canaan dopo l’uscita dall’Egitto. Amalek era diventato il simbolo di tutti i nemici di Israele. Quindi la vittoria su Amalek diventa emblematica e sintomatica per il popolo di Dio. Il fatto accade dopo la “tentazione” che il popolo ha subìto a Massa e Meriba dove hanno gridato a Dio: «Il Signore è in mezzo a noi, si o no?» (Esodo 17,7). La descrizione delle alterne vicende della battaglia vuol insegnare che l’esito dipende dalla preghiera di Mosè. Il personaggio principale è “il bastone di Dio” che Mosè tiene alto sopra i combattenti, poichè l’esito della battaglia dipende dalla posizione del bastone. Questa interpretazione trova conferma dal nome che Mosè dà all’altare costruito dopo la battaglia: Jahwè-Nissi, cioè Jahwè-mia-bandiera oppure Jahwè-mio-segnale. Il termine ebraico nes indica una pertica innalzata su una collina in segno di mobilitazione e raccolta. E’ lo stesso bastone che ha scatenato le piaghe in Egitto, che ha aperto il Mar Rosso, che ha fatto scaturire l’acqua dalla roccia di Refidim. Mosè tiene dunque visibile il segno della presenza di Dio; lo aiuta una pietra su cui si siede e due braccia di fratelli che lo sostengono nella invocazione; l’interpretazione cristologica dice che la pietra è Cristo che sostiene la preghiera dei credenti. Infatti ogni preghiera al Padre termina sempre con “Per Cristo nostro Signore[3]. E Aronne e Cur rappresentano l’aiuto solidale della comunità che sostiene la fedeltà orante.
La preghiera che trova risposta.
La parabola del giudice (Luca 18, 1-8) che tira per le lunghe è legata agli interrogativi nella chiesa di Luca sul ritardo della soluzione escatologica. Il brano di oggi va letto con riferimento alla Parabola dell’amico importuno (Lc. 11,5-8) ma soprattutto a Luca 17, 20-37: «Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!».
Il cristiano è come una vedova priva dello sposo o di un amante che attende l’amante:”fammi sentire la tua voce, perchè la tua voce è soave” (Cantico dei cantici 2,14).
La preghiera serve a tenere sveglio il desiderio. L’uomo non può produrre il Regno di Dio; può però invocarlo e accoglierlo: “Venga il tuo Regno”.
La preghiera è un “consumare gli occhi dietro la promessa di Dio” come esprime bene il Salmo 119, 81-84 :«Mi consumo nell’attesa della tua salvezza, spero nella tua parola. Si consumano i miei occhi dietro la tua promessa, mentre dico: “Quando mi darai conforto?” …Quando farai giustizia dei miei persecutori?».
Bisogna pregare sempre: Paolo dice: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor. 10,31). La preghiera non si sostituisce alle occupazioni, ma le illumina e le indirizza. L’azione che non nasce dalla preghiera è come una freccia scoccata a caso da un arco allentato, senza la forza, quindi, di raggiungere il bersaglio.
Senza incattivirsi: che significa anche “senza scoraggiarsi”. La preghiera per me è spesso il luogo della noia e dello scoraggiamento. Sembra tempo perso. La preghiera è una lotta (Rom.15,30; Col.4,12; Es. 17,8ss; Gn 32,22ss).
Un giudice senza pietà : questa è l’idea che ci siamo fatti di Dio: un Dio senza pietà.
Vedova: è la chiesa di Luca che non può contare che sull’insistenza e sul desiderio.
Fammi giustizia: corrisponde alla preghiera “Liberaci dal male!”.
A lui non dobbiamo chiedere delle cose, ma Lui stesso, lo Spirito Santo. Gli eletti sono coloro che gridano a Lui giorno e notte senza incattivirsi con Dio perchè davanti agli occhi di Dio “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di convertirsi” (II Pietro 3,8s).[4]
Troverà fede?: il vero problema non è la prontezza di Dio, quanto piuttosto la fedeltà perseverante dei discepoli.
Dalla benedizione, all’invocazione, alla benedizione.[5]
La preghiera per eccellenza della tradizione biblico-ebraica è la preghiera di benedizione, come dicevamo domenica scorsa: «Benedetto sei tu Signore nostro Dio, re dell’universo che crei ogni sorta di beni». Inscindibile da questa e sollecitata da essa viene subito dopo la preghiera di invocazione che, nella Bibbia, si presenta sotto la duplice forma della richiesta di perdono e della richiesta di giustizia, l’una e l’altra al servizio della benedizione.
Nella Parabola dell’Evangelo si dichiara che, se anche le condizioni appaiono impenetrabili (il giudice è ateo e disumano), la vittoria del caos non è definitiva.
Luca vuole educare alla preghiera perseverante. Quali sono le caratteristiche di una preghiera perseverante?
Il testo greco dice “pàntote”, che può significare: assiduamente, continuamente, in ogni momento e necessità. Ma la seconda precisazione (“senza stancarsi“) sottende una possibile situazione di delusione per un Dio che non mantiene le promesse.
Luca qui sembra riprendere le espressioni Paolo sul “pregare sempre” (2 Tess. 1,11; Filip. 1,4; Rom. 1,10; Col. 1,3) e “senza stancarsi” ( 2 Tess. 3,13; 2 Cor. 4, 1-16; Gal. 6,9; Efes. 3,13). La preghiera assidua non significa moltiplicare le parole (Matt. 6,7): la perseveranza non sta tanto nella ostinazione dell’atto del pregare, quanto nell’ostinazione a fidarsi di Dio e a credere nel suo amore nonostante le apparenti smentite. Se a prima vista pare che la Parabola metta al centro la vedova e la sua preghiera perseverante, a ben vedere il protagonista è il giudice.
A questo proposito cito un sorprendente parallelismo in un brano del Libro del Siracide 35,12-24: «Il Signore è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, la sua preghiera giungerà fino alle nubi. La preghiera dell’umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità. Il Signore non tarderà e non si mostrerà indulgente sul loro conto, finché non abbia spezzato le reni agli spietati e si sia vendicato delle nazioni; finché non abbia estirpato la moltitudine dei violenti e frantumato lo scettro degli ingiusti; finché non abbia reso a ognuno secondo le sue azioni e vagliato le opere degli uomini secondo le loro intenzioni; finché non abbia fatto giustizia al suo popolo e non lo abbia allietato con la sua misericordia. Bella è la misericordia al tempo dell’afflizione, come le nubi apportatrici di pioggia in tempo di siccità».
Scriveva Padre Ernesto Balducci[6]: «Pregare è anche non credere di essere innocenti nei confronti delle ingiustizie della società. La vera preghiera non è pre-politica, ma post-politica: la si fa dopo aver compiuto tutto quello che si deve fare per frenare gli spietati e difendere la giustizia. Ed è nella preghiera che si coltiva la speranza. Pregare è prendere le distanze da quel mondo che deride gli inermi. Pregare non è allenarsi alla rassegnazione, ma abituarsi anche alle nobili provocazioni nei confronti di Dio che sembra dormire mentre l’ingiustizia domina. La riserva per un futuro di un mondo diverso è quella pazienza dei poveri che l’hanno custodita in sè non con la cultura, ma con l’ostinata preghiera».
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[1] da Pronzato PAROLA DI DIO, commento Ciclo C, Ed. Gribaudi, pag.266-269.
[2] Amalek è nipote di Esaù (Gen 36, 4. 10-12;15-16; 1 Cron. 1,35-36)
[3] da SERVIZIO DELLA PAROLA n.182, ottobre 86, pag. 69-72, Queriniana
[4] da UNA COMUNITA’ LEGGE IL VANGELO DI LUCA pag 258-267, Ed. Dehoniane.
[5] da SERVIZIO DELLA PAROLA n. 182, ottobre 86, pag 73-74, Ed. Queriniana
[6] E. Balducci, IL MANDORLO E IL FUOCO”, Vol. 3 , Ed. Borla, pag. 344




Domenica 28a – 13 ottobre 2019
BENE GRAZIE. Don A. Fontana

Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio. Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità.

 Preghiamo. O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio che è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal secondo libro dei Re 5,14-17

In quei giorni, Naamàn [il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
Sal 97 Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.

Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni!
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 2,8-13
Carissimo, ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.
Luca 17, 11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

RENDIAMO GRAZIE AL SIGNORE NOSTRO DIO. Don Augusto Fontana
            Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio.
Luisa e Maria sono rispettivamente suocera e nuora. La nuora tiene le distanze dalla suocera, ma questa un giorno le fa un regalo per il compleanno; regalo immediatamente ricambiato con un ugual regalo perchè, dice la nuora, “non voglio avere conti aperti con mia suocera“. Anche Luigi, uscendo dall’ambulatorio medico, allunga una mancia allo specialista che lo ha visitato perchè, pensa, “Non si sa mai, posso sempre aver ancora bisogno“. E per molti di noi, Dio è molto simile ad una pompa di benzina da cui attendiamo che escano guarigioni, promozioni, lavoro, vincite, benedizioni e requiem eterna per i morti. E’ così difficile relazionarci con Dio e con gli uomini in un maturo atteggiamento di riconoscenza.
Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità. E’ il modo più vero per riconoscere che siamo esseri in dialogo e in interscambio. Quando si è acquisito questo diffuso senso della riconoscenza non ci basta più “dire grazie” e si passa alla “azione di grazie” che è uno scambio concreto di gesti e di servizi. Dire e fare riconoscenza è ciò che definisce il nome nuovo della «Messa» che, dopo il Concilio Vaticano II, si chiama «Eu-caristia»; il termine deriva da due parole della lingua greca che significano ” fare una bella azione di grazie”: una grazia che scende da Dio e un grazie che sale a Lui non solo dalle labbra, ma anche da una vita coerente.
In ebraico viene chiamata con il termine “Todah” che significa “lode” dopo che si è avvertita l’irruzione di Dio negli eventi della mia e nostra vita. Questa lode è preceduta dalla memoria (anàmnesis), dal racconto, dalla nostra presa di coscienza delle meraviglie di Dio negli eventi ed è seguita dalla supplica (epìklesis) perchè Dio continui la sua azione e la porti a compimento.
Le letture bibliche di oggi ci annunciano diversi temi a cui farò cenno, fermandomi poi su quello dello stupore e della riconoscenza.
Dio tra pagani, samaritani, impuri e servette.
Il “Raccontino popolare” del Libro dei Re contiene diversi elementi narrativi a cui corrispondono diversi elementi teologici: il Dio di Israele non è un Dio esclusivista e salva tutti anche fuori dai confini religiosi di Israele; Dio si serve di cause umili per operare le sue meraviglie (i versetti 1-13, omessi dalla prima lettura liturgica,narrano di una ragazzina ebrea schiava che invita Naaman a recarsi dal profeta); Naaman è pagano, ma accetta di andare a cercare la salvezza altrove, anche da altro Dio diverso dal suo.
Anche il Vangelo di oggi stupisce per lo squarcio che apre nel rigido tessuto della mia mentalità catto-europea. Circolano malati infettivi e samaritani ( ”Dio ce ne scampi e liberi!”). Era prassi per i lebbrosi avvisare le persone di stare lontani. Ed era prassi che i sacerdoti del Tempio accertassero l’eventuale avvenuta guarigione autorizzando gli impuri ad accedere di nuovo all’assemblea di culto. Gesù è il vero Tempio a cui tutti vengono ammessi. Gesù è il vero sacerdote che riammette nel culto. Quello che ritorna è un samaritano. Luca prosegue nella sua catechesi sui pagani. Per dieci di loro ci fu la guarigione. Per uno di loro ci fu anche la salvezza. Il verbo “Alzati!” (anìstemi) significa «risorgi» e «mettiti in piedi e va’». Gesù non dice «Seguimi», ma semplicemente «Va’». E non è la prima volta. Valérie Le Chevalier scrive[1]: «Occorre ritornare sul fatto delicato che questa fe­de che salva non sfocia sempre nella chiamata esplicita alla sequela, propria del discepolo. Gesù rinvia alla vita ordinaria: “Va’! Torna a casa tua!”. Simmetrica­mente, i vangeli non descrivono mai una chiamata a diventare discepoli in risposta a un atto di fede verso Gesù. Di più: il ritorno al quotidiano è un imperati­vo categorico a cui le persone non possono sottrarsi; soltanto Bartimeo “disobbedisce” a Gesù mettendosi a seguirlo nonostante l’ingiunzione del “Va’!” (Mc 10,52). […] Gesù, in modo inequivocabile, invita queste persone a ritrovare il loro posto, la loro dignità là dove erano escluse, e così dare testimonianza di quell’esperienza di sal­vezza; e ciò senza garanzia né servizio di assistenza da parte sua. Con tali rinvii Gesù sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret, propedeutico alla sua vita pubblica. La “fede che salva” non può dunque essere analizzata in termini di pre-fede, di preparazione o di preliminare a quello che sarebbe considerato l’esi­to, la chiamata del discepolo. Non può essere intesa neppure come una semi-fede, in quanto possiede in­tegralmente quel carattere primordiale e necessario del coraggio di vivere nonostante tutto, del desiderio di essere rimessi in piedi, salvati. È una categoria di fede piena e intera, senza aggiunte da parte di Gesù e dei suoi discepoli. Quel “Va’, torna a casa tua” è definitivo e totalmente gratuito. È il segno misterioso della venuta del Regno, rivelato agli umili e ai picco­li. È tutto il paradosso di quei rinvii che sono come altrettanti granelli seminati».
Nulla fare senza benedire (dire-bene) di Dio.
Nel brano del Vangelo esiste un riferimento all’Eden: i corpi immersi nel caos della malattia ritornano nella bellezza originaria, nella creazione ristabilita. I doni di Dio non sono solo spirituali, ma sono i beni della terra, l’insieme di tutto ciò che forma l’habitat degli uomini (compresa l’amicizia). L’identità dell’uomo consiste nella fruizione di questi beni, accolti e riconosciuti come provenienti dalla benevolenza di Dio, come donati, come grazia.
La tradizione ebraica insegna che qualsiasi rapporto dell’uomo con le cose deve essere accompagnato dalla preghiera di benedizione. Lo stesso dicasi per qualsiasi evento della storia. Prima di nutrirsi di pane l’ebreo credente è tenuto a pregare “Benedetto sei tu Signore nostro Dio, re dell’universo che produci il pane della terra“. E prima di bere un bicchiere di vino ” Benedetto sei tu nostro Signore, re dell’universo, che hai creato il frutto della vite“. Guardando il grano “Benedetto sei tu Signore nostro Dio che crei gli alimenti della terra“. Utilizzando un profumo: “Benedetto sei tu che crei erbe profumate“. Ricevendo una buona notizia :”Benedetto sei tu che sei buono e fai il bene“.
Questo “dire bene”, bene-dire, con cui il credente ebreo ritma la giornata, definisce l’identità di Dio come “Colui che fa il bene”, e l’identità dell’uomo “come colui che ringrazia bene”, e il mondo come “spazio in cui il bene voluto da Dio e destinato all’uomo si concretizza nel quotidiano”. Dove manca questo “dire-bene/bene-dire” va a finire che Dio, l’uomo e il mondo si sfigurano e l’esperienza paradisiaca dell’Eden diventa infernale. Adamo ed Eva cessano il rapporto paradisiaco quando cessano la benedizione e vogliono diventare proprietari e padroni dei beni. Chi è incapace di dire-bene è incapace di godere del bene e stare bene. Gesù si presenta come colui nel quale Dio vuole continuare ad essere il Dio dei beni donati. Per questo il lebbroso torna per “rendere gloria a Dio“.
La riforma liturgica ha fatto passare da 16 a 81 i Prefazi, quella solenne preghiera a cui facciamo seguire il canto del “Santo”: non ci dice nulla? Ciò è avvenuto per poter motivare più esistenzialmente la lode riconoscente ed esprimere la coscienza di essere inseriti, qui e oggi, nella storia della salvezza. Il cristiano non è colui che “chiede grazie”, ma colui che “rende grazie”. L’uomo eucaristico, l’uomo della riconoscenza, è l’opposto dell’individuo che rivendica, pretende, reclama, conquista. Essere uomini/donne eucaristici significa pensare la vita non come un prendere ma come un ricevere. Occorre essere capaci di sorpresa, di gioia, di capacità di scrutare negli avvenimenti la benevolenza di Dio. Diamo tutto troppo per scontato, dalla vita alla amicizia, dalla Parola di Dio al Pane eucaristico, alla pace. E soprattutto siamo troppo ingessati, immusoniti, lugubri.
Nei racconti rabbinici si tramanda una parabola efficace: «Il mio rabbino mi ha spesso raccontato la storia di un ebreo fuggito, con la moglie e il figlio, all’Inquisizione spagnola. Era arrivato con una barca in prossimità di un’isola deserta, ma un fulmine colpì la moglie e un’onda trascinò il bambino in mare. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, l’ebreo si mise ad errare sulle rocce dell’isola, con le mani elevate verso Dio dicendo: « Dio d’Israele, sono finito; eppure voglio compiere i tuoi comandamenti e santificare il tuo nome. Ma tu hai fatto di tutto perchè io non creda più in te. Pensavi di riuscire a tagliarmi la strada? Bene, allora ti dico, mio Dio, no, tu non ci riuscirai. Puoi colpirmi, prendermi i miei beni, quello che più mi è caro al mondo, puoi torturarmi a morte: crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado»[2].
La fede é anche questo per chi desidera il Dio dei beni, più che i beni di Dio. Ma oggi celebriamo la fede come benedizione e riconoscenza; come riconoscimento che “grandi cose ha fatto il Signore per noi”. Dire grazie é uno dei gesti fondamentali della vita di relazione. Dire grazie dona senso e bellezza alla vita; é innanzitutto la riconoscenza a qualcuno che ti fa vivere. E’ la consapevolezza di un dono che ti benefica prima ancora che tu possa meritarlo o ricambiare. Come scrive Deuteronomio 8:  [1]Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. [2]Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto. Egli ti ha nutrito di manna, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie perché sta per farti entrare in un paese ricco di torrenti, frumento, orzo, viti, fichi, melograni, ulivi, olio e miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla e benedirai il Signore Dio tuo. Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do. Quando avrai mangiato a sazietà, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà  la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri.

Il Talmud[3] ebraico (Trattato delle benedizioni, 35a) scrive:Non godere dei beni di questo mondo senza dire una benedizioneNella nostra educazione cattolica tradizionale, le benedizioni del cibo, della casa o del matrimonio erano intese come rimedi di un male o di una insufficienza: come se le cose umane fossero maledette o impure senza benedizione. Nel Talmud la benedizione è ringraziamento, è stupore: si benedice Dio, non la cosa che viene da lui.
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[1] Valérie Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, 2019, pagg.62-63
[2] G.F.Ravasi Il libro dell’Apocalisse EDB, pag 114
[3] Talmud significa “istruzione”; è una raccolta di commenti rabbinici e note sulla Mishnah che è la tradizione orale ebraica.




Domenica 27a. 06 ottobre 2019
SIGNORE, MIGLIORA LA NOSTRA FEDE. Don Augusto Fontana

Una ragione della debolezza della nostra fede è la smentita da parte dei fatti. Le cose nella nostra vita, pubblica e privata, vanno in modo diverso da come ci si aspettava o da come era stato promesso da Dio. La fede pare non modificare nulla: non solo non muove le montagne o i gelsi, ma non sposta nemmeno un calcolo della cistifellea. E’ la crisi del profeta Abacuc: <Perchè, Signore, mi fai vedere iniquità e resti spettatore di oppressione?>.Quando si crede nel Padre, in Gesù e nello Spirito Santo tenendo il giornale in mano, si capisce subito che la fede è coinvolta, viene compromessa nello scandalo.

 Preghiamo. O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senapa, donaci l’umiltà del cuore, perché, cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi inutili, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore. Per Gesù Cristo, il nostro Signore. Amen.

Dal libro del profeta Abacuc 1,2-3; 2,2-4
Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Il Signore rispose e mi disse: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà”. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.

Sal 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.

Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

 Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 1,6-8.13-14
Carissimo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.

Dal Vangelo secondo Luca 17,5-10.
[vv.1-4 omessi dalla liturgia: Disse ancora ai suoi discepoli: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai»].
Allora gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili (senza utile). Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

SIGNORE, MIGLIORA LA NOSTRA FEDE. Don Augusto Fontana
Una ragione della debolezza della nostra fede è la smentita da parte dei fatti. Le cose nella nostra vita, pubblica e privata, vanno in modo diverso da come ci si aspettava o da come era stato promesso da Dio. La fede pare non modificare nulla: non solo non muove le montagne o i gelsi, ma non sposta nemmeno un calcolo della cistifellea. E’ la crisi del profeta Abacuc: <Perchè, Signore, mi fai vedere iniquità e resti spettatore di oppressione?>. E’ la domanda tipica della preghiera di lamento:<Fino a quando?>. L’espressione ebraica “gridare aiuto” indica l’uomo in fin di vita, ma di solito corrisponde più ad un vero e proprio reclamo che ad una preghiera di soccorso, come griderà Giobbe (19,7): «Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia». Sono passati 28 secoli dal profeta Abacuc e 21 secoli da Gesù e la “scadenza” promessa tarda ancora a venire. Quando si crede nel Padre, in Gesù e nello Spirito Santo tenendo il giornale in mano, si capisce subito che la fede è coinvolta, viene compromessa nello scandalo.
Una promessa che geme come una partoriente.
Il libro di Abacuc è un libretto di soli 3 capitoli per una delle ultime cerimonie liturgiche del Tempio prima che Gerusalemme venisse distrutta (586 a.C.). La tragedia la si sente nell’aria. I Caldei minacciano la città e il re Joakim sta esercitando sulla regione di Giuda una forte tirannia. Il popolo si riunisce nel tempio e domanda al profeta di esprimere a Jahwè il suo lamento. Il profeta presenta 3 reclami: «Signore sei distratto e non vedi e non senti; Signore, ci hai insegnato la giustizia e così ci hai reso ancora più sensibili alle ingiustizie; Signore, con il tuo assenteismo io potrei perdere la fiducia in te».
Il profeta, tuttavia, dopo tanto realismo, si apre ad una dimensione di speranza. Egli è come sentinella che si sforza di vedere in lontananza da un punto di osservazione che non viene ben definito, ma che potrebbe essere il Tempio o il silenzio della coscienza o la Parola. Da questo punto di osservazione egli riceve una Rivelazione: il termine ebraico CHAZON è da tradursi con RIVELAZIONE più che con VISIONE perchè nella fede c’è il sopravvento dell’udire sul vedere. Anche se la rivelazione deve essere scritta su un documento ufficiale e verificabile (“tavoletta”).
La rivelazione SI AFFRETTA, INCALZA (2,2-3) cioè, “respira con affanno, sbuffa come una partoriente”; come una nascita può avere qualche ritardo, così si può ritardare l’avverarsi della rivelazione, ma si tratta solo di tempo. Nasce allora la fede come pazienza e fedeltà che si nutre del ricordo delle azioni passate di Dio. Il giusto rimane in vita perchè si ABBARBICA a Dio. Il termine HAMAN (= credere) indica il RIMANERE SALDO. Il giusto prende sul serio Dio in quanto Dio. La fede diventa il coraggio di resistere. Da “fede” deriva “fedele”, cioè colui che non fa resa, ma resistenza. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostre fede» ( I Giovanni 5,4). La fede non è più un potere, un punto esclamativo, ma un interrogativo sempre aperto, anche nel cuore di Dio: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
AAA. Adulti nella fede cercasi.
Gesù aveva messo un’ipoteca sull’uso dei nostri beni e sul nostro rapporto con i poveri (lo abbiamo ascoltato nelle due domeniche scorse). Ora (versetti 1-4, omessi, ahimè, dalla liturgia di oggi) pronuncia parole dure per chi semina scandalo e invita a perdonare anche fino a sette volte al giorno. Omettendo quei 4 versetti non si capisce bene questa improvvisa preghiera/esclamazione dei discepoli “Aggiungici fede!”. Il Signore chiedeva davvero cose impossibili: «non lasciatevi risucchiare dal comportamento conformista, perdonate sette volte al giorno». Ce n’era a sufficienza perchè i discepoli restassero a bocca aperta sentendosi deboli e inadeguati. Per questo intuiscono che la fede va pregata, invocata: “Signore aumenta la nostra fede, dacci ancora la fede, aggiungici fede”. A dire il vero, Pietro una volta aveva tentato di gonfiare i pettorali e alzare le piume come un galletto in amore, quando il Signore gli aveva detto: «Pregherò per te povero amico mio!». E lui: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». E si era beccato sui denti una mazzata umiliante: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» (Lc 22,33-34).
Anche per i primi apostoli e discepoli la fede non è un atteggiamento garantito, inerte, dato una volta per sempre. La fede è sempre “poca” e noi siamo sempre “uomini di piccola/poca fede”. Gesù non ha mai chiamati i suoi: “monsignore, eccellenza, santo padre, reverendo, santità….”. Sembra che Gesù ci voglia chiamare, senza tante scuse, con un unico titolo nobiliare: “Gente di poca/piccola fede”. Matteo e Luca ce lo hanno più volte ricordato: «Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,30); «Ed egli disse loro:Perché avete paura, uomini di poca fede? Quindi alzatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia» (Mt 8,26); «E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14 31); «Gesù chiese: «Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete pane?»(Mt 16, 8); «…avete poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa[1], potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20); «Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede?» (Lc 12,28).
E’ forse per questo che Gesù, rivolto a Simone e quindi a tutti noi, promette:« Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (Lc 22, 31-33).
Il problema oggi è che noi adulti siamo adulti di età, ma infantili nella fede. La fede dovrebbe crescere con l’età, di pari passo con i problemi gravi del vivere quotidiano, per resistere ai venti delle crisi. Non si tratta di aumentare la “quantità” della fede, ma la sua “qualità”; oggi potremmo pregare così: «Signore, migliora la nostra fede, rendila adulta».
«Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta le cose della terra e abbiamo rinunciato a possederle, le abbiamo restituite alla volontà di Dio»[2]. Essere adulti oggi è un compito difficile. Un tempo l’adulto appariva come colui che era «cresciuto», aveva portato a compimento i progetti della sua giovinezza, aveva fatto delle scelte chiare e irrevocabili. In questa visione l’adulto si sente «completo», è l’uomo che pensa di non aver più nulla da imparare, che si considera ormai arrivato e realizzato. Il nostro tempo invece ha scoperto l’incompiutezza dell’adulto, le sue crisi di mezz’età (midlife crisis), la necessità di una formazione permanente che eviti la fissazione delle persone in un ruolo o la stanca ripetizione di gesti e parole consumate dall’uso. Anche l’adulto conosce la paura e l’incertezza; ha dei desideri non realizzati e deve saper accettare i propri limiti. Se questo è vero dal punto di vista psicologico e umano, è tanto più vero in una prospettiva di fede. I documenti ufficiali della chiesa riconoscono che gli adulti «sono soggetti esposti a cambiamenti e crisi talora assai profonde»[3] e dichiarano che quella agli adulti deve considerarsi come «la forma principale della catechesi»[4]. Tuttavia, di fronte a questi solenni enunciati, si deve francamente costatare che si è ancora molto lontani dall’aver dato la priorità alla evangelizzazione e alla catechesi degli adulti, i quali peraltro non si lasciano facilmente “catechizzare”. La catechesi italiana appare ancora sostanzialmente infantile e finalizzata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, che diventano occasione per coinvolgere i genitori in «corsi accelerati» di aggiornamento catechistico. La vita dell’adulto è accompagnata da crisi, anche di fede; anche le crisi possono diventare esperienza spirituale in cui prendere coscienza del «passaggio di Dio» nella vita di ciascuno. L’adulto nella fede è colui che ha radici permeabili, elastiche; è come una pianta che affonda le sue radici nell’humus della Parola e che poi porta frutto: «Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore» (Salmo 94). Ma è anche colui che sa di aver ricevuto tutto, di essere stato perdonato e guarito. Anche il servo della parabola paradossale di oggi è un servo che non può accampare diritti, pretese o crediti nei confronti di Dio. Il testo liturgico di oggi traduce: “siamo servi inutili”. Non è esatto, perché lo schiavo che fa il suo servizio non è “inutile”! Luca, nel suo testo greco, usa il termine achreioi che significa “senza utile”, cioè senza guadagno, gratuitamente. E «se la promessa indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà…il giusto vivrà per la sua fede/fedeltà». Praticamente: una fede adulta.
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[1] Un grano piccolissimo di senapa produce, in Palestina, sul lago di Tiberiade, un albero di 4 metri (Matteo 13, 32).
[2] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù
[3] Direttorio generale della catechesi, 1997

[4] Catechesi tradendae, n.43




Domenica 26a. 29 settembre 2019
IL MIO PARADISO DIPENDE DA LAZZARO. D. Augusto Fontana

Ho incontrato Marco. Non è cambiato. Nel senso che si fuma ormai da 10 anni i suoi due pacchetti di sigarette al giorno, si scola grappini e bianchetti come giaculatorie e, siccome fa il benzinaio, si idrocarbura quotidianamente con metri cubi di esalazioni petrolchimiche. Che Dio gliela mandi buona; ma mi pare che il suo futuro prossimo sia ipotecato. Senza voler essere fatalisti: il nostro domani (individuale e collettivo, ecologico e politico, spirituale ed economico) ce lo giochiamo nell’oggi. Anche per l’Evangelista Luca il tempo della Chiesa, il tempo storico che ciascuno vive, l’oggi, è abitato dal Risorto e quindi diventa un tempo decisivo, da viversi nella coscienza che il domani è già nell’oggi

Preghiamo. O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per Gesù Cristo nostro Signore

Dal libro del profeta Amos 6,1.4-7
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Sal 145 Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 6,11-16
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31
Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

IL MIO PARADISO DIPENDE DA LAZZARO. D. Augusto Fontana

Ho incontrato Marco. Non è cambiato. Nel senso che si fuma ormai da 10 anni i suoi due pacchetti di sigarette al giorno, si scola grappini e bianchetti come giaculatorie e, siccome fa il benzinaio, si idrocarbura quotidianamente con metri cubi di esalazioni petrolchimiche. Che Dio gliela mandi buona; ma mi pare che il suo futuro prossimo sia ipotecato. Senza voler essere fatalisti: il nostro domani (individuale e collettivo, ecologico e politico, spirituale ed economico) ce lo giochiamo nell’oggi. Anche per l’Evangelista Luca il tempo della Chiesa, il tempo storico che ciascuno vive, l’oggi, è abitato dal Risorto e quindi diventa un tempo decisivo, da viversi nella coscienza che il domani è già nell’oggi, che saremo ciò che siamo, che urgono decisioni sagge, quasi scaltre come quelle che i figli delle tenebre sanno usare per approfittare sempre e di tutti o ridurre i danni in caso di crisi incombente.
Luca, tra le sue “ossessioni”, annovera quella dei poveri e del denaro: la posizione del discepolo davanti al povero e al denaro risulta decisiva ai fini del trasferimento della risurrezione nell’oggi. Di Luca conosciamo il brano del RICCO STOLTO (12,13-21), dell’AMMINISTRATORE SCALTRO E SAPIENTE (16,1-13), di ZACCHEO (19,1-10), la serie di GUAI nelle sue Beatitudini (6,24-26), la storia di ANANIA e SAFFIRA (Atti degli Apostoli 5,1-11) e soprattutto la proclamazione messianica di Gesù nella SINAGOGA DI NAZARET (4,14-30). A questa sua “ossessione” appartiene anche il brano di oggi: la sorte del NABABBO STRAVACCATO dipende dal povero Lazzaro (16,19-31).
La Bibbia non è nuova a queste denunce.
Il brano di Amos, riportato nella liturgia odierna, non è che un frammento di un vasto repertorio di denunce profetiche di cui abbiamo già avuto un assaggio domenica scorsa. Amos è un contadino pecoraio. Interviene nel Regno del Nord sotto Geroboamo II. La congiuntura politica ed economica di questo VIII secolo a.C. ha causato nel Regno del Nord, come in quello del Sud, una profonda frattura tra la classe dei garantiti, che hanno maggior profitto dagli avvenimenti, e la classe dei poveri, più indifesi che mai. Amos si rivolge ai garantiti che sono indifferenti (non vedono e non sentono) di fronte alle povertà e usa il genere letterario della “Invettiva” che è composta da un vero e proprio giudizio a cui fa seguito una sentenza. Il profeta intuisce, dai segni dei tempi, che Israele sta camminando verso la rovina; il “Giorno di Jahwè” coglierà di sorpresa quelli che fanno baldoria e si appoggiano a false sicurezze. Si rivolge a loro con il termine “Guai” o meglio sarebbe dire “ahimè” (in ebraico hoj) che è il tipico urlo di lamento in occasione di riti funebri; quindi sembra voler avvertire che costoro si mettono fuori dal regno della vita. Amos paga con l’espulsione. Di fatto nel 722 il re di Assiria, Sargon II, rade al suolo Samaria, capitale del Nord, e i rammolliti sono costretti ad alzarsi dai loro divani e a scorticarsi i piedi delicati lungo le strade sassose della deportazione in Mesopotamia. La confraternita degli stravaccati aprirà il corteo degli esiliati. I primi nella ricchezza sono i primi nell’esilio. Ormai è troppo tardi per correre ai ripari.
Luca costruisce la Parabola esemplificativa dividendola in due quadretti: uno si costruisce intorno alla tavola ed ha come protagonisti il ricco (anonimo perchè ci rappresenta tutti) e Lazzaro (El-azar in ebraico significa “Elohim[Dio]-aiuta”); l’altro si costruisce attorno ad Abramo ed ha come protagonisti anche i 5 fratelli del ricco. E’ un po’ come la parabola del Padre misericordioso che mette in campo il figlio minore e quello maggiore in due sezioni dello stesso racconto.
Luca non fa il moralista. Non gli interessa puntualizzare se il ricco e Lazzaro sono buoni o cattivi. Li coglie brutalmente nella loro condizione sociale: da una parte c’è chi si veste e mangia bene in casa propria e dall’altra c’è uno senza casa, nudo, affamato, malato, con l’unica compagnia dei cani che, essendo considerati animali impuri, gli trasmettono l’impurità rituale e sociale. Il rovesciamento delle sorti è prefigurato non come effetto di vizi o virtù, ma in base ai rapporti che gli uomini hanno tra loro e quindi con Dio.
La Parabola ha un chiaro riferimento cristologico: chi è questo Lazzaro se non Gesù, le cui piaghe sono leccate dai pagani (considerati dei “cani impuri” dai giudei)? Come si fa a non intravedere Gesù la cui situazione viene ribaltata da Dio con la risurrezione?
Ma la parabola è densa anche di catechesi per la Chiesa:

1- Quando entra il Regno di Dio e le sue logiche, le situazioni si ribaltano. I garantiti si dimostrano fisiologicamente incapaci di optare per le nuove logiche introdotte da Gesù. I poveri sono potenzialmente più aperti ad esse. Ciò non significa che Lazzaro non desiderasse, segretamente, di diventare come il ricco; questa è la beffa maggiore: le società dei consumi hanno drogato le coscienze dei poveri.

2- Si viene salvati non dai miracoli, ma dall’ascolto della Parola di Dio. Nel vangelo di Giovanni si narra che di fronte alla rianimazione di un altro che aveva stranamente lo stesso nome (Lazzaro), non è garantita la conversione, anzi “da quel momento decisero di uccidere Gesù”. Il tempo della chiesa è il tempo nostro, fratelli del ricco anonimo, per accettare le provocazioni urgenti della Parola di Dio.

3-Quale fu il peccato del ricco? Non quello di essere ricco, né di aver rubato. La sua colpa non consiste in ciò che ha fatto, ma in ciò che non ha fatto. Non ha visto Lazzaro e quindi non lo ha amato. L’autosufficienza mette in condizione di peccato strutturale. I poveri dipendono dalla mollica di pane che i ricchi lasciano cadere dopo essersi pulite le dita, visto che non si usavano posate. Ora la posizione si ribalta: la sorte dei ricchi dipende da Lazzaro. Dipendiamo dai poveri, abbiamo bisogno di loro per de-satellizzarci e divenire capaci di accogliere il TUTT’ALTRO. Abbiamo bisogno delle piaghe di Gesù.

4- La parabola non è un invito a rassegnarsi, a non indignarsi contro l’ingiustizia aspettando solo un al di là nel quale Dio regolerà tutti i disordini e gli eccessi umani. Inteso così, il messaggio evangelico favorirebbe un conformismo spregiudicato che aiuterebbe a mantenere il disordine stabilito. Certo: la parabola è una promessa per il futuro, ma guarda alla vita presente e viene rivolta ai cinque fratelli del ricco, a chi, come noi, viene concesso ancora un po’ di tempo, come a quel fico sterile della parabola di Luca (cap 13,6-9): «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

5- Il Dio dei profeti e di Gesù non è amico di una religione che separa il culto dalla vita, l’incenso dalla pratica dell’amore al prossimo. Questo Dio, secondo il Salmo 145 di oggi, condivide la sorte del povero, dell’orfano, della vedova e dello straniero; con tutti quelli a cui i potenti hanno ridotto il diritto di una vita vissuta con dignità. Scrisse Georges Bernanos: “Io affermo che i poveri salveranno il mondo e che lo salveranno senza volerlo, lo salveranno nonostante se stessi e che non chiederanno nulla in cambio, semplicemente perché non sapranno il prezzo del servizio che hanno prestato”. L’Abbe Pierre disse che a distruggere il mondo non sarà né il terrorismo, ma la rabbia dei poveri. Persino James Wolfensohn, Presidente della Banca Mondiale dal 1995 al 2005 ha percepito la gravità di questo infernale meccanismo che lui stesso ha contribuito ad oliare: «Se non agiamo adesso, nei prossimi anni le disuguaglianze saranno gigantesche e si trasformeranno in una bomba ad orologeria che esploderà in faccia ai nostri figli». Che è come dire: se non per convinzione, facciamolo almeno per paura.




Domenica 25a. 22settembre2019
AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI. Don Augusto Fontana

Quante volte hai visto dai telegiornali le forze dell’ordine che, dopo aver scoperto bunker segreti scavati dai mafiosi sotto ville o terreni, mostravano tra gli arredi anche Bibbie consunte contornate da murales di immaginette sacre da far invidia ai migliori santuari. Come dire: Dio in una mano e il sangue di Abele o il pizzo estorto nell’altra. Ma io, che mafioso non sono, non mi sento poi così tranquillo in coscienza, in qualità di amministratore dei beni consegnatimi dal mio Signore. Le tre letture della Messa odierna concentrano la loro attenzione in modo curioso su una figura oggi molto attuale e discussa: quella dell’amministratore.

 Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla avidità delle ricchezze, e fa’ che, alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Amos 8,4-7.
Ascoltate queste parole, voi che schiacciate i poveri e trattate gli umili come prigionieri di guerra. Proprio voi che dite: «Quant’è lungo il sabato! Ma quando finisce la festa della luna nuova? Noi dobbiamo vendere il nostro grano! Possiamo aumentare i prezzi, falsificare le misure e truccare le bilance. Venderemo anche il grano di scarto! Ci saranno certamente dei poveri che non possono pagare i loro debiti, neppure per un paio di sandali. Allora li compreremo come schiavi». Per l’arroganza dei discendenti di Giacobbe il Signore ha giurato: «Non dimenticherò mai i loro misfatti».
Sal 112 Benedetto il Signore che rialza il povero.
Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore.

Sia benedetto il nome del Signore, da ora e per sempre.
Su tutte le genti eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria.
Chi è come il Signore, nostro Dio,  che siede nell’alto
e si china a guardare sui cieli e sulla terra?
Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero,
per farlo sedere tra i prìncipi, tra i prìncipi del suo popolo.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 2,1-8.
Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
Dal Vangelo secondo Luca 16,1-13.
Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI. Don Augusto Fontana

Quante volte hai visto dai telegiornali le forze dell’ordine che, dopo aver scoperto bunker segreti scavati dai mafiosi sotto terreni e coltivazioni, mostravano tra gli arredi anche Bibbie consunte contornate da murales di immaginette sacre da far invidia ai migliori santuari. Come dire: Dio in una mano e il sangue di Abele o il pizzo estorto nell’altra. Ma io, che mafioso non sono, non mi sento poi così tranquillo in coscienza, in qualità di amministratore dei beni consegnatimi dal mio Signore.
L’importanza di chiamarsi furbi[1]
Le tre letture della Messa odierna concentrano la loro attenzione in modo curioso su una figura oggi molto attuale e discussa: quella dell’amministratore.
In verità, la liturgia ci offre tre differenti profili di questa professione:

  • l’amministratore di beni propri (1a lettura)
  • l’amministratore delegato (Vangelo)
  • il pubblico amministratore (2a lettura).

Sappiamo tutti anche troppo bene che una tentazione abbastanza comune tra chi amministra qualsiasi genere di bene materiale è quella della disonestà. I giornali e la TV ci presentano ogni giorno una rassegna incredibile di furberie e scaltrezze di ogni genere, mirate al raggiungimento di un solo obiettivo: l’esclusivo profitto e interesse personale. S. Paolo esorta a pregare intensamente per tutti i pubblici amministratori, perché non cadano in questa tentazione e ci garantiscano pace e giustizia.
Ma anche la furbizia (quella disonesta!) nell’ambito del privato viene stigmatizzata duramente. Nella prima lettura Amos ci riporta queste gravi parole del Signore: “Mai dimenticherò le opere loro”. E Luca ci riporta il “titolo onorifico” con cui Gesù aveva lodato il protagonista della sua parabola: “amministratore di ingiustizia”. Non ci deve scandalizzare il fatto che Gesù stesso, nel Vangelo (Mt 10,16), ci esorti: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Ovviamente la Parola di Dio condanna tutto ciò che è disonesto e fraudolento, ma ci offre oggi nel Vangelo una chiave di riflessione originale sul tema della saggezza/furbizia.
Fede “low cost”.
Oggi impazzano i viaggi “low cost”, a basso costo; ci abbiamo fatto l’abitudine e il giochino ha infettato tutto, anche la mia dimensione di fede, la mia condizione di discepolo: sono un cristiano/prete “low cost” o, come ho detto in altre occasioni, ho una “fede light”, leggera come certi formaggi senza grassi.
L’incombere della persecuzione o della continua venuta di Cristo poneva la comunità di Luca nella necessità di essere pronti a decisioni rapide, efficaci, efficienti e talvolta estreme. Anche noi oggi desidereremmo essere efficaci. Ma quando un cristiano e un non cristiano pronunciano la parola “efficacia” parlano la stessa lingua? Gesù, per esempio, ha detto: «Senza di me non potete far nulla, come il tralcio che non sta attaccato alla vite».
Ci viene richiesto di partecipare al culto, di pregare: quando una preghiera é efficace?
Siamo chiamati non a ritirarci dal mondo, ma ad essere nel mondo senza essere del mondo. Spesso il nostro cuore pulsa nelle vicinanze del borsellino (Luca 12,34: Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore). Come possiamo nutrire una spiritualità pasquale amministrando la nostra vita quotidiana? Nel XIV secolo lo scrittore mistico domenicano Giovanni Taulero, nella festa di Ognissanti parlava dei laici così:«Viene infine la folla della gente comune che va a Dio nelle cose e con le cose».
La Pasqua che celebriamo ricrea urgenze, disarciona le sicurezze, demitizza i nostri assoluti, rinfranca gli umili sapienti e i poveri di cuore e di mani.
Riascoltiamo le Letture.
Amos é un pastore. Viene riconosciuto profeta al di fuori delle confraternite ufficiali dei profeti. Siamo nel 750 circa a.C. Le guerre dell’VIII secolo e i cambiamenti sociali avevano moltiplicato da un lato fiorenti gruppi di trafficanti al mercato nero e usurai e dall’altro gente che si rovinava e che veniva sfruttato. Ma il problema più grave era che gli approfittatori andavano al tempio oppure approfittavano del riposo festivo per tramare sfruttamenti e inganni. Amos enumera le contraddizioni di questi uomini religiosi ma non pii: truccare le bilance, diminuire le misure, aumentare i prezzi. Ma poi non parla solo di merci; parla anche di uomini trattati da merce. Culto e ingiustizia per i profeti è come un incesto, un tabù. Paolo raccomanda di pregare con mani pure, senza ira e senza conflitti.
Luca 16, 1-13 (meglio se fino al v. 16:«[14]I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e ridevano di lui. [15]Egli disse: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio. [16]La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi»).
Luca sta illustrando la polemica di Gesù contro i farisei di tutti i tempi, ma anche il comportamento che i discepoli devono assumere nel tempo che precede la manifestazione finale di Gesù.
Sarebbe grave che non ci accorgessimo del tempo di emergenza e ci adagiassimo stupidamente accomodandoci nella logica della stoltezza, come dice il Salmo 49, 13: «L’uomo nella prosperità non capisce. E’ come una bestia».
Domenica prossima celebreremo la parabola del ricco e del mendicante Lazzaro, strettamente congiunta alla lettura biblica di oggi.
Questa prossimità del regno crea la necessità di agire «con forza». Matteo (11,12) scrive: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli è preso a forza (in greco: biazetai) e i violenti (in greco: biastai) se ne impadroniscono». Anche Luca usa la stessa terminologia al v. 16: «viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi».
Si entra nel Regno “con forza, con violenza”, cioè occorre essere avveduti con lucidità, cercare una soluzione, prendere decisioni, restare fedeli nella decisione.
Mettiamo in chiaro innanzitutto alcuni termini:

  • Se vogliamo dare un titolo a questa parabola, non sarà certo “La parabola dell’amministratore infedele” ma piuttosto “dell’amministratore avveduto/saggio”. Alcuni esegeti dicono che, secondo la legislazione giudaica, l’amministratore poteva applicare sul recupero debiti una provvigione per sé che però doveva essere giusta e non usuraia; questi autori suppongono quindi che la quota cancellata dall’amministratore riguardi la provvigione usuraia che egli aveva imposto ai debitori; il danneggiato, dunque non sarebbe il padrone[2]. E’ giusto dire che questa interpretazione non convince altri esegeti e si armonizza poco con il contesto narrativo. Comunque sia, l’amministratore è stato saggio perché ha agito tempestivamente di fronte all’urgenza che incombeva sulla sua vita.
  • L’amministratore é saggio (e non “scaltro”). Il termine greco “fronimòs” viene dal vocabolario biblico sapienziale ed é applicato dai vangeli a colui che vive con sapienza evangelica dentro le urgenze createsi con la venuta di Gesù.
  • Mammona: in ebraico mamōn e in aramaico māmônā sono termini la cui radice linguistica ‘aman ci porta al significato di “fidarsi, credere”. Mammona di iniquità allora é ciò in cui ti fidi, ma poi ti pianta in asso. E’ tutto l’opposto della parola AMEN che significa credere, fidarsi della roccia su cui appoggio il piede.
  • Contrapposto a disonesto é “fedele”. Amministratore disonesto, é come dire “amministratore che appartiene alla logica di questo mondo”. L’iniquità non é guadagnare con imbroglio ma anche contare sulla ricchezza guadagnata onestamente. Tra l’altro mi chiedo spesso: quale ricchezza é guadagnata onestamente?

Allora:
Approfittare del tempo per mettere ordine nelle cose, scegliendo quelle eternizzabili, per esempio i rapporti umani: «fatevi degli amici!».
Siate saggi amministratori dei beni terreni, se volete che Dio vi consegni i beni del Regno.
Siate avveduti, decisi e fedeli.
Così si attende la beata speranza e che venga il Regno del nostro Signore Gesù Cristo.
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[1] di Alvise Bellinato
[2] Radermakers-Bossuyt, LETTURA PASTORALE DEL VANGELO DI LUCA, EDB, Pag.352