6 novembre 2022. Domenica 32a
SPERARE E ATTENDERE

32 domenica anno C – 

 Preghiamo. O Dio, Padre della vita e autore della risurrezione, davanti a te anche i morti vivono; fa’ che la parola del tuo Figlio, seminata nei nostri cuori, germogli e fruttifichi in ogni opera buona, perché in vita e in morte siamo confermati nella speranza della gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal secondo libro dei Maccabèi 7,1-2.9-14
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». [E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
Salmo 16. Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa, sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera: sulle mie labbra non c’è inganno.
Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.
Custodiscimi come pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 2,16-3,5.
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca 20,27-38
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».  Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

SPERARE E ATTENDERE. Don Augusto Fontana.
«Non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo i segreti dell’avvenire, tutta la più alta sapienza di un uomo consisterà in queste due parole: sperare e attendere» (Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo).
In questi ultimi scorci del tempo liturgico 2022 si respira aria delle “cose ultime” o, detto meglio, delle “cose nuove[1]: « quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti…non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poichè sono figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20).
Ignazio Silone, a chi gli chiedeva perché avesse abbandonato la Chiesa, rispondeva che «si era stancato di stare con cristiani che dicevano di attendere Gesù Cristo e la risurrezione, ma poi l’aspettavano con la stessa indifferenza con cui si aspetta un tram»[2]
Il tema della resurrezione é ancora oggi soggetto a discussioni per il cambiamento di linguaggio affermatosi e per una recente apertura dell’occidente alla esperienze religiose orientali tra le quali si crede nella reincarnazione. L’antropologia giudaica che considera una forte unità tra corpo e spirito é diversa dall’antropologia e filosofia greco-ellenistica che ha maggiormente impregnato il cristianesimo occidentale e che separa corpo da anima.
Paolo parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali e assurde per un greco. Il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità limitata e colpevole. Invece il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1,27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste» (1Cor 15,49).
Il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «credo la risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

Insomma: a questo punto mi sta venendo il mal di testa e il capogiro. E a te?

I sadducei di ieri e di oggi. E Gesù.(Luca 20,27-38)
I sadducei, risalenti al sommo sacerdote Sadoq del periodo di Salomone, erano liberali conservatori dell’alta borghesia e tra loro c’erano molti dell’aristocrazia sacerdotale. Dal 6 al 70 d.C. fornirono quasi tutti i Sommi sacerdoti. La loro abilità politica con gli invasori romani permise loro di occupare posti chiave sotto Erode e i governanti romani. Erano in polemica contro i farisei su due punti:

  • solo la Torah scritta nei 5 libri di Mosè (pentateuco) aveva autorità in materia di fede;
  • non c’é resurrezione dai morti.

Tuttavia anche tra i farisei c’erano differenti interpretazioni sulla risurrezione: «Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba. Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre» (Salmo 114,17-18). Alcuni concepivano la risurrezione in modo molto materialistico, quasi che fosse una riedizione corretta di questa vita.
Tutto avveniva su riferimenti scritturistici e a colpi di citazioni bibliche.
Si dice spesso che l’idea della risurrezione fosse una novità piuttosto recente nata, nella riflessione religiosa ebraica, durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164 a.C.). Ne abbiamo numerosi cenni nel secondo libro dei Maccabei e nel capitolo 12 del libro di Daniele in risposta a una grave questione di giustizia: non è giusto che i buoni periscano e i criminali vivano a lungo. Il concetto di risurrezione sarebbe nato dall’idea di una retribuzione dopo la morte per ciò che gli esseri umani avrebbero vissuto sulla terra. In realtà quella fede affonda le sue radici più profondamente nel pensiero sia dei profeti che nei Libri sapienziali, non tanto per il desiderio di risolvere il problema della morte dei giusti, quanto per la riflessione sulle relazioni tra il Dio eterno e l’uomo effimero che pure è immagine di Dio. Si pensi ai testi come Isaia 26,19: «di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno. Svegliatevi ed esultate voi che giacete nella polvere» (vedi anche Osea 6,2; 13,14; Isaia 25,8); il testo di Ezechiele 37,1-14 invece (le ossa aride che si rivestono di carne e di soffio vitale), più che riferirsi alla resurrezione dai morti sarebbe una parabola del ritorno del popolo dall’esilio. Si pensi anche alla nota proclamazione di Giobbe (19,25-27): « Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro.». Però per i sadducei questi testi non appartengono al Pentateuco e quindi per loro non sono normativi[3]. E quindi tendono una trappola a Gesù appellandosi al Pentateuco e precisamente a Deuteronomio 25,5-10 dove vengono regolamentati, per la donna vedova, i doveri per assicurare la discendenza: «Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato». Le dettagliate prescrizioni vanno sotto il nome di “legge del levir” ossia “del cognato”. I sadducei, in modo palesemente ridicolo raccontano la storiella di una donna rimasta vedova sette volte e risposatasi con 7 cognati. Poi la domanda, per ridicolizzare: «La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie?».
Il nome di Dio si intreccia con il nome di uomini.
Gesù non si perde in virtuosismi esegetici e non va a riferirsi a testi che parlino esplicitamente della risurrezione per non ridurla ad una questione esegetica o a una disputa di scuola rabbinica. Egli cita sorprendentemente Esodo 3 che é un testo su Dio e non sulla resurrezione: «Il Signore è Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Gesù si rifà al centro delle Scritture cioè alla rivelazione del Dio vivente, all’amore di Dio e alla sua fedeltà. Se Dio ama l’uomo non può abbandonarlo in potere della morte. Dio non può più essere senza Abramo. Non lo si può più chiamare semplicemente “Dio”, ma lo si deve chiamare “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio non è dei morti, ma dei viventi”.  Scrive P.Ermes Ronchi: «Dio “di”: in questo “di”, ripetuto cinque volte, è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell’eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio. Così totale è il legame, che il Signore giunge a qualificarsi non con un nome proprio, ma con il nome di quanti ha amato. L’amore si mostra e si qualifica con il nome degli amati. Il nome di Dio si intreccia con il nome di uomini, è tutt’uno con il mio nome, anch’io amato per sempre, anch’io appartenente a un Dio vivo. Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre… Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste. Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza»[4].
C’é un testo molto significativo che é bene riascoltare dal Libro della Sapienza 11,22-12,1: «Tutto il mondo davanti a te é come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Ma tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se disprezzassi qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe resistere in vita una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita, poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose».
Gesù dunque parla di Dio e ne annuncia le caratteristiche di vita e vitalità fedele e amorosa. Risponde così, sia ai sadducei che negavano la risurrezione e sia ai farisei che la banalizzavano nelle dispute di fantareligione. La vita dei morti sfugge agli schemi di questo mondo, é una vita diversa: «uguali agli angeli … figli della risurrezione … figli di Dio».  Indirettamente risponde anche alla filosofia greco-ellenistica che non accetta la risurrezione del corpo ma solo l’immortalità dell’anima in quanto, afferma, solo lo spirito interiore ha diritto alla incorruttibilità. Per Luca la risurrezione non significa una semplice rianimazione di cadavere, ma un salto qualitativo; nella liturgia dei defunti esprimiamo questo dicendo “la vita non é tolta ma trasformata”. Oggi sarebbe bene parlare di resurrezione della persona.
Nel nuovo Testamento dopo la resurrezione di Gesù la chiesa primitiva lentamente riformula la sua fede. Esiste in noi una forza vitale (energia) espressa dalla vita cosciente e capace di amore: tutto questo ci é dato in germe. Vita non solo dono da trasmettere, ma anche da ricevere.
L’unica parola forte di speranza é la parola di Gesù al ladrone in croce: «Oggi sarai con me!». Il ladrone moribondo non ha chiesto il dove e il come. Forse non era nelle condizioni ottimali per fare una discussione teologica o un dibattito cultural filosofico! S. Ambrogio scrisse: “la vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno” (In Lucam X, 121).
Scriveva il teologo Carlo Molari[5]: «Sappiamo che non esiste un luogo chiamato cielo dove risiede Dio e dove andranno i corpi dei risorti alla fine della loro vita o della storia umana. Sappia­mo che gli elementi che compongono il no­stro corpo nel momento della morte riman­gono sulla terra fino alla fine dei tempi. In un modo o in un altro verranno assunti da molte altre creature e finiranno nella grande fornace in cui la terra terminerà la sua esi­stenza per altre modalità di esistenza. Per noi quindi la risurrezione consiste nell’entrare in un’altra dimensione di vita, che non pos­siamo immaginare. Come il feto nell’utero materno non è in grado di pensare la sua esistenza futura all’aria aperta, così noi non possiamo pensare in che cosa consista la mo­dalità del risorto».


[1] Nel linguaggio greco del Nuovo Testamento la parola è ta eskata.  Da cui deriva “escatologia”, un ramo della teologia.
[2] E.Bianchi, Da forestiero. In compagnia degli uomini. PIEMME, Casale Monferrato, 1995, pag. 62.
[3] Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon, 2015, pagg.557-559
[4] Padre Ermes Ronchi – Se Dio intreccia il suo nome col nostroAvvenire (07 Novembre 2004)
[5] Rivista Rocca, 1 novembre 2015. Pro Civitate Christiana, Assisi.




30 ottobre 2022. Domenica 31a
UN SICOMORO PER AMICO

Domenica 31 C

Preghiamo. O Dio, che nel tuo Figlio sei venuto a cercare e a salvare chi era perduto, rendici degni della tua chiamata: porta a compimento ogni nostra volontà di bene, perché sappiamo accoglierti con gioia nella nostra casa per condividere i beni della terra e del cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 11,22-12,2
Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,  Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.
Salmo 144   Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
O Dio, mio re, voglio esaltarti e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza.
Fedele è il Signore in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto.
 Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 1,11-2,2
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo. Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.
Dal Vangelo secondo Luca 19,1-10
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».  Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».  Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

UN SICOMORO PER AMICO.Don Augusto Fontana
«Venga il mio amato nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti» (Cantico 4,16). Gesù allunga la mano fra il fogliame del sicomoro e raccoglie un frutto squisito: Zaccheo.
Tu ami tutte le cose, Signore amante della vita. Tutte le cose recano il segno sacramentale della sua tenerezza. Queste cose, compreso gli uomini, sono come polvere e come goccia di rugiada. Eppure, “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, scrive S. Ireneo di Lione[1]. Pare che la nostra istintiva natura sia invece quella di saccheggiare non solo le cose, la creazione, ma anche la stima degli uomini, con  disprezzi o sospetti. Sotto, sopra e attorno a quel sicomoro accade una Rivelazione di chi è Gesù, di chi siamo noi, di come debba essere ogni chiesa e ogni assemblea liturgica.
Sogno che in ogni parrocchia (in ogni famiglia o cuore umano) esista una stanza, un angolo, un appartamento, un luogo che diventi come l’albero di Zaccheo. Scrive Vincenzo Andraous, un detenuto[2]: « Non c’è traccia del sicomoro né di Zaccheo quando si parla di carcere, di pena, di lacerazioni inferte agli altri e a se stessi. Ho pensato al sicomoro di Zaccheo, forse perché c’è bisogno di miracoli, di speranza, di parole di bene, chiare e non buoniste. Ho pensato al sicomoro, perché ha consentito al pubblicano corrotto di elevarsi a persona, di alzarsi dalla sua bassa statura morale. Il carcere avrebbe bisogno di una speranza per ogni persona detenuta, speranza che nel dolore e nella sofferenza di una perduta libertà possa coesistere la possibilità di una dignità da riacquistare e una rinascita da intraprendere. Ma non c’è traccia del sicomoro nei pressi di questa sorta di terra di nessuno, quale è il carcere. Il sicomoro è albero di terra che ricorda l’albero della croce. Ho ricordato Zaccheo, perché ha saputo “trasgredire” nella rinuncia ai beni della conformità e del potere, e pensare a lui significa consentire al cuore di rimuovere il filo spinato della diversità, delle regole della strada, dei disvalori che imperversano al di là dell’alto muro di cinta».
Da questo albero fa capolino un frutto: Zaccheo. Gerico è luogo di dogana per le merci provenienti dall’oriente. Era l’ideale per un collaborazionista romano che raccoglieva le tasse per conto dei militari che occupavano il paese. Odiati, quindi, sia per il collaborazionismo con l’invasore, sia per l’idolatria del denaro, sia per l’uso di estorcere più del dovuto a propri fini economici. Gli esattori non erano ammessi a testimoniare in tribunale perchè inaffidabili e indegni.
Ma ecco il protocollo di avvicinamento: quell’uomo coltiva una qualche curiosità (come Erode per vedere i miracoli o le folle per vedere i segni o quel figlio scapestrato della Parabola il quale ritorna al Padre per fame). E Gesù passa sotto e dentro questa curiosità che si presenta ancora come un feto senza forma ben definita. Non sempre gli va bene. Nè per Erode nè per le folle. Ma Lui scommette sempre sulla parte migliore di noi. E per Zaccheo è andata bene. Accade il mistero pasquale, oggi.
Cercare. Il testo inizia e termina con il verbo zētéō: nel v. 3, Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù»; nel v. 10, «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era per­duto». Il verbo ‘cercare’ è importante nella teologia di Luca, do­ve è associato a realtà diverse come la verità, la salute, il senso della vita o della salvezza. In Luca 11,9 Gesù dichiara: «Cercate e troverete»; in Luca 9,9 anche il re Erode cercava, come Zaccheo, di vedere Gesù, un desiderio che si avvererà durante la passione (23,8), senza tuttavia portare salvezza. Il cap. 15 di Luca è il capitolo del­la ricerca: della pecora perduta, della moneta perduta, di due figli perduti.  Il verbo “cercare” (vv. 3.10) fa da cornice del racconto e indirizza il lettore a leggere il brano come una ricerca: prima che Zaccheo decidesse di porsi alla ri­cerca di Gesù, Gesù si era messo in cammino per cercarlo. Nello stesso momento in cui Gesù rivela l’identità nascosta/perduta di Zaccheo, «figlio di Abramo», Zaccheo confessa l’identità di Ge­sù: è «il Signore» (v. 8).
Il cambiamento è causato dall’essere ‘visto’ e incontrato dal Cristo: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Notiamo il verbo dēi (devo), lo stesso utilizzato nel contesto della passione, ed il verbo ‘fermarmi’ che cambia la dinamica interna al racconto. Se, infatti, fino a questo punto l’evangelista aveva proposto una serie di verbi di movimento (entrare, passare, salire), ora utilizza il linguaggio del fermarsi per rimanere nella casa di Zaccheo. Il viaggio di Zaccheo termina dunque faccia a faccia con Gesù, riconosciuto come il suo Signore.
Vedere. Il cammino di Zaccheo è scandito dal verbo ‘vedere’ (vv. 3. 4. 5. 7): non solo dal suo sguardo, ma anche dallo sguardo di Gesù, quello che ci ricorda l’incrocio di sguardi tra Gesù e Pietro nel cortile del tribunale «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto…e uscito, pianse amaramente». (Luca 22,61-62).
Oggi . Altre volte gli uomini si alzano in piedi, sorgono. Zaccheo invece scende. Presto e con gioia. Nella prima fase Gesù non gli chiede qualcosa, ma si offre ospite e compagno. E’ nella compagnia, nel dialogo che matura una decisione. Il Vangelo non riporta alcuna professione di fede. Altre volte gli uomini dicono: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Oggi si passa subito alle conseguenze della professione di fede: “La metà dei miei beni la do ai poveri e se ho rubato restituisco 4 volte tanto“. Zaccheo scopre ciò che gli impediva di vivere e ciò che corrompeva l’intenzione originaria del Creatore. Si riconcilia con la vita liberandola dal peso soffocante dell’avere. Sul sicomoro e in casa, in famiglia, matura un frutto nuovo. Occorre cogliere cosa c’è di insolito in questo evento.
Dal basso verso l’alto![3] Zaccheo, un uomo forse di una certa età, incuriosito dalla figura di Gesù desidera vederlo, ma a motivo della sua bassa statura è costretto ad arrampicarsi su di un albero. E quando Gesù giunge in quel luogo è lui ad alzare lo sguardo e a chiamarlo per nome, potremo dire lo incontra là dove si trova, nell’esperienza del limite e del peccato. Talvolta siamo convinti che il Padre guardi la nostra vita “dall’alto in basso”. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo “dal basso verso l’alto!”, uno sguardo che si posa con delicatezza sulla vita di ciascuno di noi. È attraverso questo sguardo misericordioso, che Zaccheo recupera una giusta coscienza di sé ed è pronto a sanare con la carità il male che ha commesso.
Un albero… per andare oltre la folla!
Ciò che cambia la vita di Zaccheo è… un albero! È quell’albero che permette a Zaccheo di superare la folla che gli impedisce di vedere Gesù.  E tutti noi abbiamo una “folla” che in qualche modo ci oscura lo sguardo e sembra ostacolarci nell’incontro con il Signore. Siamo tutti di bassa statura. Dobbiamo avere il coraggio, qualche volta, di andare al di sopra della folla, del rumore, delle tante voci che ascoltiamo e delle cose che facciamo, per giocarci nell’incontro con Gesù.
A tutti noi quest’oggi è offerta la possibilità di salire su di un albero e di guardare il mondo, la vita, con occhi diversi, con gli occhi con cui siamo guardati da Gesù, occhi pieni di misericordia e di perdono… ad una condizione però: capire qual è l’albero su cui possiamo arrampicarci!

Domenica prossima Gesù sarà il sicomoro che il Padre ci fa trovare sul cammino, quell’albero della croce su cui arrampicarci e da cui scendere per sedersi alla “tavola eucaristica” dove Lui sta bene con noi e ascolta volentieri i nostri buoni propositi sociali e pasquali.


[1] Contro le eresie. Libro IV, 20,7.
[2] Vincenzo Andraous, classe 1954, detenuto ergastolano, da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno. E’ impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, e movimenti. E’ titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, ha conseguito premi letterari.
[3] Pino Pulcinelli




23 ottobre 2022. Domenica 30a
LA CHIESA DELLA SOGLIA

domenica 30° C – 23 ottobre 2022

Preghiamo. Padre, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi;  guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del Siràcide 35,12-14.16-18
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Salmo 34(33) Il povero grida e il Signore lo ascolta.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Il volto del Signore contro i malfattori, per eliminarne dalla terra il ricordo.
[I Giusti] gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi; non sarà condannato chi in lui si rifugia.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 4,6-8.16-18
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal vangelo secondo Luca 18,9-14
Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano (nientificavano) gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé (davanti a sé): “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza (lontano), non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato (reso giusto), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

LA CHIESA DELLA SOGLIA. Don Augusto Fontana
Il brano del Vangelo di domenica terminava con la domanda di Gesù: <Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?>. La fede è l’architrave della porta di ingresso al Regno, ma la preghiera senza fede e umiltà diventa presunzione. La parabola di oggi parla della preghiera, ma in realtà è in gioco tutto il modo di concepire l’esistenza religiosa, cioè il rapporto con Dio e con gli uomini.
Siracide 34,18-35.
Il Libro del Siracide fu scritto nel 2° secolo a.C. da Yehoshua Ben Sirah. Intenzioni dell’autore: difendere il giudaismo tradizionale e ortodosso dagli influssi greco/ellenistici tra cui l’idea che Dio esiste, ma é lontano da noi. Il Libro[1] fu tenuto in grande considerazione dalla Chiesa primitiva e lo si offriva ai Catecumeni come una specie di Sillabario cristiano: forse per questo fu anche chiamato con il nome di ECCLESIASTICO. Il brano della liturgia di oggi è breve e risulta sacrificato rispetto al tema generale rappresentato da tutto il contesto dei capitoli 34-35. Il tema affrontato è quello del sacrificio offerto al Tempio. L’autore immagina una scena del Tempio dove il ricco offre numerosi sacrifici perchè Dio chiuda un occhio sulle sue ingiustizie, mentre il povero offre al Tempio solo il proprio lamento.  Secondo Ben Sirah la pratica della Tora’  è un vero e proprio culto. Anzi, il culto costituio dall’offerta al Tempio delle primizie del raccolto e di un decimo dei guadagni dovevano anche sfamare il forestiero, l’orfano e la vedova. Deuteronomio 26: «1Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possiederai e là ti sarai stabilito, 2 prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che il Signore tuo Dio ti darà, le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per stabilirvi il suo nome. ….  Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio; 11 gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia. 12 Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, 13 dirai dinanzi al Signore tuo Dio: Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova secondo quanto mi hai ordinato; non ho trasgredito, né dimenticato alcuno dei tuoi comandi». Vedi anche Deut. 10,17 ss e Esodo 22,22-24.
Il sacrificio vero non è quello in cui si offre a Dio quello che si è sottratto agli altri ed il valore del dono non dipende dalla sua abbondanza, ma dalle disposizioni del cuore. Il vero adoratore in spirito e verità è il “povero”, “il giusto”. Il Siracide censura gli atti liturgici di quegli uomini che sfruttano il loro prossimo e credono di trovare il gradimento di Dio nel conformismo religioso. Si tratta di una “gara” tra due tipi di sacrificio, proprio come la “gara” tra il sacrificio di Caino e quello di Abele (Genesi 4,1-10), quello di Elia a confronto con quello dei profeti di Balaam (I Re 18, 20-40). Spesse volte il Primo Testamento affronta il problema della “crisi” di quel culto considerato impropriamente come “dare qualcosa a Dio”. (Isaia 1,10-17; 58,3-9; 29,13-14; Geremia 7,1-15; Amos 5,21-27). Anche Gesù, nella più pura tradizione profetica caccia i venditori dal Tempio (Matteo ,12-17) e dice che i veri adoratori adoreranno Dio in “spirito e verità” (Giovanni 4,23).
E’ d’obbligo un’altra puntualizzazione e riguarda il termine GIUSTIZIA. La nostra parola traduce in modo inadeguato il termine ebraico TZEDAQAH. Quando Israele loda la giustizia di Dio non pensa a quel tipo di giustizia da tribunali che consiste nel pronunciare una sentenza giusta; il popolo, invece, lo ringrazia perche’ Dio parteggia per il suo popolo. La giustizia di Dio è la sua fedeltà alla alleanza il cui frutto è la liberazione/salvezza. Quando il Salmo 48,11 dice “Della tua giustizia è piena la tua destra” è come se dicesse:”tu continui a intervenire nella liberazione”. Anche per l’uomo il suo “essere giusto” significa “essere fedele alla comunità” come fa Dio. Secondo Matteo 6,33 la giustizia è un dono che Dio dà a coloro che lo desiderano. Paolo dirà che non è l’operare dell’uomo che fonda la comunione con Dio, ma l’azione di Dio attraverso Gesù: <Ora invece, indipendentemente dalla Legge (Torah) sì è manifestata la giustizia di Dio… per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono> (Romani 3,21ss).
Luca 18,9-14.
Nella preghiera si rivela chi si sente giusto e chi si sente reso giusto. I protagonisti sono 3: Dio, il fariseo, il pubblicano[2].
Esistono due introduzioni del brano. Una é esplicita: «Disse questa parabola per alcuni che confidavano su se stessi di essere giusti e disprezzavano (il testo originale greco “exuthenéo” significa: nientificavano) i rimanenti (il termine greco “loipùs” usato da Luca indica “gli avanzi”; gli altri sono considerati come gli avanzi lasciati in un piatto) ». L’altra introduzione é l’ouverture della parabola: «Due uomini salirono al tempio per pregare».

Due uomini. Il fariseo e il peccatore più che due persone sono due atteggiamenti che possono convivere in noi. Proprio come diceva Gesù: dentro di noi può esserci il lievito dei farisei (Lc. 12, 1ss) o il lievito del regno (Lc.13,18-21).
Salirono al tempio. La stessa azione “buona” può essere fatta con uno spirito e un risultato opposti.
Per pregare. Come noi oggi. Il fariseo dice: «Io non sono come quel peccatore là!». Il pericolo nostro é di dire: «Io non sono come quel fariseo!»
Il fariseo. Un uomo maledettamente praticante e separato da coloro che non praticano gli insegnamenti della Toràh.
In piedi. E’ la posizione corretta della preghiera; significa “davanti a Dio”.
Pregava davanti a sé. In realtà sta davanti al proprio io. Il suo non é un dialogo, ma un monologo.
Ti ringrazio“. Fa “eu-carestia”, ma invece di elencare le opere di Dio (come fa il “Magnificat”), elenca le proprie opere e si differenzia dagli altri.
Dio ha detto “Io-sono”; il fariseo dice “Io-non-sono”: mentre cerca di dichiarare la sua diversità, di fatto dichiara il suo nulla. Mentre si confronta con “questo pubblicano” non s’accorge di essere davanti ad uno specchio.
Io-non-sono come i rimanenti uomini. Sta cercando di differenziarsi, ma, come vedremo, lui é ciò che rimprovera agli altri.
…che sono rapaci: i rapaci si appropriano delle cose altrui; anche il fariseo di fatto si appropria dei beni di Dio.
…ingiusti. Gli ingiusti sono coloro che non fanno la volontà di Dio. Il fariseo trasgredisce il comandamento dell’amore.
…adulteri. Sono coloro che tradiscono il partner. Anche il fariseo si prostituisce all’idolo del proprio io.
Digiuno…pago la decima. Non solo osserva le prescrizioni della Torah, ma le supera. Il digiuno era prescritto una volta all’anno nel Giorno della Espiazione (Levitico 16,29 ss) e questo super-digiuno del fariseo mirava a riparare le molte violazioni della Legge da parte del popolo non osservante. La decima doveva essere pagata dal produttore e non dal consumatore: ma lui, per scrupolo, in caso il produttore non lo avesse fatto, versa la decima al suo posto.
Anche il pubblicano parla di sè, ma in maniera diversa. Il fariseo <pregava>, il pubblicano <diceva>; la differenza sta nel fatto che la preghiera del pubblicano non pretende di essere tale ed è solo un <dire> (egli forse pensava: <Non so se le mie preghiere valgano qualcosa o addirittura se sono vere preghiere>). La vera diversità tra i due non è il modo di valutare se stessi, ma nel diverso modo di valutare Dio.
Per Gesù non esistono uomini giusti, ma uomini giustificati (resi giusti).
La Chiesa del fariseo è la Chiesa maledettamente devota, presuntuosa della propria identità e della verità che presume di possedere, è la Chiesa che non sente il bisogno di confrontarsi con l’uomo (“peccatore”). La Chiesa del pubblicano è la Chiesa della soglia, che non vanta prerogative o meriti né davanti a Dio né davanti agli uomini. Scriveva Enzo Bianchi in “La differenza cristiana”(Einaudi): “Sovente gli interlocutori dei cristiani sem­brano attendere una chiesa che ascolti pri­ma di parlare, che accolga prima di giudica­re, che ami questo mondo prima di difen­dersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare profe­ticamente piuttosto che accusare”.


[1] E’ considerato ispirato solo nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre è escluso dal canone ebraico e protestante perché considerato apocrifo.
[2] La loro cattiva fama di collaboratori del governo d’occupazione romano ed esattori delle tasse era spesso peggiorata dal fatto che alcuni usavano le grandi somme che guadagnavano per praticare l’usura.




16 ottobre 2022. 29a Domenica
RIMANI SALDO!

29° Domenica C – 16 ottobre 2022

 Preghiamo. O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro dell’Èsodo. Es 17,8-13.
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
SALMO  120 Il mio aiuto viene dal Signore.
Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra.
Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele.
Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre.
Dalla seconda Lettera di Paolo a Timoteo 3,14-4,2
Tu rimani fermo, fedele alla verità che hai imparato e della quale sei pienamente convinto. Ricorda da chi l’hai imparata. Tu conosci la sacra Bibbia già da quando eri bambino: essa può darti la saggezza che conduce alla salvezza, per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutto ciò che è scritto nella Bibbia è ispirato da Dio, e quindi è utile per insegnare la verità, per convincere, per correggere gli errori ed educare a vivere in modo giusto. E così ogni uomo di Dio può essere perfettamente pronto, ben preparato a compiere ogni opera buona. Voglio farti una raccomandazione: predica la parola di Dio, insisti in ogni occasione, rimprovera, raccomanda e incoraggia, usando tutta la tua pazienza e la tua capacità d’insegnare.
Dal Vangelo secondo Luca 18,1-8
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

RIMANI SALDO! Don Augusto Fontana
Resistenza nella fede e nella vita.
Il cristiano è uno che si arruola nella “resistenza”. Paolo, nella lettura odierna, invita Timoteo a “rimanere saldo“: «insisti in ogni occasione, rimprovera, raccomanda e incoraggia, usando tutta la tua pazienza e la tua capacità d’insegnare».
Mosè sulla cima del colle pianta il bastone di Dio come richiamo a non arrendersi e a fare resistenza. La pietra, che viene messa sotto Mosè, è Cristo; non serve per dormirci sopra, ma per resistere sveglio. La vedova, che appartiene alla categoria dei poveri sconfitti, sa ancora chiedere giustizia. La preghiera è una faccia della resistenza. Per me è difficile resistere in preghiera quando non provo nulla, non sento nulla, quando Dio pare nascondersi. Il cristiano sa resistere, per fede, anche nei momenti di emergenza sociale quando si presentano deviazioni e mostri inquietanti, quando i valori sono minacciati e il senso della vita è in pericolo. Nei periodi di tranquillità spesso le minacce stanno nascoste tra le pieghe di un apparente benessere. Il cristiano fa resistenza contro tutti i fanatismi, le intolleranze, i settarismi, gli integralismi anche nella comunità cristiana. Il cristiano sa compiere azioni significative di disturbo contro le liturgie del conformismo, le prepotenze del padrone di turno. Il cristiano sa gettare lo scompiglio in mezzo ai cortei del consenso organizzato, della piaggeria, della vendita del cervello all’ammasso. Sa resistere nonostante l’implacabile martellamento della pubblicità e della propaganda, i ricatti e i condizionamenti dell’ambiente; è un…partigiano che compie azioni di sabotaggio contro tutte le pratiche idolatriche. [1]
La preghiera che vince. Esodo 17,8-13
Con qualche tonalità di una religione ancora “magica” e molto guerrafondaia, siamo nel contesto della battaglia di Israele contro Amalek[2] e gli Amaleciti. Gli Israeliti erano decisi a occupare le terre di Canaan dopo l’uscita dall’Egitto. Amalek era diventato il simbolo di tutti i nemici di Israele. Quindi la vittoria su Amalek diventa emblematica per il popolo di Dio. Il fatto accade dopo la “tentazione” che il popolo ha subìto a Massa e Meriba dove ha gridato a Dio: «Il Signore è in mezzo a noi, si o no?» (Esodo 17,7). La descrizione delle alterne vicende della battaglia vuol insegnare che l’esito dipende dalla preghiera di Mosè. Il personaggio principale è “il bastone di Dio” che Mosè tiene alto sopra i combattenti, poichè l’esito della battaglia dipende dalla posizione del bastone. Questa interpretazione trova conferma dal nome che Mosè dà all’altare costruito dopo la battaglia: Jahwè-Nissi, cioè Jahwè-mia-bandiera oppure Jahwè-mio-segnale. Il termine ebraico nes indica una pertica innalzata su una collina in segno di mobilitazione e raccolta. E’ lo stesso bastone che ha scatenato le piaghe in Egitto, che ha aperto il Mar Rosso, che ha fatto scaturire l’acqua dalla roccia di Refidim. Mosè tiene dunque visibile il segno della presenza di Dio; lo aiuta una pietra su cui si siede e due braccia di fratelli che lo sostengono nella invocazione; l’interpretazione cristologica dice che la pietra è Cristo che sostiene la preghiera dei credenti. Infatti ogni preghiera al Padre termina sempre con “Per Cristo nostro Signore[3]. E Aronne e Cur rappresentano l’aiuto solidale della comunità che sostiene la fedeltà orante.
La preghiera che trova risposta (Luca 18, 1-8).
La parabola del giudice che tira per le lunghe è legata agli interrogativi nella chiesa di Luca sul ritardo della soluzione escatologica. Il brano di oggi va letto con riferimento alla Parabola dell’amico importuno (Lc. 11,5-8) ma soprattutto a Luca 17, 20-37: «Interrogato dai farisei:  «Quando verrà il regno di Dio?»,  rispose:  «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!».
Il cristiano è come una vedova priva dello sposo o di un amante che attende l’amante: “fammi sentire la tua voce, perchè la tua voce è soave” (Cantico dei cantici 2,14). La preghiera serve a tenere sveglio il desiderio. L’uomo non può produrre il Regno di Dio; può però invocarlo e accoglierlo: “Venga il tuo Regno”.
La preghiera è un “consumare gli occhi dietro la promessa di Dio” come esprime bene il Salmo 119, 81-84 :«Mi consumo nell’attesa della tua salvezza, spero nella tua parola. Si consumano i miei occhi dietro la tua promessa, mentre dico: “Quando mi darai conforto?” …Quando farai giustizia dei miei persecutori?». Scrive il biblista André Wenin: “La preghiera di supplica non esclude la lotta. La presuppone e la prepara. Ma quando la lotta è divenuta inutile e quando il male rischia di dilagare, resta il grido. E gridare, chiamare, supplicare è già dare prova di libertà nella sofferenza stessa, è rifiutarsi di dimettersi, di lasciarsi abbattere, di rassegnarsi” (A.Wenin, Des louanges. Entrer dans le psautier,  Lessius, 2022, pag.57).
Bisogna pregare sempre: Paolo dice: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor. 10,31). La preghiera non si sostituisce alle occupazioni, ma le illumina e le indirizza. L’azione che non nasce dalla preghiera è come una freccia scoccata a caso da un arco allentato, senza la forza, quindi, di raggiungere il bersaglio.
Senza incattivirsi: che significa anche “senza scoraggiarsi”. La preghiera per me è spesso il luogo della noia e dello scoraggiamento. Sembra tempo perso. La preghiera è una lotta (Rom.15,30; Col.4,12; Gn 32,22ss).
Un giudice senza pietà : questa è l’idea che ci siamo fatti di Dio: un Dio senza pietà.
Vedova: è la chiesa di Luca che non può contare che sull’insistenza e sul desiderio.
Fammi giustizia: corrisponde alla preghiera “Liberaci dal male!“.
A lui non dobbiamo chiedere delle cose, ma Lui stesso, lo Spirito Santo. Gli eletti sono coloro che gridano a Lui giorno e notte senza incattivirsi con Dio perchè davanti agli occhi di Dio “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di convertirsi” (II Pietro 3,8s).[4]
Troverà fede?: il vero problema non è la lentezza di Dio, quanto piuttosto la nostra fede esaurita.
Dalla benedizione, all’invocazione, alla benedizione.[5]
La preghiera per eccellenza della tradizione biblico-ebraica è la preghiera di benedizione, come dicevamo domenica scorsa: «Benedetto sei tu Signore nostro Dio, re dell’universo che crei ogni sorta di beni».
Nella Parabola dell’Evangelo si dichiara che, se anche le condizioni appaiono impenetrabili (il giudice è ateo e disumano), la vittoria del caos non è definitiva. Luca vuole educare alla preghiera perseverante. Quali sono le caratteristiche di una preghiera perseverante?
Il testo greco dice “pàntote”, che può significare: assiduamente, continuamente, in ogni momento e necessità. Ma la seconda precisazione (“senza stancarsi“) sottende una possibile situazione di delusione per un Dio che non mantiene le promesse.
Luca qui sembra riprendere le espressioni Paolo sul “pregare sempre” (2 Tess. 1,11; Filip. 1,4; Rom. 1,10; Col. 1,3) e “senza stancarsi” ( 2 Tess. 3,13; 2 Cor. 4, 1-16; Gal. 6,9; Efes. 3,13). La preghiera assidua non significa moltiplicare le parole (Matt. 6,7): la perseveranza non sta tanto nella ostinazione dell’atto del pregare, quanto nell’ostinazione a fidarsi di Dio e a credere nel suo amore nonostante le apparenti smentite. Se a prima vista pare che la Parabola metta al centro la vedova e la sua preghiera perseverante, a ben vedere il protagonista è il giudice.
A questo proposito cito un sorprendente parallelismo in un brano del Libro del Siracide 35,12-24: «Il Signore è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, la sua preghiera giungerà fino alle nubi. La preghiera dell’umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità. Il Signore non tarderà e non si mostrerà indulgente sul loro conto, finché non abbia spezzato le reni agli spietati e si sia vendicato delle nazioni; finché non abbia estirpato la moltitudine dei violenti e frantumato lo scettro degli ingiusti; finché non abbia reso a ognuno secondo le sue azioni e vagliato le opere degli uomini secondo le loro intenzioni; finché non abbia fatto giustizia al suo popolo e non lo abbia allietato con la sua misericordia. Bella è la misericordia al tempo dell’afflizione, come le nubi apportatrici di pioggia in tempo di siccità».
Scriveva Padre Ernesto Balducci[6]: «Pregare è anche non credere di essere innocenti nei confronti delle ingiustizie della società. La vera preghiera non è pre-politica, ma post-politica: la si fa dopo aver compiuto tutto quello che si deve fare per frenare gli spietati e difendere la giustizia. Ed è nella preghiera che si coltiva la speranza. Pregare è prendere le distanze da quel mondo che deride gli inermi. Pregare non è allenarsi alla rassegnazione, ma abituarsi anche alle nobili provocazioni nei confronti di Dio che sembra dormire mentre l’ingiustizia domina. La riserva per un futuro di un mondo diverso è quella pazienza dei poveri che l’hanno custodita in sè non con la cultura, ma con l’ostinata preghiera».


[1] da Pronzato PAROLA DI DIO, commento Ciclo C, Ed. Gribaudi, pag.266-269.
[2] Amalek è nipote di Esaù (Gen 36, 4. 10-12;15-16; 1Cr 1,35-36)
[3] da SERVIZIO DELLA PAROLA n.182, ottobre 86,  pag. 69-72, Queriniana
[4] da UNA COMUNITA’ LEGGE IL VANGELO DI LUCA pag 258-267, Ed. Dehoniane.
[5] da SERVIZIO DELLA PAROLA n. 182, ottobre 86, pag 73-74, Ed. Queriniana
[6] E. Balducci, IL MANDORLO E IL FUOCO”, Vol. 3 , Ed. Borla, pag. 344




9 ottobre 2022. Domenica 28a
RENDIAMO GRAZIE

28 domenica C

 Preghiamo. O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio che è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 Dal secondo libro dei Re 5,14-17
In quei giorni, Naamàn [il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.  Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
Salmo 97  Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni!
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 2,8-13
Carissimo, ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.  Certa è questa parola:  Se moriamo con lui, vivremo anche con lui;  se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo;  se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà;  se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele,  perché non può rinnegare se stesso.
Luca 17, 11-19 Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

RENDIAMO GRAZIE AL SIGNORE NOSTRO DIO. Don Augusto Fontana
            Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio.
Luisa e Maria sono rispettivamente suocera e nuora. La nuora tiene le distanze dalla suocera, ma questa un giorno le fa un regalo per il compleanno; regalo immediatamente ricambiato con un ugual regalo perchè, dice la nuora, “non voglio avere conti aperti con mia suocera“. Anche Luigi, uscendo dall’ambulatorio medico, allunga una mancia allo specialista che lo ha visitato perchè, pensa, “Non si sa mai, posso sempre aver ancora bisogno“. E per molti di noi, Dio è molto simile ad una pompa di benzina da cui attendiamo che escano guarigioni, promozioni, lavoro, vincite, benedizioni e requiem eterna per i morti. E’ così difficile relazionarci con Dio e con gli uomini in un maturo atteggiamento di riconoscenza. Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità. E’ il modo più vero per riconoscere che siamo esseri in dialogo e in interscambio. Quando si è acquisito questo diffuso senso della riconoscenza non ci basta più “dire grazie” e si passa alla “azione di grazie” che è uno scambio concreto di gesti e di servizi. Dire e fare riconoscenza è ciò che definisce il nome nuovo della «Messa» che, dopo il Concilio Vaticano II, si chiama «Eu-caristia»; il termine deriva da due parole della lingua greca che significano ” fare una bella azione di grazie”: una grazia che scende da Dio e un grazie che sale a Lui non solo dalle labbra, ma anche da una vita coerente.  In ebraico viene chiamata con il termine “Todah” che significa “lode” dopo che si è avvertita l’irruzione di Dio negli eventi della mia e nostra vita. Questa lode è preceduta dalla memoria (anàmnesis), dal racconto, dalla nostra presa di coscienza delle meraviglie di Dio negli eventi ed è seguita dalla supplica (epìklesis) perchè Dio continui la sua azione e la porti a compimento.
Le letture bibliche di oggi ci annunciano diversi temi a cui farò cenno, fermandomi poi su quello dello stupore e della riconoscenza.
Dio tra pagani, samaritani, impuri e servette.
Il “Raccontino popolare” del Libro dei Re contiene diversi elementi narrativi a cui corrispondono diversi elementi teologici: il Dio di Israele non è un Dio esclusivista e salva tutti anche fuori dai confini religiosi di Israele; Dio si serve di cause umili per operare le sue meraviglie (i versetti 1-13, omessi dalla prima lettura liturgica,narrano di una ragazzina ebrea schiava che invita Naaman a recarsi dal profeta);  Naaman è pagano, ma accetta di andare a cercare la salvezza altrove, anche da altro Dio diverso dal suo.
Anche il Vangelo di oggi stupisce per lo squarcio che apre nel rigido tessuto della mia mentalità catto-europea. Circolano malati infettivi e samaritani (“Dio ce ne scampi e liberi!”). Era prassi per i lebbrosi avvisare le persone di stare lontani. Ed era prassi che i sacerdoti del Tempio accertassero l’eventuale avvenuta guarigione autorizzando gli impuri ad accedere di nuovo all’assemblea di culto. Gesù è il vero Tempio a cui tutti vengono ammessi. Gesù è il vero sacerdote che riammette nel culto. Quello che ritorna è un samaritano. Luca prosegue nella sua catechesi sui pagani. Per dieci di loro ci fu la guarigione. Per uno di loro ci fu anche la salvezza. Il verbo “Alzati!” (anìstemi) significa «risorgi» e «mettiti in piedi e va’». Gesù non dice «Seguimi», ma semplicemente «Va’». E non è la prima volta. Valérie Le Chevalier scrive[1]: «Occorre ritornare sul fatto delicato che questa fe­de che salva non sfocia sempre nella chiamata esplicita alla sequela, propria del discepolo. Gesù rinvia alla vita ordinaria: “Va’! Torna a casa tua!”. Simmetrica­mente, i vangeli non descrivono mai una chiamata a diventare discepoli  in risposta a un atto di fede verso Gesù. Di più: il ritorno al quotidiano è un imperati­vo categorico a cui le persone non possono sottrarsi; soltanto Bartimeo “disobbedisce” a Gesù mettendosi a seguirlo nonostante l’ingiunzione del “Va’!” (Mc 10,52). […] Gesù, in modo inequivocabile, invita queste persone a ritrovare il loro posto, la loro dignità là dove erano escluse, e così dare testimonianza di quell’esperienza di sal­vezza; e ciò senza garanzia né servizio di assistenza da parte sua. Con tali rinvii Gesù sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret, propedeutico alla sua vita pubblica. La “fede che salva” non può dunque essere analizzata in termini di pre-fede, di preparazione o di preliminare a quello che sarebbe considerato l’esi­to, la chiamata del discepolo. Non può essere intesa neppure come una semi-fede, in quanto possiede in­tegralmente quel carattere primordiale e necessario del coraggio di vivere nonostante tutto, del desiderio di essere rimessi in piedi, salvati. È una categoria di fede piena e intera, senza aggiunte da parte di Gesù e dei suoi discepoli. Quel “Va’, torna a casa tua” è definitivo e totalmente gratuito. È il segno misterioso della venuta del Regno, rivelato agli umili e ai picco­li. È tutto il paradosso di quei rinvii che sono come altrettanti granelli seminati».
Nulla fare senza benedire.
Nel brano del Vangelo esiste un riferimento all’Eden: i corpi immersi nel caos della malattia ritornano nella bellezza originaria, nella creazione ristabilita. I doni di Dio non sono solo spirituali, ma sono i beni della terra, l’insieme di tutto ciò che forma l’habitat degli uomini (compresa l’amicizia). L’identità dell’uomo consiste nella fruizione di questi beni, accolti e riconosciuti come provenienti dalla benevolenza di Dio, come donati, come grazia.
La tradizione ebraica insegna che qualsiasi rapporto dell’uomo con le cose deve essere accompagnato dalla preghiera di benedizione. Lo stesso dicasi per qualsiasi evento della storia. Prima di nutrirsi di pane l’ebreo credente è tenuto a pregare “Benedetto sei tu Signore nostro Dio, re dell’universo che produci il pane della terra“. E prima di bere un bicchiere di vino ” Benedetto sei tu nostro Signore, re dell’universo, che hai creato il frutto della vite“. Guardando il grano “Benedetto sei tu Signore nostro Dio che crei gli alimenti della terra“. Utilizzando un profumo: “Benedetto sei tu che crei erbe profumate“. Ricevendo una buona notizia :”Benedetto sei tu che sei buono e fai il bene“.
Questo “dire bene”, bene-dire, con cui il credente ebreo ritma la giornata, definisce l’identità di Dio come “Colui che fa il bene”, e l’identità dell’uomo “come colui che ringrazia bene”, e il mondo come “spazio in cui il bene voluto da Dio e destinato all’uomo si concretizza nel quotidiano”. Dove manca questo “dire-bene/bene-dire” va a finire che Dio, l’uomo e il mondo si sfigurano e l’esperienza paradisiaca dell’Eden diventa infernale. Adamo ed Eva cessano il rapporto paradisiaco quando cessano la benedizione e vogliono diventare proprietari e padroni dei beni.  Chi è incapace di dire-bene è incapace di godere del bene e stare bene. Gesù si presenta come colui nel quale Dio vuole continuare ad essere il Dio dei beni donati. Per questo il lebbroso torna per “rendere gloria a Dio“.
La riforma liturgica ha fatto passare da 16 a 81 i Prefazi (quella solenne preghiera a cui facciamo seguire il canto del “Santo”). Ciò è avvenuto per poter motivare più esistenzialmente la lode riconoscente ed esprimere la coscienza di essere inseriti, qui e oggi, nella storia della salvezza. Il cristiano non è colui che “chiede grazie”, ma colui che “rende grazie”. L’uomo eucaristico, l’uomo della riconoscenza, è l’opposto dell’individuo che rivendica, pretende, reclama, conquista. Essere uomini/donne eucaristici significa pensare la vita non come un prendere ma come un ricevere.  Occorre essere capaci di sorpresa, di gioia, di  capacità di scrutare negli avvenimenti la benevolenza di Dio. Diamo tutto troppo per scontato, dalla vita alla amicizia, dalla Parola di Dio al Pane eucaristico, alla pace. E soprattutto siamo troppo ingessati, immusoniti, lugubri.
Oggi celebriamo la fede come benedizione e riconoscenza; come riconoscimento che “grandi cose ha fatto il Signore per noi”. Dire grazie é uno dei gesti fondamentali della vita di relazione. Dire grazie dona senso e bellezza alla vita; é innanzitutto la riconoscenza a qualcuno che ti fa vivere. E’ la consapevolezza di un dono che ti benefica prima ancora che tu possa meritarlo o ricambiare. Come scrive Deuteronomio 8: [1]Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. [2]Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto. Egli ti ha nutrito di manna,  per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie perché sta per farti entrare in un paese ricco di torrenti, frumento, orzo, viti, fichi, melograni, ulivi,  olio e miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla e benedirai il Signore Dio tuo. Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do. Quando avrai mangiato a sazietà, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in  modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà  la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri.
Il Talmud[3] ebraico (Trattato delle benedizioni, 35a) scrive:Non godere dei beni di questo mondo senza dire una benedizione.
Nella nostra educazione cattolica tradizionale, le benedizioni del cibo, della casa o del matrimonio erano intese come rimedi di un male o di una insufficienza: come se le cose umane fossero maledette o impure senza benedizione. Nel Talmud la benedizione è ringraziamento, è stupore: si benedice Dio, non la cosa che viene da lui.


[1] Valérie Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, 2019, pagg.62-63
[3] Talmud significa “istruzione”;  è una raccolta di commenti rabbinici e note sulla Mishnah che è la tradizione orale ebraica.




Domenica 2 ottobre 22. Domenica 27a
Signore, migliora la nostra fede!

27° domenica C

 Preghiamo. O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senapa, donaci l’umiltà del cuore, perché, cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi senza utile, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore. Per Gesù Cristo, il nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Abacuc 1,2-3; 2,2-4
Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Il Signore rispose e mi disse: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà”.  Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.
Salmo 94  Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 1,6-8.13-14
Carissimo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.
Dal Vangelo secondo Luca 17,5-10
[vv.1-4 omessi dalla liturgia: Disse ancora ai suoi discepoli: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai»].
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?  Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili (senza utile). Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
SIGNORE, MIGLIORA LA NOSTRA FEDE. Don Augusto Fontana.
Una ragione della debolezza della nostra fede è la smentita da parte dei fatti. Le cose nella nostra vita, pubblica e privata, vanno in modo diverso da come ci si aspettava o da come era stato promesso da Dio. La fede pare non modificare nulla: non solo non muove le montagne o i gelsi, ma non sposta nemmeno un calcolo della cistifellea. E’ la crisi del profeta Abacuc: <Perchè, Signore, mi fai vedere iniquità e resti spettatore di oppressione?>. E’ la domanda tipica della preghiera di lamento:<Fino a quando?>. L’espressione ebraica “gridare aiuto” indica l’uomo in fin di vita, ma di solito corrisponde più ad un vero e proprio reclamo che ad una preghiera di soccorso, come griderà Giobbe (19,7): «Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia». Sono passati 28 secoli dal profeta Abacuc e 22 secoli da Gesù e la “scadenza” promessa tarda ancora a venire. Quando si crede nel Padre, in Gesù e nello Spirito Santo tenendo il giornale in mano, si capisce subito che la fede è coinvolta, viene compromessa nello scandalo.
Una promessa che geme come una partoriente.
Il libro di Abacuc è un libretto di soli 3 capitoli per una delle ultime cerimonie liturgiche del Tempio prima che Gerusalemme venisse distrutta (586 a.C.). La tragedia la si sente nell’aria. I Caldei minacciano la città e il re Joakim sta esercitando sulla regione di Giuda una forte tirannia. Il popolo si riunisce nel tempio e domanda al profeta di esprimere a Jahwè il suo lamento. Il profeta presenta 3 reclami: «Signore sei distratto e non vedi e non senti; Signore, ci hai insegnato la giustizia e così ci hai reso ancora più sensibili alle ingiustizie; Signore, con il tuo assenteismo io potrei perdere la fiducia in te». Il profeta, tuttavia, dopo tanto realismo, si apre ad una dimensione di speranza. Egli è come sentinella che si sforza di vedere in lontananza da un punto di osservazione che non viene ben definito, ma che potrebbe essere il Tempio o il silenzio della coscienza o la Parola. Da questo punto di osservazione egli riceve una Rivelazione: il termine ebraico CHAZON è da tradursi con RIVELAZIONE più che con VISIONE perchè nella fede c’è il sopravvento dell’udire sul vedere. Anche se la rivelazione deve essere scritta su un documento ufficiale e verificabile (“tavoletta”). La rivelazione SI AFFRETTA, INCALZA (2,2-3) cioè, “respira con affanno, sbuffa come una partoriente”; come una nascita può avere qualche ritardo, così si può ritardare l’avverarsi della rivelazione, ma si tratta solo di tempo. Nasce allora la fede come pazienza e fedeltà che si nutre del ricordo delle azioni passate di Dio. Il giusto rimane in vita perchè si ABBARBICA a Dio. Il termine HAMAN (= credere) indica il RIMANERE SALDO. Il giusto prende sul serio Dio in quanto Dio. La fede diventa il coraggio di resistere. Da “fede” deriva “fedele”, cioè colui che non fa resa, ma resistenza. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostre fede» ( I Giovanni 5,4). La fede non è più un potere, un punto esclamativo, ma un interrogativo sempre aperto, anche nel cuore di Dio: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
AAA. Adulti nella fede cercasi.
Gesù aveva messo un’ipoteca sull’uso dei nostri beni e sul nostro rapporto con i poveri (lo abbiamo ascoltato nelle due domeniche scorse). Ora (versetti 1-4, omessi, ahimè, dalla liturgia di oggi) pronuncia parole dure per chi semina scandalo e invita a perdonare anche fino a sette volte al giorno. Omettendo quei 4 versetti non si capisce bene questa improvvisa preghiera/esclamazione dei discepoli “Aggiungici fede!”. Il Signore chiedeva davvero cose impossibili: «non lasciatevi risucchiare dal comportamento conformista, perdonate sette volte al giorno». Ce n’era a sufficienza perchè i discepoli restassero a bocca aperta sentendosi deboli e inadeguati. Per questo intuiscono che la fede va pregata, invocata: “Signore aumenta la nostra fede, dacci ancora la fede, aggiungici fede”. A dire il vero, Pietro una volta aveva tentato di gonfiare i pettorali e alzare le piume come un galletto in amore, quando il Signore gli aveva detto: «Pregherò per te povero amico mio!». E lui: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». E si era beccato sui denti una mazzata umiliante: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» (Lc 22,33-34).   Anche per i primi apostoli e discepoli la fede non è un atteggiamento garantito, inerte, dato una volta per sempre. La fede è sempre “poca” e noi siamo sempre “uomini di piccola/poca fede”. Gesù non ha mai chiamati i suoi: “monsignore, eccellenza, santo padre, reverendo, santità….”. Sembra che Gesù ci voglia chiamare, senza tante scuse, con un unico titolo nobiliare: “Gente di poca/piccola fede”. Matteo e Luca ce lo hanno più volte ricordato: «Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,30);  «Ed egli disse loro:Perché avete paura, uomini di poca fede?  Quindi alzatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia» (Mt 8,26); «E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14 31); «Gesù chiese:  «Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete pane?»(Mt 16, 8); «…avete poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa[1], potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20); «Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede?» (Lc 12,28).
E’ forse per questo che Gesù, rivolto a Simone e quindi a tutti noi, promette:« Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (Lc 22, 31-33).
Il problema oggi è che noi adulti siamo adulti di età, ma infantili nella fede. La fede dovrebbe crescere con l’età, di pari passo con i problemi gravi del vivere quotidiano, per resistere ai venti delle crisi. Non si tratta di aumentare la “quantità” della fede, ma la sua “qualità”; oggi potremmo pregare così: «Signore, migliora la nostra fede, rendila adulta».
«Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta le cose della terra e abbiamo rinunciato a possederle, le abbiamo restituite alla volontà di Dio»[2]. Essere adulti oggi è un compito difficile. Un tempo l’adulto appariva come colui che era «cresciuto», aveva portato a compimento i progetti della sua giovinezza, aveva fatto delle scelte chiare e irrevocabili. In questa visione l’adulto si sente «completo», è l’uomo che pensa di non aver più nulla da imparare, che si considera ormai arrivato e realizzato. Il nostro tempo invece ha scoperto l’incompiutezza dell’adulto, le sue crisi di mezz’età (midlife crisis), la necessità di una formazione permanente che eviti la fissazione delle persone in un ruolo o la stanca ripetizione di gesti e parole consumate dall’uso. Anche l’adulto conosce la paura e l’incertezza; ha dei desideri non realizzati e deve saper accettare i propri limiti. Se questo è vero dal punto di vista psicologico e umano, è tanto più vero in una prospettiva di fede. I documenti ufficiali della chiesa riconoscono che gli adulti «sono soggetti esposti a cambiamenti e crisi talora assai profonde»[3]  e dichiarano che quella agli adulti deve considerarsi come «la forma principale della catechesi»[4]. Tuttavia, di fronte a questi solenni enunciati, si deve francamente costatare che si è ancora molto lontani dall’aver dato la priorità alla evangelizzazione e alla catechesi degli adulti, i quali peraltro non si lasciano facilmente “catechizzare”. La catechesi italiana appare ancora sostanzialmente infantile e finalizzata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, che diventano occasione per coinvolgere i genitori in «corsi accelerati» di aggiornamento catechistico. La vita dell’adulto è accompagnata da crisi, anche di fede; anche le crisi possono diventare esperienza spirituale in cui prendere coscienza del «passaggio di Dio» nella vita di ciascuno. L’adulto nella fede è colui che ha radici permeabili, elastiche; è come una pianta che affonda le sue radici nell’humus della Parola e che poi porta frutto: «Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore» (Salmo 94). Ma è anche colui che sa di aver ricevuto tutto, di essere stato perdonato e guarito. Anche il servo della parabola paradossale di oggi è un servo che non può accampare diritti, pretese o crediti nei confronti di Dio. Il testo liturgico di oggi traduce: “siamo servi inutili”. Non è esatto, perché lo schiavo che fa il suo servizio non è “inutile”! Luca, nel suo testo greco, usa il termine achreioi che significa “senza utile”, cioè senza guadagno, gratuitamente. E «se la promessa indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà…il giusto vivrà per la sua fede/fedeltà». Praticamente: una fede adulta.


[1] Un grano piccolissimo di senapa produce, in Palestina, sul lago di Tiberiade, un albero di 4 metri (Matteo 13, 32).
[2] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù
[3] Direttorio generale della catechesi, 1997
[4] Catechesi tradendae, n.43




25 settembre 2022. Domenica 26a
IL MIO PARADISO DIPENDE DA LAZZARO.

Domenica 26a 

Preghiamo. O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per Gesù Cristo nostro Signore
 Dal libro del profeta Amos 6,1.4-7
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Salmo 145  Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 6,11-16
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.  E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
IL MIO PARADISO DIPENDE DA LAZZARO. Don Augusto Fontana
Ho incontrato Marco. Non è cambiato. Nel senso che si fuma ormai da 10 anni i suoi due pacchetti di sigarette al giorno, si scola grappini e bianchetti come giaculatorie e, siccome fa il benzinaio, si idrocarbura quotidianamente con metri cubi di esalazioni petrolchimiche. Che Dio gliela mandi buona; ma mi pare che il suo futuro prossimo sia ipotecato. Senza voler essere fatalisti: il nostro domani (individuale e collettivo, ecologico e politico, spirituale ed economico) ce lo giochiamo nell’oggi. Anche per l’Evangelista Luca il tempo della Chiesa, il tempo storico che ciascuno vive, l’oggi, è abitato dal Risorto e quindi diventa un tempo decisivo, da viversi nella coscienza che il domani è già nell’oggi, che saremo ciò che siamo, che urgono decisioni sagge, quasi scaltre come quelle che i figli delle tenebre sanno usare per approfittare sempre e di tutti o ridurre i danni in caso di crisi incombente.
Luca, tra le sue “ossessioni”, annovera quella dei poveri e del denaro: la posizione del discepolo davanti al povero e al denaro risulta decisiva ai fini del trasferimento della risurrezione nell’oggi. Di Luca conosciamo il brano del RICCO STOLTO (12,13-21), dell’AMMINISTRATORE SCALTRO E SAPIENTE (16,1-13), di ZACCHEO (19,1-10), la serie di GUAI nelle sue Beatitudini (6,24-26), la storia di ANANIA e SAFFIRA (Atti degli Apostoli 5,1-11) e soprattutto la proclamazione messianica di Gesù nella SINAGOGA DI NAZARET (4,14-30). A questa sua “ossessione” appartiene anche il brano di oggi: la sorte del NABABBO STRAVACCATO dipende dal povero Lazzaro (16,19-31).
La Bibbia non è nuova a queste denunce. Il brano di Amos, riportato nella liturgia odierna, non è che un frammento di un vasto repertorio di denunce profetiche di cui abbiamo già avuto un assaggio domenica scorsa. Amos è un contadino pecoraio. Interviene nel Regno del Nord sotto Geroboamo II. La congiuntura politica ed economica di questo VIII secolo a.C. ha causato nel Regno del Nord, come in quello del Sud, una profonda frattura tra la classe dei garantiti, che hanno maggior profitto dagli avvenimenti, e la classe dei poveri, più indifesi che mai. Amos si rivolge ai garantiti che sono indifferenti (non vedono e non sentono) di fronte alle povertà e usa il genere letterario della “Invettiva” che è composta da un vero e proprio giudizio a cui fa seguito una sentenza. Il profeta intuisce, dai segni dei tempi, che Israele sta camminando verso la rovina; il “Giorno di Jahwè” coglierà di sorpresa quelli che fanno baldoria e si appoggiano a false sicurezze. Si rivolge a loro con il termine “Guai” o meglio sarebbe dire “ahimè”  (in ebraico: hoj) che è il tipico urlo di lamento in occasione di riti funebri; quindi sembra voler avvertire che costoro si mettono fuori dal regno della vita. Amos paga con l’espulsione. Di fatto nel 722 il re di Assiria, Sargon II, rade al suolo Samaria, capitale del Nord, e i rammolliti sono costretti ad alzarsi dai loro divani e a scorticarsi i piedi delicati lungo le strade sassose della deportazione in Mesopotamia. La confraternita degli stravaccati aprirà il corteo degli esiliati. I primi nella ricchezza sono i primi nell’esilio. Ormai è troppo tardi per correre ai ripari.
Luca costruisce la Parabola esemplificativa dividendola in due quadretti: uno si costruisce intorno alla tavola ed ha come protagonisti il ricco (anonimo perchè ci rappresenta tutti) e Lazzaro (El-azar in ebraico significa “Elohim[Dio]-aiuta”); l’altro si costruisce attorno ad Abramo ed ha come protagonisti anche i 5 fratelli del ricco. E’ un po’ come la parabola del Padre misericordioso che mette in campo il figlio minore e quello maggiore in due sezioni dello stesso racconto.
Luca non fa il moralista. Non gli interessa puntualizzare se il ricco e Lazzaro sono buoni o cattivi. Li coglie brutalmente nella loro condizione sociale: da una parte c’è chi si veste e mangia bene in casa propria e dall’altra c’è uno senza casa, nudo, affamato, malato, con l’unica compagnia dei cani che, essendo considerati animali impuri, gli trasmettono l’impurità rituale e sociale. Il rovesciamento delle sorti è prefigurato non come effetto di vizi o virtù, ma in base ai rapporti che gli uomini hanno tra loro e quindi con Dio.
La Parabola ha un chiaro riferimento cristologico: chi è questo Lazzaro se non Gesù, le cui piaghe sono leccate dai pagani (considerati dei “cani impuri” dai giudei)? Come si fa a non intravedere Gesù la cui situazione viene ribaltata da Dio con la risurrezione?
Ma la parabola è densa anche di catechesi per la Chiesa:

1- Quando entra il Regno di Dio e le sue logiche, le situazioni si ribaltano. I garantiti si dimostrano fisiologicamente incapaci di optare per le nuove logiche introdotte da Gesù. I poveri sono potenzialmente più aperti ad esse. Ciò non significa che Lazzaro non desiderasse, segretamente, di diventare come il ricco; questa è la beffa maggiore: le società dei consumi hanno drogato le coscienze dei poveri.

2- Si viene salvati non dai miracoli, ma dall’ascolto della Parola di Dio. Nel vangelo di Giovanni si narra che di fronte alla rianimazione di un altro che aveva stranamente lo stesso nome (Lazzaro), non è garantita la conversione, anzi “da quel momento decisero di uccidere Gesù”. Il tempo della chiesa è il tempo nostro, fratelli del ricco anonimo, per accettare le provocazioni urgenti della Parola di Dio.

3-Quale fu il peccato del ricco? Non quello di essere ricco, né di aver rubato. La sua colpa non consiste in ciò che ha fatto, ma in ciò che non ha fatto. Non ha visto Lazzaro e quindi non lo ha amato. L’autosufficienza mette in condizione di peccato strutturale. I poveri dipendono dalla mollica di pane che i ricchi lasciano cadere dopo essersi pulite le dita, visto che non si usavano posate. Ora la posizione si ribalta: la sorte dei ricchi dipende da Lazzaro. Dipendiamo dai poveri, abbiamo bisogno di loro per de-satellizzarci e divenire capaci di accogliere il TUTT’ALTRO. Abbiamo bisogno delle piaghe di Gesù.

4- La parabola non è un invito a rassegnarsi, a non indignarsi contro l’ingiustizia aspettando solo un al di là nel quale Dio regolerà tutti i disordini e gli eccessi umani. Inteso così, il messaggio evangelico favorirebbe un conformismo spregiudicato che aiuterebbe a mantenere il disordine stabilito. Certo: la parabola è una promessa per il futuro, ma guarda alla vita presente e viene rivolta ai cinque fratelli del ricco, a chi, come noi, viene concesso ancora un po’ di tempo, come a quel fico sterile della parabola di Luca (cap 13,6-9): «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

5- Il Dio dei profeti e di Gesù non è amico di una religione che separa il culto dalla vita, l’incenso dalla pratica dell’amore al prossimo. Questo Dio, secondo il Salmo 145 di oggi, condivide la sorte del povero, dell’orfano, della vedova e dello straniero; con tutti quelli a cui i potenti hanno ridotto il diritto di una vita vissuta con dignità. Scrisse Georges Bernanos: “Io affermo che i poveri salveranno il mondo e che lo salveranno senza volerlo, lo salveranno nonostante se stessi e che non chiederanno nulla in cambio, semplicemente perché non sapranno il prezzo del servizio che hanno prestato”.  L’Abbé Pierre disse che a distruggere il mondo non sarà né il terrorismo, ma la rabbia dei poveri. Persino James Wolfensohn, Presidente della Banca Mondiale dal 1995 al 2005 ha percepito la gravità di questo infernale meccanismo che lui stesso ha contribuito ad oliare: «Se non agiamo adesso, nei prossimi anni le disuguaglianze saranno gigantesche e si trasformeranno in una bomba ad orologeria che esploderà in faccia ai nostri figli». Che è come dire: se non per convinzione, facciamolo almeno per paura.




18 settembre 2022
AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI

Domenica 25a 

 Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla avidità delle ricchezze, e fa’ che, alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Amos 8,4-7
Ascoltate queste parole, voi che schiacciate i poveri e trattate gli umili come prigionieri di guerra.  Proprio voi che dite: «Quant’è lungo il sabato! Ma quando finisce la festa della luna nuova? Noi dobbiamo vendere il nostro grano! Possiamo aumentare i prezzi, falsificare le misure e truccare le bilance. Venderemo anche il grano di scarto! Ci saranno certamente dei poveri che non possono pagare i loro debiti, neppure per un paio di sandali. Allora li compreremo come schiavi». Per l’arroganza dei discendenti di Giacobbe il Signore ha giurato: «Non dimenticherò mai i loro misfatti».
Salmo. 112  Benedetto il Signore che rialza il povero.
Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore.
Sia benedetto il nome del Signore, da ora e per sempre.
Su tutte le genti eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria.
Chi è come il Signore, nostro Dio, che siede nell’alto
e si china a guardare sui cieli e sulla terra?
Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero,
per farlo sedere tra i prìncipi, tra i prìncipi del suo popolo.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 2,1-8
Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
Dal Vangelo secondo Luca 16,1-13
Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI. Don Augusto Fontana
Quante volte hai visto dai telegiornali le forze dell’ordine che, dopo aver scoperto bunker segreti scavati dai mafiosi sotto terreni e coltivazioni, mostravano tra gli arredi anche Bibbie consunte contornate da murales di immaginette sacre da far invidia ai migliori santuari. Come dire: Dio in una mano e il sangue di Abele o il pizzo estorto nell’altra. Ma io, che mafioso non sono, non mi sento poi così tranquillo in coscienza, in qualità di amministratore dei beni consegnatimi dal mio Signore.
L’importanza di chiamarsi furbi[1]
Le tre letture della Messa odierna concentrano la loro attenzione in modo curioso su una figura oggi molto attuale e discussa: quella dell’amministratore.
Per la verità, la liturgia ci offre tre differenti profili di questa professione:

  • l’amministratore di beni propri (1a lettura)
  • l’amministratore delegato (Vangelo)
  • il pubblico amministratore (2a lettura).

Sappiamo tutti anche troppo bene che una tentazione abbastanza comune tra chi amministra qualsiasi genere di bene materiale è quella della disonestà. I giornali e la TV ci presentano ogni giorno una rassegna incredibile di furberie e scaltrezze di ogni genere, mirate al raggiungimento di un solo obiettivo: l’esclusivo profitto e interesse personale. S. Paolo esorta a pregare intensamente per tutti i pubblici amministratori, perché non cadano in questa tentazione e ci garantiscano pace e giustizia.
Ma anche la furbizia (quella disonesta!) nell’ambito del privato viene stigmatizzata duramente. Nella prima lettura Amos ci riporta queste gravi parole del Signore: “Mai dimenticherò le opere loro”. E Luca ci riporta il “titolo onorifico” con cui Gesù aveva lodato il protagonista della sua parabola: “amministratore di ingiustizia”. Non ci deve scandalizzare il fatto che Gesù stesso, nel Vangelo (Mt 10,16), ci esorti: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Ovviamente la Parola di Dio condanna tutto ciò che è disonesto e fraudolento, ma ci offre oggi nel Vangelo una chiave di riflessione originale sul tema della saggezza/furbizia.
Fede “low cost”.
Impazzano ancora i viaggi “low cost”, a costo calmierato; ci abbiamo fatto l’abitudine e il giochino ha infettato tutto, anche la mia dimensione di fede, la mia condizione di discepolo: sono un cristiano/prete “low cost” o, come ho detto in altre occasioni, ho una “fede light”, leggera come certi formaggi senza grassi.
L’incombere della persecuzione o della continua venuta di Cristo poneva la comunità di Luca nella necessità di essere pronti a decisioni rapide, efficaci, efficienti e talvolta estreme. Anche noi oggi desidereremmo essere efficaci. Ma quando un cristiano e un non cristiano pronunciano la parola “efficacia” parlano la stessa lingua? Gesù, per esempio, ha detto: «Senza di me non potete far nulla, come il tralcio che non sta attaccato alla vite».
Ci viene richiesto di partecipare al culto, di pregare: quando una preghiera é efficace?
Siamo chiamati non a ritirarci dal mondo, ma ad essere nel mondo senza essere del mondo. Spesso il nostro cuore pulsa nelle vicinanze del portafoglio (Luca 12,34: Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore). Come possiamo nutrire una spiritualità pasquale amministrando la nostra vita quotidiana? Nel XIV secolo lo scrittore mistico domenicano Giovanni Taulero, nella festa di Ognissanti parlava dei laici così:«Viene infine la folla della gente comune che va a Dio nelle cose e con le cose».
La Pasqua che celebriamo ricrea urgenze, disarciona le sicurezze, demitizza i nostri assoluti, rinfranca gli umili sapienti e i poveri di cuore e di mani.
Riascoltiamo le Letture.
Amos é un pastore. Viene riconosciuto profeta al di fuori delle confraternite ufficiali dei profeti. Siamo nel 750 circa a.C. Le guerre dell’VIII secolo e i cambiamenti sociali avevano moltiplicato da un lato fiorenti gruppi di trafficanti al mercato nero e usurai e dall’altro gente che si rovinava e che veniva sfruttata. Ma il problema più grave era che gli approfittatori andavano al tempio oppure approfittavano del riposo festivo per tramare sfruttamenti e inganni. Amos enumera le contraddizioni di questi uomini religiosi ma non pii: truccare le bilance, diminuire le misure, aumentare i prezzi. Ma poi non parla solo di merci; parla anche di uomini trattati da merce. Culto e ingiustizia per i profeti è come un incesto, un tabù. Paolo raccomanda di pregare con mani pure, senza ira e senza conflitti.
Luca 16, 1-13 (meglio se fino al 16:«[14]I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e ridevano di lui. [15]Egli disse:  «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio. [16]La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi»). Luca sta illustrando la polemica di Gesù contro i farisei di tutti i tempi, ma anche il comportamento che i discepoli devono assumere nel tempo che precede la manifestazione finale di Gesù. Sarebbe grave che non ci accorgessimo del tempo di emergenza e ci adagiassimo stupidamente accomodandoci nella logica della stoltezza, come dice il Salmo 49, 13: «L’uomo nella prosperità non capisce. E’ come una bestia».
Domenica prossima celebreremo la parabola del ricco e del mendicante Lazzaro, strettamente congiunta alla lettura biblica di oggi.
Questa prossimità del regno crea la necessità di agire «con forza». Matteo (11,12) scrive: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli è preso a forza (in greco: biazetai) e  i violenti (in greco: biastai) se ne impadroniscono».  Anche Luca usa la stessa terminologia al v. 16: «viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi».  Si entra nel Regno “con forza, con violenza”, cioè occorre essere avveduti con lucidità, cercare una soluzione, prendere decisioni, restare fedeli nella decisione.

Mettiamo in chiaro innanzitutto alcuni termini:

  • Se vogliamo dare un titolo a questa parabola, non sarà certo “La parabola dell’amministratore infedele” ma piuttosto “dell’amministratore avveduto/saggio”. Alcuni esegeti dicono che, secondo la legislazione giudaica, l’amministratore poteva applicare sul recupero debiti una provvigione per sé che però doveva essere giusta e non usuraia; questi autori suppongono quindi che la quota cancellata dall’amministratore riguardi la provvigione usuraia che egli aveva imposto ai debitori; il danneggiato, dunque non sarebbe il padrone[2]. E’ giusto dire che questa interpretazione non convince altri esegeti e si armonizza poco con il contesto narrativo. Comunque sia, l’amministratore è stato saggio perché ha agito tempestivamente di fronte all’urgenza che incombeva sulla sua vita.
  • L’amministratore é saggio (e non “scaltro”). Il termine greco “fronimòs” viene dal vocabolario biblico sapienziale ed é applicato dai vangeli a colui che vive con sapienza evangelica dentro le urgenze createsi con la venuta di Gesù.
  • Mammona: in ebraico mamōn e in aramaico māmônā sono termini la cui radice linguistica ‘aman ci porta al significato di “fidarsi, credere”. Mammona di iniquità allora é ciò in cui ti fidi, ma poi ti pianta in asso. E’ tutto l’opposto della parola AMEN che significa fidarsi della roccia su cui appoggio il piede.
  • Contrapposto a disonesto é “fedele”. Amministratore disonesto, é come dire “amministratore che appartiene alla logica di questo mondo”. L’iniquità non é guadagnare con imbroglio ma anche contare sulla ricchezza guadagnata onestamente. Tra l’altro mi chiedo spesso: quale ricchezza é guadagnata onestamente?

Allora:
Approfittare del tempo per mettere ordine nelle cose, scegliendo quelle eternizzabili, per esempio i rapporti umani: «fatevi degli amici!».
Siate saggi amministratori dei beni terreni, se volete che Dio vi consegni i beni del Regno.
Siate avveduti, decisi e fedeli.
Così si attende la beata speranza e che venga il Regno del nostro Signore Gesù Cristo.


[1] di  Alvise Bellinato
[2] Radermakers-Bossuyt, LETTURA PASTORALE DEL VANGELO DI LUCA, EDB, Pag.352




11 settembre 2022. Domenica 24a
GESU’ TRA PERDUTI E RITROVATI

24 domenica tempo ordinario –

Preghiamo. O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non hai abbandonato il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen

 Dal libro dell’Èsodo 32,7-11.13-14

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».  Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla testa dura[1]. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
Salmo 50. Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1,12-17
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 15,1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
GESU’ TRA PERDUTI E RITROVATI.  Don Augusto Fontana

E il popolo disse: “Dio ci hai deluso! Addio”
E Dio rispose: “Anche voi. Sono arrabbiatissimo. Arrivederci.”
E Mosè disse a Dio: “Ricordati che sei un Dio di misericordia…sennò distruggi anche me insieme al tuo popolo.
E Dio rispose: “Va beh! Ho un po’ esagerato. Mi pento. Ricominciamo, ma questa volta seriamente, testoni!”

Il Signore sta per concludere un patto con il suo popolo attraverso un documento che consegna nelle mani di Mosé: ” le due tavole della testimonianza ” (Es 31,18). Mentre Mosè è sul Sinai per molti giorni, il popolo sperimenta il silenzio di Dio e si impaurisce poiché, come me, non ha ancora imparato a fidarsi di Dio. Il Dio di cui fidarsi, è un Dio silenzioso, nascosto, non rappresentabile in nessuna forma. Il popolo convince Aronne responsabile del culto: “Fa per noi un Dio che cammini alla nostra testa perché a Mosé, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto” (32,1). E, alla fine, il popolo scolpisce un toro e dice: “Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto“. Da tempi remoti il toro era, in Egitto, l’immagine del grande Dio Ptah dal quale dipendeva la fecondità dei campi e degli animali. Per il popolo d’Israele, un’immagine poteva essere il tentativo di possedere quel Dio che li ha liberati (v.8). Di qui la delusione di Dio che disconosce il popolo come “suo”.  Mosè conosce il cuore di Dio e “cominciò a supplicare“, ma il verbo significa piuttosto “incominciò ad accarezzare il volto del Signore“. Mosé accetta di essere il figlio amato che gioca con il padre e usa tutte le sue risorse per poter riportare il padre ad un sorriso e dice: “Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il tuo proposito“. Il testo conclude: ” Il Signore si pentì del male che aveva minacciato “(32, 14).
Eppure nella vicenda del perdono di Dio c’è un episodio umano tragico, una torsione che mi lascia interdetto: Mosè gridò [ai leviti]: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: ognuno uccida il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo» (Esodo 32,27-28). Lo zelo religioso è peggiore dell’intransigenza di Dio? La Bibbia mi provoca domande e non sempre mi dona risposte.
Il testo di Es 34,7-8 ci rivelerà i tredici attributi divini, un condensato di ciò che la Bibbia di Israele pensa di Dio: «Il Signore (YHWH) – Dio – misericordioso – compassionevole – lento all’ira – grande nell’amore – e nella fedeltà – che conserva la sua grazia per mille generazioni – toglie l’iniquità – (toglie) la colpa – (toglie) il peccato – ma non lascia senza punizione – punisce la colpa dei padri nei figli…».
Due soli attributi sono dedicati al Dio che punisce e fa giustizia, mentre ben undici attributi descrivono il Dio della misericordia e del perdono.

Il testo del Vangelo di Luca ci porta un po’ di calma al cuore che si interroga e teme. Non il vitello d’oro né lo zelo della religione, ma Gesù è l’immagine del Dio vivente, amico dei pubblicani e dei peccatori. Osserviamone alcuni squarci.
Insoddisfazione.
Ti riporto un efficace annotazione del mio amico don Nando, a commento del cap. 15 di Luca: «Viene rimarcato un avvicinarsi a Gesù da tutte le parti: ma con scopi e con esiti molto diversi. C’è un avvicinarsi per “ascoltare” e c’è un avvicinarsi per “brontolare”. Questo viene rimarcato molto bene dal testo greco: enghizò (avvicinarsi) e gonghizò (brontolare). Come dire: apparentemente tutti si avvicinano a Cristo, ma quando lui si rivela allora si manifesta chiaramente il “perché” lo si va cercando. Come non sottolineare la perenne attualità – nella storia della Chiesa, ma non solo – di questa annotazione di Luca? Dunque, quello che crea separazione tra l’ “avvicinarsi” e il “brontolare” è proprio questo dato di fatto: «accoglie i peccatori e mangia con loro». Quello che crea problema non è tanto quello che Gesù dice, ma quello che Gesù fa. E’ il suo operato che rivela il Padre! La Prima Parola-di-Dio è lui. Prima, dunque, di chiedermi se sono tra le 99 pecore o sono quella smarrita, se assomiglio al figlio maggiore o al figlio minore, debbo chiedermi: “Sto cercando Dio? Per quale motivo mi avvicino a Cristo? Perché lo cerco? Cerco delle parole che eventualmente confermino quello che già penso di Dio oppure cerco una persona per accogliere la sua esistenza, un uomo appeso ad una croce?“.
La Chiesa di Luca ha corso un grosso rischio: dimenticare che la Chiesa è una comunità di peccatori e non una Setta di giusti. Il capitolo 15 è rivolto a colui che si considera “giusto”. E l’invito è rivolto a lui perché non rimanga vuoto il suo posto alla mensa del Padre».
Allontanamento
Il popolo si allontana presto dall’adorazione dell’Unico Signore («non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che avevo loro indicata»). Saulo si è allontanato diventando «bestemmiatore …lontano dalla fede…persecutore…violento» a servizio della causa di Dio (come molti di noi oggi?). La pecora si è allontanata dall’ovile e si perde (1 su 100). E poi c’è la donna che perde una delle sue dieci monete (1 su 10). Infine ecco il figlio scapestrato che si è allontanato dalla casa paterna (1 su 2). Ma non basta: c’è pure il figlio maggiore che è «lontano» anche se non ha mai lasciato la casa e il lavoro. La sua fedeltà, infatti, è puramente formale, priva di gioia e di amore; e il suo cuore si dimostra gretto, scarica suo fratello sulla coscienza del padre («questo tuo figlio… ». E il padre glielo rimanda, non come proprio figlio, ma come suo fratello da amare: «questo tuo fratello… »). Forse i lontani più irrecuperabili sono quelli che bazzicano, irreprensibili, in casa, ma faticano ad abbandonare i rigidi schemi di un codice di comportamento formale, per «entrare» nella logica folle della misericordia («si indignò e non voleva entrare… »). Noterai il contrasto stridente tra la superba rivendicazione del figlio maggiore («Non ho mai trasgredito un tuo comando») e l’umile confessione di Paolo che si riconosce «il primo» tra i peccatori. Chi non ammette di avere bisogno di perdono, oltre a non sperimentare «la gioia del perdono», non sarà mai capace di dare perdono.
Ricerca
Tra l’allontanamento e il ritorno-conversione, c’è di mezzo un’appassionata ricerca. Mosè fa dei passi in favore di quella razza dal «collo rigido». Il Signore si muove per primo in direzione di Paolo che nella Lettera ai Filippesi (3,12) scriveva «anch’io sono stato afferrato da Gesù Cristo». Il pastore va a cercare la pecora sbandata; la donna «accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente…». Soltanto il padre dell’ultima parabola sembra limitarsi ad aspettare. Ma non è così. Pure lui si è mosso: «gli corse incontro». La conversione è questione di passi. Non soltanto i passi di chi ritorna, ma anche quelli, instancabili, di chi cerca pazientemente, frequenta i luoghi della perdizione, batte tutte le strade, non si rassegna alla lontananza di nessuno. Noi cristiani non possiamo dedicarci a conservare ciò che abbiamo;  bisogna uscire dalla stalla, setacciare la casa. Assomigliamo al figlio maggiore della parabola che preferiva l’assenza di suo fratello. Finché nelle famiglie manca un fratello la festa è monca. Con questa strategia pastorale di conservare e custodire ciò che abbiamo, prima o poi perderemo tutto. La promessa di Dio ad Abramo, ricordata nella prima lettura di questa domenica, continua ad essere vera: “moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo…”. Dio parla di moltiplicare e non di dividere o diminuire. La nostra comunità deve essere estroversa per natura.
Festa
La festa è la conclusione di tutte e tre le avventure. La conversione e il perdono sfociano, non in una penitenza punitiva, in una tetra sala dove sono schierati volti cupi e ammonitori, ma in un clima festoso. È importante, però, che tutti si sentano coinvolti in questa festa: «Rallegratevi con me». La gioia del ritrovamento va condivisa senza riserve da tutti.


[1] È un popolo di dura cervice: Questo versetto manca nella traduzione greca dei LXX. Potrebbe provenire da Dt 9,13. Si tratta della famosa metafora della caparbietà, con riferimento a colui che ha il collo troppo rigido per voltarsi e che, quindi, una volta intrapresa una via (anche sbagliata) non si volterà mai indietro.




4 settembre 2022. Domenica 23a
MA QUANTO CI COSTA?

23a Domenica C

Preghiamo. O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle del cielo; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen
 Dal libro della Sapienza 9,13-18
Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».
Salmo 89.  Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda.
 Dalla lettera a Filèmone 1,9-10.12-17
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.  Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
 Dal Vangelo secondo Luca 14,25-33
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.  Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

 MA QUANTO CI COSTA? Don Augusto Fontana.
Il Vangelo produce miele, ma ha anche un pungiglione.
«Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo»; da noi basta un raffreddore e la nostra sequela si affloscia. Eppure, sotto altre forme meno drammatiche ma altrettanto severe, anche da noi l’essere discepoli comporta dei costi e, grazie a Dio, qualcuno sta conducendo la sua buona testimonianza (in greco si dice martyrìa che ha il sapore del martirio). La vita di un cristiano che ci crede è spesso soggetta a un martirio che non è necessariamente solo quello cruento. Il filosofo Kierkegaard diceva: “se Cristo venisse oggi fra noi, forse sceglierebbe il martirio del ridicolo”, cioè quella particolare coerenza tra il Vangelo e la vita, che rende un cristiano così inattuale nel mondo. Come Simone di Cirene: «Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù» (Luca 23,26); non sappiamo se si sia mai convertito, se abbia accettato di buon animo l’ordine datogli, se abbia compatito il Cristo o se lo abbia maledetto. I discepoli, passivi, accettano che sia un esterno a portare la croce.
«…molta gente accompagnava Gesù durante il suo viaggio». L’evangelista usa, in greco, il verbo sun-eporeuonto che si traduce con “accompagnare, viaggiare insieme; verbo molto diverso da quello che Gesù mi chiede di vivere: “seguimi!”. Anche allora c’era una chiesa di massa fatta di curiosi a corrente alternata (“oggi vado, ma domenica prossima si vedrà…dipenderà…”) o di cercatori di miracoli, presto delusi come fungaioli incostanti e debosciati se i cesti restano vuoti dopo pochi passi nel bosco. Per essere cristiano, la chiesa italiana esige in realtà molto poco. Si battezzano i neonati e non si esige quasi nulla dai genitori; al massimo, un incontro preparatorio al rito del battesimo e un vago impegno di agire cristianamente educando il bambino secondo la legge di Dio e i comandamenti della chiesa. Ma al principio non era così. A chi provava ad essere discepolo, Gesù lo invitava a pensarci seriamente: «Se uno di voi decide di costruire una casa…si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori…». Saremmo pochi (e, credimi, penso anche a me), se dovessimo davvero compiere le tre condizioni che Gesù esige dai suoi discepoli.
Per la prima condizione (“se uno vuol venire con me e non mi preferisce a suo padre e a sua madre, a sua moglie e ai suoi figli, ai suoi fratelli e sorelle, e persino a se stesso, non può essere mio discepolo“) il discepolo deve essere disposto a subordinare, ridimensionare, relativizzare tutto all’adesione al Signore e alle esigenze del Vangelo. Gesù e il suo piano di creare una società alternativa al sistema mondano stanno al di sopra dei legami famigliari. Ma attenzione: non chiede di scegliere tra famiglia e parrocchia, ma di scegliere Lui nei legami familiari. Diceva Padre E.Balducci[1]: «La caratteristica dell’annuncio evangelico non è la squalificazione dei rapporti di sangue ma l’apertura costante di un orizzonte che va al di là del gruppo a cui si appartiene e che apre possibilità non contenute nei vincoli di parentela o del gruppo etnico. Gesù additando se stesso come degno di amore molto più che il padre, la madre, la moglie e i figli, non getta indifferenza su questi rapporti, ma chiama all’universalità dell’amore e della dedizione. Seguire lui nell’ombra della croce significa seguirlo nella dedizione per tutti gli esseri. La novità del Cristo è la rottura di tutti questi vincoli, la loro relativizzazione. Perché Gesù è stato messo in croce e gli apostoli furono perseguitati? Per la loro opposizione diretta alla presunzione di un gruppo (della famiglia o della nazione) di essere l’intero orizzonte di Dio».
Per la seconda condizione (“chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo“) non si tratta di fare sacrifici o di mortificarsi, ma di accettare concretamente che l’adesione a Gesù comporti dei costi di fronte alle pressioni conformistiche della società. Perciò non è necessario essere precipitosi onde evitare di promettere più di ciò che possiamo effettivamente sostenere. Come per la costruzione di una torre che esige di fare una buona pianificazione per calcolare i materiali di cui disponiamo; o come un re che pianifica una battaglia precipitosamente, senza sedersi a studiare le sue possibilità di fronte al nemico.
La terza condizione (“chiunque non rinuncia a tutto ciò che ha non può essere mio discepolo“) ci sembra eccessiva. Come se fosse poco dare la preferenza assoluta al progetto di Gesù ed essere disposti a soffrire per questo la persecuzione, Gesù esige qualche cosa che sembra al di sopra delle nostre forze: rinunciare a tutto ciò che si ha. Si tratta, senza dubbio, di una formulazione estrema che va interpretata. Il discepolo deve essere disposto persino a rinunciare a ciò che ha, se questo è d’ostacolo a porre fine ad una società ingiusta nella quale pochi accaparrano i beni della terra di cui altri necessitano per sopravvivere. L’altro ha sempre la preferenza. Ciò che si considera proprio, cessa di essere una proprietà quando un altro ne ha bisogno. Solo dalla distribuzione si può parlare di giustizia, solo dalla povertà si può lottare contro di essa. Solo da ciò si può costruire la nuova società, il Regno di Dio: sradicando l’ingiustizia sulla terra.

Per quanti di noi tolgono con frequenza il pungiglione al Vangelo e preferirebbero che le parole e i gesti di Gesù fossero meno radicali, leggere questo testo risulta duro e tremendamente esigente. Non invano il libro della Sapienza formula oggi, sotto forma di domanda, la difficoltà che comporta il conoscere il disegno di Dio: « Chi tra gli uomini potrà mai conoscere la volontà di Dio? Chi potrà sapere quel che il Signore vuole?… Ma le cose del cielo, chi mai ha potuto esplorarle?».  Per questo preghiamo: « Nessuno ha conosciuto la tua volontà se non eri tu a dargli la sapienza, se dal cielo non gli mandavi il tuo Spirito Santo».
Il salmo 89 ci rivela il nostro vero profilo: siamo polvere, un soffio di tempo, un filo d’erba che dura un giorno, una goccia di rugiada al sole. Donaci, o Dio, la sapienza del cuore per andare contro corrente ed avere la capacità di quell’impegno progressivo e a caro prezzo che chiede il Vangelo.   Ma ciò che nel vangelo ci viene proposto come esigenze radicali di Gesù, non è tanto l’inizio del cammino, ma la meta alla quale dovremmo tendere, se vogliamo seguire Gesù. Forse non giungeremo mai a vivere con questa radicalità le esigenze di Gesù, ma non dobbiamo rinunciarci, per quanto ci possiamo trovare ad anni luce da questa utopia.


[1] Padre Ernesto Balducci (muore nel 1992 a 69 anni, a seguito di un grave incidente stradale), presbitero-teologo-scrittore. Profeta dimenticato dalle generazioni che non l’hanno conosciuto e non hanno avuto la fortuna di essere lambite dall’irruenza urticante evangelica delle sue letture bibliche in simbiosi con le lucide analisi sociali, ecclesiali e politiche. L’ostilità della Curia diocesana di Firenze e di papa Pio XII gli valse l’allontanamento da Firenze. Fu un sostenitore dell’obiezione di coscienza al servizio militare e nel 1964 fu condannato dal tribunale per apologia di reato con parallela denuncia al Sant’Uffizio. Nel 1965 Balducci riuscì a riavvicinarsi a Firenze grazie anche all’intervento di papa Paolo VI. Fu una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II.