domenica 24a – 15 settembre 2019
GESU’ TRA PERDUTI E RITROVATI. D.Augusto Fontana

E il popolo disse: «Dio ci hai deluso! Addio». E Dio rispose: «Anche voi. Sono arrabbiatissimo. Arrivederci». E Mosè disse a Dio: Ricordati che sei un Dio di misericordia…sennò distruggi anche me insieme al tuo popolo». E Dio rispose: «Va beh! Ho un po’ esagerato. Mi pento. Ricominciamo, ma questa volta seriamente, testoni!».
Il Signore sta per concludere un patto con il suo popolo attraverso un documento che consegna nelle mani di Mosé:
“le due tavole della testimonianza” (Es 31,18). Mentre Mosè è sul Sinai per molti giorni, il popolo sperimenta il silenzio di Dio e si impaurisce poiché, come me, non ha ancora imparato a fidarsi di Dio. Il Dio di cui fidarsi, è un Dio silenzioso, nascosto, non rappresentabile in nessuna forma.

Preghiamo. O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non hai abbandonato il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal libro dell’Èsodo 32,7-11.13-14.
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».  Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla testa dura. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
 Salmo 50. Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1,12-17
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 15,1-32
Si
avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

GESU’ TRA PERDUTI E RITROVATI. Don Augusto Fontana

E il popolo disse: Dio ci hai deluso! Addio
E Dio rispose: Anche voi. Sono arrabbiatissimo. Arrivederci.
E Mosè disse a Dio: Ricordati che sei un Dio di misericordia…sennò distruggi anche me insieme al tuo popolo.
E Dio rispose: Va beh! Ho un po’ esagerato. Mi pento. Ricominciamo, ma questa volta seriamente, testoni![1]

Il Signore sta per concludere un patto con il suo popolo attraverso un documento che consegna nelle mani di Mosé: ” le due tavole della testimonianza ” (Es 31,18). Mentre Mosè è sul Sinai per molti giorni, il popolo sperimenta il silenzio di Dio e si impaurisce poiché, come me, non ha ancora imparato a fidarsi di Dio. Il Dio di cui fidarsi, è un Dio silenzioso, nascosto, non rappresentabile in nessuna forma. Il popolo convince Aronne responsabile del culto: “Fa per noi un Dio che cammini alla nostra testa perché a Mosé, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto” (32,1). E, alla fine, il popolo dice: “Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto“. Da tempi remoti il toro era, in Egitto, l’immagine del grande Dio Ptah dal quale dipendeva la fecondità dei campi e degli animali. Per il popolo d’Israele, un’immagine poteva essere il tentativo di possedere quel Dio che li ha liberati (v.8). Di qui la delusione di Dio che disconosce il popolo come “suo”. Mosè conosce il cuore di Dio e “cominciò a supplicare“, ma il verbo significa piuttosto “incominciò ad accarezzare il volto del Signore“. Mosé accetta di essere il figlio amato che gioca con il padre e usa tutte le sue risorse per poter riportare il padre ad un sorriso e dice: “Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il tuo proposito“. Il testo conclude: ” Il Signore si pentì del male che aveva minacciato “(32, 14).
Eppure nella vicenda del perdono di Dio c’è un episodio umano tragico, una torsione che mi lascia interdetto: Mosè gridò [ai leviti]: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: ognuno uccida il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo» (Esodo 32,27-28). Lo zelo religioso è peggiore dell’intransigenza di Dio? La Bibbia mi provoca domande.
Il testo di Es 34,7-8 ci rivelerà i tredici attributi divini, un condensato di ciò che la Bibbia di Israele pensa di Dio: «Il Signore (YHWH) – Dio – misericordioso – compassionevole – lento all’ira – grande nell’amore – e nella fedeltà – che conserva la sua grazia per mille generazioni – toglie l’iniquità – (toglie) la colpa – (toglie) il peccato – ma non lascia senza punizione – punisce la colpa dei padri nei figli…».
Due soli attributi sono dedicati al Dio che punisce e fa giustizia, mentre ben undici attributi descrivono il Dio della misericordia e del perdono.
Il testo del Vangelo di Luca ci porta un po’ di calma al cuore che si interroga e teme. Non il vitello d’oro né lo zelo della religione, ma Gesù è l’immagine del Dio vivente, amico dei pubblicani e dei peccatori.
Osserviamone alcuni squarci.
Insoddisfazione.
Ti riporto un efficace annotazione del mio amico don Nando, a commento del cap. 15 di Luca: «Viene rimarcato un avvicinarsi a Gesù da tutte le parti: ma con scopi e con esiti molto diversi. C’è un avvicinarsi per “ascoltare” e c’è un avvicinarsi per “brontolare”. Questo viene rimarcato molto bene dal testo greco: enghizò (avvicinarsi) e gonghizò (brontolare). Come dire: apparentemente tutti si avvicinano a Cristo, ma quando lui si rivela allora si manifesta chiaramente il “perché” lo si va cercando. Come non sottolineare la perenne attualità – nella storia della Chiesa, ma non solo – di questa annotazione di Luca? Dunque, quello che crea separazione tra l’ “avvicinarsi” e il “brontolare” è proprio questo dato di fatto: «accoglie i peccatori e mangia con loro». Quello che crea problema non è tanto quello che Gesù dice, ma quello che Gesù fa. E’ il suo operato che rivela il Padre! La Prima Parola-di-Dio è lui. Prima, dunque, di chiedermi se sono tra le 99 pecore o sono quella smarrita, se assomiglio al figlio maggiore o al figlio minore, debbo chiedermi: “Sto cercando Dio? Per quale motivo mi avvicino a Cristo? Perché lo cerco? Cerco delle parole che eventualmente confermino quello che già penso di Dio oppure cerco una persona per accogliere la sua esistenza, un uomo appeso ad una croce?“. La Chiesa di Luca ha corso un grosso rischio: dimenticare che la Chiesa è una comunità di peccatori e non una Setta di giusti. Il capitolo 15 è rivolto a colui che si considera “giusto”. E l’invito è rivolto a lui perché non rimanga vuoto il suo posto alla mensa del Padre».

Allontanamento.
Il popolo si allontana presto dall’adorazione dell’Unico Signore («non hanno tardato ad allontanarsi dalla via chi avevo loro indicata»). Saulo si è allontanato diventando «bestemmiatore …lontano dalla fede…persecutore…violento» a servizio della causa di Dio (come molti di noi oggi?). La pecora si è allontanata dall’ovile e si perde (1 su 100). E poi c’è la donna che perde una delle sue dieci monete (1 su 10). Infine ecco il figlio scapestrato che si è allontanato dalla casa paterna (1 su 2). Ma non basta: c’è pure il figlio maggiore che è «lontano» anche se non ha mai lasciato la casa e il lavoro. La sua fedeltà, infatti, è puramente formale, priva di gioia e di amore; e il suo cuore si dimostra gretto, scarica suo fratello sulla coscienza del padre («questo tuo figlio… »). E il padre glielo rimanda, non come proprio figlio, ma come suo fratello da amare («questo tuo fratello… »). Forse i lontani più irrecuperabili sono quelli che bazzicano, irreprensibili, in casa, ma faticano ad abbandonare i rigidi schemi di un codice di comportamento formale, per «entrare» nella logica folle della misericordia («si indignò e non voleva entrare… »). Noterai il contrasto stridente tra la superba rivendicazione del figlio maggiore («Non ho mai trasgredito un tuo comando») e l’umile confessione di Paolo che si riconosce «il primo» tra i peccatori. Chi non ammette di avere bisogno di perdono, oltre a non sperimentare «la gioia del perdono», non sarà mai capace di dare perdono.

Ricerca
Tra l’allontanamento e il ritorno-conversione, c’è di mezzo un’appassionata ricerca. Mosè fa dei passi in favore di quella razza dal «collo rigido». Il Signore si muove per primo in direzione di Paolo che nella Lettera ai Filippesi (3,12) scriveva «anch’io sono stato afferrato da Gesù Cristo». Il pastore va a cercare la pecora sbandata; la donna «accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente…». Soltanto il padre dell’ultima parabola sembra limitarsi ad aspettare. Ma non è così. Pure lui si è mosso: «gli corse incontro». La conversione è questione di passi. Non soltanto i passi di chi ritorna, ma anche quelli, instancabili, di chi cerca pazientemente, frequenta i luoghi della perdizione, batte tutte le strade, non si rassegna alla lontananza di nessuno. Noi cristiani non possiamo dedicarci a conservare ciò che abbiamo; bisogna uscire dalla stalla, setacciare la casa. Assomigliamo al figlio maggiore della parabola che preferiva l’assenza di suo fratello. Finché nelle famiglie manca un fratello la festa è monca. Con questa strategia pastorale di conservare e custodire ciò che abbiamo, prima o poi perderemo tutto. La promessa di Dio ad Abramo, ricordata nella prima lettura di questa domenica, continua ad essere vera: “moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo…”. Dio parla di moltiplicare e non di dividere o diminuire. La nostra comunità deve essere estroversa per natura.

Festa.
La festa è la conclusione di tutte e tre le avventure. La conversione e il perdono sfociano, non in una penitenza punitiva, in una tetra sala dove sono schierati volti cupi e ammonitori, fredde maschere, ma in un clima festoso. È importante, però, che tutti si sentano coinvolti in questa festa: «Rallegratevi con me». La gioia del ritrovamento va condivisa senza riserve da tutti.

APPENDICE
Caro fratello detenuto,
scusami, innanzitutto, se ti chiamo «detenuto». Lo sei e ne prendo atto. Ma sei ben di più: sei tutta la tua storia che ti ha portato qui accompagnato, se colpevole, dal rancore di chi hai danneggiato o, se innocente, dalla tua impotente rabbia e dalla compassione inebetita di chi sa; sei tutto quello che avresti potuto o voluto essere e che non sei stato; sei tutto quello che noi attendiamo che tu sia; sei tutto quello che sei per coloro che ti amano e ti vogliono bene; sei tutto quello che tu mi hai fatto malinconicamente scorgere mentre guardavo i tuoi occhi umidi o dignitosamente mi hai trasmesso con il tuo sguardo di sfida; sei come Dio o Allah o Gesù ti hanno creato e ti sognano. Oltre tutto questo, sei anche detenuto. Praticamente un desaparecido, scomparso dal video dei nostri talk show quotidiani, un «senza storia», ma non per coloro che ti accudiscono con l’umanità di cui sono capaci. Sarebbe stato meglio che scrivessi questa lettera intestandola a tuo nome, quel nome che rappresenta la tua storia unica e irrepetibile: Mohamed, Luca, Richard, Lisa…Per farmi perdonare ti chiamo «fratello», ma mi accorgo che sto esagerando. Fratello è una parola abusata quando vogliamo acquietare i morsi della coscienza o tentiamo di superare, sul ponte di una parola impegnativa, gli abissi che le nostre reciproche storie hanno creato. Eppure oso dolcificare il nostro sguardo chiamandoti “fratello”, innanzitutto fratello nella debolezza. Ascoltando la tua storia e le sue premesse e le sue circostanze ho riconosciuto che non c’è peccato la cui radice non sia anche in me, non c’è trasgressione a cui anch’io non abbia fatto l’occhiolino, non c’è stupidità umana di cui non riscontri in me una qualche consanguineità; anche l’apostolo Paolo non si vergogna di scrivere «sono stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento…e di tutti i peccatori il primo sono io». Chiamarti «fratello» suona eccessivo per anime verginelle o presunte tali, per custodi gelosi di pubbliche virtù in vizi privati. Fratello è una parola eccentrica e profetica per uomini d’altri tempi, per tempi diversi dal nostro. E Gesù, quello d’altri tempi e del nostro tempo, ti chiama «fratello» con quella sua inflessione responsabilizzante che turba e poi commuove. Anche il Padre della Parabola di oggi (Luca 15,1-32), va incontro al presuntuoso fratello maggiore, che aveva disconosciuto quel balordo di suo fratello minore, e gli dice : «Questo tuo fratello!». Oso dunque destabilizzare e coccolare la tua vita chiamandoti come ti chiama lui: «fratello!». Fratello nei nostri sogni belli, nelle nostre comuni vocazioni al bene, nella nostra comune consanguineità divina, nel nostro comune cammino verso la maturità, nelle comuni risorse annidate nelle grotte più dimenticate del nostro animo o seminate nell’umido terriccio dei nostri sentimenti.  Mi siedo, ora, accanto a te e rileggo con te le pagine della nostra liturgia domenicale. Mi limito ad offrire alcune tracce di lettura. Sembra che siano quattro gli elementi comuni a tutte le letture: l’insoddisfazione, l’allontanamento, la ricerca, la festa.
Caro fratello detenuto, che attendi che ti vada bene il processo, che attendi un permesso premio anche per fare l’amore finalmente con la tua compagna, che attendi la dura fedeltà di tua moglie e lo sguardo riconciliato di tuo figlio, che attendi il trasferimento vicino a casa, che attendi il lavoro da scopino per quei pochi euro per sopravvitto e sigarette, che attendi l’ora d’aria per sfiatare polmoni e muscoli sotto il cielo, che attendi uomini e donne amici, che attendi l’ora della Messa non solo per miseri ricavi ma per aggrapparti a quel frammento di pane e di parola che ti traghettino verso altre spiagge, che attendi una qualsiasi terapia che ti dia il sapore materno della cura, che attendi che passi il tempo della cella d’isolamento dove ti hanno cacciato perchè con rabbia cieca avevi aggredito il tuo corpo o l’anima altrui, tu che attendi indulti, indultini, amnistie e giubilei, che attendi che un qualche dio minore si materializzi nell’angusto spazio della tua cella spesso simile – perdonami! – alle asfissianti misure a cui forse hai ridotto la tua bellezza di un tempo. A te che attendi e speri e invochi, io riesco solo a darti una notizia: si dice che Dio, alias Jeshua, alias Gesù, alias Nazareno, abbia deciso di stare talmente dalla nostra parte da frequentare quelli che oggi chiamiamo delinquenti. Ti chiedo di verificare se la notizia abbia fondamento e di interrogare eventuali testimoni. Pare che la cosa abbia turbato qualcuno e rallegrato altri. Se appurerai che la notizia è vera, spero di trovarti tra quelli che se ne rallegrano. Per quanto ci riguarda lo abbiamo tolto dalla circolazione perché esagerava e lo abbiamo appiattito, come un segnalibro, un’immaginetta sacra, tra le pagine di un libretto che noi chiamiamo Vangelo. E da quel momento non nuoce più. Stava esagerando portandosi dietro piccoli gruppi di simpatizzanti poi divenuti discepoli e frequentando con loro case e incroci dove stazionavano disoccupati, usurai, ladri e prostitute. Dicono che dicesse cose dell’altro mondo che irritava alcuni e cambiava la vita ad altri. Se appurerai che la notizia è vera, spero di trovarti tra quelli a cui cambiava la vita. Io non sono tra quelli irritati e turbati; ma neppure tra quelli a cui è riuscito di cambiargli la vita. Se dunque vorrai potremo cercarlo insieme. Forse lo troveremo fra qualche tempo in un tribunale dove lo stanno processando a torto. Forse lo troveremo bianco come un cadavere appeso a un palo. Forse lo troveremo in un frammento di pane inerte sulla mensa della domenica. Forse lo troveremo, con la faccia di un giardiniere o di uno straniero, vivo e vispo come un Dio. Allora forse godremo che ci sia ancora Lui in circolazione a nostro favore.  In questi giorni guardati in giro, fruga nelle tue attese, ascolta lo scricchiolio dei suo passi sulle foglie secche dei sentieri dove ti sei perduto, fatti venire conati di nostalgia della stalla, ovile o deserto che erano una reggia a confronto del letto di carrube dove grufolano idoli. Fatti aiutare a cercarlo, fatti aiutare dal tuo compagno di cella anche da quello che recita «Allahu Akbar, Dio è il più grande», fatti aiutare dall’agente chiuso con te a guadagnarsi la pagnotta con il difficile compito di restare uomo custodendoti. Fatti aiutare e aiuta a tua volta il tuo compagno, l’agente di turno, il tuo don, la volontaria, i tuoi familiari… E se ti capitasse di ricevere la buona notizia, vieni a dirmelo. Brinderemo insieme con un alleluia. Quasi quasi mi hai convinto ad entrare per non mancare alla festa del pastore, della donna o del Padre che avevano perduto, avevano cercato e ora hanno ritrovato me e te e tanti altri come noi.
A presto. Tuo fratello Augusto
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[1] È un popolo di dura cervice: Questo versetto manca nella traduzione greca dei LXX. Potrebbe provenire da Dt 9,13. Si tratta della famosa metafora della caparbietà, con riferimento a colui che ha il collo troppo rigido per voltarsi e che, quindi, una volta intrapresa una via (anche sbagliata) non si volterà mai indietro.




Domenica 23a. 8 settembre 2019
MA QUANTO CI COSTA? Don Augusto Fontana

«Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo»; da noi basta un raffreddore e la nostra sequela si affloscia. Eppure anche da noi l’essere discepoli comporta dei costi e, grazie a Dio, qualcuno sta conducendo la sua buona testimonianza (in greco si dice martyrìa che ha il sapore del martirio). Un martirio non è necessariamente solo quello cruento. Il filosofo Kierkegaard diceva: “se Cristo venisse oggi fra noi, forse sceglierebbe il martirio del ridicolo”, cioè quella particolare coerenza tra il Vangelo e la vita, che rende un cristiano così inattuale nel mondo..Come Simone di Cirene: «Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène

Preghiamo. O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle del cielo; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal libro della Sapienza 9,13-18
Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».
Sal 89 Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni E acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.
Dalla lettera a Filèmone 1,9-10.12-17
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Dal Vangelo secondo Luca 14,25-33
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

 MA QUANTO CI COSTA? Don Augusto Fontana
Il Vangelo produce miele, ma ha anche un pungiglione.
Dalle pieghe delle statistiche affiorano storie di vittime uccise mentre rendevano testimonianza di fedeltà al Vangelo e alla gente. Insieme con don Saulo Careno, ucciso in Colombia c’era – ad esempio – anche Marita Linares, impiegata dell’ospedale, così come a fianco di don William de Jesus Ortez, parroco in Salvador, assassinato all’interno della chiesa c’era il sacrestano Jaime Noel Quintanilla, di soli 23 anni. Ancora: l’imboscata con la quale i ribelli del Lord Resistence Army[1] hanno ucciso don Lawrence Oyuru, è costata la vita ad altre 25 persone. Di loro non sappiamo il nome e nessuno aprirà cause di beatificazione. Eppure anche a costoro noi, cristiani del nord del mondo meno familiari col martirio, dovremmo guardare come a modelli. Silenziosi, ma modelli.

«Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo»; da noi basta un raffreddore e la nostra sequela si affloscia. Eppure, sotto altre forme meno drammatiche ma altrettanto severe, anche da noi l’essere discepoli comporta dei costi e, grazie a Dio, qualcuno sta conducendo la sua buona testimonianza (in greco si dice martyrìa che ha il sapore del martirio). La vita di un cristiano che ci crede è spesso soggetta a un martirio che non è necessariamente solo quello cruento. Il filosofo Kierkegaard diceva: “se Cristo venisse oggi fra noi, forse sceglierebbe il martirio del ridicolo”, cioè quella particolare coerenza tra il Vangelo e la vita, che rende un cristiano così inattuale nel mondo. Come Simone di Cirene: «Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù» (Luca 23,26); non sappiamo se si sia mai convertito, se abbia accettato di buon animo l’ordine datogli, se abbia compatito il Cristo o se lo abbia maledetto. I discepoli, passivi, accettano che sia un esterno a portare la croce.

«…molta gente accompagnava Gesù durante il suo viaggio». L’evangelista usa, in greco, il verbo suneporeuonto che si traduce con “accompagnare, viaggiare insieme; verbo molto diverso da quello che Gesù mi chiede di vivere: “seguimi!”. Anche allora c’era una chiesa di massa fatta di curiosi a corrente alternata (“oggi vado, ma domenica prossima si vedrà…dipenderà…”) o di cercatori di miracoli, presto delusi come fungaioli incostanti e debosciati se i cesti restano vuoti dopo pochi passi nel bosco. Per essere cristiano, la chiesa italiana esige in realtà molto poco. Si battezzano i neonati e non si esige quasi nulla dai suoi genitori; al massimo, un incontro preparatorio all’atto del battesimo e un vago impegno di agire cristianamente educando il bambino secondo la legge di Dio e i comandamenti della chiesa. Ma al principio non era così. Per essere discepolo, Gesù poneva delle dure condizioni, che invitava a pensarci seriamente: «Se uno di voi decide di costruire una casa…si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori…». Saremmo pochi (e, credimi, penso anche a me), se dovessimo davvero compiere le tre condizioni che Gesù esige dai suoi discepoli.

Per la prima condizione (“se uno vuol venire con me e non mi preferisce a suo padre e a sua madre, a sua moglie e ai suoi figli, ai suoi fratelli e sorelle, e persino a se stesso, non può essere mio discepolo“) il discepolo deve essere disposto a subordinare, ridimensionare, relativizzare tutto all’adesione al Signore e alle esigenze del Vangelo. Gesù e il suo piano di creare una società alternativa al sistema mondano stanno al di sopra dei legami famigliari. Ma attenzione: non chiede di scegliere tra famiglia e parrocchia, ma di scegliere Lui nei legami familiari. Diceva Padre E.Balducci[2]: «La caratteristica dell’annuncio evangelico non è la squalificazione dei rapporti di sangue ma l’apertura costante di un orizzonte che va al di là del gruppo a cui si appartiene e che apre possibilità non contenute nei vincoli di parentela o del gruppo etnico. Gesù additando se stesso come degno di amore molto più che il padre, la madre, la moglie e i figli, non getta indifferenza su questi rapporti, ma chiama all’universalità dell’amore e della dedizione. Seguire lui nell’ombra della croce significa seguirlo nella dedizione per tutti gli esseri: “Quando sarò sulla croce attirerò tutti a me”. Questa istanza alla universalità va in conflitto con l’amore di gruppo. Sappiamo che i vincoli del sangue gravano, come dice il libro della Sapienza che leggiamo oggi, sulla mente affaticandola e oscurandola. Noi pensiamo al mondo attraverso gli schemi del gruppo famigliare o etnico in cui viviamo: il sangue colora l’intelletto. L’universalità vera ci è negata, non riusciamo a liberarci del tutto dal peso della carne da cui deriviamo. La novità del Cristo è la rottura di tutti questi vincoli, la loro relativizzazione. Perché Gesù è stato messo in croce e gli apostoli furono perseguitati? Per la loro opposizione diretta alla presunzione di un gruppo (della famiglia o della nazione) di essere l’intero orizzonte di Dio».

Per la seconda condizione (“chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo“) non si tratta di fare sacrifici o di mortificarsi, ma di accettare concretamente che l’adesione a Gesù comporti dei costi di fronte alle pressioni conformistiche della società. Perciò non è necessario essere precipitosi onde evitare di promettere più di ciò che possiamo effettivamente sostenere. Come per la costruzione di una torre che esige di fare una buona pianificazione per calcolare i materiali di cui disponiamo; o come un re che pianifica una battaglia precipitosamente, senza sedersi a studiare le sue possibilità di fronte al nemico.

La terza condizione (“chiunque non rinuncia a tutto ciò che ha non può essere mio discepolo“) ci sembra eccessiva. Come se fosse poco dare la preferenza assoluta al progetto di Gesù ed essere disposti a soffrire per questo la persecuzione, Gesù esige qualche cosa che sembra al di sopra delle nostre forze: rinunciare a tutto ciò che si ha. Si tratta, senza dubbio, di una formulazione estrema che va interpretata. Il discepolo deve essere disposto persino a rinunciare a ciò che ha, se questo è d’ostacolo a porre fine ad una società ingiusta nella quale pochi accaparrano i beni della terra di cui altri necessitano per sopravvivere. L’altro ha sempre la preferenza. Ciò che è proprio cessa di essere una proprietà quando l’altro lo necessita. Solo dalla distribuzione si può parlare di giustizia, solo dalla povertà si può lottare contro di essa. Solo da ciò si può costruire la nuova società, il Regno di Dio: sradicando l’ingiustizia sulla terra.

Per quanti di noi, come me, tolgono con frequenza il pungiglione al Vangelo e preferirebbero che le parole e i gesti di Gesù fossero meno radicali, leggere questo testo risulta duro e tremendamente esigente. Non invano il libro della Sapienza formula oggi, sotto forma di domanda, la difficoltà che comporta il conoscere il disegno di Dio: « Chi tra gli uomini potrà mai conoscere la volontà di Dio? Chi potrà sapere quel che il Signore vuole?… Ma le cose del cielo, chi mai ha potuto esplorarle?».  Per questo preghiamo: « Nessuno ha conosciuto la tua volontà se non eri tu a dargli la sapienza, se dal cielo non gli mandavi il tuo Spirito Santo».

Il salmo 89 ci rivela il nostro vero profilo: siamo polvere, un soffio di tempo, un filo d’erba che dura un giorno, una goccia di rugiada al sole. Donaci, o Dio, la sapienza del cuore per andare contro corrente ed avere la capacità di quell’impegno progressivo e a caro prezzo che chiede il Vangelo.   Ma ciò che nel vangelo ci viene proposto come esigenze radicali di Gesù, non è tanto l’inizio del cammino, ma la meta alla quale dovremmo tendere, se vogliamo seguire Gesù. Forse non giungeremo mai a vivere con questa radicalità le esigenze di Gesù, ma non dobbiamo rinunciarci, per quanto ci possiamo trovare ad anni luce da questa utopia.
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[1] L’Esercito di resistenza del Signore, attivo dal 1987, è un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana, che opera principalmente nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana.
[2] Padre Ernesto Balducci (muore nel 1992 a 69 anni, a seguito di un grave incidente stradale), presbitero-teologo-scrittore. Profeta dimenticato dalle generazioni che non l’hanno conosciuto e non hanno avuto la fortuna di essere lambite dall’irruenza urticante evangelica delle sue letture bibliche in simbiosi con le lucide analisi sociali, ecclesiali e politiche. L’ostilità della Curia diocesana di Firenze e di papa Pio XII, gli valse l’allontanamento da Firenze. Fu un sostenitore dell’obiezione di coscienza al servizio militare e nel 1964 fu condannato dal tribunale per apologia di reato con parallela denuncia al Sant’Uffizio. Nel 1965 Balducci riuscì a riavvicinarsi a Firenze grazie anche all’intervento di papa Paolo VI. Fu una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II.




domenica 1 settembre
VINCE CHI PERDE. Don A. Fontana

In questi giorni si continua a parlare del ritorno dal grande esodo. Anche l’evangelista Luca ha impostato il suo Vangelo descrivendo un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme e descrivendo incontri, scontri e riflessioni come se fossero tappe intermedie e nuove partenze. Durante una di queste tappe è invitato a cena di sabato e guarisce un uomo idropico, gonfiato da un grave edema. Di seguito a Gesù non sfuggono alcune piccole strategie degli invitati per assicurarsi i posti più vicini all’onorevole e noto padrone di casa. Quello che avviene in quella sala avviene su più grande scala anche nella vita: aspirazioni a primeggiare, scavalcamenti reciproci, indifferenze agli altri, emarginazione dei meno dotati.

Preghiamo.
O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, fa’ che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Dal libro del Siràcide 3,19-21.30-31
Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.

Salmo 67 Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia.

Cantate a Dio, inneggiate al suo nome: Signore è il suo nome.
Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri.
Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato 
e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio.
Dalla lettera agli Ebrei 12,18-19.22-24
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

VINCE CHI PERDE. Don Augusto Fontana

«Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire » (Mc 10,44).
In questi giorni si continua a parlare del ritorno dal grande esodo. Anche l’evangelista Luca ha impostato il suo Vangelo descrivendo un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme e descrivendo incontri, scontri e riflessioni come se fossero tappe intermedie e nuove partenze. Durante una di queste tappe è invitato a cena di sabato e guarisce un uomo idropico, gonfiato da un grave edema[1]. Ed è polemica perché di sabato, secondo alcuni, non si poteva neppure guarire qualcuno. Di seguito a Gesù non sfuggono alcune piccole strategie degli invitati per assicurarsi i posti più vicini all’onorevole e noto padrone di casa. Quello che avviene in quella sala avviene su più grande scala anche nella vita: aspirazioni a primeggiare, scavalcamenti reciproci, indifferenze agli altri, emarginazione dei meno dotati. Quello che Gesù dice agli invitati vale dunque anche per noi. Ed é un problema che non riguarda solo gli ambienti mondani e aristocratici dove si consumano le fiere delle vanità né soltanto gli ambienti di lavoro dove ciascuno tenta di accaparrarsi posti migliori; riguarda anche la vita interna alle comunità cristiane. Sarà capitato anche a noi di vedere o intuire manovre simili. Io, da parroco, ho sentito raccontare storie di piccole liti per inginocchiatoi o banchi privilegiati in chiesa; da operaio e da amministratore pubblico ho visto sgomitare, intrallazzare e tramare per incarichi, livelli di carriera, cerchi magici.
Era accaduto anche ai discepoli: «Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”.  Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”[…]Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.  Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.  Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Marco 10, 32-44). 

Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
Il 16 luglio scorso un inedito pellegrinaggio ha animato la basilica di San Nicola di Bari. Una delegazione di 70 braccianti della provincia di Foggia e del ghetto di Borgo Mezzanone ha occupato simbolicamente la Basilica di Bari. L’iniziativa, organizzata da Coordinamento Lavoratori agricoli USB Foggia, “si inserisce – spiega il sindacalista Aboubakar Soumahoro – nel più ampio percorso di lotta dei braccianti che vivono nei ghetti del territorio foggiano. È una lotta contro l’indifferenza della Regione Puglia e del Governo che cerca di trasformare una questione sociale in una questione di pubblica sicurezza. Nelle campagne del foggiano si continua a distruggere le baracche senza una soluzione alternativa“. I migranti in protesta hanno chiesto un incontro con l’arcivescovo di Bari il quale si è premurato di andare a incontrarli. Hanno lasciato la Basilica dopo aver ricevuto rassicurazioni dall’arcivescovo mons. Francesco Cacucci. “Papa Francesco dice che ‘il lavoro conferisce dignità all’uomo’ – ha detto il sindacalista Aboubakar Soumahoro – invece il nostro è un lavoro privo di dignità e diritti. Per questo abbiamo deciso di lottare per la riconquista dei diritti sindacali, abitativi, previdenziali e di sicurezza sul lavoro. Una lotta in ricordo dei tanti braccianti morti nella filiera agricola e per chiedere il rilascio del permesso di soggiorno al fine di uscire dall’invisibilità imposta“. Concluso il presidio, la Caritas ha messo a disposizione dei braccianti panini per il pranzo prima di andare via, a bordo dei bus con i quali erano arrivati da varie città della provincia di Foggia nei cui campi lavorano a migliaia, con paghe di pochi euro per dieci ore di lavoro al giorno, alla raccolta di pomodori, asparagi e cavolfiori.

L’apostolo Giacomo fu costretto a scrivere in sua lettera: «Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo. Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito bene, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito bene e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui sullo sgabello dei miei piedi», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano?» (Giac. 2,1-4). Non é quindi una questione di galateo o di carità cristiana. Certi gesti rivelano o oscurano la logica di Dio.

<<Quanto più sei grande tanto più fatti piccolo>>.
Gesù fa riflettere un po’ alla volta, forse riferendosi ad un testo biblico già conosciuto: «Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: “Sali quassù” piuttosto che essere umiliato davanti a uno superiore» (Proverbi 25, 6). Una regola di prudenza che Gesù interpreta con una profondità e ampiezza ben superiore. E’ uno stile di vita e di scelta che non riguarda solo il momento di una cena ma Gesù lo estende a ogni momento della vita ecclesiale e sociale.

Parte da alcune considerazioni più elementari e, si direbbe, poco spirituali e terra terra. Comincia col far osservare l’eventualità che chi si affretta a occupare i primi posti può rischiare di essere invitato a spostarsi in fondo coperto dal ridicolo. E’ una vignetta, una caricatura con cui il Vangelo sembra farci ridere di quelle gaffe che rivelano quanto sia controproducente, anche solo a livello umano, la superbia tronfia. Gesù é nella linea della tradizione biblica sapienziale che dedica pagine e pagine a queste piccole/grandi virtù della convivenza mite e sapiente.
Ma non si tratta, abbiamo detto, solo di galateo o di calcolo. Nella prima lettura abbiamo sentito annunciare: «Quanto più sei grande tanto più fatti piccolo, così troverai grazia davanti al Signore». Il popolo di Dio ha ripetutamente sperimentato che Dio abbatte i superbi ed esalta gli umili. Il salmo di oggi é uno dei tanti che cantano questa esperienza che sentiamo poi sussurrare dalla bocca di Maria. Al discorso negativo si aggiunge una raccomandazione più positiva: «Invita quelli che non possono ricambiarti». Adottare la logica di Dio: fare il bene senza attendere il tornaconto. Chi di noi ha sperimentato la beatitudine della gioia più grande nel dare che nel ricevere? (Atti 20,35). Quasi a dire che l’evangelo ci invita a restare sempre in debito e non tentare di andare a credito con nessuno, né con Dio né con gli altri.

Eccentrici, fuori dal centro.
Per suggerire una qualche forma di interpretazione cito una pagina di Enzo Bianchi che parla di MINORITÀ[2]: «Se c’è un testo teologicamente fondativo dell’esser minori questo mi pare rintracciabile nella Prima Lette­ra ai Corinzi. Dice Paolo rivolto ai troppi par­titi della Chiesa di Corinto: «La parola della croce è stol­tezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ra­gionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sa­pienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di sal­vare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo po­tenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltez­za di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,17-25).

La minorità è un modo di essere e non un modo di parlare o di scrivere. E’ uno stile di vita diffuso, capillare. E’ un metodo relazionale da non confondersi con la falsa modestia, con l’occultamento del proprio ruolo o capacità. La minorità non è una virtù: è un punto di vista sul mondo e su di sè. E’ una “lateralizzazione” di sé rispetto al mondo, un abbandono della posizione di frontalità (o centralità), un mettersi fuori o, piuttosto, ai margini, è un “diventare eccentrici”. Il “farsi piccoli” implica uno stare nel mondo in un certo modo più che un giudizio sul mondo. Il minore è povero non perché è “meno” degli altri, ma perché è portatore di una diversità che non può dar conto compiutamente, persuasivamente, efficacemente, delle sue ragioni; la sua è una povertà argomentativa. Per comprendere il senso di questa scelta abbiamo solo il rovesciamento della logica mondana, il paradosso delle Beatitudini. Essendo un paradosso non si può credibilmente argomentare, persuasivamente formulare, efficacemente comunicare. La ragione non può nulla contro i paradossi e i paradossi sono impotenti e retrocedono di fronte alle argomentazioni. La minorità, come l’amore, vive solo di GESTI, come ha fatto san Francesco. La “mimica” di san Francesco dello spogliarsi davanti al vescovo è il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di “dire” la minorità che appartiene invece all’orizzonte del comportamento “sine glossa” più che a quello delle dichiarazioni di principio o dei documenti».
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[1] «Il lievito dei farisei porta all’avere di più (12,15); riempie l’uomo di possesso e di rapina e lo riduce a un idropico, che trasforma in acqua morta tutto ciò che mangia e cresce tanto da non passare poi per la porta stretta. Qui Gesù illustra lo spirito nuovo di chi è guarito dall’idropisia: è l’umiltà, il contrario di quel protagonismo di cui fanno mostra i tanti piccoli idropici che vede scegliere i primi posti» (AA.vv., Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB 1991, pag. 179)
[2] da HOREB, n. 3/1997




Domenica 21a. 25 agosto 2019
CORRI! STANNO CHIUDENDO LA PORTA. Don A. Fontana

 

“Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Tutte le religioni sono un tentativo di risposta a questa domanda e propongono o un’illuminazione o un’ascesi o una rivoluzione mediante cui l’uomo possa salvarsi. In realtà, per la Bibbia, all’uomo è impossibile “salvarsi” (Luca 18,26-27: Quelli che ascoltavano dissero: «Allora chi potrà salvarsi?». Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio»). “Salvare” per la Bibbia è un verbo da coniugarsi prevalentemente al passivo: “essere salvato“. La porta è strettissima per chi si vuol salvare con le opere religiose. Per essa invece passano tutti i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi. Unico biglietto di ingresso è riconoscere di “aver bisogno”.  Resta fuori solo chi “sta bene”…

21a DOMENICA anno C – 25 agosto 2019

Preghiamo. O Padre, che chiami tutti gli uomini per la porta stretta della croce al banchetto pasquale della vita nuova, concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché, unendoci al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà e la gioia del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Isaia 66,18-21.
Così dice il Signore:  «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme – dice il Signore –, come i figli d’Israele portano l’offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti levìti, dice il Signore».

Sal 116  Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra.  
Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte, nazioni, dategli gloria.
 Forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno.
Dalla lettera agli Ebrei 12,5-7.11-13
Fratelli, avete dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: “Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio”.   È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e fate passi diritti con i vostri piedi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30
In quel tempo, tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà (egherze=risorgerà) e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da est e da ovest, da nord e da sud e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

CORRI! STANNO CHIUDENDO LA PORTA. Don Augusto Fontana.
“Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Tutte le religioni sono un tentativo di risposta a questa domanda e propongono o un’illuminazione o un’ascesi o una rivoluzione mediante cui l’uomo possa salvarsi. In realtà, per la Bibbia, all’uomo è impossibile “salvarsi” (Luca 18,26-27: Quelli che ascoltavano dissero: «Allora chi potrà salvarsi?». Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio»). “Salvare” per la Bibbia è un verbo da coniugarsi prevalentemente al passivo: “essere salvato“. La porta è strettissima per chi si vuol salvare con le opere religiose. Per essa invece passano tutti i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi. Unico biglietto di ingresso è riconoscere di “aver bisogno”.  Resta fuori solo chi “sta bene”[1]. Il biblista Josef Ernst si sofferma sulla questione della “porta stretta” e ne offre una diversa e intrigante interpretazione[2]:per Luca il punto di vista decisivo è l’esortazione a un agire risoluto nell’ultimo momento ancora possibile. E’ un urgente appello ad agire finché si è in tempoPrima o poi viene il momento in cui il padrone di casa si alza e chiude la porta“. Non sarebbe dunque la porta che è stretta, ma è il tempo che è corto.
Luca ha ripreso da Matteo, modificandola, l’immagine della porta stretta. Matteo pensava al portone grande (púle) di una città, che viene chiuso a una certa ora della notte, ma nel quale o accanto al quale si trova una porticina per i ritardatari. Luca invece pensa alla porta (thúra) di una casa che il padrone, dopo averla chiusa riapre eventualmente solo a conoscenti o parenti; collega poi il suo testo con la parabola delle 10 vergini in cui la porta (thúra) viene chiusa dopo l’arrivo dello sposo. Gesù allora indirizzandosi a “voi”, si rivolge anche a noi lettori del Vangelo e ci assegna il posto dei ritardatari che non riescono a farsi riconoscere dal padrone di casa: “non so da dove siete; via da me, voi tutti, operatori di ingiustizia” (v. 27). Ci si può chiedere a che tipo di lotta Gesù faccia allusione. L’immagine della porta stretta potrebbe indicare la ressa della folla davanti a una porta che si può oltrepassare solo a forza di gomitate. Ma non è a questo che Gesù pensa. Il combattimento di cui si parla è il compiere la giustizia. Allora salvezza per le opere? No, se ricordiamo che la “giustizia” non è ciò che è giusto ai nostri occhi, la giustizia sociale, ma ciò che corrisponde alla volontà di Dio. Il Signore non riconoscerà quelli che fanno la volontà propria e inutilmente diranno “abbiamo mangiato e bevuto davanti a te”. Infatti non è questo che fa di loro dei parenti del Signore. Gesù l’aveva già chiaramente indicato quando aveva risposto a quelli della sua famiglia: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,21). Allora chi si siederà al banchetto messianico? L’opposizione non è tra pagani e ebrei, ma tra obbedienti e disobbedienti, qualunque sia la loro origine etnica[3].

 Come si può entrare dalla porta?
Gesù sta continuando il suo viaggio a Gerusalemme, verso la croce, passando per villaggi nei quali insegnava. In questo contesto, uno domanda al Signore: «Signore sono pochi quelli che si salveranno?» Come si vede, la domanda punta al numero: quanti ci salveremo, pochi o molti? La risposta di Gesù sposta l’attenzione dal “quanti” al “come” essere salvati. Il Vangelo di Luca è stato redatto quando si era all’incirca alla terza generazione del movimento di Gesù. In molti fratelli e sorelle della comunità l’amore, il fervore e l’impegno delle origini si erano affievoliti. Non è un caso che il capitolo dal quale è tratto questo brano inizi con la parabola del fico sterile: «Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai» (Luca 13, 7-9).
Anche la comunità corre il rischio, secondo Luca, di cadere nella routine, nel compromesso, nella mediocrità. Il vino nuovo del Vangelo lentamente viene annacquato. La risposta di Gesù vuole educare i discepoli a passare dal piano della curiosità a quello della sapienza, dalle domande oziose ai veri problemi che servono per il Regno. Naturalmente la cosa potrebbe interessare anche noi discepoli di oggi.
Quindi, cosa dice Gesù rispetto al modo di salvarci? Due cose: una negativa e una positiva; primo, ciò che non serve e non basta per essere salvati, poi ciò che serve per essere salvati.
Non serve, o non basta per essere salvati, il fatto di appartenere a un determinato popolo, una determinata razza o tradizione, istituzione: “abbiamo mangiato e bevuto con te e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Gesù risponde “non so di dove siete [non vi conosco]“. Nel racconto di Luca è evidente che coloro che parlano e rivendicano privilegi sono giudei circoncisi; nel racconto di Matteo, il panorama si amplia in un contesto di chiesa; sentiamo i discepoli che presentano lo stesso tipo di pretesa: “abbiamo profetizzato nel tuo nome (ossia nel nome di Gesù) abbiamo fatto miracoli”;  ma la risposta del Signore è la stessa: “non vi conosco, allontanatevi da me” (Cfr. Mt 7,22-23). Quindi per essere salvati non basta nemmeno il semplice fatto di aver conosciuto Gesù e appartenere alla chiesa; serve altro.
Siamo alla risposta positiva: ciò che mette in cammino la salvezza non è un titolo di merito o di proprietà, ma un coinvolgimento personale nella persona e vita di Gesù: “io sono la porta” dice Gesù (Giovanni 10,7).
Al brano del vangelo fanno eco le parole di Isaia che annunciano la salvezza per il popolo d’Israele e, insieme, per tutte le genti (Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan). La salvezza è immaginata come un immenso pellegrinaggio al termine del quale tutti i popoli verranno e riconosceranno in Gesù la via di Dio: «Io sono la via» (Giov. 14,6). All’inizio di questo pellegrinaggio sta la testimonianza di un “piccolo resto” degli israeliti; a questo “piccolo resto” il Signore affida l’annuncio del suo regno. Questi, rimasti in pochi, accettano la missione del Signore che li manda alle genti per diventare testimoni di lui e del suo amore. Il risultato sarà che le nazioni pagane, venendo in pellegrinaggio a Gerusalemme, porteranno con loro tutti gli israeliti dispersi nel mondo e (udite! udite!) “Anche tra i non-circoncisi mi sceglierò sacerdoti leviti, dice il Signore”.
L’insegnamento sul cammino stretto trova lo sviluppo molto pertinente nella seconda lettura di oggi: il Signore corregge quelli che ama…“; il cammino stretto non è stretto per qualche motivo incomprensibile o per un capriccio di Dio che si diverte a farlo così, ma è diventato così perché c’è stata una ribellione e siamo usciti dalla porta. La contraddizione della croce è il mezzo predicato da Gesù e inaugurato da Lui stesso per rimontare questo pendio, invertire questa ribellione e “tornare ad entrare“.
Ma perché via “larga” e via “stretta”? Forse che la via del male è sempre facile e gradevole da percorrere mentre al via del bene è sempre dura e stancante?  E’ importante operare qui un discernimento per non cadere nella stessa tentazione dell’autore del Salmo 72: «Per poco non inciampavano i miei piedi, per un nulla vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi». Anche a questo credente dell’Antico Testamento era sembrato che non ci fosse sofferenza per gli empi, che il loro corpo fosse sempre sano e soddisfatto, che non venissero colpiti dagli altri uomini, ma che stessero sempre tranquilli ammassando ricchezze, come se Dio avesse una preferenza per loro; il salmista si scandalizzò al punto di essere tentato di abbandonare il suo cammino per fare come gli altri. In questo stato di agitazione, entrò nel tempio e si mise a pregare, e vide con chiarezza; comprese “qual è la loro fine” e iniziò a lodare Dio e a rendergli grazie con gioia perché ancora stava con lui. Di conseguenza, la luce gli venne pregando e considerando le cose dalla fine.
Torniamo al filo del discorso; Gesù rompe lo schema e porta il tema sul piano personale e qualitativo: non sono le pratiche religiose che ci danno la garanzia della salvezza. Gesù ha ripetuto molte volte questo concetto “non tutti quelli che mi dicono «Signore, Signore», entreranno nel Regno dei cieli, ma quelli che fanno la volontà del Padre mio che sta nei cieli” (Mt. 7,21). Mangiare e bere il corpo e il sangue del Signore, ascoltare la sua Parola, moltiplicare le preghiere è importante ma non è sufficiente per raggiungere la salvezza:non posso sopportare falsità e solennità” (Isaia 1,13). Al rito deve unirsi la vita, la preghiera deve orientarsi alla pratica della carità, la liturgia deve aprirsi alla giustizia e al bene della salvezza. Lui è la porta stretta:  «Io sono la porta dell’ovile» dice Gesù al Cap. 10 del Vangelo secondo Giovanni.
Anche il Cristo è passato attraverso la porta della sua umanità, attraverso la porta dell’incarnazione, una porta che lui ha sfondato e ha aperto.  Il verbo greco usato da Luca “agonizesthe” andrebbe tradotto con “continuate a lottare” indicando così una specie di “agonia” che coinvolge tutta la persona nel cammino di fedeltà a Dio.

I devoti fanno ressa davanti alla porta e impediscono a tanti di entrare.
Accanto alla porta succedono tante cose. Marco narra uno di questi eventi: «Si seppe che [Gesù] era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta (thúra), ed egli annunciava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico» (Marco 2,1-4).
I devoti curiosi (di ieri e di oggi) si accalcano davanti alla porta. Si direbbe che sono troppo concentrati per accorgersi che qualcuno chiede il permesso di entrare. La porta è aperta per accogliere storpi, zoppi, paralitici. Ma una porzione di chiesa sta ingombrando il passaggio all’altra porzione di chiesa (i 4 anonimi portantini e il paralitico) che dovrebbe avere la precedenza. E’ una porzione di chiesa «dove ogni cosa è sistemata per bene. C’è tutto là dentro. Non c’è posto per altro. Non passa più nulla. Non entra l’avvenimento, l’imprevisto. Viene negato l’accesso all’inatteso»[4].
Scrive fratel MichaelDavide Semeraro [5]: «La Chiesa dei nostri giorni si trova purtroppo a pagare le amare conseguenze di una ripresa del funzionamento religioso e sacrale che ha creato una casta – quella clericale, che non va identi­ficata solo con i chierici, ma pure con i laici clericali – la quale, come i farisei e i sadducei ai tempi di Gesù, invece di servire il vangelo, è tentata di servirsi del vangelo. Il vangelo con le sue esigenze di libertà, uguaglianza e universale fraternità è il banco di prova della Chiesa. Una Chiesa che riparte dal vangelo è una Chiesa che si spoglia di privilegi desunti da altre forme religiose, ri­nunciando alla pretesa di creare delle caste esclusive che si arrogano il diritto di escludere gli altri in nome di una vocazione e di un’inve­stitura dall’alto che, in realtà, non può che venire dal basso. Tutto ciò non può avvenire se prima non si accetta la relatività di tutta una serie di isti­tuzioni e di funzionamenti, che, se sono stati utili – almeno in par­te – fino a oggi, non è detto che siano ancora adeguati e augurabili. La rottura evangelica con la mentalità socio-religiosa del suo tempo da parte di Gesù di Nazaret, come è attestata nei vangeli, non può non invitare ad affrontare coraggiosamente e con decisione la lotta a ogni forma di esclusività e a ogni forma di esclusione. Come dimenticare il posto che le donne hanno nella comunità dei discepoli (Lc 8,1-3) e il loro ruolo eminente nei racconti pasquali? Davanti alla tentazione dei discepoli di organizzarsi attorno al loro Maestro, analogamente a quanto avveniva per i discepoli di Giovanni e dei farisei, la reazione del Signore Gesù è chiara fino al punto di essere destabilizzante. A ben guardare, la posizione di Gesù è per i Dodici forse persino mortificante: «Tra voi però non è così» (Mc 10,43). I bambini, le donne, gli stranieri, i disabili, i diversamente affettivi, i peccatori, gli esclusi e quanti sono avvertiti come un pericolo, per il loro diverso atteggiamento nella vita e di fronte alla vita, diventano il centro dell’attenzione di Gesù e fanno parte della comunità di vita e di annuncio che si crea attorno alla sua persona e al suo messaggio. Per questo la comunità dei discepoli non può e non deve organizzarsi a partire da uno schema di purità, ma in un respiro di universalità, non solo geografica, ma prima di tutto antropologica, che sia capace di evolvere dalla benevola tolleranza all’inclusione radicale».
Si tratta di partire da un principio minimo: «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo stati salvati e nello stesso modo anche loro» (At 15,11).

 

[1] AA.VV. Una comunità legge il vangelo di Marco,  EDB.
[2] Josef Ernst, Il Vangelo secondo Luca (Ed. Morcelliana)
[3] Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon 2015, pag. 393
[4] A.Pronzato, Un cristiano comincia a leggere il vangelo di Marco, Vol.1, Gribaudi, 1979, pag.128
[5] In La semina del profeta, EDB, 2019, pagg. 68-70




Domenica 20a. 18 agosto 2019
SEGNO DI CONTRADDIZIONE. Don Augusto Fontana

Su Internet si possono consultare le previsioni del tempo fino a 5 giorni. Spesso su queste previsioni si elaborano programmazioni e si fissano i trend di andamento di affari, viaggi, attacchi armati, interventi sulle coltivazioni. Con strumentazioni più moderne si fa quello che fin dall’antichità costituiva una sapiente preveggenza in vista di una attività decisionale. Anche i palestinesi del tempo di Gesù sapevano che se tirava vento dal Mar Mediterraneo sarebbe piovuto mentre sarebbe stato sereno se il vento proveniva dal deserto siro-arabico. L’esperienza della decisione é fondamentale nella vita di ciascuno. Di fatto ogni persona si misura dalle sue decisioni, perché decidere é sempre prendere posizione….

Preghiamo. O Dio, che nella croce del tuo Figlio, segno di contraddizione, riveli i segreti dei cuori, fa’ che l’umanità non ripeta il tragico rifiuto della verità e della grazia, ma sappia discernere i segni dei tempi per essere salva nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Geremìa 38,4-6.8-10
In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi». Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango. Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».
Sal 39 Signore, vieni presto in mio aiuto.
Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato,

ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude;
ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio.
Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore.
Ma io sono povero e bisognoso: di me ha cura il Signore.
Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare.
Dalla lettera agli Ebrei 12,1-4
Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.
Dal Vangelo secondo Luca 12,49-53 (+ 54-57)
Gesù dice ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
[
Aggiungo i seguenti versetti che non ascolterai nella proclamazione liturgica ma che ritengo utili per la comprensione del testo:
54 Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. 55 E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. 56 Ipocriti! Sapete giudicare il volto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? 57 E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?].

SEGNO DI CONTRADDIZIONE. Don Augusto Fontana
Su Internet si possono consultare le previsioni del tempo fino a 5 giorni. Spesso su queste previsioni si elaborano programmazioni e si fissano i trend di andamento di affari, viaggi, attacchi armati, interventi sulle coltivazioni. Con strumentazioni più moderne si fa quello che fin dall’antichità costituiva una sapiente preveggenza in vista di una attività decisionale. Anche i palestinesi del tempo di Gesù sapevano che se tirava vento dal Mar Mediterraneo sarebbe piovuto mentre sarebbe stato sereno se il vento proveniva dal deserto siro-arabico. L’esperienza della decisione é fondamentale nella vita di ciascuno. Di fatto ogni persona si misura dalle sue decisioni, perché decidere é sempre prendere posizione, determinare se stessi e le proprie mete. Ogni decisione é presa di fronte a delle alternative, quindi l’esito non é assicurato e molto spesso non sai se quella decisione é la migliore. Comunque la decisione connota l’ingresso nell’età adulta. Chi non sa mai prendere una decisione, chi vuole l’una e l’altra cosa o, come si suol dire, la botte piena e la moglie ubriaca, non é mai uscito dalla fase infantile. Questo comporta delle rinunce, soprattutto la rinuncia al compromesso.
Gesù usa una parola dura: «Ipocriti! Sapete riconoscere i segni atmosferici per comportarvi di conseguenza e non sapete riconoscere i tempi provvidenziali (kairòi) di Dio». Ipocrita doppiogiochista o cerchiobottista, come si usa dire ai nostri giorni.
Fuoco che scalda, ustiona e plasma.
Con il brano evangelico di oggi si conclude praticamente l’insegnamento del Cap. 12 di Luca che ci ha accompagnato per 3 domeniche dicendoci, in sintesi: non dormite; la situazione che vivete é di massima allerta; é questione di qualità di vita oggi e di vita eterna; schiodatevi dalle poltrone, prendete i vostri bagagli essenziali, prima di tutto la vita e il Regno di Dio; non affannatevi per capitalizzare; condividete a vicenda pane e bagagli; parlatevi insieme per sostenere le speranze e per discernere quali sono i sentieri del Signore, i tempi provvidenziali (kairòi) e le decisioni conseguenti.
Proprio come devono fare in questi giorni molte famiglie circondate dagli incendi dei boschi o dalle alluvioni in vari territori nazionali e non.
Il discernimento comporta, secondo il Nuovo Testamento, una capacità di confronto tra la Parola di Dio e gli avvenimenti (“questo tempo”) per capire i sintomi della presenza del Signore, per leggere la storia non solo alla luce del presente e del suo passato, ma anche alla luce della tensione verso il futuro di Dio. Il Signore ci lascia nella nostra responsabilità: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che é giusto?» (Lc. 12,57).
A me, tiepido comatoso, è rivolta questa Parola: «All’angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Apocalisse 3, 14-20).
A me, sonnolente abitudinario, è rivolta questa Parola che Gesù conosceva bene e a cui si è probabilmente ispirato: «Povero me! In questa regione non c’è più una persona fedele a Dio, nessuno è onesto. I capi hanno pretese, i giudici esigono compensi illeciti, gli uomini influenti dicono senza vergogna quel che desiderano e tutti tramano per ottenerlo. Ma è arrivato il giorno in cui Dio vi punirà, come avevano annunziato i profeti, le vostre sentinelle. Ora vivrete nell’angoscia. Non credete al compagno, non fidatevi dell’amico, state attenti a quel che dite anche a vostra moglie. I figli insultano i padri, le figlie si ribellano alle madri, le nuore alle suocere: ognuno ha i suoi nemici nella propria famiglia. Ma io mi rivolgo al Signore, ripongo la mia speranza in Dio che mi salva» (Michea 7, 1-7).
Gesù ha fatto di tutto, ma proprio di tutto, per non illuderci; non ha sbandierato una proposta facile e slavata. Non ci ha fatto credere che seguirlo avrebbe comportato qualche garanzia assicurativa in più nella vita; anzi, ci ha chiaramente illustrato le esigenti richieste della sequela contro ogni astensionismo, incertezza o posizione neutrale del “piede in due scarpe”. Gesù diventa così segno di contraddizione, come aveva preannunciato Simeone tenendo sulle sue braccia questo bambino nel Tempio (Lc,2,34): «Egli é qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione».
Luca in questo Capitolo 12 ricorda una frase di Gesù: «Credete che sia venuto a portare la pace sulla terra? No. Anzi sono venuto a portare la divisione (Matteo 10, 34 parla di spada)». L’immersione (il battesimo) nella Sua morte diventerà (e diventa anche per me oggi) un caso serio, segno di contraddizione. L’esperienza cristiana della nostra Chiesa nordica e occidentale è diventata una religione pacioccona, buona per tutte le stagioni, saldi compresi. Il crocifisso è diventato simbolo slavato, appeso qua e là ovunque, su scollature audaci o toraci villosi, sui muri di pubblica utilità e tra mani impure di politici atei e devoti. Se lo guardo, il crocifisso non mi schianta più né più mi intenerisce. Ai piedi di quel Crocifisso è sorto un cimitero di morti viventi, una spianata di fedeli smunti e comatosi; e raramente produce sussulti di scelte selettive di vita.
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso». Gesù ha mandato il fuoco della Pentecoste[1] (Atti 2,3-4) e ha fatto bruciare il cuore di due discepoli delusi che avevano avuto il coraggio di voltargli le spalle fuggendo verso Emmaus (Lc 24)[2]. Lui è Fuoco, non melassa; è bruciore incompatibile con le pomate emollienti che io ho spalmato sulle mie scelte-non-scelte per troppi anni nella mia vita.
Signore, resta per me segno di contraddizione, bruciatura e fuoco. Tormento e innamoramento. Resta il profeta del mio discernimento!
Già fu così la storia dei profeti. Geremia 6,10-21: «A chi parlerò e chi scongiurerò perché mi ascoltino? Ecco, il loro orecchio non è circonciso, sono incapaci di prestare attenzione. Ecco, la parola del Signore è per loro oggetto di scherno; non la gustano. Io perciò sono pieno dell’ira del Signore, non posso più contenerla. Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna. Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: “Va bene, va tutto bene!” ma bene non va. Così il Signore dice: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri del passato, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre”. Ma essi risposero: “Non la prenderemo!”. Io ho posto sentinelle presso di voi: “Fate attenzione allo squillo di tromba”. Essi hanno risposto: “Non ci baderemo!”. Ascolta, o terra! Ecco, io mando contro questo popolo la sventura, il frutto dei loro pensieri, perchè non hanno prestato attenzione alle mie parole e hanno rigettato la mia legge. I vostri olocausti non mi sono graditi e non mi piacciono i vostri sacrifici. Perciò, dice il Signore: “Ecco, io porrò per questo popolo pietre di inciampo, in esse inciamperanno insieme padri e figli; vicini e amici periranno».
Gesù prima di scatenare un dramma nella vita degli altri, ha vissuto sulla sua pelle questa urgenza: «Fuoco sono venuto a portare sulla terra e io stesso ci cadrò dentro come in un battesimo».
Il Profeta nella contraddizione della storia.
La figura di Geremia (Geremia 38,4-10), profeta insanguinato, anticipa la figura di Gesù. I suoi connazionali non hanno saputo interpretare il senso delle sue parole e l’importanza dei suoi gesti profetici e sono rimasti ciechi e sordi.
Narro un po’ di storia, per chi è curioso di conoscere il contesto confuso in cui si muove la profezia di Geremia. Il Regno babilonese conosce il suo apice con Nabucodonosor (625-605). Nel 612 Ninive, capitale degli assiri, cade sotto l’assedio di Nabucodonosor. In questo periodo Manasse, re della regione di Giuda, era un alleato degli assiri. E’ ritenuto il re più incredulo, idolatra e sincretista di tutti i re di Giuda. Geremia é di stirpe sacerdotale e inizia la sua azione profetica in questo confuso periodo politico e religioso. Il re Giosia succede a Manasse nel momento in cui la potenza assira é decadente. Giosia tenta una ardita riforma religiosa e cultuale e si allea però con Babilonia ma perde la vita nella battaglia di Meghiddo (609). Gli succede il figlio Joachim che tenta l’indipendenza da Babilonia, ma questo provoca l’invasione babilonese con l’occupazione di Gerusalemme e la deportazione di tutta la corte reale e l’aristocrazia a Babilonia.
Nabucodonosor pone sul trono di Giuda il re Sedecia che però, con mosse sbagliate, provoca una seconda invasione che distrugge Gerusalemme e il tempio (586). Geremia esce dalla sua vita tranquilla, contesta i burocrati, il popolo, i colleghi sacerdoti; contesta al re Sedecia di sfidare la potenza babilonese. Viene incarcerato durante l’assedio di Gerusalemme perché é accusato di scoraggiare i soldati e i cittadini. I capi lo gettano in una cisterna accusandolo di disfattismo, poi per ordine del re viene liberato.
La sua profezia si mescola con la politica. La Parola trascendente di Dio è ad un bivio: o sta lassù nel cielo incontaminato, nel silenzio eterno profumato di incensi o si mescola con gli avvenimenti contingenti della storia, dentro al frastuono di risa e lamenti o nel profumo dei cedri o nell’odore del sangue. Difficile restare coscienza critica nel rischio del contingente. Ieri come oggi nell’attuale crisi politica italiana, in Venezuela, Argentina, Hong Kong; e chi più ne ha più ne metta.
Crisis è discernimento[3].
La parola “Crisi” deriva dal verbo greco krinein che significa “separare”, passare al setaccio. Proprio ciò che fa una crisi: ci testa, ci vaglia mettendoci alla prova. Il disagio è proprio l’essere messo a nudo. Leggere la Parola di Dio da credente vuol dire accettare che mi metta in crisi.

Zaccaria 13,9: «Farò passare un terzo del mio popolo attraverso il fuoco e lo purificherò come si purifica l’argento, lo proverò come si prova l’oro».
Prima Lettera di Pietro 1,6-7: «Perciò siate contenti, anche se ora, per un po’ di tempo, dovete sopportare prove di ogni genere. Anche l’oro, benché sia una cosa che non dura in eterno, deve passare attraverso il fuoco, perché si veda se è genuino. Lo stesso avviene per la vostra fede, che è ben più preziosa dell’oro: è messa alla prova dalle difficoltà, perché si veda se è genuina. Solo così voi riceverete lode, gloria e onore, quando Gesù Cristo si manifesterà a tutti gli uomini».
Il rischio della crisi è che ci costringa a guardare dove noi non vogliamo, che ci faccia vedere cose che non vogliamo vedere. Temo di aver passato la vita senza vedere nel profondo di me.
La Santa Scrittura, e Gesù, hanno una forza critica che, se ascoltata, può veramente favorire un processo di conversione. La sua capacità discernente, cioè di giudicare, valutare e vagliare sono presenti in molti testi biblici, ad esempio Ebrei 4,12-13: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta (in greco: kriticòs, mette in crisi) i sentimenti e i pensieri del cuore». La Parola ha la forza efficace di mettere in crisi, di distinguere e fare chiarezza tra pensieri e sentimenti del cuore. Avviene più volte che di fronte a una pagina della Scrittura (anche attraverso un’omelia, una spiegazione, una lettura personale…) ci si sente radiografati, come se essa leggesse cosa si muove in noi, come se l’episodio riguardasse nessun’altro al di fuori di noi stessi e la Scrittura desse le parole per descrivere ciò che sta avvenendo in noi.
E’ l’esperienza del profeta Geremia 20,8-9: «Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Christiane Singer[4] ha scritto: “Parliamo del buon uso delle catastrofi, dei drammi, dei diversi naufragi in cui possiamo incorrere. Nel corso del cammino della mia vita io ho raggiunto la certezza che le crisi e le catastrofi avvengono per evitarci il peggio. Il peggio cos’è? Il peggio è di aver attraversato la vita senza naufragi, cioè di essere sempre restato alla superficie delle cose, di aver danzato al ballo delle ombre, persi nella evanescenza, nell’inconsistenza, di avere sguazzato nelle paludi dei “si dice”, delle apparenze, dei luoghi comuni, di non essere mai precipitato, andato a fondo in una dimensione altra e profonda di sè e delle relazioni. In mancanza di maestri, nella società in cui viviamo sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci ad entrare nell’altra dimensione, della profondità che dà senso alla vita. Nella nostra società tutto concorre nel senso di distoglierci da ciò che è importante e centrale, come se ci fosse un sistema di fili spinati e di interdizioni per non accedere alla propria profondità, è un’immensa cospirazione, la più immensa, di una civiltà contro l’anima, contro lo spirito”.

Gesù è il fuoco che avanza per dividere il mio passato dal mio futuro (“il padre dal figlio”), l’oro della mia fede dalle scorie della mia religione (“la nuora dalla suocera”). Siamo pregati di non chiamare i pompieri!
_________
[1] «Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo».
[2] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?».
[3] Elaboro da: Luciano Manicardi, Nelle tenebre una luce. Itinerari di vita nella sofferenza, Ed. Centro Volontari della Sofferenza, 2004.

[4]  saggista e scrittrice francese (1943-2007)




19a Domenica -11 agosto 2019
PADRE, SEI UN TESORO! Don Augusto Fontana

Molti di noi forse possono raccontare di persone che hanno vissuto esperienza di vita terribili restando credenti e fedeli, oranti, resistenti, pieni di speranza avendo trovato in Gesù il piolo dove attaccare la propria vita stracciata. Oltre a singole persone esistono anche piccoli gruppi che sanno restare nella speranza attiva, vigilante e resistente. Il vescovo di Recife, Hélder Câmara in un discorso tenuto a Wurzburg (Germania) parlava, nell’ormai lontano 1971, di «minoranze abramitiche» con chiaro riferimento ad Abramo, diventato il simbolo del credente non solo per gli ebrei ma anche per il cristiano (come apertamente dichiara la seconda lettura biblica di oggi)…

Preghiamo. Arda nei nostri cuori, o Padre, la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della tua ora siamo introdotti da te nella patria eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 18,6-9 [traduzione della Bibbia interconfessionale in lingua corrente]
I nostri antenati furono preavvisati di questa notte memorabile della liberazione. Sapevano dunque a quali promesse avevano creduto e in piena sicurezza potevano rallegrarsi. Perciò il tuo popolo aveva aspettato
questa notte come salvezza per i tuoi fedeli e rovina dei loro nemici. Sì, perché le stesse cose ti servono
per castigare i nostri nemici e per glorificare noi, il popolo che hai chiamato e voluto per te. In segreto i discendenti di una stirpe santa ti offrivano sacrifici nella loro fedeltà e si accordavano per rispettare questa legge divina: quelli che appartengono solo a te devono essere solidali tra loro nei momenti belli e in quelli difficili. Essi cantavano i canti del loro popolo.
Sal 32 Beato il popolo scelto dal Signore.
Esultate, o giusti, nel Signore;

per gli uomini retti è bella la lode.
Beata la nazione che ha il Signore come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei 11,1-2.8-12

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Dal Vangelo secondo Luca 12,32-48

Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

PADRE, SEI UN TESORO! Don Augusto Fontana
Molti di noi forse possono raccontare di persone che hanno vissuto esperienza di vita terribili restando credenti e fedeli, oranti, resistenti, pieni di speranza avendo trovato in Gesù il piolo dove attaccare la propria vita stracciata. Oltre a singole persone esistono anche piccoli gruppi che sanno restare nella speranza attiva, vigilante e resistente. Il vescovo di Recife, Hélder Câmara[1] in un discorso tenuto a Wurzburg (Germania) parlava, nell’ormai lontano 1971, di «minoranze abramitiche» con chiaro riferimento ad Abramo, diventato il simbolo del credente non solo per gli ebrei ma anche per il cristiano (come apertamente dichiara la seconda lettura biblica di oggi): «La Provvidenza si é incaricata di seminare ovunque – in tutti i paesi, razze, lingue, religioni, gruppi umani – delle minoranze caratterizzate dal desiderio di servire, dall’irriducibile fame e sete di un mondo più giusto e più umano. Io le chiamo minoranze abramitiche perché, come Abramo, sperano contro ogni speranza…Parla con i tuoi amici, con quelli di casa tua, del tuo vicinato, della scuola, del tuo posto di lavoro, coi tuoi compagni di svago e avrai la sorpresa di scoprire che la tua “minoranza abramitica” esiste già e tu non lo sapevi. Se gli uomini di buona volontà facessero lo sforzo di collegare tra loro queste minoranze abramitiche, la pressione morale liberatrice scatenata acquisterebbe la potenza inimmaginabile dell’energia nucleare che ha sonnecchiato per milioni di anni in seno all’atomo, ma poi é esplosa[2]».
            Gesù dice nel Vangelo: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno». (Lc.12,32). Le minoranze abramitiche sono fatte da gente che ha cercato il regno di Dio come un tesoro e vi ha depositato lì il proprio cuore: «Il regno di Dio è simile a un tesoro nascosto in un campo. Un uomo lo trova, lo nasconde di nuovo, poi, pieno di gioia corre a vendere tutto quello che ha e compra quel campo. Il regno di Dio è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose. Quando ha trovato una perla di grande valore, egli va, vende tutto quel che ha e compra quella perla» (Matteo 13. 44-46).
Non é facile per me perché la mia fede é messa costantemente in crisi dalla vita o é rimasta un evento intellettuale o rituale. Domenica scorsa ci siamo sentiti dire: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni». E’ in gioco la vita. La domanda é seria: da chi dipende la mia vita? Su cosa è appesa o verso dove pende? Il testo evangelico di domenica scorsa prosegue con un brano non utilizzato dalla liturgia, ma che occorre citare perché potrebbe offrire spunti per una risposta: «[22]Poi disse ai discepoli: «Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. [23]La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. [24]Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! [25]Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? [26]Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? [28]Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? [29]Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: [30]di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo (i pagani); ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. [31]Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».
A questo brano fa seguito il brano proclamato nella liturgia di oggi (Lc. 12,33-34) a cui segue una serie di piccole unità letterarie che arrivano fino al cap. 13,21 incentrate sulla vigilanza nell’attesa del Signore.
Nella rivelazione biblica é frequente l’affermazione della protezione di Dio. Si ricorre ad immagini (Dio padre, sposo, madre, pastore, guida, custode) e a simboli (ombra, ali, tenda, fortezza, roccia, rifugio). Tutto per rappresentare il rapporto di alleanza, patto, amicizia. Parlare di fiducia, attesa vigilante e operativa, resistenza, speranza significa rivisitare la nostra relazione con il Signore.
Dal complesso della rivelazione biblica si possono raccogliere i brani dedicati alla protezione di Dio sotto 3 tipologie: come confessione, come esperienza e come invocazione.
Come confessione (Il Signore é…): Siracide 34: «[14]Chi obbedisce al Signore non ha paura di nulla, e non teme perché egli è la sua speranza. [15]Beata l’anima di chi teme il Signore. A chi si appoggia? Chi è il suo sostegno? [16]Gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano, protezione potente e sostegno di forza, riparo dal vento infuocato e dal sole, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta; [17]solleva l’anima e illumina gli occhi, concede sanità, vita e benedizione».
Come esperienza (Il Signore ha fatto…): Giosuè 24: «[17] ll Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati». Salmo 125: «[1] Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. [2]Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Allora si diceva tra i popoli: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. [3]Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia».
Come invocazione (Signore fai…): Salmo 17: «[8]Custodiscimi come pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra delle tue ali».
Si tratta di confessioni, esperienze e invocazioni che non possono essere capite al di fuori del regime di fede e di relazione con il Signore, sentita come vitale. Chi sono infatti quelli che possono confessare, raccontare e invocare la protezione di Dio?

  • I giusti : «Egli riserva ai giusti la sua protezione, è scudo a coloro che agiscono con rettitudine» (Proverbi 2,7) «Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie». (Salmo dell’onesto 34,8-9)
  • Coloro che amano Dio: «Gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano, protezione potente e sostegno di forza, riparo dal vento infuocato e riparo dal sole del mezzogiorno, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta; solleva l’anima e illumina gli occhi, concede sanità, vita e benedizione»(Sir. 34,13-17).
  • Quanti cercano Lui prima che i suoi beni: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: «Chi è il Signore?», oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio».( Proverbi 30,5-9). «Il Signore è scudo per quanti si rifugiano in lui. C’è forse un dio come il Signore; una rupe fuori del nostro Dio?» (2 Samuele 22,31-32).

            Le immagini usate nei salmi sono la trasposizione della fede in storie quotidiane di salvezza: la fortezza che ha salvato dall’assalto del nemico, la roccia sporgente che é stata riparo durante un temporale, diventano eventi in cui la fede del credente arriva a leggere e confessare la mano provvidente di Dio: Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza. (Salmo 17,3). Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre. (72,26).
Il cristiano non può prescindere da come tale protezione é stata vissuta da Gesù. E’ significativa l’esperienza di Gesù che nel Getsemani confessa Dio come “Abbà” e gli chiede che passi quell’ora, ma sottomette tutto a «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc.14,36) e «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt. 26,39). Ci sono dunque un contenuto (ciò che tu…) e una modalità (come tu…) della fede. Anche se persiste una dimensione di enigma: «Possiamo stare di buon animo sapendo a quali promesse abbiamo creduto…pur non avendo ottenuto i beni promessi, ma avendoli solo visti e salutati da lontano…». Gesù continua a proclamare anche sulla croce che Dio é il Suo Dio: «Mio Dio…». La protezione che Dio offre non coincide con le forme di rassicurazione che l’uomo si dà; anzi le critica. Io spesso attendo la protezione di un Dio tappabuchi, rimedio alla mia impotenza. E’ l’idolo che deve obbedire alla mia preghiera intesa come ingiunzione a un Dio sempre disponibile e immediatamente accessibile. La sete del miracolistico e del taumaturgico sembra andare in questo senso. Ma una preghiera in cui l’uomo impone a Dio le sue volontà non é una preghiera cristiana. La protezione di Dio invece diventa uno svelamento di una sua Presenza sempre, anche nel dolore e nel male. La fede nella benevolenza di Dio non é un rifugiarsi nella calda sicurezza del grembo materno, ma un gettarsi fiduciosi nella mischia della storia. In questa prospettiva vanno colti gli inviti alla vigilanza. Nel capitolo 4 del Libro di Tobia leggiamo: «5Ogni giorno, o figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandi. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia. 6Se agirai con rettitudine, riusciranno le tue azioni, come quelle di chiunque pratichi la giustizia. 7Dei tuoi beni fa’ elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. 8La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, da’ molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. 9Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, 10poiché l’elemosina libera dalla morte e salva dall’andare tra le tenebre». Stazione ferroviaria. E’ notte. Un orologio. Attendo insieme con altri per la stessa destinazione. Ci si mette a parlare. Anche alla domenica la comunità si riunisce. Siamo gente che intavola un discorso con Cristo che é il responsabile di viaggio e ricevono informazioni circa la meta, si aiutano a portare i pesi gli uni agli altri, viaggiano insieme cantando. La nostra liturgia non é un convegno di stanchi della vita, ma di coloro che vanno incontro alle prossime stazioni del Regno.
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[1] Vescovo brasiliano profeta. Divenne per molti, anche nella Chiesa, come fumo negli occhi. Dalla metà degli anni ’70 in poi, subì un crescente ostracismo e una progressiva emarginazione sia da parte dei politici brasiliani sia da parte della Chiesa. Lo ferì il fatto che non fosse stato chiamato da Papa Paolo VI al Sinodo del 1971 sulla Giustizia nel mondo, lui che era il vescovo che maggiormente si era impegnato a livello mondiale su questo tema. Nel 1977, andato a Roma due volte per parlare con Paolo VI, ne fu impedito dalla stessa Segreteria di Stato. Giovanni Paolo II, quando visitò la sua diocesi di Recife (1980) lo chiamò: “Fratello dei poveri, mio fratello”. Morto novantenne il 27 agosto 1999.
[2] H.Camara Violenza dei pacifici,Massimo, Milano, 1973.




18a domenica-4 agosto 2019
“L’uomo nel benessere non capisce, è come una bestia” (Sal. 48)

 A volte sono preso dalla tentazione di credere che la vita e la parola di Gesù abbiano tale profonda verità e bellezza da dover appartenere a tutti e non solo a credenti o discepoli. Non voglio, certo, fare di Gesù un guru del Dharma per tutte le latitudini dello spirito, ma mi affascina comunque la sua arte di parlare al cuore umano, la sua profonda conoscenza dell’animo e dei rapporti umani. D’altra parte dicono che fu talmente Figlio di Dio da diventare figlio dell’uomo o, se vuoi, fu talmente figlio dell’uomo da diventare Figlio di Dio.«Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni…….».

 Preghiamo. O Dio, principio e fine di tutte le cose, che in Cristo tuo Figlio ci hai chiamati a possedere il regno, fa’ che operando con le nostre forze a sottomettere la terra non ci lasciamo dominare dalla cupidigia e dall’egoismo, ma cerchiamo sempre ciò che vale davanti a te. Per Gesù Cristo nostro Signore.

Dal libro del Qoèlet 1,2;2,21-23. Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

Sal 89 Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi 3,1-5.9-11
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

Dal Vangelo secondo Luca 12,13-21
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 “L’UOMO NEL BENESSERE NON CAPISCE, E’ COME UNA BESTIA” (Sal. 48)
Don Augusto Fontana
A volte sono preso dalla tentazione di credere che la vita e la parola di Gesù abbiano tale profonda verità e bellezza da dover appartenere a tutti e non solo a credenti o discepoli. Non voglio, certo, fare di Gesù un guru del Dharma per tutte le latitudini dello spirito, ma mi affascina comunque la sua arte di parlare al cuore umano, la sua profonda conoscenza dell’animo e dei rapporti umani. D’altra parte dicono che fu talmente Figlio di Dio da diventare figlio dell’uomo o, se vuoi, fu talmente figlio dell’uomo da diventare Figlio di Dio.
«Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». A Davos alcuni anni fa, al World Economic Forum, duran­te un seminario per super manager e capi di Stato, la discussione è caduta sulla felicità. “Troppi soldi non fanno la felicità” hanno detto dal palco molti uomini d’affari, spargendosi il capo di cenere per i propri top-stipendi. David Cameron, quando era premier britannico, aveva proposto la felicità come misuratore del polso di una nazione: «È tempo di ammettere che nella vita c’è molto di più del denaro. Ed è anche tempo di focalizzare l’attenzione non solo sul pro­dotto interno lordo, ma sul benessere gene­rale degli abitanti di una nazione». Inseguita come un miraggio, evocata come una salvezza, la felicità entra timidamente nell’agenda della politica. E guida la riscossa di una generazione che pun­ta alla qualità della vita più che al benessere materiale. Se prima la felicità sembrava essere una faccenda da filosofi o da cercatori spirituali, ora a occupar­sene sono anche alcuni (pochi) eco­nomisti, politici e scienziati. Che stanno trac­ciando i confini di una disciplina nuova: la “science of happiness“, la scienza della felicità.  C’è anche un segnale paradossale: non c’è una maggior felicità dove le economie stanno rapida­mente crescendo. La spiegazione è nell’inadeguatezza del modello sinora considerato alla base della felicità. Il capitalismo trasforma i lussi in ne­cessità, e trascina le masse a desiderare, per essere felici, ciò che è nelle mani di una pic­cola élite. Questo meccanismo di desideri indotti­ funziona finché quelli che hanno meno, ambiscono a raggiungere ciò che a loro è precluso. I paesi in via di sviluppo, che non hanno mai giudicato essenziali certi beni, una volta che li hanno ottenuti non sono per questo più felici. Anche perché, a mano a mano che gli standard di vita migliorano, la gente si abi­tua immediatamente al benessere. Scriveva Do­nata Francescato, docente di Psicologia di Comunità alla Sapienza di Roma fino al 2014: “Nella nostra società è molto alto il capitale economico e intellettuale, ma non quello sociale. Mancano cioè reti di solidarietà e la possibilità di un reale confronto con gli altri. E questo è fonte di infelicità”.

«Maestro, di’ a mio fratello di dividere con me l’eredità»[1]
Nel vangelo di oggi l’appello di questo anonimo non è fuori luogo. Il diritto ebraico considerava l’eredità, lasciata dal padre, come indivisibile, almeno in linea di principio e come ideale; i beni avrebbero dovuto idealmente essere goduti in comune dagli eredi attraverso la vita comune dei fratelli e delle loro famiglie. Ne risentiamo un’eco nel salmo 133,1: «Com’è bello e come è dolce che i fratelli abitino insieme». Oggi diremmo che è un ideale da monaci che vivono insieme in un unico monastero. L’anonimo del vangelo probabilmente era un fratello minore che non aveva né la voglia né la possibilità di convivere con la famiglia del fratello maggiore e voleva la sua parte, come il figlio della famosa parabola dei due figli e del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32): “Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Qui Gesù non dà ragione all’uno o all’altro, ma porta, come sempre, la questione alla radice del problema. E approfitta per fare una catechesi che vale non solo per i due fratelli in conflitto di eredità ma per tutta la gente che gli sta intorno: è questione di bramosia, avidità, perdita del senso della vita, come scriverà l’apostolo Giacomo: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!”(Giac. 4,1-2).

Quale profitto in tutto l’affanno dell’uomo?
Il nucleo del brano evangelico è nelle frasi che fanno da cornice alla parabola del ricco stolto: “…anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” e “…così è di chi accumula tesori ma non arricchisce davanti a Dio“.
Molti salmi e proverbi invitano a riflettere sul rischio dell’accumulo di beni materiali; ecco un breve estratto: Salmo 17,10 “Sono duri di cuore a causa delle loro ricchezze, la loro bocca parla con arroganza”. Salmo 39,6 “Certo, l’uomo va e viene come un’ombra; certo, s’affanna per quel ch’è vanità; egli accumula ricchezze, senza sapere chi le raccoglierà”. Salmo 62,6 “se le ricchezze abbondano, si distacchi da esse il vostro cuore”. Proverbi 11,28 “Chi confida nelle sue ricchezze cadrà, ma i giusti rinverdiranno come fogliame”. Proverbi 30,8 “non darmi né povertà né ricchezze, nutrimi del pane che mi è necessario”.
Luca è l’evangelista che sembrerebbe più insistente sul problema dell’uso dei beni: 11,41; 12,33 (“Vendete quello che possedete e datelo in elemosina”); 14,33 (“Chiunque tra voi non rinuncia a tutti i propri beni non può essere mio discepolo”); tutto il capitolo 16. Anche nel libro degli Atti degli apostoli, Luca presenta la prima comunità alle prese con la comunione dei beni: “Nessuno riteneva cosa propria ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune” (Atti 2,42ss; 4,32ss; 5,1ss).  Il fatto che Luca ponga così spesso l’accento sul tema delle ricchezze materiali e dei beni significa che già allora questo poteva costituire un problema. Ben più oggi di ieri. Il problema coinvolge due grandi direttrici: una orizzontale, nel senso che l’accumulo della ricchezza genera l’ingiustizia sociale; una verticale, poiché l’accumulo della ricchezza allontana da Dio, sorgente unica di ogni bene. In questo secondo aspetto l’accumulo della ricchezza è connesso con l’idolatria: i molti beni rischiano di innescare un delirio di autosufficienza, cioè la convinzione di bastare a se stessi visto che si possiede molto.
Guardate attentamente, tenetevi lontano da ogni cupidigia…” avverte Gesù con un linguaggio che richiama l’invito a vigilare. Non solo stare in guardia ma “tenersi lontano” quasi che la semplice vicinanza a situazioni in cui siano coinvolte ricchezze possa catturarci nella rete. La prima constatazione della parabola che “la vita non dipende dai beni” è completata dalla seconda sull’importanza di “arricchirsi di fronte a Dio”. Senza questa conclusione il brano potrebbe essere letto in chiave di privazione e lascerebbe un legittimo interrogativo: se la vita non dipende dalle ricchezze da cosa dipende? Se il senso della vita non sta nell’accumulare beni su beni, dove va ricercato?
Il Libro del Qoèlet non ci consente illusioni: “tutto è vanità (hevel), un soffio di vento...”. Non solo le ricchezze materiali ma anche le esperienze più esaltanti, perfino la bulimia religiosa. Hevel è il nome di Abele. L’economista e biblista Luigino Bruni scrive[2]: «Tutto è Abele, canta Qoèlet. Sotto il sole, la terra è popolata da infiniti Abele, Il mondo è pieno di vittime, di sangue innocente versato, di fraternità che mutano in fratricidi. La condizione umana è effimera come lo fu la vita di Abele….Il libro di Qoèlet fu scritto in Israele durante la conquista greca, quando un grande impero stava imponendo la sua lingua e la sua cultura. Alcuni intellettuali ebrei erano affascinati da quel nuovo mondo e dai suoi valori di ricerca della felicità, del profitto, dei bei corpi, del piacere e della giovinezza. C’era però, tra i suoi contemporanei, chi vedeva in questa “globalizzazione” la crisi profonda della cultura di Israele».
L’illusione di autosufficienza del ricco della similitudine lo porta a considerarsi un arrivato: “Riposa, mangia, bevi e divertiti“. Ma quale è il vero riposo, quale è la gioia completa per l’animo umano? Come potremmo fare simili affermazioni oggi quando siamo parte di quel 20% dell’umanità che mangia tre volte al giorno, che ha l’acqua in casa e che può andare a scuola? E gli altri e le altre? Non sono forse figli e figlie del Signore? Non hanno le nostre medesime necessità, sogni, aspirazioni? L’occidente si sta ammalando di autosufficienza. Possiamo urlare nelle strade e nelle piazze che l’essenza della vita non dipende dalle ricchezze, che auspichiamo un mondo senza poveri e senza ricchi; ma questo mondo va costruito. Papa Francesco, nella sua Esortazione Evangelii Gaudium, scrive che l’annuncio del Vangelo deve penetrare anche nelle strutture economiche e finanziarie oltre che nelle coscienze: «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma  di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (n.53).

 Dacci di giorno in giorno il nostro pane necessario. (Lc 11,3)
Alcuni di noi, me compreso, hanno un piccolo o medio capitale, un’assicurazione, un gruzzoletto per il domani. Non si sa mai: una disgrazia, una vecchiaia rincitrullita, una malattia devastante con badante al seguito. Non vorremmo essere di peso ad alcuno. Non siamo capitalisti che vivono di rendite provenienti dallo sfruttamento altrui o da rendite parassitarie. La nostra serenità l’abbiamo trovata nella quotidianità del nostro lavoro godendone i frutti. Padre, dacci il nostro lavoro quotidiano e ci basta. Eppure anche noi siamo stupiti dal mistero della Manna nell’esodo degli israeliti: «Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer (circa 4 litri) a testa, secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tendaColui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne… Mosè disse loro: “Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino”Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (Esodo 16,16-20). Luigino Bruni scriveva: “Tutti hanno diritto alla stessa quantità di manna, che viene distribuita in base al numero di membri delle famiglie, quindi sulla base dei bisogni. Per il pane, per i beni primari dell’esistere, siamo e dobbiamo essere tutti uguali. Ed è la comunione che non fa imputridire la manna e il pane di ogni giorno. In quell’accampamento ci saranno stati alcuni più abili e altri meno a raccogliere la manna prima che arrivasse il sole a scioglierla; ma al momento del suo consumo i meriti, la forza, l’età, il rango sociale, non contano più. Mosè, Aronne, Miriam, il ragazzo Levi, il pastore Giuseppe e sua moglie Lea, hanno tutti la stessa porzione di manna, perché tutti esseri umani. Ci deve essere qualcosa che ci fa uguali prima delle tante differenze. Ci devono essere beni di cui possiamo godere anche se non possiamo comprarli, ieri nel deserto verso il Sinai, oggi nei deserti del capitalismo finanziario. La manna è simbolo di questo tipo di bene primario, che sfama ciascuno solo se sfama tutti. Tutte le volte che qualcuno muore perché non ha potere d’acquisto per procurarsi il pane e gli altri beni primari dell’esistenza, stiamo rinnegando la legge fondamentale della manna. Molti hanno sognato una società dove ogni essere umano potesse godere di beni non in quanto consumatore e cliente ma perché essere umano: quando la realizzeremo? Non ci manca il pane, ci manca solo, e sempre di più, il rispetto della legge della manna. La manna, poi, non può essere accumulata, e quindi non può diventare oggetto di commercio[3].

[1] Cf. Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon, 2015, pag. 363.
[2] Luigino Bruni, Una casa senza idoli, Qoèlet, il libro delle nude domande, EDB, 2018.
[3] L. Bruni, La giusta legge del pane, Avvenire, 13 ottobre 2014




17 domenica C. 28 luglio 2019
CARO PAPA’ (MAMMA). Don Augusto Fontana

Papa Francesco, nell’omelia della Messa celebrata nello stadio di Morelia in Messico nel 2016, ha esordito: “Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi[…]La nostra vita parla nella preghiera e la preghiera parla nella nostra vita[…]A pregare si impara, come impariamo a camminare, a parlare, ad ascoltare[…]La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera”. …..

Preghiamo. Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo, nostro fratello e salvatore e donaci il tuo Spirito, perché, invocandoti con fiducia e perseveranza, come egli ci ha insegnato, cresciamo nell’esperienza del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Gènesi 18,20-32. In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci ». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».
Salmo 137. Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto.

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano.
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi 2,12-14. Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
Dal Vangelo secondo Luca 11,1-13. Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».  Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

CARO PAPÀ (MAMMA). Don Augusto Fontana

Chi é, chi siamo.
Di solito il dialogo rivela l’identità delle persone che si parlano. Mentre parlo con te decido chi sono per te e chi sei tu per me. La preghiera definisce l’identità di Dio e la mia. Per noi lui è Padre, per lui noi siamo figli e l’equazione determina la nostra fraternità. Chiamare Dio “Abbà, papà” significa proclamare con un respiro breve tutta la nostra storia di amore. Nelle nostre mani riceviamo la pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap. 2,17). «E’ lo Spirito che attesta che siamo figli ed eredi» (Rom. 8,15-117). Quando chiedo a Dio: «Come mi chiamo?» Lui risponde rivelandomi il suo nome, nel quale é rivelato anche il mio. Quando chiedo a Dio: «Che devo fare?» egli risponde: «Invoca salvezza con le lacrime agli occhi e con il fuoco nell’anima» perché questa passione dell’intercedere é un passo di avvicinamento verso il Dio dalle viscere materne, é un modo per esprimere l’amore esagerato.
Macario il Grande scrive: «Coloro che sono stati degni di diventare figli di Dio e di nascere dall’alto…piangono e si affliggono per tutto il genere umano, pregano versando lacrime per l’Adamo totale, infiammati dall’amore spirituale per tutta l’umanità». Papa Francesco, nell’omelia della messa celebrata nello stadio di Morelia in Messico nel 2016, ha esordito: “Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi[…]La nostra vita parla nella preghiera e la preghiera parla nella nostra vita[…]A pregare si impara, come impariamo a camminare, a parlare, ad ascoltare[…]La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera”.

Uno sguardo panoramico sul Padrenostro.
• S.Agostino ha scritto che il Padrenostro è il Battesimo quotidiano. Tertulliano ha scritto che il Padrenostro è la “somma di tutto il Vangelo” (Breviarium totius evangelii).
• La vera preghiera cristiana rinuncia al miracolo perchè non vuole modificare la situazione attraverso la magia. Il teologo Carlo Molari scrisse :  “Mi sembra sia Anthony de Mello a raccontare di una sua preghiera che non trovava risposta. Di fronte ad una madre in pianto perchè il figlio moriva e non sapeva cosa fare, egli pregava: «che stai facendo, mio Dio, per questa madre a cui muore il figlio? Non vedi come soffre?». L’unica risposta era il silenzio. Solo dopo lungo pregare sentì chiara la risposta: «Che faccio? Per questa madre ho fatto te!». Pregare quindi non è chiedere a Dio di intervenire al nostro posto, ma è aprirsi alla sua azione per diventare capaci di accoglierla in modo così ricco da essere in grado di compiere per noi e per gli altri ciò che la vita ci chiede. La preghiera è appunto l’atteggiamento che l’uomo assume per accogliere l’energia vitale che gli viene continuamente offerta, è l’esercizio quotidiano per aprirsi alle forme nuove di esistenza ed accogliere la forza creatrice in modo da esserne sempre pieni. E’ come quando ci mettiamo sotto il rubinetto con le mani chiuse: l’acqua scorre e non possiamo trattenerla. Quando invece apriamo le palme siamo in grado di raccogliere almeno un po’ della tanta acqua che è a nostra disposizione. Pregare è aprire le mani perchè un po’ dello straripante dono di Dio possa essere interiorizzato. La preghiera perciò non serve per scuotere l’onnipotenza di Dio a nostro favore, ma a modificare il nostro atteggiamento nei suoi confronti”.
• Nella preghiera di domanda e di intercessione scopriamo la nostra storia come storia di desideri. Nella preghiera del Padrenostro, i nostri desideri coincidono con quelli di Dio. Nella nostra preghiera di domanda di solito chiediamo secondo i nostri interessi. Nella preghiera del Padrenostro invece si desiderano le cose di Dio, di fatto si desidera Lui. Succede come nell’amore: non desidero le tue cose ma Te. Sant’Agostino dice che possiamo pregare con parole diverse dal Padrenostro, ma non possiamo chiedere cose diverse.
• La preghiera è fatta IN CRISTO. Si dice questo soprattutto della preghiera liturgica, ma anche ogni preghiera personale è fatta IN CRISTO. Noi preghiamo in Lui e con Lui. Lutero disse: ” Noi possiamo rivolgerci al cielo di Dio solo salendo sulle spalle di Cristo“.
• Il Padrenostro rappresenta la corretta relazione tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, tra religioso e politico. Nella prima parte di questa preghiera la causa di Dio è fatta propria dall’uomo e nella seconda parte la causa dell’uomo è presa a cuore da Dio. Ciò che Dio ha unito, nessuno separi!
• La preghiera non è il primo atto che l’uomo compie; prima dell’orazione di solito esiste uno choc esistenziale e solo dopo sorge l’invocazione, il ringraziamento. Quale choc esistenziale sta alla base del Padrenostro?:
1. Il mondo ha le vene aperte e perde sangue. La creazione geme (Rom 8,22). Ogni società ha i suoi massacri, i suoi martiri, i suoi crimini collettivi.
2. Il mio essere soffre: ” Sono uno sventurato. Chi mi libererà?“(Romani 7,24). La rottura non lacera solo le società, ma anche il cuore dell’uomo: “Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio“(Rom. 7,19). La nostra vita quotidiana non sfugge all’enigma, all’assurdo e alle nostre cattiverie.
3. “La creazione attende con impazienza” (Rom. 8,19): di fronte alle assurdità collettive e personali si possono assumere 3 atteggiamenti: rivolta, rassegnazione, speranza. Questo tempo è il tempo intermedio di crisi, di tentazioni, di decisioni, Esiste una situazione di urgenza. C’è una coscienza di catastrofe imminente. Mentre il Signore ha garantito che il mondo malvagio ha i giorni contati, tuttavia anche Lui “tarda” e da “onnipotente” si fa “impotente” e desiderante con noi.

Il Padrenostro in Luca.
Utile il confronto tra le due versioni, quella di Matteo e quella Luca. Qualcuno mi potrebbe chiedere: «Ma quale delle due ha veramente insegnato il Signore?». E io risponderei: «Il Signore ha insegnato a pregare e non ha dettato una formula».
Il Padrenostro in MATTEO 6, 9-13
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Il pane nostro epiousion {essenziale} dà a noi oggi [sèmeron], e cancella a noi i nostri debiti come noi li abbiamo cancellati ai nostri debitori,
e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal male

Il Padrenostro in LUCA 11, 2-4
Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno;
il pane nostro epiousion {essenziale} continua a dare a noi ogni giorno {kath’emèran},
e cancella i nostri peccati, perché anche noi li cancelliamo a tutti i nostri debitori,
e non ci esporre alla tentazione….
… quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».

Cerchiamo di cogliere alcuni elementi del contesto in cui Luca inserisce la preghiera del Signore.
1. La pagina di Luca è preceduta dall’episodio di Marta e Maria. Maria è il simbolo del discepolo che non si agita per cose non essenziali. Ci troviamo di fronte ad una catechesi battesimale sulla preghiera. Si potrebbe dire: ECCO LE COSE DI CUI AVETE SOSTANZIALMENTE BISOGNO.
2. Il Padrenostro di Luca si trova chiuso dentro queste 2 domande: « Padre, sia santificato il tuo nome….donaci lo Spirito Santo». La preghiera specifica del cristiano maturo è “chiedere lo Spirito Santo”.
3. All’interno di queste due domande il brano è pervaso da situazioni di “pericolo” nelle quali si trova chi sta pregando: la domanda del Regno è minacciata dalla fame, dai test della vita, dalle relazioni conflittuali e dal male. Rappresenta originariamente la preghiera per chi, chiamato a seguire Gesù, ha lasciato casa, campi, lavoro e famiglia; è l’espressione orante del radicalismo migratorio dei discepoli al seguito di Gesù Messia, accanto al quale essi sperimentano, ogni giorno, Dio come Padre. Il cristiano, comunque, prega perchè si trova in una situazione di urgenza e sta vivendo una vicenda storica che lo mette in crisi. L’orante non è uno che si trova comodamente seduto in poltrona e riempie il suo tempo con una pia elevazione dell’anima a Dio. La preghiera del Padrenostro è pronunciata da chi non ha tempo. Di solito si sente dire “Prego poco perchè non ho tempo”; come se la preghiera fosse affidata da Cristo solo a monaci o a gente sfaticata che ha tempo da vendere. Collegare i Salmi al Padrenostro significa amplificare, con tutta la storia emblematica di Israele, le grandi passioni e le grandi emergenze entro le quali vive il discepolo.

FRAMMENTI DI “PADRENOSTRO”.

PADRE. ABBA’ (papà) e IMMA’ (mamma) sono le prime parole che pronunciano i bambini ebrei. C’è quindi una componente fiducioso-familiare, anche se nella cultura ebraico-semitica l’immagine del padre conteneva meno elementi sentimentali della nostra cultura attuale; JAHWE’ veniva considerato GENITORE in quanto creatore della vita e in quanto responsabile della formazione di una massa in popolo. Il nome Jahwè significa: “Eccomi qua”: “Pertanto il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: eccomi qua” (Isaia 52,6). Significa che non siamo mai orfani, smarriti, abbandonati al caso. La vita è anche grazia, ed ogni esistenza è benedizione. Impariamo così a discernere, nelle cose e negli eventi, la Paternità di Dio che, come diceva S. Ireneo di Lione, “ha creato tutto con le sue due sante mani: il Figlio e lo Spirito“. Da qui si impara a non più maledire, a non più disprezzare. Nessuna delle diverse richieste contenute nella preghiera del Signore verrà intesa rettamente se si perde contatto, durante la preghiera, con la prima parola: «Padre!» che va posta non solo prima della preghiera nel suo complesso, ma anche prima di ogni singola richiesta: Padre sia santificato il tuo nome, Padre venga il tuo regno, Padre, sia fatta la tua volontà…Pronunciare la parola “Padre” è già di per sé una preghiera. Nel culto cristiano esistono 2 brevissime preghiere: una consiste nel dire “Padre” e l’altra consiste nel dire “Amen“. Nessuno dica più che “non ha tempo di pregare!”.
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME. La parola semitica QODES si traduce con “tagliare-separare“. Viene dichiarato Santo ciò che è separato dalla quotidianità profana e quindi l’aggettivo è solo attribuibile a Jahwè IL SANTO. La domanda “sia santificato il tuo Nome” nasce da una constatazione e da un desiderio. La constatazione: la situazione oggettiva della vita, a causa delle sue profonde distorsioni, nega la glorificazione di Dio e favorisce il bestemmiare. Il desiderio: dire che Dio è SANTO è dichiarare che è il TOTALMENTE ALTRO, che non è la proiezione delle nostre alienazioni e desideri. Noi desideriamo di non addomesticare Dio nelle botteghe dei nostri interessi.
Dio vuole che anche l’uomo sia santo: “Siate santi, perchè io sono santo“(Levitico 11,44; 19,2). Dio è l’utopia realizzata di ogni uomo che desideri essere più di quanto è di fatto. Dio vuole manifestarsi santo nelle nostre opere buone: “La vostra luce risplenda davanti agli uomini perchè vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli“(Matteo 5,16). Nella tradizione giudaica l’espressione Qiddush ha-Shem (<santo [sia] il Nome>) era diventato un modo per indicare il martirio o la testimonianza pubblica.
Quando si dice che la “gloria di Dio è l’uomo vivente” significa che l’uomo costituisce la visibilità del Nome di Dio. Quando l’uomo e la donna sono impoveriti ed oppressi, il Nome di Dio va in esilio e si nasconde nella loro povertà. Noi nella preghiera chiediamo a Dio di ribaltare la situazione dell’uomo sfigurato perchè si manifesti chiara la Sua presenza, perchè avvenga definitivamente la sua Epifania.
VENGA IL TUO REGNO. E’ la domanda centrale del Padrenostro ed è il cuore dell’Evangelo perchè il nucleo del messaggio di Gesù e il movente della sue azioni stanno in questo REGNO: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Marco 1,14). La preghiera “sia santificato il tuo Nome” cesserà quando verrà il Suo Regno:”Poi sarà la fine quando il Cristo consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e potestà. Allora Dio sarà tutto in tutti” (1 Corinzi 15,23-28).
Del Regno di Dio, il Nuovo Testamento parla 122 volte sia per indicare la sovranità di Dio che per indicare la condizione dell’uomo dentro la grazia di una vita serena e giusta. Dio regna quando viene riconosciuto Dio che crea e che si prende a cuore le situazioni umane. “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo. Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra darà il suo frutto. Davanti a lui camminerà la giustizia e sulla via dei suoi passi la salvezza”. (Salmo 85). Questa fede nasce dall’esperienza dell’esodo. Esodo 2,23-25: “Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. 24 Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. 25 Dio guardò la condizione degli Israeliti e se la prese a cuore”. Jahweh è il Dio del soccorso ai bisognosi, che non si rassegna alle sofferenze causate dagli uomini.
L’uomo è abitato dal “principio-speranza” che si manifesta con la tensione verso il nuovo, verso il senza-frontiere, verso la pace e il benessere soprattutto relazionale: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leone si ciberà con la paglia del bue, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi e non ci saranno più azioni inique né saccheggi“(Isaia 11,6-9). “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più….Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. (Apocalisse 21,1-7)
CONTINUA A DARCI OGNI GIORNO IL PANE EPIOUSION. Per quanto possano essere alti i pensieri della mente e spirituali le virtù, l’uomo ha bisogno di una infra-struttura materiale (acqua, aria, pane…). Questa infra-struttura è così importante che Gesù ha legato la salvezza o la perdizione al fatto di averla o no accolta in modo giusto e fraterno (Matteo 25, 31-46). S. Basilio Magno già nel 300 affermava: “All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa; allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano i vestiti che sono nel tuo baule; al povero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti“.
Il testo greco usa il termine “epiousion” di difficile traduzione. Forse significa “pane necessario per vivere oggi” (forse era una preghiera che i seguaci di Gesù recitavano al mattino prima di partire per l’avventura esposta della missione); o forse significa “pane definitivo”: “Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio” Lc.14,15). Il Signore ha insegnato a non affannarci per i domani (Matteo 6) come già il Libro dei Proverbi aveva insegnato a chiedere: “Non darmi nè povertà nè ricchezza; fammi avere il cibo necessario” (Prov.30,8). Il Signore ci ha detto “Io sono il Pane di vita” (Giov. 6).
Matteo scrive il verbo “dare” al tempo aoristo (dòs) che esprime un pressante appello: «Dacci immediatamente» (oggi). In Luca la stessa parola si trova nella forma greca del presente (didou) che significa «continua a darci» a cui fa seguito non la parola «oggi», ma «ogni giorno» (in greco: kath’emeran).
Quando si dice “pane” non si pensa solo al cibo, ma ad ogni cosa di cui abbiamo necessità per vivere bene o sopravvivere, per esempio l’amicizia, la resistenza contro le difficoltà, la serenità interiore…
CANCELLA A NOI I NOSTRI PECCATI PERCHE’ NOI LI… L’uomo non vive di solo pane, ma anche di un’altra infra-struttura senza la quale non esiste: ha bisogno di sentirsi inserito nel tessuto sociale. Il perdono è il pane della vita comunitaria. L’uomo non solo vive, ma anche con-vive. L’io personale è abitato dagli altri e compromesso con essi. Noi siamo in debito con gli altri, sempre: questo è il nostro “debito innocente”: ciò che mangiamo, di cui ci vestiamo e i servizi di cui godiamo hanno impresso il marchio della fatica di qualche uomo o donna. Oltre a questo debito “innocente” abbiamo anche dei “debiti colposi” rappresentati da ciò che doveva essere fatto per gli altri e non è stato fatto. Abbiamo poi dei “debiti dolosi”. Ciò che è stato detto dei rapporti umani si riferisce anche ai nostri rapporti con il Padre: abbiamo verso di Lui dei debiti innocenti, colposi e dolosi. E’ d’obbligo evocare la Parabola del servitore insolvente (Matteo 18,23-35): poichè Dio mi ha perdonato sono in grado di trovare le ragioni sufficienti e i motivi per perdonare ai colleghi servi, in quanto sono invaso dalla gratitudine.
Mentre la formulazione di Matteo parla di “debiti”, quella di Luca parla di “peccati”: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora, per la tua preghiera, ti saranno rimessi i peccati“(Siracide 28,2).
NON ABBANDONARCI NELLA PROVA. Dice Gesù: “Il Figlio dell’uomo, alla sua venuta, troverà forse la fede sopra la terra?” (Luca 18,8). Bisogna dunque “vegliare e pregare per non entrare nella tentazione (prova)“(Marco 14,38). Con questa parte del Padrenostro noi chiediamo di essere preservati dal perdere la fiducia in Lui. “Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà; sorgeranno falsi profeti che faranno grandi prodigi e inganneranno molti“(Matteo24,22-24). Siamo esseri strutturalmente messi in libertà e quindi in continua necessità di scegliere : “Nel mio intimo acconsento alle Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla Legge dello spirito e che mi rende schiavo della legge del peccato. Sono uno sventurato! Chi mi libererà?…“( Romani 7,22-24). La morte stessa resta per tutti come la grande tentazione da cui essere liberati.

(Per un chiarimento su “non abbandonarci alla tentazione” consiglio di collegarsi a: https://www.interris.it/religioni/padre-nostro–chi–il-vero-tentatore) 

Inoltre consiglio acquisto (€ 15,00) e lettura di 150 pagine deliziose:

 




Domenica 16a. 21 luglio 2019.
CONTEMPL-ATTIVI. Don Augusto Fontana

«Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi» (Rom.15,7). Invece una delle caratteristiche della nostra società é l’anonimato. Abitiamo insieme senza conoscerci, gli uni stranieri agli altri, perfino dentro i rapporti più cari e intimi. E le prospettive non sono rosee visto che cresce la privatizzazione e il soggettivismo. Coltiviamo il sospetto che gli altri si intromettano nella nostra vita per privarci di qualcosa anziché per darci una vita insperata come succede ad Abramo nella prima lettura o per darci una diversa dignità come succede alle due donne del Vangelo. Gesù e gli altri, accolti come risorsa: «Signore quando visiti la terra la disseti» dice il Salmo 64.

Preghiamo. Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli. Per Cristo nostro Signore.

Dal libro della Genesi 18,1-10
Abramo abitava presso le Querce di Mamre. Un giorno, nell’ora più calda mentre stava seduto all’ingresso della sua tenda, gli apparve il Signore. Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini in piedi, davanti a lui. Appena li vide dall’ingresso della tenda, subito corse loro incontro, si inchinò fino a terra e disse: – Mio Signore, ti prego, non andare oltre. Fermati. Sono qui per servirti. Vi farò subito portare dell’acqua per lavarvi i piedi. Intanto riposatevi sotto quest’albero. Poi vi darò qualcosa da mangiare. Dopo esservi ristorati potrete continuare il vostro viaggio. Non dovete essere passati di qui inutilmente. – Va bene, – risposerò, – fa’ come hai detto. Abramo entrò in fretta nella tenda, da Sara. – Presto, – le disse, – impasta tre razioni di fior di farina e prepara alcune focacce. Egli stesso corse dove teneva gli animali, scelse un vitello tenero e buono e lo diede un servitore che subito si mise a prepararlo. Prese del burro, del latte, la carne che era stata preparata e portò tutto agli ospiti. Mentre essi mangiavano sotto l’albero, egli stava in piedi accanto a loro. Alla fine gli chiesero: – Dov’è tua moglie Sara? – Nella tenda, – rispose Abramo. Il Signore disse: – Io ritornerò sicuramente da te l’anno prossimo e allora tua moglie Sara avrà un figlio.

Salmo 14 . Chi teme il Signore, abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora chi teme il Signore.
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo resterà saldo per sempre.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 1, 24-28.
Fratelli, sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo.

Dal Vangelo secondo Luca 10,38-42
Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola; Marta invece era distolta dai molti servizi. Allora si vece avanti e disse: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti affani e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”.

CONTEMPL-ATTIVI. Don Augusto Fontana

 «Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi» (Romani 15,7). Invece una delle caratteristiche della nostra società é l’anonimato. Abitiamo insieme senza conoscerci, gli uni stranieri agli altri, perfino dentro i rapporti più cari e intimi. E le prospettive non sono rosee visto che cresce la privatizzazione e il soggettivismo. Coltiviamo il sospetto che gli altri si intromettano nella nostra vita per privarci di qualcosa anziché per darci una vita insperata come succede ad Abramo nella prima lettura o per darci una diversa dignità come succede alle due donne del Vangelo.
Gesù e gli altri, accolti come risorsa: «Signore quando visiti la terra la disseti» dice il Salmo 64. L’apartheid non é solo verso gli stranieri, ma anche verso quelli di casa che non ascoltiamo in profondità, o verso chi non appartiene alla tribù del nostro schieramento o della nostra fede. Su questo fondale risuona la parola del Signore: «Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi». Siamo qui in questa tenda di Abramo, in questa casa che diventa il luogo ospitale di Cristo. E siamo invitati a rivivere i due eventi narrati dalla prima lettura e dal vangelo.
«Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi» (Rom. 15,7). Come Cristo ha accolto voi. Questa tenda che sembra la nostra tenda di fatto é la Sua. Le parti si invertono, le proprietà della tenda si fanno più chiare tanto che il Salmo di oggi ci fa proclamare « Chi ama il Signore, abiterà nella sua tenda». Nella sua tenda.
Allora i viandanti, gli stranieri siamo noi. E’ difficile accettare di riconoscere che ciascuno é uno straniero a se stesso, a Dio, agli altri, che ciascuno é fuori dalla propria vera umanità. E’ questo un luogo teologico fondamentale nella fede ebraica e cristiana. Dice il Salmo 38,13: Ascolta Signore la mia preghiera, il mio grido, le mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri. Il Signore ci fa la cortesia di quel padre della parabola di Luca 15,20 «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Questi verbi hanno il ritmo dei verbi del buon samaritano di domenica scorsa.
Noi, come Pietro siamo fuori, non solo dall’aula del tribunale dove si svolge il processo a Gesù, ma ancora più lontano, fuori addirittura dal cortile «Tu sei del suo gruppo! disse la serva a Pietro. Ma egli negò: “Non so e non capisco quello che vuoi dire”. E uscì fuori del cortile e il gallo cantò» (Mc.14,68). Ecco dove andiamo spesso: “fuori del cortile”. Pur bisognosi di casa, abbiamo fatto non uno, ma due passi indietro. Chi fra noi, oggi, sente risuonare quel canto stridulo del gallo che lo riporta all’incontro con quegli occhi brucianti come un rimprovero, ma vitalizzanti come un’utero, come dice Luca «guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto»? Chi fra noi davvero percepisce oggi lo spessore di questa alienazione, di questo stranierità, di questo essere fuori o di questo venire da lontano? Chi fra noi sente risuonare dentro le parole di Gesù sulla porta della sua tenda:«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mat. 11,28)?
Su questa assoluta ospitalità del Signore c’è però un’ombra che non ci lascia tranquilli perché si può rischiare di restare chiusi fuori: «arrivò lo sposo e le ragazze che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre ragazze e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco»(Mt. 25,10-12).
Chi, fra noi, si sente bene qui sulla soglia della tenda del Signore? Chi si é sentito aspettato e ora si sente arrivato a casa e sente il beneficio di un’aria avvolgente, priva di giudizi, ma gravida di energia, gravida di parole terapeutiche sebbene non falsamente consolatorie?

Dentro di me abitano Marta e Maria.
Ma ora sulla soglia di questa tenda o nelle mura di questa casa le parti si invertono.
Gesù a volte si autodefinisce un passatore, uno straniero, un viandante. Due domeniche fa, al discepolo che voleva seguirlo Gesù chiarisce la propria identità: «Le bestie hanno tane e nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove appoggiare il capo» (Luca 9,58). E nell’Apocalisse 3,20 «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». E infatti nel vangelo di oggi: «Una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa e si mise a servirlo» (Lc.10,38) e la sorella «ascoltava la sua parola».
E qui emerge l’antico problema: é vero che Gesù opta per una modalità di accoglienza contemplativa considerata più qualificata dell’altra diaconale e attiva? Diceva l’Apocalisse: Se qualcuno ascolta la mia voce…
Alle donne era impossibile diventare discepole di un rabbi: «Si brucino le parole della Torah, ma non siano comunicate ad una donna» (Talmud Babilonese Sotàh 19a).
La parte migliore scelta da Maria é la capacità di ridefinire il proprio statuto di vita e la propria identità. Passare, cioè, da donna a discepola. «Ascolta Israele!» (Deut. 6,4-5). E’ davvero una nuova spiritualità soprattutto laicale che ci indica come ospitare Dio.
Anthony De Mello[1] ci narra: “Un giovane discepolo appena arrivato al monastero chiese al maestro: «Qual é l’atto supremo che una persona può compiere?». E il maestro rispose: «Sedere in meditazione». Ma il discepolo vedeva che il maestro non sedeva mai in meditazione ed era incessantemente impegnato nei lavori di casa, nei campi, nell’incontrare gente o scrivere libri. Finchè un giorno il discepolo gli chiese: «Allora perché passi tutto il tuo tempo lavorando?». Al che il maestro rispose: «Quando si lavora non si deve necessariamente smettere di sedere in meditazione»”.
Occorre restare discepoli di Gesù sempre, come dice il documento del convegno di Palermo del 1995: «L’amore congiunge preghiera con impegno in modo da renderci contemplativi nell’azione e fare memoria del mondo davanti a Dio…Non è uno spiritualismo intimista, nè un attivismo sociale, ma una sintesi vitale, capace di redimere l’esistenza vuota e frammentata, di dare unità, significato e speranza» [2].
Comunque sembra che Gesù non andasse poi sempre tanto per il sottile in quanto pare che le porte che si aprivano di più fossero quelle di gente di cattiva reputazione tanto da infastidire i suoi: «Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?» (Mt. 9,11). Gli é capitata bella; dopo essere stato il Dio che accoglie, gli capita di diventare a sua volta mendicante di ospitalità e per di più straniero in casa propria: «…poi lo condussero fuori della città per crocifiggerlo» (Marco 15,20). «Si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio» (Luca 4,29). Anzi in quella pelle da straniero sembra starci bene visto che opta per quella situazione come luogo di riconoscimento della sua presenza: «Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato?… Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.» (Mt.25,38-40).
Come Cristo ha accolto voi, accoglietevi gli uni gli altri. Se c’é una motivazione per l’accoglienza questa nasce dall’aver fatto esperienza di essere stati accolti.
E’ necessario chiederci ogni mattina e sera: «Chi può dipendere da me oggi? chi mi é passato accanto?» E occorre anche guardarsi in giro come Abramo perché se non lo avesse fatto avrebbe perso l’occasione della sua vita. Quel Dio che appare ad Abramo nelle spoglie dello straniero é la prefigurazione dell’Incarnazione di Gesù. Dice S. Tommaso che noi conosciamo Dio come “sconosciuto”. E noi questa alterità, questa stranierità di Dio la sperimentiamo ogni volta che entra, nella nostra cerchia, il diverso e l’estraneo. In quel momento ci troviamo provocati ad espellere ciò che non ci rassomiglia, ma é bene che ci rendiamo conto che «quando arriva il barbaro arriva Dio», come scrisse Padre Ernesto Balducci [3]. Ecco perché la non accoglienza é un peccato contro la fede; é come se non credessi che l’Incarnazione di Gesù prosegue in loro.

Contempl-attivi.
Riflessioni liberamente tratte dal libro: Cirenei della gioia” di Don Tonino Bello:
si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita” (Giovanni 13,4). Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell’azione. Alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee. Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c’è anche da fare i conti con la sponda della vita. La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell’intimismo ovattato dove le percussioni del mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l’ordine del giorno che il mondo ci impone.


[1] A. De Mello Un minuto di saggezza pag.184.
[2] da “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia” n. 11

[3] E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco, vol. 3, Commento alla liturgia della Parola anno C, Borla 1979, pag. 269.




15a domenica C – 14 luglio 2019.
Il SAMARITANO: PSEUDONIMO DI GESU’. Don Augusto Fontana

Si chiama “reato di omissione di soccorso” quello del sacerdote e del levita che transitano fischiettando accanto all’uomo colpito dai rapinatori. Reato diffuso oggi sui cigli delle strade da criminali che feriscono o uccidono e tirano dritto; reato che assume proporzioni intollerabili quando non si compie on the road ma nella mia e, forse, tua coscienza. Lì abbiamo steso una pellicola impermeabile ad ogni notizia che riguarda la carne ferita di uomo, donna, vecchio, bambino, carne della nostra carne. Il samaritano della parabola fu fortunato: incontra un ferito una volta ed è santificato da Gesù per i secoli dei secoli…

 15a domenica C – 14 luglio 2019

Preghiamo. Padre misericordioso, che nel comandamento dell’amore hai posto il compendio e l’anima di tutta la legge, donaci un cuore attento e generoso verso le sofferenze e le miserie dei fratelli, per essere simili a Cristo, buon samaritano del mondo. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen

Dal libro del Deuteronomio 30,10-14. Mosè parlò al popolo dicendo: “Obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge; e ti convertirai al Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Sal 18 I tuoi giudizi, Signore, danno gioia.
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è verace[1], rende saggio il semplice.
Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi.
Il timore del Signore è puro, dura sempre; i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,
più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 1,15-20. Il Dio invisibile si è fatto visibile in Cristo, nato dal Padre prima della creazione del mondo. Tutte le cose create, in cielo e sulla terra, sono state fatte per mezzo di lui, sia le cose visibili sia quelle invisibili: i poteri, le forze, le autorità, le potenze. Tutto fu creato per mezzo di lui e per lui. Cristo è prima di tutte le cose e tiene insieme tutto l’universo. Egli è anche capo di quel corpo che è la Chiesa, è la fonte della nuova vita, è il primo risuscitato dai morti: egli deve sempre avere il primo posto in tutto. Perché Dio ha voluto essere pienamente presente in lui e per mezzo di lui ha voluto rifare amicizia con tutte le cose, con quelle della terra e con quelle del cielo; per mezzo della sua morte in croce Dio ha fatto pace con tutti.

Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37. Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Torà? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò dall’altra parte. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.

 Il SAMARITANO: PSEUDONIMO DI GESU’.  Don Augusto Fontana
Si chiama “reato di omissione di soccorso” quello del sacerdote e del levita che transitano fischiettando accanto all’uomo colpito dai rapinatori. Reato diffuso oggi sui cigli delle strade da criminali che feriscono o uccidono e tirano dritto; reato che assume proporzioni intollerabili quando non si compie on the road ma nella mia e, forse, tua coscienza. Lì abbiamo steso una pellicola impermeabile ad ogni notizia che riguarda la carne ferita di uomo, donna, vecchio, bambino, carne della nostra carne. Il samaritano della parabola fu, tutto sommato, fortunato: incontra un ferito una volta nella vita ed è, per questo, santificato da Gesù nel suo vangelo per i secoli dei secoli. Ma noi, ogni giorno vediamo, sappiamo, conosciamo carni maciullate, schiave esposte, bimbi violati di sesso o di armi o di lavoro. Siamo all’assuefazione, alla indifferenza inescusabile ma inevitabile. La “Evangelii gaudium” (n.53) scrive: “Si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete”.
Don Milani difendeva il “principio della cura” (I care = mi preoccupo) contro quel sottile qualunquismo di ieri che ha infettato anche me. E mi chiedo come fa Dio, il Signore, a non diventare un po’ assuefatto pure lui che da quel giorno sul monte Oreb continua a guardare, ascoltare e scendere per liberare: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto» (Es. 3,7-8).
Padre Antonio Izquierdo scrisse, con una felice intuizione, che «il buon samaritano è lo pseudonimo di Gesù».
I Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino, Gerolamo e altri) tenendo conto di tutto il simbolismo di Gerusalemme, interpretano in modo particolare questa parabola. Nell’uomo che scende da Gerusalemme verso Gerico vedono la figura di Adamo ribelle che rappresenta tutta l’umanità espulsa dall’Eden, dalla Gerusalemme Celeste. Nei briganti che assalgono l’uomo, i Padri della Chiesa vedono il tentatore che ci spoglia dell’amicizia con Dio e ci percuote con le sue insidie. Nella figura del sacerdote e del levita vedono l’insufficienza dell’antica Legge per la nostra salvezza e che invece sarà portata a compimento dal nostro Buon Samaritano, Gesù Cristo, che partendo anche lui dalla Gerusalemme celeste ci cura con l’olio della consolazione e il vino dello Spirito e della speranza. Nella locanda i Padri vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore, intravedono i pastori nelle mani dei quali Gesù affida la cura del suo popolo. La partenza del samaritano dall’albergo, i Padri la interpretano come la risurrezione e l’ascensione di Gesù alla destra del Padre, ma che promette di ritornare per completare i suoi doni. Alla chiesa Gesù lascia i suoi due denari: la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Questa interpretazione allegorica e mistica del testo ci aiuta a cogliere bene il messaggio di questa parabola. 

PERSONAGGI E INTERPRETI. 

   Un uomo incappò nei rapinatori. Gesù ambienta la parabola in questa strada tra Gerusalemme e Gerico, nota per le sue insidie. Quest’uomo è Adamo, è ognuno di noi camminatori imprudenti su sentieri che conducono lontano dall’Eden. «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri» (Salmo 24,4). Questa strada si presta a interpretare bene anche la nostra situazione di discepoli: “Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10, 3).
   Un sacerdote vedendolo passò dall’altra parte. Il sacerdote è un professionista della religione, come qualsiasi devoto che passa il suo tempo in chiesa; si trova per caso sulla via della sofferenza dell’uomo ma, appena la sbircia, gira alla larga. L’essere accanto all’uomo che soffre, non fa parte dei suoi programmi o doveri perchè deve primariamente interessarsi delle “cose di Dio”. Se non sapessimo che questa parabola risale a Gesù la diremmo nata dalla mente dissacratrice di un nemico della religione, un’invenzione sacrilega di un anticlericale che si diverte a denigrare i preti. Ma siccome è Gesù a parlare ci mettiamo in ascolto di una profezia che vuole colpire liturgie e pratiche religiose avulse dalla carità e dalla vita: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; non posso sopportare delitto e solennità. Le vostre feste io le detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli» (Isaia 1,13-14).
    Il levita. Il levita è un funzionario che scodinzola nel tempio, un chierichetto, un seminarista, una monachella. Anche lui “passa dall’altra parte”. Il levita è il tipo di tutti coloro che, nella Chiesa, sono notai di Istituzioni e di Leggi, di Immobili e Tradizioni e sanno distinguere bene le eminenze e i monsignori.
   Un samaritano era in viaggio…Ora arriva Gesù, questo “extracomunitario samaritano” che si avvicina: «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Deut. 30,14) e io non possa accampare scuse dicendo che è irraggiungibile. L’Incarnazione è un Dio che anziché chiudersi in se stesso in maniera narcisistica e oziosa sceglie di aprirsi all’esterno. E’ ciò che i Padri antichi della chiesa hanno sintetizzato con l’idea della “con-discendenza” (syn-katàbasis), cioè il suo essere-per-l’uomo. Il teologo Chenu, in periodo di Concilio Vaticano II°, chiamava questa modalità dell’agire di Dio, “legge dell’estroversione[2]. Il Concilio Vaticano II° nella “Gaudium et spes” scrive: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo … egli si è fatto veramente uno di noi” (GS n. 10). E’ per questo motivo che “chiunque segue Gesù Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (GS n. 41). Il Gesù-samaritano sembra non gradire certi riti che privilegiano più il salotto che la strada, più le pantofole che gli scarponi da viaggio, più la vestaglia da camera che il bastone del pellegrino.
Forse alla base del racconto di Luca c’è una pagina del 2° Libro delle Cronache (28,15) dove alcuni Samaritani usano pietà verso i Giudei, esattamente come il Samaritano della parabola lucana. Se le cose stanno così, ci troviamo, anche qui, davanti a un midràsh cristiano del racconto del Libro delle Cronache [3].
   “passandogli accanto”. Gli altri due “passano dall’altro lato” con un gesto non solo di indifferenza, ma di esplicito scostamento. Altre volte questo “passare accanto” di Gesù ha scatenato campi magnetici tonificanti: Mt. 20, 30 «Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la strada, sentendo che passava, si misero a gridare: «Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!»; Mc 1,16 «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare…»; Mc 2,14 «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì»; Lc 19,4 «Allora Zaccheo corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là».
“lo vide”. Anche il “vedere” è una qualità di Dio e un suo dono. Non per niente Gesù guarisce parecchi ciechi. Ci vogliono occhi per vedere i poveri. “La povertà non è solo quella del denaro, ma anche della mancanza di salute, la solitudine affettiva, l’insuccesso professionale, la disoccupazione … gli handicap fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono dall’incapacità di integrarsi nel gruppo umano più prossimo” (Paolo VI). Sono i droup-out: i “caduti fuori” dal circuito, i caduti in disgrazia. Per loro il Gesù-samaritano ripete il rito del Padre misericordioso: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». (Luca 15,20).
“ne ebbe compassione”. Significa sentirsi provati emotivamente nell’indignazione e nella compassione materna: guardare la storia e la geografia dall’angolo dei poveri. Uno dei termini con cui l’A.T. indica la misericordia è rehamim, che propriamente indica le “viscere materne”: “Forse che la donna si dimentica del suo bambino, cessa di avere compassione del figlio delle sue viscere? Anche se esse (viscere) si dimenticassero, io non ti dimenticherò, dice il Signore. (Is 49,15)
“Gli si fece vicino (prossimo)”. Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor. 8,9).
“Gli fasciò le ferite, versò l’olio e il vino”. E’ strano il modo di curare del Gesù-Samaritano: noi prima avremmo versato il disinfettante (vino); poi avremmo spalmato unguento curativo (olio) e da ultimo avremmo fasciato. Ma quest’ordine non interessa al medico evangelista Luca il quale inverte le azioni; probabilmente vuol spiegare cosa fa Gesù ( e la chiesa) su di noi attraverso i tre sacramenti della iniziazione cristiana: battesimo/cresima ed Eucaristia. Fasciò le ferite: quando Gesù nasce è avvolto in fasce; quando Gesù muore viene avvolto in fasce-bende e deposto nel sepolcro. Esiste un’icona orientale che identifica la culla di Gesù come un sepolcro! Le fasce ci ricordano l’Incarnazione e la Risurrezione di Gesù e quindi il nostro Battesimo. A quest’uomo, spogliato delle vesti, della sua identità, il Gesù-samaritano ci fascia con una nuova veste, una “nuova-pelle”. Olio: re, sacerdoti e profeti venivano “consacrati” versando olio sul capo e sul corpo. Ancora oggi la chiesa continua su di noi questo rito di guarigione e di missione. Vino: l’Eucarestia è Il Calice versato per voi e per tutti in remissione…
“Lo caricò sul suo asino”. Origene commenta: “la cavalcatura è il corpo del Signore[4]. Luca parlerà, nel cap. 15, di questo “caricarsi sulle spalle”: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento…». Dopo le prime cure in emergenza, Gesù-samaritano passa ad una strategia ben organizzata: si carica…porta alla locanda…si prende cura fino al giorno dopo…dà un acconto…chiede all’albergatore di non lesinare sulle spese…promette di tornare. Perde tempo, prende tempo.
 “E lo portò ad una locanda”. Luca chiama questo albergo con un nome che potrebbe essere il titolo di ogni comunità cristiana: pandokeion = un “tutto-accogli”. Il samaritano-Gesù ci consegna alla sua comunità. E, forse, ci offre un metodo. Il samaritano si accorge di non farcela con i suoi mezzi privati e ricorre alla chiesa o alle istituzioni sociali. In sinergia. Franco Giulio Brambilla, teologo e oggi Vescovo di Novara, diceva: “Non è possibile pensare ad una società giusta nella quale venga meno il bisogno della carità. Ma ugualmente queste forme di carità non dovranno concepirsi come alternative o concor­renziali con le più faticose forme mediate dell’intervento nell’ambito socio-civile e politico. In ogni caso però, sia le forme della carità, sia quel­le dell’impegno socio-civile hanno da essere intese come parziali, anche se necessarie attuazioni della carità cristiana custodita nella parola e nel sa­cramento della fede, in particolare nell’Eucarestia[5].
“E si prese cura di lui”. Non basta un’elemosina, occorre un lembo della tua vita, del tuo mantello, perché il tetto, da solo, non copre, come la minestra non scalda se non c’è un po’ di alito umano, di tenerezza.
“Il giorno dopo estrasse due denari”. Il Gesù-Samaritano ha dedicato tempo, due giorni. E poi tornerà il terzo Giorno. Nel frattempo lascia due denari: “Ama Dio con tutto il cuore e il prossimo come te stesso”. O, come interpretano i Padri dei primi secoli, la Sacra Scrittura e i Sacramenti.

Gesù è l’apripista che mi precede incoraggiandomi a passare ora da un ascolto estetico o teorico della sua Parola verso una prassi: «Io ti ho fatto questo; ora va’ e fa’ anche tu lo stesso».


[1] Sinonimi: sincero, effettivo, schietto.
[2] Chenu M.D., “Pour une anthropologie sacramentelle”, in La Maison Dieu 119 (1974) 86.
[3] «Alcuni uomini, designati per nome, si presero cura dei prigionieri. Quanti erano nudi li rivestirono e li calzarono con capi di vestiario presi dal bottino, diedero loro da mangiare e da bere, li medicarono con unzioni; quindi, trasportando su asini gli inabili a marciare, li condussero a Gerico, città delle palme, presso i loro fratelli. Poi tornarono a Samarìa» (2Cr 28,15). Il «midràsh» è un metodo esegetico che appartiene alla tradizione giudaica, iniziato durante l’esilio di Babilonia e sviluppatosi nei secoli successi. Al tempo di Gesù era un modo usuale di leggere e commentare la Scrittura: «capire la Scrittura attraverso la stessa Scrittura», mettendo in relazioni, parole, frasi, testi uguali o anche solo assonanti per fare emergere significati nuovi e profondi.
[4] ORIGENE, Omelia su Luca, 34,3
[5] Convegno diocesano delle Caritas diocesane di Milano nel 1997.