10 novembre 2024. Domenica 32a
Vedove tra profeti e sanguisughe

Preghiamo. O Dio, Padre degli orfani e delle vedove, rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi, sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore, perché mai venga a mancare la libertà e il pane che tu provvedi, e tutti impariamo a donare sull’esempio di colui che ha donato se stesso, Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal primo libro dei Re 17,10-16
In quei giorni, Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva legna. La chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere”. Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Prendimi anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. Elia le disse: “Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra”. Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia.
Salmo 145. Beati i poveri in spirito: di essi è il regno dei cieli.
Dodici giaculatorie per una litania di nomi di Dio che in ebraico suonano così: il creatore, il fedele, il liberatore….Dall’altro lato, un elenco dei poveri di Jahwè (o il loro contrario=empi)
1 –Creatore del cielo e della terra, del mare e di quanto contiene.
2 -Egli è fedele per sempre.
3 –Rende giustizia                         agli oppressi.
4 –dona  il pane                             agli affamati.
5 -Il Signore libera                         i prigionieri,
6 -il Signore ridona la vista          ai ciechi,
7 -il Signore rialza                         chi è caduto,
8 -il Signore ama                           i giusti,
9 -il Signore protegge                   lo straniero,
10- egli sostiene                           l’orfano e la vedova,
11 – ma sconvolge                         le vie degli empi.
12 -Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.
Dalla lettera agli Ebrei 9,24-28
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Dal Vangelo secondo Marco 12,38-44
In quel tempo, Gesù diceva alla folla mentre insegnava: “Distogliete lo sguardo[1] dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”.E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri offerenti (in greco: gettanti).. Poiché tutti hanno gettato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”[2].

Vedove tra profeti e sanguisughe.D. Augusto Fontana

Santuari, cattedrali e chiese parrocchiali continuano ad essere, non meno del Tempio di Gerusalemme, spazi di ambigua religiosità e di sconosciute virtù. Sui loro bilanci cadono rumorosi assegni di chi può e silenziose monete di chi non potrebbe. Alle prestazioni religiose corrispondono ancora i compensi in denaro per finalità – dicono – sacrosante, ma ancora passibili di revisione evangelica. Nei luoghi di culto transitano ancora, come nel Tempio di Gerusalemme, antiche e nuove “vedove” confuse tra antichi e nuovi scribi: differente la posizione economica, ma soprattutto diversa la collocazione davanti a Dio. L’Evangelista Marco sta cercando di rispondere al quesito della sua comunità: “chi è Gesù e il Suo Dio? Chi è il discepolo?”, ma soprattutto “dove ci porta se lo seguiamo?”. Tratteggia, così, una quindicina di figure che diventano le icone del vero discepolo (la suocera di Pietro, il lebbroso, ben due ciechi di cui uno diventato discepolo a Gerico, l’esattore Levi, la donna mestruata, il sordomuto, l’uomo semiparalizzato, i bambini, la donna siro-fenicia e sua figlia, Giairo e sua figlia, il cireneo, il soldato pagano sotto la croce, Maria di Magdala, la vedova). Appartengono tutti alla categoria dei “curvati” sotto il peso della vita ed esclusi dalle regole di purità religiosa talvolta sessista. L’Evangelista Marco affonda il bisturi anche nella carne viva dell’organizzazione sociale oltre che in quella ecclesiale. Ogni luogo di culto è inserito in un contesto urbano e di convivenza umana dove le nuove “vedove” passano inosservate nella loro dignitosa povertà e fede, espropriate dalla rapacità dei nuovi scribi: usurai, approfittatori, furbi, politici macchiavellici. L’antitesi ricchi-poveri è un procedimento frequente nei discorsi escatologici di Gesù e gli serve per annunciare l’arrivo del Regno e il capovolgimento delle situazioni abusive. Troppi rampanti amano ancora, a dispetto di chi dichiara morta l’ideologia classista, passeggiare in lunghe vesti, ostentare pubbliche preghiere, ricevere applausi dai gossips dei giornali patinati, avere i primi posti ovunque, ingrassare in tutte le latitudini del loro essere divorando le case delle vedove e anche quelle dei fidanzati o degli sfrattati. Neppure io e te sfuggiamo allo sguardo scrutatore (osservava) di Gesù che ci vede in fila con altri nella nostra personalissima esperienza cristiana sia quando gettiamo nel cuore di Dio il superfluo delle nostre energie e sia quando sgomitiamo o rapiniamo o non ci accorgiamo dei “curvati” vicini e lontani. S. Ambrogio dice che «Dio non bada tanto a ciò che doniamo a Lui, quanto piuttosto a ciò che  tratteniamo per noi». Si tratta di imparare a gettare senza trattenere, ma anche a gettare nella giusta direzione. Un racconto cinese dice: «Colui che si pone alla ricerca di Dio e vende tutto ciò che possiede salvo l’ultimo soldo è proprio un pazzo. Infatti è proprio con l’ultimo soldo che si arriva a Dio».
Elogio per vedove “in cattedra”.
C’è una galleria di personaggi che entra in scena nella nostra celebrazione: due vedove (1° Libro dei Re  e Vangelo di Marco) di cui la prima viene ricordata per l’ospitalità e la condivisione ad un profeta,  la seconda offre al Tempio quanto le servirebbe per vivere. Donne, vedove e povere: outsiders della società e della religione; Gesù Sacerdote unico (Lettera agli Ebrei), sposo “vedovo” senza comunità, che offre se stesso per rianimare la sposa, morta nelle proprie prostituzioni; Jahwè, un Dio di parte, sbilanciato sui poveri ed intenerito dal loro bisogno e dal loro abbandonarsi alla Sua provvidente paternità (Salmo 146); infine la regina Gezabele, gli scribi, i discepoli, la folla tra rapine, ostentazioni,  indifferenze e sterili ascolti.
Il Primo Libro dei Re, quando narra la vita del profeta Elia, pare compiacersi dei contrasti. Il brano di oggi, per esempio, contrappone la vedova di Sarepta (città pagana) alla regina Gezabele che vive nel lusso e induce il marito re Acab a far uccidere Nabot per rapinargli la  vigna che non gli aveva voluto cedere; la vedova vive, invece, in onesta e accogliente povertà con la benedizione del profeta obbediente alla Parola ricevuta: «Alzati, va a Sarepta di Sidone e stabilisciti là. Ho già dato ordine ad una vedova di là perchè ti fornisca il cibo» (versetti 8-9 malauguratamente omessi dal testo liturgico di oggi). Il profeta si muove in obbedienza alla Parola di Dio e sa che la Parola di Dio, protagonista dell’episodio, lo ha già preceduto nel cuore della donna.
Sulla vedova del Vangelo le interpretazioni si dividono. Alcuni[3] leggono la figura della vedova come icona di Gesù o come un’edificante icona del discepolo:«La vedova, sola, inosservata, povera e umile, getta tutta la sua vita; è come Gesù che si è fatto ultimo di tutti e ha messo la sua vita al servizio di tutti. Gesù la mette in cattedra al posto suo. Essa dà tutto per il tempio che presto verrà distrutto. Il tempio in realtà è Gesù stesso». Forse non si tratta di scegliere questa o quella interpretazione, ma ciò che lo Spirito mi suggerisce per il caso mio.
Il brano del vangelo è drammatizzato in tre scene che si svolgono nel Tempio dove erano disposti tredici recipienti ad imbuto per la raccolta delle offerte. L’offerta veniva consegnata al sacerdote il quale, dopo aver verificato la validità del denaro, a voce alta annunciava la quantità e lo scopo dell’offerta. Gli amministratori religiosi hanno imparato a contare la quantità.
Il soggetto di partenza di ognuna delle tre scene è Gesù che si lascia coinvolgere o coinvolge. Se non ci accontentiamo solo del testo, ma andiamo a leggere il con-testo, scopriamo che il brano di oggi fa seguito ad un capitolo che contiene violente requisitorie e scontri di Gesù con l’apparato religioso, proprio all’interno del Tempio. E dopo il testo liturgico di oggi seguirà la Passione e la morte. Sembra dunque che gli eventi di oggi costituiscano una cerniera importante. Nel brano di oggi la polemica è attenuata e si trasforma da una parte in ironia corrosiva e dall’altra in tenera benevolenza. La folla comunque lo ascoltava volentieri, come si ascolta sempre volentieri una polemica che riguarda altri e non metta in discussione se stessi.  Entrano in scena gli scribi con una sequenza narrativa costituita dai sei peccati di vanità, ipocrisia e rapina (amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere): brave persone religiose, assidui frequentatori. In realtà la razza degli scribi e dei farisei non si estinguerà mai, nella Chiesa. Anche noi siamo scribi potenziali, o di fatto, ai quali Gesù rivela oltre che le lacune dottrinali anche le contraddizioni religiose ed etico-sociali. Gli scribi, esperti legali e pertanto ricercati soprattutto dalle vedove che mancavano della protezione maschile, facevano probabilmente pagare in modo esorbitante le prestazioni professionali con parcelle che obbligavano le vedove a cedere le povere case. Resta odioso, per Gesù, che loro si servano del prestigio e della professione religiosa per ricavare utili materiali a spese dei semplici. Sono dei parassiti che pure con comportamenti esteriormente inappuntabili, mascherano un’illegalità interiore che Gesù mette in luce. Gesù  “legge” ciò che accade davanti ai suoi occhi. La Sapienza è anche saper discernere negli eventi ciò che appartiene al Regno e ciò che ne è fuori, saper leggere dentro ed oltre l’esteriorità. Aveva detto: «Voi che dai segni atmosferici sapete prevedere che tempo farà, non sapete poi riconoscere i segni dei tempi». Si disse (ma ora non più, ahimè!) che il cristiano deve tenere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale: occorre «distogliere lo sguardo da…» e «osservare invece…». Gesù educa ancora una volta allo sguardo in profondità: distogliete lo sguardo dalle fumose apparenze religiose e spostatelo su ciò che non è appariscente ma costituisce lo spessore del Regno.
Gettare.
Il verbo fondamentale del brano è il verbo «gettare» ripetuto, non senza intenzionalità teologica, ben sette volte in due soli versetti. Anche il cieco di Gerico aveva gettato il mantello. Tanti ricchi gettavano molto del loro superfluo, non mettendo in gioco se stessi, ma limitandosi ad investire una parte dei loro capitali in eccesso per la prospettiva di una protezione divina che tornerà a loro vantaggio. Consiglierei di leggere Isaia 44, 9-20: era usanza abbattere un albero per costruire idoli; una parte veniva portata a casa per riscaldarsi e farsi da mangiare e con gli avanzi si costruiva l’idolo e, per di più, per cercarne vantaggio. Non ti dice niente, per l’oggi, questa strana usanza ancestrale?
Tutti sono capaci di dare ciò che si ha. Dare ciò che non si ha, è caratteristica dei “piccoli discepoli”. Questa povera vedova ha gettato più di tutti: «due spiccioli, tutto quanto aveva, tutta intera la sua vita». Lo spicciolo era la più piccola moneta in corso; tre grammi di bronzo. L’offerta equivaleva ad 1/8 della razione giornaliera offerta ai poveri dalla beneficenza pubblica. Aveva due spiccioli: uno lo poteva tenere per sè. Li dona tutti e due. Diventa così l’icona di Gesù che tra poco si consegnerà non trattenendo nulla per sè. Il giovane ricco, invece, pur osservante religioso, resterà per sempre come immagine del nostro mediocre discepolato. La “povertà biblico-evangelica” non è una situazione unicamente economica, ma convive con la condizione dell’ «appoggiarsi su Dio». In questo, tantissimi umili fratelli e sorelle nella fede mi fanno da maestri! Io sono nelle condizioni di non aver incominciato neppure a gettare il superfluo. Io appartengo alle fasce aristocratiche della società e della Chiesa: occorrerà incominciare ad accorgermi dei piccoli fratelli/sorelle, come le vedove della liturgia di oggi, che il Signore ha messo in cattedra per me al posto suo, per indicare che, anche in sua assenza, ogni piccolo e semplice credente, con la didattica della sua vita, dovrà essere considerato maestro per la Chiesa, scribi permettendo.


[1] La traduzione liturgica dirà: “guardatevi da…”. Ho preferito la traduzione “distogliete lo sguardo da…”. Il verbo greco «blepo» pare che sia stato mal tradotto dalla Vulgata latina con “cavéte” che vorrebbe dire “attenti agli scribi!”. Credo invece che vada rispettato il senso di attività oculare: distogliete lo sguardo da…! Questo crea un efficace contrappunto con il verbo successivo “osservava…”.
[2] La traduzione che verrà letta in liturgia non rispetta l’uso ossessivo dello stesso verbo greco che Marco per 7 volte utilizza nel proprio testo: GETTARE (ballô); Noi invece nel testo riportato sopra abbiamo integralmente rispettato “l’ossessione” catechistica del testo greco di Marco: ballô = gettare. Marco racconterà (14, 3) che poche ore prima della morte di Gesù, una donna si avvicina e “rompe” un vasetto preziosissimo e”versa” tutto il contenuto su Gesù. Beccandosi il rimprovero dei discepoli: «Perché tutto questo spreco?».
[3] Silvano Fausti Ricorda e racconta il Vangelo, Editrice Ancora Milano 1992.




3 novembre 2024. Domenica 31a
SI FA PRESTO A DIRE AMORE

31° Domenica

Preghiamo. O Dio, tu se l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal libro del Deuteronòmio 6,2-6
Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.  Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Salmo 17. Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato.
 Dalla lettera agli Ebrei 7,23-28
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.  La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Dal Vangelo secondo Marco 12,28-34
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Si fa presto a dire amore. Don Augusto Fontana

L’indivisibile amore.
Scriveva David Maria Turoldo[1]: «L’Amore vero, profondo, il misterioso amore non ha parole. E invece noi parliamo, parliamo. Signore, Ti abbiamo sempre sulle labbra, mentre il Tuo santuario è il cuore dell’uomo. Allora se non amo mi muoia la parola sulla bocca. Chi non ama non predichi da nessun pulpito, da nessuna cattedra. Senza amore non c’è magistero. E Dio rimane senza epifania». Se non amo, queste mie parole moriranno sulla tastiera. C’è chi ha scheletri negli armadi; io temo di trovarne nei miei pulpiti come chi, anche in buona fede, inflaziona il nome di Dio e il suo cognome, l’amore.
La questione del legame tra l’amore a Dio e l’amore agli uomini è vecchia come la religione. La storia delle tre principali religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam), registra vistosi sbandamenti tra santità mistico-carismatiche o integralismi politico-sociali. I termini del problema sono tanto chiari e accettabili nella loro formulazione teorica, quanto problematici nella loro traduzione pratica. Molti di noi sono tratti in inganno dall’ovvia indiscutibilità del principio giudaico-cristiano «amerai il Signore Dio tuo e il tuo prossimo»; altre proposte evangeliche le sentiamo estranee ai nostri istinti: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra» (Lc 6,27-38).In questi casi l’adesione arriva (se arriva) dopo una lotta con Dio. In Matteo 19,22 un giovane ricco “se ne va triste” dopo la proposta radicale di Gesù «va’, vendi ciò che hai e dàllo ai poveri, poi, vieni e seguimi». Invece l’intellettuale del brano evangelico di oggi trova modo di consentire con Gesù “Hai detto bene, Maestro!”. Chi dei due prevale in noi? Spesso questi facili consensi teorici sull’unico amore a Dio e al prossimo nascondono il troppo facile trucco dell’eliminazione della tensione tra i due termini dell’amore. Ed il problema non si risolve semplicisticamente nel giusto equilibrio tra attività di culto ed attività sociale. La liturgia odierna affonda il bisturi fino alle radici e parla di “amore”. Riconosco che nella mia vita religiosa non è ancora risolta una certa schizofrenia e che nella moltitudine di attività e sentimenti sto ancora cercando la coordinata unificante. Rileggendo Erich Fromm[2] mi sono sentito sul collo il fiato di idoli che impongono il loro imprinting: «Ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa. Nessun osservatore obiettivo della nostra vita occidentale può dubitare che l’amore sia un fenomeno relativamente raro e che il suo posto sia stato preso da tante forme di pseudo-amore che in realtà sono altrettante forme della disintegrazione dell’amore».
Ascolta Israele!
Gli ebrei recitano mattina e sera la preghiera dello Shemà Israèl (Ascolta Israele!)[3]. Durante la recita si pone una mano davanti agli occhi: il mistero di fede proclamato è accessibile all’ascolto e non alla visione. In essa si proclamano quattro principi della fede ebraica: prima di amare Dio, si è amati da Lui in modo liberante e gratuito; amare Dio significa non rendere culto ad altre divinità[4]; l’amore a Dio non è un sentimentalismo del cuore, ma una prassi delle mani verso coloro che ci sono stati resi consanguinei da Lui; questo amore deve essere integrale (con tutto il cuore, la mente e le forze). Uno dei problemi posti dall’esegesi giudaica dello Shemà è quello della ricerca del significato delle tre facoltà richieste per amare Dio. La risposta a questo problema è stata codificata dai maestri della Mishnà (2°sec. d.C.)[5]: «con tutta l’anima» significa «perfino se Egli ti strappa l’anima chiedendoti il martirio»; e «con tutte le forze» significa «anche con tutti i tuoi beni». Si forma, dunque, un’esperienza religiosa che è sia teologica che antropologica. Si alimenta  un “circolo virtuoso” tra uomo e Dio per cui è proibito costruire immagini di Jahwè in quanto l’unica immagine tollerabile di Dio è uomo-donna[6]. L’uomo diventa il “roveto ardente” entro cui Dio abita per essere adorato e da cui Dio parla per essere ascoltato (Esodo 3).
Un secondo presupposto biblico che ci serve per entrare nello Shemà lsrael è capire il circuito «fare-ascoltare-fare»: come esiste un indissolubile rapporto tra Dio e uomo, così la stessa indissolubilità si estende al rapporto tra ascoltare e fare. Già nel termine ebraico THORA’ si fondono tutti gli elementi dell’ascolto e della prassi in quanto con tale termine si intende tradurre congiuntamente legge, insegnamenti, precetti, parole, comandi, giudizi, promesse. In Deuteronomio 5,27 il popolo dice a Mosè: «Noi ascolteremo e faremo tutte le Parole che Dio ci avrà rivelato per tuo tramite». In Esodo 24,7 il popolo dice: «Tutto ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo». In ambedue i casi, ascoltare e fare la Parola di Dio vengono associati, ma la dichiarazione del testo di Esodo opera una sorprendente inversione di termini quasi a sottolineare che la prassi precede l’ascolto. Da questo testo dell’Esodo è nato un racconto ebraico edificante secondo cui Dio offrì la sua Legge a tutti i popoli del mondo prima che ad Israele; alla domanda se fossero disposti ad accoglierla, tutti i popoli risposero di voler prima conoscere ciò che vi era scritto per sapere se avrebbero potuto impegnarsi. Senonchè, una volta saputolo, si sentirono come schiacciati dal peso di esigenze troppo radicali e respinsero al mittente la proposta. Soltanto Israele non pose a Dio alcuna condizione preliminare di conoscenza, non volle misurare in anticipo le proprie forze, accettò tutto il rischio di quel dono a caro prezzo e rispose <Noi lo faremo> ancor prima di conoscere e di ascoltare. Martin Buber, un famoso autore ebraico, traduce la frase di Esodo così: «Noi lo faremo al fine di saper ascoltare».  Un insegnamento rabbinico dice: «Colui la cui conoscenza supera le sue azioni, si può paragonare ad un albero che ha molti rami e poche radici e quando viene il vento lo sradica e lo abbatte. Ma colui le cui azioni superano la sua conoscenza è paragonabile ad un albero che ha pochi rami ma molte radici e potrebbero venire tutti i venti del mondo senza riuscire a sradicarlo».
L’evangelista Marco oggi ci presenta Gesù che interpreta lo Shemà. Una serie di controversie con i gruppi emergenti fa da contesto di questo dialogo con uno scriba sul grande comandamento. Siamo di fronte ad un insegnamento fondamentale di Gesù che si inserisce coerentemente nel tracciato della tradizione giudaica ma con alcune novità. Il porre quesiti ai rabbini apparteneva all’uso comune. Nella somma di precetti tramandati dalla morale ufficiale del tempo ( 613 precetti di cui 365 negativi e 248 positivi ) era invalsa non solo la distinzione tra precetti grandi e piccoli, facili e difficili, ma anche il tentativo di individuare un precetto unitario. L’amore è costitutivamente legato al culto e alla prassi: «Nessuno ha mai visto Dio: se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi e l’amore di Lui giunge a perfezione…Se qualcuno dicesse <Io amo Dio> e odiasse il proprio fratello, è un bugiardo; poichè chi non ama il proprio fratello che continuamente vede, non può amare Dio che non ha veduto[7]» . L’amore del prossimo è costitutivamente legato all’amore di Dio: «Vi dono un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Poichè io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri. Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri»[8].“Come io ho amato voi” così dice Gesù. Logicamente ci aspetteremmo : “Così voi amate me”. E invece no:”amatevi gli uni gli altri”. Il suo amore non accaparra il discepolo ma al contrario è un dinamismo che lo spinge verso gli altri. E’ amando i fratelli che si ricambia Gesù. In altri termini direbbe l’apostolo Giovanni[9]: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui».


[1] D.M.Turoldo Amare, Edizioni Paoline, 1989, pag. 25.
[2] E.Fromm L’arte di amare, Mondadori, 2000.
[3] Deuteronomio 6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41.
[4] Deut. 6,14-15; 11,13-17; 13,2-3; 30,16-18.
[5]  La Mishnah costituisce la fonte della tradizione della Torah orale rivelata agli antenati dei maestri farisei. Solo i Sadducei ritenevano infatti che la Torah rivelata fosse solo quella scritta. I farisei, invece, ritenevano che la Torah non può limitarsi al testo scritto che, invece, deve essere ascoltato, interpretato, attualizzato attraverso la Tradizione orale.
[6] Genesi 1,26:”Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”
[7] Prima Lettera di Giov. 4,12 e 20
[8] Giovanni 13, 34-35. Il termine greco kathòs può essere tradotto sia con “COME” e sia con “POICHE’; è il fatto di essere amati da Gesù che diventa motivo, norma, conseguenza per l’amore ai fratelli.
[9]  1 Giovanni, 4, 16




27 ottobre 2024. Domenica 30a
IO, BARTIMEO

30a domenica B
Preghiamo. O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Geremìa 31,7-9
Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim[1] è il mio primogenito».
 Salmo 125 . Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.
Dalla lettera agli Ebrei 5,1-6
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek[2]».
Dal Vangelo secondo Marco 10,46-52
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

IO, BARTIMEO. Don Augusto Fontana

 Religione «fai-da-te»?
Il fenomeno religioso italiano ci offre spesso immagini di una folla immensa che si accalca attorno a papi, madonne, veggenti e santi. La religiosità si risveglia dal sonno dell’indifferenza, ma non sempre dal sonno della ragione. Si va alla religione come si va al supermercato: si guarda, si vaglia e si sceglie una merce lasciando l’altra. Nessuno compra l’intero deposito del supermarket. Anch’io ho scelto Gesù, ma non “tutto compreso”; mi sarebbe costato troppo. Più comodo optare: due comandamenti su dieci, una beatitudine su otto, quattro versetti su dodicimila, tre parabole su cinque…Gli americani direbbero «believing, without belonging», credere senza appartenere: si scelgono riti, pratiche, occasioni sporadiche a seconda del proprio tornaconto. Qualcuno ha riscontrato che le migliaia di giovani che passano ad applaudire il Papa nelle Giornate mondiali della gioventù di fatto continuano a essere applaudenti disobbedienti, come molti miei alleluja. Religione usa e getta. Religione prêt-à-porter. Ho un brivido: appartengono a questa religiosità popolare anche gli afflussi ai santuari, il ricorso ai frati guaritori, alle immaginette infilate nel dizionario del figlio o sotto il cuscino di nonna Maria, al “far dire una Messa”?  Cachet religiosi «che – come scrive il sociologo Domenico de Masi – anziché innalzare l’uomo al livello della religione abbassa la religione al livello più basso dell’uomo». Qualcuno sostiene che il popolo si sta ribellando ad un cristianesimo ingessato, ritualistico, senz’anima, dottrinale, eroico, autoritario. La fede è evento povero, ma non semplice né tanto meno naturale. Siamo assetati di sicurezze, tartufai alla ricerca di un Dio troppo annidato, e questo ci fa onore; ma siamo pure ammalati di fede epidermica part-time, di cecità interiore collettiva derivata dalla fretta e dalle ovvietà quotidiane, che ci privano della capacità di contemplare il mistero e l’invisibile, qualsiasi essi siano, umani o trascendenti. Forse siamo anche molto prudenti verso un Dio che, se gli dai un dito, si prende braccia, corpo, anima, soldi, tempo, sonno. Signore, vacci piano!
Ma il mio credere, che è ?
Alla scuola del capitolo 10 di Marco, in queste domeniche, mi sono chiesto se davvero sono discepolo o manichino da esposizione, se siamo credenti o cattolici anagrafici e domenicali, se abbiamo perso per strada l’illuminazione originaria e quel po’ di radicalismo che Gesù ha offerto e chiesto nei rapporti familiari, nell’uso dei beni e nei rapporti sociali.
O forse hai nostalgia, come me, di tornare ad essere catecumeno perchè ti stai chiedendo: ma il mio credere, che è? Gli Evangeli sono ossessivi nel definire il discepolato come sequela e la fede come cammino. Nelle pagine bibliche odierne i termini che descrivono moto e spostamento risuoneranno per almeno quindici volte su assemblee rispettosamente sedute nell’ascolto, ma potenzialmente convocate al cammino. Tutta la fede ebraica poggia su partenze, cammini, ritorni, pellegrinaggi; come l’Incarnazione e la Risurrezione di Cristo. L’evento accaduto al cieco Bartimeo è il prototipo di ogni cammino battesimale e post-battesimale; anche il consolante oracolo del profeta Geremia rimette in moto gambe anchilosate di deportati ormai seduti sui marciapiedi della propria storia, provoca scariche adrenaliniche nel cuore di straccioni e di non-eroi divenuti un imponente corteo che torna a casa cantando a Dio il pianto del loro andare e la gioia del tornare (Salmo 126).
Il cammino di Bartimeo accade a Gerico, un’oasi fertilissima, una città di villeggiatura dove nasce la tentazione di sostare. Gesù invece entra, attraversa e se ne va intercettando questo cieco seduto non a godere gli ozi della sosta ma a mendicare la sostanza della vita. Cieco mendicante seduto: tre poco invidiabili condizioni per un uomo, per ogni uomo, per ogni discepolo. Bartimeo è cieco come il discepolo che non capisce: «Non capite ancora? Avete gli occhi e non vedete[3]». Pietro alla serva che lo aveva identificato, aveva risposto:«Non ho mai visto quest’uomo» (Marco 14,71). L’apocalittico Giovanni in una delle sue misteriose visioni mette in bocca a Gesù una dura parola alle sue chiese:«Voi dite “non abbiamo bisogno di nulla” e non vi accorgete di essere falliti, infelici, poveri, nudi e ciechi. Comprate da me il collirio per curarvi gli occhi e vederci» (Apoc. 3, 14-20). La conversione di Saulo avviene attraverso il simbolismo della cecità guarita a tappe: «Saulo si alzò da terra, aprì gli occhi, ma non ci  vedeva…subito dagli occhi di Saulo caddero come delle scaglie ed egli recuperò la vista, si alzò e fu battezzato, poi mangiò e riprese forza” (Atti 9). A tappe avviene la guarigione del cieco nato[4], quella del cieco di Betsaida[5] e del cieco di Gerico.  Crollano i miti delle conversioni improvvise. Occorre abituarsi al tema della gestazione, della nascita e della crescita della fede dentro conflitti e coccole di una storia viva di incontri, ascolti e perdite.
Bartimeo è mendicante per povertà, ma anche per desiderio. Attende nella ciotola il tintinnare di un’elemosina e gli casca nel piatto un Dio di liberazione. E’ seduto, immobilizzato ai bordi del cammino frequentato da Gesù, come faranno i discepoli fermi ai margini della sua crocifissione.
E Bartimeo grida, grida. Il grido è una forma fondamentale di preghiera: «Dal profondo grido a te, Signore» dice il salmo 130 che d’ora in poi ci giunge accompagnato dal forte grido di Gesù morente che sfida le promesse del Padre, unito a tutti i grandi sofferenti della storia:«Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando tu che sei santo, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco»(Apoc.6, 9-1). E’ il grido laico delle folle dei maledetti dalle nostre civiltà, è la preghiera incessante dei giusti e dei monaci: «Abbi pietà di me! Abbi compassione viscerale e materna!». La preghiera non turba la quiete pubblica; il grido infastidisce: «Lo sgridavano perchè tacesse». La chiesa delle cifre, guardia del corpo di Gesù, gli fa ressa intorno. Molti potrebbero avvicinarsi, ma glielo si impedisce. L’emorroissa sfonda la barriera; il paralitico viene calato dal terrazzo; i bambini faticano a superare il filtro selettivo dei discepoli: c’è sempre qualcuno che è infastidito dalle esagerazioni di questi cortei di straccioni che infrangono il cerimoniale perchè non risultano tra gli invitati e diventano elementi “fuori programma” a cui vorremmo insegnare l’alfabeto delle buone maniere. Con la scusa di difendere Gesù difendiamo la tranquillità della nostra privacy o delle nostre assemblee liturgiche che sembrano fatte apposta per tenere lontano coloro che si portano dentro un’ansimante lunga rincorsa verso la fede o un dramma umano che si può sfogare solo con una voce non regolamentare e non prevista dalle nostre dottrine o dai cerimoniali.
«Gesù si ferma» – narra il Vangelo – come in casa di Zaccheo e nell’osteria di Emmaus; anche Dio rispetta gli stop dei nostri inquieti incroci. Poi scatta il passaparola della chiamata: «E disse “Chiamatelo” ed essi lo chiamarono». Il discepolo non vede, ma può ascoltare l’invito alla sequela; la chiesa viene obbligata ad aprire un varco e a farsi promotrice di convocazione e di vocazione del petulante straccione dagli occhi cisposi che «balza in piedi gettando il mantello»; quel mantello che, come recita il Libro del Deuteronomio (24,12), è la pelle dei poveri, vestito, materasso, casa e coperta. A differenza del giovane ricco, questo cieco compie il gesto del vero discepolo e si libera del necessario: « Voi infatti vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni ed avete rivestito l’uomo nuovo che si rinnova ad immagine del suo creatore» (Coloss. 3,9).
«E lo seguiva per la strada». Il Vangelo di Marco si era aperto con la suocera di Pietro guarita che si mise a servirli, ora si chiude con un altro indebolito e guarito che si mise a seguirlo: sono i due verbi del discepolo che è stato guarito-salvato da Gesù.
Mendicare Dio con mani aperte per lasciare e ricevere.
Oggi, nella Lettera agli Ebrei , Dio si presenta come uno che entra dentro nelle angosce umane e ne compartecipa le vicende. Occorre innanzitutto raccogliere, nella ciotola della nostra banalità e creaturalità, questo Dio che si fa debole della nostra debolezza, contemplando e adorando questo Suo modo di essere Dio-con-noi, anzi Dio-come-noi. E’ vero: noi siamo eterni mendicanti di sicurezza economica, di salute, di amicizia, di religione (perchè anche la religione e i suoi gesti possono appartenere al bisogno naturale dell’uomo) e ci fa piacere se nella nostra ciotola di mendicanti qualcuno vi versa dentro qualche spicciolo utile di ciò che attendiamo; ma ogni tanto dobbiamo permettere che dentro alla ciotola ci caschi Gesù il Cristo, apparentemente inutile per soddisfare le attese immediate, ma fondamentalmente essenziale per la radicale trasformazione della nostra condizione e del senso della  nostra vita, come è successo a Bartimeo.
Bartimeo si apre un passaggio attraverso il servizio d’ordine. Gesù predilige questi individui che si tirano fuori dalla folla, superando le barriere di protezione. Dire “vocazione” significa accettare di non stare seduti ai margini, nè accucciati nelle abitudini, nè anonimi nella fila degli utenti della religione, nè paralizzati nelle carrozzelle delle nostre delusioni, nè inebetiti dalle troppe cose da fare, nè incartapecoriti dalle pigrizie. La chiamata ci estrae dalla tana di una vita raggomitolata buttandoci nella pubblica testimonianza: gli apostoli vengono messi a disposizione del Regno di Dio; Zaccheo viene sfilato da dietro la patetica foglia di fico di quell’albero e la donna mestruata è squadernata in pubblico.  La chiamata ci estrae anche dal rapporto massificato della folla verso un rapporto personale con Gesù pulsante come un’amicizia che è tutto meno che l’ingresso in uno stato di catalessi vegetativa. Gesù mi chiama ad essere protagonista di un movimento e non membro di un’istituzione, ad essere testimone e non utente o notaio. Gesù non vuole vedere la mia maschera, ma il mio volto. Ogni vocazione-chiamata comporta che ci si liberi di un qualche “mantello”: i deportati a Babilonia, gli apostoli, Zaccheo, la donna mestruata, il cieco, Lazzaro…tutti cedono porzioni di sicurezza, bendaggi mortiferi e ammuffiti, vergogne, cianfrusaglie pur di balzare in strada per avvicinarsi a Lui, salire, scendere, tornare, risorgere, guarire. O diventare veggenti. «Io sono la luce del mondo» dice Gesù e «Chi vede me vede il Padre», però è pur vero che Dio resta mistero sconosciuto ed inconoscibile. Ora lo vediamo come in uno specchio nella speranza di vederlo cosi come Egli è. La fede, come la vita, resta un “problema serio” ed occorre diffidare delle scorciatoie visionarie.


[1] la tribù di Efraim discende da un uomo di nome Efraim, che è registrato come figlio di Giuseppe il figlio di Giacobbe.
[2] Melchisedec non apparteneva al popolo ebraico. Eppure Abramo aveva onorato Melchisedec come re e sacerdote.
[3] Marco 8,18.
[4] Giovanni 9
[5] Marco 8,22-26




20 ottobre 2024. 29a Domenica
INCAPACI DI TOGLIERE, MA FRATERNI NEL PORTARE.

29 domenica B

PREGHIAMO. Padre, concedi alla tua Chiesa di servire l’umanità intera  a immagine di Cristo, servo e Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal Libro del profeta Isaia (53)
2 Davanti al Signore il suo servo è cresciuto come una pianticella, come una radice in terra arida. Non aveva né dignità né bellezza, per attirare gli sguardi e per richiamare l’attenzione.
3 Noi l’abbiamo rifiutato e disprezzato come uno che non vale niente, e non lo abbiamo tenuto in considerazione. 4 Eppure egli ha preso su di sé le nostre malattie, si è caricato delle nostre sofferenze, e noi pensavamo che Dio lo avesse castigato, percosso e umiliato. 5 Invece egli è stato ferito per le nostre colpe, è stato schiacciato per i nostri peccati e noi siamo stati salvati. Egli è stato percosso, e noi siamo guariti. 10 Lui, servo del Signore, ha dato la vita come un dono per gli altri. 11 Il Signore dichiara: «Dopo tante sofferenze, egli, il mio servo, vedrà la luce e sarà soddisfatto di quel che ha compiuto. Infatti renderà giusti davanti a me molti uomini, perché si è addossato i loro peccati».
Salmo 32 . Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore  e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;  dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,  su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte  e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:  egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,  come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei 4,14-16
 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.  Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.  Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Dal Vangelo secondo Marco 10,35-45
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Maestro, noi vorremmo che tu facessi per noi quel che stiamo per chiederti». E Gesù domandò: «Che cosa dovrei fare per voi?». Essi risposero: «Quando sarai un re glorioso, facci stare accanto a te, seduti uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Ma Gesù disse: «Voi non sapete quel che chiedete! Siete pronti a bere quel calice di dolore che io berrò, a ricevere quell’immersione (battesimo) di sofferenza nella quale sarò immerso (battezzato)?». Essi risposero: «Siamo pronti». Gesù aggiunse: «Sì, anche voi berrete il mio calice e riceverete la mia immersione (battesimo); ma non posso decidere chi sarà seduto alla mia destra e alla mia sinistra. Quei posti sono per coloro ai quali Dio li ha preparati».  Gli altri dieci discepoli avevano sentito tutto e si arrabbiarono contro Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò attorno a sé e disse: «Come sapete, quelli che pensano di essere sovrani dei popoli comandano come duri padroni. Le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere così. Anzi, se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servo di tutti; e se uno vuol essere il primo, si faccia servitore di tutti.  Infatti anche il Figlio dell’uomo è venuto non per farsi servire, ma è venuto per servire e per dare la propria vita come riscatto per la liberazione degli uomini».

INCAPACI DI TOGLIERE, MA FRATERNI NEL PORTARE. Don Augusto Fontana

L’omeopatia di Dio.
Alle porte di Gerusalemme la strategia messianica di Gesù trova nell’asino un fantasioso e profetico segno sacramentale, visibile ed efficace[1]: «Andate nel villaggio; troverete un asinello legato. Scioglietelo e conducetelo» (Marco 11, 2). L’asino fu cavalcatura da servo, per sentieri umili, a differenza del cavallo che portò gli aristocratici lombi del potere e della guerra. E così entra in Gerusalemme lui, re da burla, Signore di quei discepoli che poche ore prima avevano censurato due condiscepoli per le loro pretese da boss[2]: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»[3]. La chiesa ha un nervo scoperto sul sesto comandamento, ma concede sconti da liquidazione su altri comandamenti di Gesù che non riguarderebbero propriamente moine da galateo salottiero: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Marco 10, 35-45).
Nella vita quotidiana il potere ha una sua parte quasi ineliminabile a tutti i livelli anche se in formato ridotto: famiglia, scuola, ambienti di lavoro, parrocchia. Anche i rapporti di amore e di amicizia o religiosi possono essere avviluppati dalla tela dell’autoritarismo conscio e inconscio. L’esigenza di stabilità e di operatività di ogni gruppo favorisce paradossalmente la degenerazione dell’esercizio dei rapporti autorevoli in esercizio di potere.
Chi, nella convivenza o nell’evangelizzazione, ha scelto la via del “non-potere” ha potuto creare rapporti umani autentici e liberi dove i sentimenti di accoglienza e di amore hanno trovato il primo posto. Alcuni ci rimettono faccia e carriera. Altri la vita. Leggo il testamento di Christian de Chergé, abate cistercense, ucciso con altri 6 monaci il 21 maggio 1996 ad Algeri. Lo leggo con i sentimenti di stupore e sbigottimento affiorati nei discepoli nel fiutare le arie che tiravano[4]. Il monaco martire scrive parole scandalose per le orecchie di molti cattolici che “frequenteranno la Messa” di domenica, abitati da un rancoroso anti-islamismo da far invidia al migliore Jiad[5] cattolico ma neutralizzato da queste parole scritte col sangue: «Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che pregassero per me. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.  La mia vita non ha un prezzo più alto di un’altra.  Non vale di meno né di più.  In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Non posso auspicare una morte così; mi sembra importante dichiararlo.  Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo, che amo, sia indistintamente accusato dei mio assassinio.  Conosco le caricature dell’islam che un certo Islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi la coscienza in pace, identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti[6]».
Dolorosamente il testamento si sovrappone all’inno di Isaia (Isaia 53, 2-11) dedicato ad una misteriosa figura di Servo del Signore «cresciuto come un virgulto e come una radice in terra arida. Disprezzato dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità». Dio indossa l’iniquità: è la legge dell’omeopatia divina (similia similibus curantur[7]). Stenterei a crederlo senza Gesù; ed una strana rassicurazione mi invade. I testi di Isaia e della Lettera agli Ebrei sottolineano questo aspetto del servizio: prendere su di sè. Don Milani diceva che contro la cultura del «me ne frego!» occorreva contrapporre la cultura del «mi sta a cuore!». «Agnus Dei qui tollis peccata mundi – recitavano i nostri vecchi – Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Ma il verbo latino tollere ha tre significati di alto valore cristologico ed ecclesiale e non solo linguistico: portare, sopportare, portare via ( in greco= airô). Scrive la Lettera agli Ebrei (4,14-16): «Abbiamo un sommo sacerdote che compatisce le nostre debolezze, essendo lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso solo il peccato…». Molti di noi possono raccontare di essere rimasti a volte in faccia al dolore o all’errore, incapaci a togliere, ma fraterni almeno nel portare insieme. Io nelle carceri ne faccio esperienza: a quasi nessuno sono riuscito a “togliere l’iniquità”; ma mi viene chiesto comunque di “portarla” sulle mie spalle, sulla mia coscienza, sulla mia preghiera, sul mio dolore. Nella celebrazione di oggi non cercherò un Dio estatico e apatico (che non soffre), sperando invece di trovarLo, vivo e patetico (empatetico), a raccogliere mie malizie e gracilità con manciate del suo pathos. Come dice Bonhoeffer, «un Dio che non soffre non ci può liberare».
Attraversando equivoci e paure.
Il testo liturgico dell’evangelo odierno è stato privato di alcuni versetti che lo precedono e che ritengo importante citare. Mi riferisco ai versetti 32-34 che contengono il terzo annuncio della passione:«Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno,  gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; e dopo tre giorni risusciterà».
Una finale con sei verbi di morte e un settimo di vita per uno sbigottimento allora e oggi. L’incertezza, il dubbio e la paura si impadroniscono di tutti: seguaci, simpatizzanti, discepoli e Dodici. Marco agisce come ottimo regista preparando la scena in movimento con molti personaggi. In questo gruppo c’è posto anche per noi lettori. Se potessi, chiederei al regista Marco di risparmiarmi il viaggio con Gesù e di farmi trovare, invece, nei primi posti a godermi la scena della risurrezione.
A questo terzo annuncio della passione segue la reazione dei discepoli, peggiore delle precedenti. Dopo il primo annuncio Gesù va in collisione con Pietro che «pensava secondo gli uomini e non secondo Dio» (8,32). Dopo il secondo annuncio segue un eloquente mutismo da parte di tutti, intenti a litigare su chi fosse il più grande (9,32). Ora i discepoli vogliono che lui faccia la loro volontà assecondando deliri messianico-politici: «Vogliamo che tu ci dia quello che ti chiediamo». Gesù sta al gioco: «Cosa volete che faccia per voi?». Altre volte nei Vangeli Gesù chiede: «Cosa vuoi?».  Normalmente la domanda di Gesù è preceduta dalla debolezza di lebbrosi e ciechi[8] che grida guarigione. E Gesù risponde concedendo quanto richiesto. La richiesta dei discepoli invece non esprime bisogni, ma chiede privilegi. Resta così scritta in eterno una risposta che, più che un rimprovero, sembra un lamento: «Non sapete che cosa chiedete…!». I discepoli avevano semplicemente frainteso. Per loro, andare a Gerusalemme significava ancora andare direttamente alla gloria ed è per questo che fanno questione di posti e di potere.  Nella letteratura apocalittica giudaica si attende che in un futuro non lontano Dio giudichi il mondo dando così prova della sua potenza; nelle circostanze storiche concrete del tempo ciò significava ribaltare la situazione di Israele nei confronti degli invasori o colonizzatori. Nei testi apocalittici infatti la lingua ebraica usa preferibilmente il termine gheburah per indicare la forza di Dio che agirà alla fine dei tempi. Negli scritti della comunità apocalittica di Qumran, soprattutto nel rotolo chiamato “rotolo della guerra”, si dice che la forza di Dio si manifesterà anche per mezzo dei combattenti (ghiborrim). E’ possibile che i discepoli, come si evince da una numerosa serie di testi in tutti i sinottici, coltivassero questa cultura apocalittica tipica anche degli zeloti e continuassero a persistere nella comprensione di Gesù come quel Messia sfasciacarrozze  che avrebbe ribaltato le sorti tramite la guerra santa.
A vantaggio di…
Raccogliamo dalle tre Letture liturgiche il tema del Dio servo, che ama l’uomo caricandosi dei suoi pesi. La Chiesa non deve fare affidamento sulle gambe dei cavalli di razza o sugli strumenti di pressione tipici delle società organizzate di oggi che abbisognano di messaggi suadenti più per vincere che per convincere. L’atteggiamento dei due discepoli, che dimostrano di non capire che Dio procede a dorso d’asino, è l’atteggiamento di ognuno di noi che ha fretta di vincere e di soddisfare i narcisismi o di accorciare i cammini di crescita o di abbandonarsi alle piccole vendette “escatologiche” della propria storia quotidiana.  «Dare la vita in riscatto» significa sciogliere, liberare.  Il riscatto era ed è il prezzo che un familiare (detto in ebraico: goèl) paga per liberare un parente caduto prigioniero o rapito. Il servizio diventa “assumere su di sè responsabilmente il destino e la situazione degli altri”. Molti hanno detto che la croce è “pagare al posto di…“; meglio sarebbe dire che l’amore diventa crocifisso quando “paga a vantaggio di…“.


[1] Zaccaria 9, 9 «Esulta molto figlia di Sion, gioisci figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina».
[2] Pare che per l’evangelista Matteo la richiesta fosse così insopportabilmente scandalosa in bocca ai due futuri vescovi di Gerusalemme (Giacomo e Giovanni) da indurlo a trasferirla sulla bocca della loro madre (Matteo 20, 20).
[3] Marco 10, 37
[4] «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura.» (Marco 10, 32-34).
[5] Uso il termine secondo l’interpretazione popolar-cattolica di questi tempi; ma so che lo Jiad significa sforzo, impegno sulla strada di Dio. Guerra santa è una interpretazione deviata mentre per gli islamici non fondamentalisti lo Jiad è uno “sforzo collettivo verso Dio”.
[6] https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2018-01/beati-monaci-trappisti-martiri-algeria.html
[7] La medicina Omeopatica si basa sul concetto del simile, secondo il quale una malattia si può curare con la stessa sostanza che assunta dall’uomo sano ne induce la malattia.
[8] Mc 1,41: il lebbroso; Marco 10,47.51: il cieco




13 ottobre 2024. Domenica 28a
Una sola cosa nella complessità.

28 domenica B

Preghiamo. O Dio, nostro Padre, che scruti i sentimenti e i pensieri dell’uomo, non c’è creatura che possa nascondersi davanti a te; penetra nei nostri cuori con la spada della tua parola, perché alla luce della tua sapienza possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e poveri per il tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 7,7-11
Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
 Salmo 89.  Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.
Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti, per gli anni in cui abbiamo visto il male.
Si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda.
Dalla lettera agli Ebrei 4,12-13
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Dal Vangelo secondo Marco 10,17-30
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».  Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà». 

Una sola cosa nella complessità. Don Augusto Fontana

Gesù, guardandolo dentro, lo amò.
Capitalizzo in banca perchè non mi fido del Welfare State né di chi mi raccoglierà rincoglionito da solitudine e vecchiaia malata. «Uomo di poca fede, pagano!» mi direbbe Gesù se conoscesse i miei dubbi metodici su un misterioso Padre che promette un occhio di riguardo a passeri, gigli e uomini nudi[1]: «Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani non c’è più, non farà assai più per voi, gente di poca fede?[2]». Stando al vangelo di oggi (Marco 10, 17-30), mi trovo ad essere un perfetto esemplare di involuzione della specie, ammesso che abbia ragione il salmo 49 «l’uomo nel benessere non comprende, è come un animale». Ho smarrito dunque lo Spirito di sapienza (Libro della Sapienza 7, 7-11), la papilla gustativa che, per Paolo, rende insipido e maleodorante ogni indice Mibtel: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (Lettera ai Filippesi 3, 8). Temo che i processi di involuzione a cui sono sottoposto mi potrebbero condurre, a lungo andare, ad una qualche modifica genetica dell’anatomia del mio corpo: «Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Matteo 6, 21). Quel giorno proverei uno strano malessere nel sentirmi pulsare il cuore nel chip della mia carta di credito.
Mi è difficile accettare che la vita eterna dipenda dalla onesta denuncia dei redditi, dal pagamento dell’IVA, da un bicchier d’acqua dato o negato, lieve dimenticanza simile ad un’accessoria omissione: «Una cosa sola ti manca…». Va, vendi, consegna, vieni, seguimi: stressante percorso verso una porta d’ingresso: «Quanto stretta è la porta che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Matteo 7, 14). Alla porta stretta mi ero attrezzato, ma quando ci sono arrivato davanti mi sono accorto che era esageratamente ridotta alla cruna di un ago, quella fessura con cui non ho mai un buon rapporto quando tento di infilare sottili fili di refe per i miei pencolanti bottoni: «E` più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
A complicare le cose ci si mette il buon senso, quello nazional-popolare dei tavolini dei coffee-bar e quello più togato dei tomi di economia, cattolica e non,  generati da innominati conflitti di interesse: «Non scherziamo! Non è più tempo per un vangelo sine glossa che ci proietta fuori dalla storia e ci rende insopportabili fondamentalisti e infecondi pauperisti. Est modus in rebus, c’è una misura in tutta le cose. L’utopismo, veicolato soprattutto da sogni religiosi e da speranze politiche messianiche, fu il cancro di ieri ed è minaccia che cova sotto la cenere dell’oggi. La Sapienza non serve a nulla; oggi servono gli equilibri delle forze. Abbasso il radicalismo, evviva il realismo, la compatibilità, l’incoerenza controllata. In medio stat virtus, la verità sta nel mezzo». Acconsento per legittima difesa: non sopporterei una Parola di Dio «tagliente come spada che penetra nelle giunture e nelle midolla» (Ebrei 4, 12-13). La mia Pasqua è rinviata a data da destinarsi. Riprenderò il mio mediocre cammino, solleticato dal Suo sguardo di amore (il testo greco usa il termine “enblèpō”  che sarebbe bene tradurre “guardare dentro” più che “fissare”). E’ uno scrutare dentro che sbigottisce la mia triste inquietudine: «E chi mai si può salvare?».
Sapienza è…
Nel Capitolo 10 Marco pone il problema della sequela di Gesù in 3 condizioni precise di vita: nel matrimonio, nell’uso dei beni, nei rapporti interpersonali corti e lunghi. Oggi viene affrontato il problema dell’uso dei beni, ma lo si affronta sotto l’ottica della “SAPIENZA” su suggerimento della prima Lettura. Si racconta nel 1° Libro dei Re (3,6-13) che il Signore disse a Salomone: «Chiedimi qualunque cosa» e il giovane re non chiede nè ricchezza, nè salute, nè vittoria sui  nemici,  ma “un cuore ascoltante per poter rendere giustizia al popolo e distinguere il bene dal male”. Il Signore gli risponde: “Ti concedo anche quanto non hai domandato e cioè ricchezza e gloria“. Il brano del Libro della Sapienza, ascoltato oggi, sembra essere una rilettura e meditazione di quel passo. “Pregai e mi fu regalata la Sapienza”. La Sapienza è un dono da chiedere nella preghiera prima ancora che qualcosa da acquisire con l’istruzione. Luca dirà che il primo dono da chiedere è lo Spirito Santo[3].  La Sapienza è capacità di discernere, di gustare, di percepire il senso della vita, di scegliere quindi l’ingrediente che dà sapore alla vita. Praticamente Gesù.
Seguire è…
La sezione del materiale narrativo organizzato da Marco intorno al secondo annuncio della passione culmina con questo lungo insegnamento su come essere discepoli. Gesù sente odore di linciaggio: quanto dice in questi ultimi giorni di vita ha il peso di una rivelazione testamentaria che non intende teorizzare sui massimi sistemi o abbandonarsi a speculazioni teologiche su Dio e sulla vita eterna, ma influire concretamente su dimensioni importanti della vita del discepolo nel mondo. Oggi mi viene richiesto un distacco che si rivela un guadagno. Si tratta di fare due conti; è un calcolo economico difficile: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Matteo 13, 44). Solo agli innamorati e non ai commercianti è dato di capire la sapienza di questo linguaggio parabolico.
La pagina evangelica di Marco si compone di tre scene costruite attorno a tre personaggi che entrano in campo: il fedele ricco, i discepoli, Pietro. Ce n’è per tutti.
Era usanza rivolgere quesiti ai rabbini. Gesù, come i rabbini, rimanda alla Torah, alla Legge di Dio, come ha già fatto nel brano precedente sul divorzio; anche qui Gesù sembrerebbe dire: voi avete fatto della libertà dai beni un semplice consiglio e non un comando, ma “all’origine non era così”. Per essere suo discepolo non basta una generica religiosità a dimensione etica («Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»), né pare bastare una già impegnativa scelta a dimensione sociopolitica («Vai, vendi quello che hai e dallo ai poveri»); occorre patire lo scandalo della croce («Vieni e seguimi»).
Angeli ascetici o uomini solidali?
«Gesù non sembra invitare il giovane a rapporti affettuosi con lui: lo invita ad entrare in una schiera di esclusi, di pedinati dal potere, di scomunicati, chiamati a proclamare per tutti i secoli la signoria degli oppressi. La croce è il punto di arrivo di questo itinerario, ma la croce non è l’esaltazione del soffrire solitario, bensì il punto di rottura tra le potenze del mondo e la potenza dell’amore. Decidere di seguirlo senza rimettere in questione il proprio rapporto col mondo della ricchezza è una mistificazione»[4].
Oggi il discernimento si è fatto difficile di fronte alla eterna domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?».
«Può un cristiano professare tranquillamente il suo Credo e al contempo vivere nella società dei consumi, senza sentirsi in colpa?  Certamente Dio non si basa sulla dichiarazione dei redditi per elargire la sua grazia! Dovendo restare in questo mondo e dovendo in qualche modo contribuire alla sua crescita, è normale sviluppare e accrescere i nostri beni. Tutti aspirano a vivere in maniera più dignitosa e in condizioni migliori; molti di noi cercano di realizzare un risparmio che possa avviare – più che garantire – un futuro per i figli. Soddisfare questi desideri in modo equilibrato non significa necessariamente sfruttare il prossimo e soggiacere pertanto in uno stato di peccaminosità»[5].
«Quella che sembra mancare oggi e di cui si avverte il bisogno è una spiritualità del consumo che aiuti a vivere anche questa dimensione della vita in modo pieno. Il consumo, prima ancora di essere qualcosa da contenere, da delimitare, da relativizzare, come pure appare giusto fare, rappresenta qualcosa da arricchire di senso… Il Dio dei cristiani non gioisce vedendo soffrire gli uomini; egli vuole per essi una vita piena di tutto ciò che ha creato per loro»[6].


[1] S.Gerolamo: «Nudos amat ecclesia». La Chiesa ama quelli che si sono spogliati.
[2] Matteo 6, 30.
[3] Luca 11:13 Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».
[4] SERVIZIO DELLA PAROLA 51/73 pag.30.
[5] Editoriale di CREDERE OGGI  n. 4/1999
[6] A. Castegnaro, Il prezzo del consumo, Bologna 1994, p. 64.




6 ottobre 2024. Domenica 27a
GESU’ E CHIESA. SEPARATI IN CASA?

Dal libro della Genesi  2,18-24
Il Signore Dio disse: 18«Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 19Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse un lato e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con il lato, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Salmo responsoriale 128/127, 1-2; 3; 4-5a; 5b-6. Rit. Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.
Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. Rit.
La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Rit.
Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion. Rit.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su Israele! Rit.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 2,9-11.
Fratelli e Sorelle, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.  Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Dal Vangelo secondo Marco 10,2-16
 In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».  Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

GESU’ E LA CHIESA. SEPARATI IN CASA? Don Augusto Fontana

Chi ascolterà questa Liturgia della Parola nelle assemblee di domenica? E quali orecchie riceveranno le omelie dei presbiteri (celibi!) e le loro lamentazioni sui matrimoni che si sfaldano in divorzi, separazioni, coppie di fatto? Come celebrare la Pasqua settimanale di Gesù con vecchiette e vedovi, con i bambini, con i pochi nuclei familiari presenti e i rari divorziati/separati? Sarà la fiera di parole aspre o sarà una Liturgia di gioia, benedizione e misericordia? Queste domande imbarazzano anche me.
Innanzitutto mi ha fatto bene rileggere l’ Esortazione post-Sinodo, AMORIS LAETITIA, di Papa Francesco (19 marzo 2016). Lì ho trovato un approccio ampio e ragionato, sereno ed evangelico sul problema della famiglia e del matrimonio che, indubbiamente, stanno subendo conflittualità e fallimento.
Ma la domanda che mi intriga maggiormente è: domenica celebreremo la festa del matrimonio cattolico uno e indissolubile oppure il Signore ci sta portando a più ampi orizzonti?
“In Principio” Dio creò Amore (Agape).
Giovanni, nella sua prima Lettera, scrive: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli…Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli»(1 Giovanni 3, 14-18).
Amore è “in Principio”, è la sorgente. E il testo di Giovanni evita le nostre ambiguità: «io amo i cani…amo i fiori… amo la Juve…amo Dio…». Invece: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli». Dare la vita come il martire per la fede o per la giustizia; oppure dare la vita sbriciolandola, sgocciolandola, come i genitori per i figli, come i nonni per i nipoti, come lo sposo di 80 anni per la moglie rincoglionita dalla vecchiaia, come la sorella per il fratello disabile. Sgocciolare i giorni, i soldi, le ore, la salute, la psiche. Praticamente Amare; Amore (Agape) è il Nome santo di Dio.
Scrive Don Antonio Di Lalla [1] (Adista Notizie n° 30 del 08/09/2018): «Non è il matrimonio che rende felici le persone, sono le persone che possono rendere felice il matrimonio se scommettono sull’amore…. Oggi vorrei sentirmi parlare anzitutto dell’amore appassionato di Dio per l’umanità. Il Cantico dei Cantici, cuore della bibbia ebraica, è un inno all’amore, alla gioia dell’incontro, al piacere di appartenersi l’un l’altra. L’amore è lo scopo della vita, è il dono che dà sapore all’esistenza, è il vertice a cui tendere. Alla luce della relazione Dio-persona, si comprende meglio la relazione uomo-donna».
Così don Antonio mi aiuta a capire la risposta di Gesù: « Ma IN PRINCIPIO non era così». Mai perdere contatto con la sorgente, la Torah, la Bibbia, quella parola di uomo dentro cui si annida la Parola di Dio se ascoltata, custodita, studiata, pregata, vissuta.
Gesù (lo sposo) e la chiesa (sposa): separati in casa?
Il Cantico dei Cantici lo stiamo scoprendo nella sua duplice contemplazione: una ragazza e un giovane si amano con erotismo di cuore e di corpo; Dio e l’umanità si amano con erotismo di cuore e di corpo. Non c’è contraddizione. Così almeno ci suggerisce Matteo 22,35-40: « un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:  “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.  Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.  Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.  Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”».
Quando un matrimonio frana mi sento un po’ sconfitto anch’io. Ma quello che temo di più è il divorzio tra me e Gesù di Nazaret, tra la mia comunità e il suo sposo. E questo, domenica, potrebbe interessare sposati e non coniugati, ragazzi, anziani, celibi, vergini: chiunque abbia accettato il patto di Alleanza battesimale.
Ezechiele 16,1-63 dà voce al Signore-Sposo e alla sua liturgia di amore erotico verso di me: «Sono passato vicino a te e ti ho visto; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io ho steso il lembo del mio mantello su di te e ho coperto la tua nudità; ho giurato alleanza con te, dice il Signore Dio, e sei diventata mia. Ti ho lavato con acqua, ti ho ripulito del sangue e ti ho unto con olio; ti ho vestito di ricami; ti ho messo braccialetti ai polsi, una collana al collo, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Diventasti sempre più bella e giungesti fino ad esser regina. La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era perfetta, per la gloria che io avevo posta in te, parola del Signore Dio. Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante. Con i tuoi splendidi gioielli d’oro e d’argento, che io ti avevo dati, te ne sei servita per peccare. Fra tutte le tue infedeltà non ti sei ricordata del tempo della tua giovinezza, quando eri nuda e ti dibattevi nel sangue! Ma io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna. Allora ti ricorderai della tua condotta e ne sarai confusa; io ratificherò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto. Parola del Signore Dio».
Gente dal cuore duro (sklerocardia), abbracciati con misericordia.
L’ISTAT ci dice che in Italia nel 2022 più di un matrimonio su due, il 56,4%, è celebrato con rito civile. Il tema che affrontano i farisei è la facoltà dell’uomo di ripudiare la moglie. Lo scioglimento del matrimonio non presentava in Israele grandi difficoltà: “Una donna è una piaga per suo marito? La ripudi e così sarà guarito!” sentenzia il Talmud ebraico[2]. Il testo che permette il ripudio è Deuteronomio 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.Le due principali interpretazioni si rifanno ai due rabbi antagonisti: Shammai e Hillel. Il primo più rigorista e l’altro più possibilista.I discepoli di Shammai insegnavano che “non si ripudia la propria moglie se non perché si trova in lei qualcosa di vergognoso”, un comportamento indecente, un adulterio.I seguaci di Hillel insegnavano che l’uomo può rimandare la propria moglie “anche se ha lasciato bruciare il pranzo…”. Anche Rabbi Aqiba insegnava che l’uomo può ripudiare la moglie “anche  quando trova un’altra donna più bella di lei” .
Come la legge detta del taglione (che consiste nell’infliggere al colpevole lo stesso danno da lui inflitto alla vittima: Esodo 21, 23-25) tendeva a limitare gli eccessi della vendetta (cfr Gen 4, 23-24), così la legge del divorzio è una legge che limita eccessi di barbaro arbitrio del maschio-padrone, ponendo un argine.
L’esortazione Amoris Laetitia ci aiuta a essere realisti, a non presentare «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono» (n. 36). L’idealismo allontana dal considerare il matrimonio quel che è, cioè un «cammino dinamico di crescita e realizzazione». Il Papa insiste che è necessario dare spazio alla formazione della coscienza dei fedeli: “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (n. 37). Gesù proponeva un ideale esigente ma «non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera» (n. 38). Il Papa usa tre verbi molto importanti: “accompagnare, discernere e integrare” che sono fondamentali nell’affrontare situazioni di fragilità, complesse o irregolari. Poi presenta la necessaria gradualità nella pastorale, l’importanza del discernimento, le norme e circostanze attenuanti nel discernimento pastorale, e infine quella che egli definisce la «logica della misericordia pastorale».
Per quanto riguarda il “discernimento” circa le situazioni “irregolari” il Papa osserva: “sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione” (n. 296). E continua: “Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia ‘immeritata, incondizionata e gratuita’”(n. 297). Ancora: “I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale” (n. 298).
In questa linea, accogliendo le osservazioni di molti Padri sinodali, il Papa afferma che “i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo”. …La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali (…) Essi non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa” (n. 299).Più in generale il Papa fa una affermazione estremamente importante per comprendere l’orientamento e il senso dell’Esortazione: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (…) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il ‘grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi’, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi” (n. 300).
Questo è il “sogno di Dio”, come lo chiama Padre Ermes Ronchi[3]: « Gesù prende le distanze dalla legge, la relativizza, afferma che non tutta la legge ha autorità divina, talvolta essa è solo il riflesso di un cuore duro e non della volontà di Dio. C’è dell’altro, più importante, più vitale di ogni norma. Gesù passa oltre il lecito e l’illecito, oltre le strettoie di una vita immaginata come esecuzione di ordini. A lui non interessa regolamentare la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla. Ci prende per mano e ci accompagna a respirare l’aria degli inizi, a condividere il sogno iniziale di Dio: in principio, prima della durezza del cuore, non fu così…. Il vero peccato non è trasgredire una norma, ma trasgredire un sogno, il sogno di Dio. Gesù getta le basi per la libertà del cristiano: norma di comportamento non è mai una legge esterna all’uomo, ma solo l’amore che dentro riaccende il volto, il sorriso, il sogno di Dio».


[1] Presbitero della Diocesi di Termoli-Larino, noto anche per la difesa dei più deboli soprattutto nel periodo di ricostruzione del post-terremoto e per le sue posizioni su altri temi caldi del territorio.
[2] Accanto alla Torah scritta, il Talmud (che significa “insegnamento”) è il grande libro sacro dell’Ebraismo che lo considera come la “Torah orale”, rivelata sul Sinai a Mosè e trasmessa a voce, di generazione in generazione, fino alla conquista romana. Il Talmud fu fissato per iscritto solo quando, con la distruzione del Secondo Tempio, gli ebrei temettero che le basi religiose di Israele sparissero. Il Talmud consiste in una raccolta di discussioni avvenute tra i sapienti e i rabbini circa i significati e le applicazioni dei passi della Torah.
[3] Avvenire 14-10-2012




29 settembre 2024. Domenica 26a
GLI ABUSIVI

XXVI DOMENICA  B 

Preghiamo. O Dio, tu non privasti mai il tuo popolo della voce dei profeti; effondi il tuo Spirito sul nuovo Israele, perché ogni uomo sia ricco del tuo dono, e a tutti i popoli della terra siano annunziate le meraviglie del tuo amore.Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro dei Numeri 11,25-29
In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
 SalMO 18  I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice.
Il timore del Signore è puro, rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti.
Anche il tuo servo ne è illuminato, per chi li osserva è grande il profitto.
Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati nascosti.
Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato.
Dalla lettera di san Giacomo apostolo 5,1-6
Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
Dal Vangelo secondo Marco 9,38-43.45.47-48
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue». 

GLI ABUSIVI.Don Augusto Fontana

 A confronto con piccoli e grandi «diversi».
L’apostolo Giovanni, nella sua fase ancora acerba di discepolo, mormorava:  «C’era uno che stava per fare un esorcismo, ma noi glielo abbiamo impedito perché non era dei nostri» (Marco 9, 38-48).   La diversità è una ricchezza. Accettare l’alterità costituisce l’unica strategia in grado di garantirci dall’intolleranza. L’atteggiamento settario ed esclusivista è presente non solo nelle esperienze religiose, ma anche nel sindacato, nei partiti, nel volontariato: meschinità, faziosità, intolleranza, supponenza, aggressività risparmiano pochi di noi. Anche l’atteggiamento missionario-colonialistico nasce dalla supponenza di essere noi i buoni e gli altri i bisognosi di conversione. Oggi sono tempi di fondamentalismo, non solo da parte musulmana.
Gesù sta attraversando la Galilea quando i discepoli gliene combinano un’altra: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Non seguiva noi!!!
Il settarismo degli inquilini.
Dio ogni tanto crea degli “abusivi. Quando confiniamo la fede tra le abitudini della vita, ci stupiamo di non riuscire più a trovare Dio “come al solito”. Ma Dio pare che non sia mai “come al solito”. Dio non si trova riducendosi a fare quello che si è sempre fatto. Credere significa accettare che Dio abbia da offrire qualcosa di diverso dalla nostra porzione di cibi quotidiani e di orizzonti familiari.
Pare invece che Dio ogni tanto mandi degli “abusivi”: «Allora il Signore prese lo spirito di Mosè e lo infuse sui settanta anziani: quando lo spirito si fu posato su di essi, quelli profetizzarono. Due uomini, Eldad e  Medad, erano rimasti nell’accampamento e lo spirito si posò su di essi; erano fra gli iscritti ma non erano usciti per andare alla tenda; si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse a riferire la cosa a Mosè e disse:  “Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento”.  Allora Giosuè disse:  “Mosè, signor mio, impediscili!”» (Numeri 11, 25-29). Eldad e Medad, deferiti alla legittima autorità da due giovani spioni, sono due fra i tanti “non autorizzati”  sulle cui spalle grava l’incarico di scongelare e dissequestrare quei doni di Dio che sono destinati alla partecipazione anziché all’appropriazione. Carismi utili che, come scrive il Concilio Vaticano II°, «si devono accogliere con gratitudine e consolazione» perché «Cristo, il grande profeta, compie il suo servizio profetico non solo per mezzo della gerarchia ma anche per mezzo dei laici» [1]. Anche nel Vangelo di oggi pare che emerga dall’ombra un anonimo carismatico che non proviene dal gruppo originario dei dodici. Nella comunità dell’evangelista Marco il fatto non doveva essere infrequente. A tale riguardo è illuminante un evento narrato dal Libro degli Atti degli apostoli: «Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, esperto delle sante Scritture. Questi era stato ammaestrato nella via del Signore e pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. Egli intanto cominciò a parlare francamente nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. Poiché egli desiderava passare nell’Acaia, i fratelli lo incoraggiarono e scrissero ai discepoli di fargli buona accoglienza. Giunto colà, fu molto utile a quelli che per opera della grazia erano divenuti credenti; confutava infatti vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo»[2]. Apollo è un catechista abusivo. Molto simile all’anonimo carismatico del Vangelo di oggi, ma più fortunato di lui. I fratelli della chiesa lo incoraggiano ed è dolcemente affiancato da Aquila e Priscilla, due semplici sposi artigiani amici di Paolo. Se Apollo fosse stato contemporaneo dell’acerbo discepolo Giovanni avrebbe potuto sentire da lontano la sua gelosa lamentela: «C’era uno che stava per fare un esorcismo, ma noi glielo abbiamo impedito perché non seguiva noi»: qualche volta succede che siamo noi a presumere di essere seguiti perché ci proponiamo come pesi e misure standard dell’invocazione del Nome del Signore. A quei tempi era normale che il nome di Dio o di un sant’uomo venisse pronunciato, evocato e invocato per una guarigione. E’ così che Pietro guarisce il paralitico alla porta del Tempio «Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3,6). E il paralitico cammina. In periodi e ambienti un po’ più sospetti e bui, l’invocazione del Nome santo serviva anche a dimostrare che la propria divinità era più brava, più vera e più potente di quella altrui. C’è un fatto, nella Bibbia, che costituisce per me un reale problema di fede e di credibilità; Elia, il profeta che fa compagnia a Gesù sul Tabor, viene narrato come uno dei tanti surreali inquisitori della storia. Ogni religione ha i suoi talebani di intolleranze religiose mai sopite. Al termine della lettura di queste pagine dure e fondamentaliste, smarrisco il volto di un Dio fattosi “buona notizia” nelle parole di Gesù: «Chi non è contro di noi, è per noi». Forse Elia, in quel momento, era ancora nella fase acerba, come il Giovanni del Vangelo; più tardi capirà che la religione non è un concorso a premi. Sul monte Carmelo, invece, sfida quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Voi invocherete il nome del vostro dio e io invocherò quello del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!». Per una mattina intera i profeti invocano Baal, ma non si sente un alito, né una risposta. A mezzogiorno Elia può permettersi di ironizzare:  «Gridate con voce più alta! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà». Poi la sua preghiera si fa presuntuosa:  «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando». Chissà come, cade una folgore che brucia tutto. A tal vista, tutti si prostrano a terra ed esclamano:  «Il Signore di Israele è Dio! Il Signore di Israele è Dio!». L’obiettivo parrebbe raggiunto. Ma per lo zelante profeta Elia la conversione dei fedeli di Baal non è sincera. Elia fa catturare i profeti di Baal, li fa scendere nel torrente Kison dove li sgozza (1 Re 18). Requiescant in pace questi 450 invasati martiri che ebbero la sfortuna di stare dalla parte sbagliata sfidando un sant’uomo un po’ omicida, ma solo un po’, a causa della sua piccola virtù settaria.
Fossero capitati sul tragitto galilaico di Gesù avrebbero trovato in lui un convinto difensore della loro causa persa: «Non impediteli!». Gesù non si limita al comando; fa seguire tre motivazioni scandite da tre “infatti”, presenti nel testo greco, ma malauguratamente cancellati dalla traduzione liturgica:
1- Infatti chiunque fa del bene nel mio Nome ha già compreso l’essenziale del mio messaggio;
2- Infatti chiunque non è contro di noi è a nostro favore[3] ;
3- Infatti chiunque vi darà un bicchier d’acqua non perderà la sua ricompensa: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo…perché io ho avuto sete e mi avete dato da bere». (Matteo 25,34-40). Fate attenzione, invece, ai tranelli tesi da coloro che defraudano, gozzovigliano, condannano i giusti, ingrassano di beni fino a vomitare: «Ora voi, ricchi, piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano» (Lettera di Giacomo 5, 1-6).  C’è dunque uno scandalo che proviene dal fanatismo di chi usa il vangelo in modo demagogico, disumano, settario ed esclusivista;  ma c’è pure lo scandalo, forse più frequente, che proviene da chi addolcisce arbitrariamente il Vangelo per addomesticarne i ruvidi paradossi, scegliendo la diplomazia anziché la profezia. E’ scandalo grave anche la Parola di Dio resa inoffensiva.
«Chi scandalizza uno di questi piccoli (servi) che credono…».
Chi sono questi “piccoli che credono” e che non devono trovare una comunità-macigno sul loro cammino? Probabilmente anche Paolo si è imbattuto in questo problema; nella sua comunità di Corinto i fratelli “forti nella fede” mangiavano le carni provenienti dai macelli sacri dei templi pagani, scandalizzando i fratelli “deboli” più tradizionalisti e scrupolosi. Paolo approva la libertà di coscienza dei fratelli più maturi, ma si propone a loro come portatore di un’esemplare e inequivocabile “libertà condizionata”: «Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8, 13). Anche la virtù può essere settaria, macigno sui piedi dei piccoli e sul cammino di chi “non è lontano dal Regno di Dio”.


[1] Lumen Gentium , n.12 e 35. Cf. Gioele 3, 1-2: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito.».
[2] Atti 18, 24 ss
[3] il testo  pare in contraddizione con il parallelo di Matteo 12,30: «Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde», ma altro è il contesto: chiunque compie iniquità, non può dirsi discepolo anche se dice “Signore!”.




22 settembre 2024. Domenica 25a
MITI IN GRADUATORIA

Preghiamo.  Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un bambino la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 2,12.17-20
Dissero gli empi: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita
Dio, per il tuo nome salvami, per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Poiché stranieri contro di me sono insorti e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.
Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo, loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.
Dalla lettera di san Giacomo apostolo 3,16-4,3 Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Dal Vangelo secondo Marco 9,30-37 quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.  Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Miti in graduatoria. Don Augusto Fontana

«L’autorità è servizio, diakonìa!»: sacrosanto principio che si è corrotto in banalità per giustificarsi, illudersi, approfittare, tagliar corto, mozzare lingue, normalizzare, gestire dissensi, sfidare volontà di Dio e di uomini. «Lo faccio per il tuo bene!»: altrettanto lagnosa autodifesa di padri-padroni, insegnanti-strizzacervelli, dittatori-messia. Praticamente empi sotto mentite spoglie : «Tendiamo insidie al giusto perché ci è di imbarazzo, ci rimprovera le trasgressioni, ci rinfaccia i tradimenti» (Libro della Sapienza, 2, 12-20).  Escluso dalla lista resta quel bimbo chiamato al centro da Gesù: «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Matteo 18, 4). Bambino modello, dunque, in quanto bambino, buono o cattivo che sia, fosse pure uno dei trecentomila bambini-soldato a cui viene rubata l’infanzia. Bambino arrogante pure lui, competitivo per gioco o per guerra, ma sempre comunque piccola struttura umana di cartilagine, friabile sotto il peso dei grandi. Servo e ultimo, non per volontà ascetica, ma per condizione: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». Non dice: «se uno vuol presiedere lo faccia con bontà!». L’umiltà di Dio è nella sua modalità dell’essere-con; tra “essere-con qualcuno” e “chinarsi su qualcuno” c’è un abisso. Dio non si china sui peccatori ma si mette in fondo alla fila con loro[1].
La mia cattedra da scriba della chiesa, nei miei 26 anni di lavoro, ha perso spesso il profumo di incenso, catapultata nei mestieri più diversi tra pungenti fetori di verdure, fumi di saldatura, esalazioni di detersivi e pettegolezzi d’ufficio.  Ultimi e servi, dicevamo. Se c’è un’umiltà possibile giungerà nel cuore, come dono, da Dio (Lettera di Giacomo 3, 16 – 4,3). Ma passerà attraverso i capolinea, i fine-corsa, le barbare periferie, là dove i linguaggi delle cose sono troppo triviali per chi è abituato a parlare in punta di lingua e a pensare col lobo nobile del cervello, là dove non ti riuscirebbe di servire l’uomo se non stando in ginocchio, là dove non ti resta più nulla che fissare volti, come mi è capitato spesso nei 24 anni di volontariato in carcere: «La porta dell’umano è il volto. Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno.  Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata[2]».  Ecco la logica che i discepoli non comprendono, mentre discutono chi sia il più grande: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Luca, nel passo parallelo al testo di Marco, specifica meglio che queste “mani degli uomini” sono “mani di peccatori”. Nelle mani di uomini e per di più impuri e peccatori: lì Gesù finisce la sua carriera. Anche Lui, piccola struttura divina di cartilagine friabile, è consegnato alla forza stritolante di queste mie mani, che sono l’ultimo impensabile posto dove mai Dio avrebbe dovuto andarsi a cacciare.
Miti in graduatoria.
Il libro della Sapienza fu scritto in lingua greca ad Alessandria d’Egitto pochi anni prima della nascita di Gesù. E’ una rilettura attualizzante del Libro dell’Esodo, fatta da ebrei in diaspora tra i pagani. E’ un’esortazione alla fedeltà per credenti che vivono fuori dai circuiti religiosi centrali e proteggenti, sfidati alla resistenza non più da scorpioni del deserto e incursioni armate, ma da una tempesta di laicismo più penetrante e insidiosa della sabbia sottile del deserto. Una sommaria analisi dei verbi del testo odierno qualifica le azioni degli empi e la logica che anima le loro decisioni di ieri e di oggi: spadroneggiamo, non risparmiamo, non rispettiamo, tendiamo insidie, vediamo, proviamo, mettiamo alla prova, condanniamo. E al centro sta il giusto, quel bambino chiamato in mezzo da Gesù per farne la propria parabola e l’icona del discepolo. La sfida aperta si ripeterà sotto la croce: «Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora se gli vuol bene» (Matteo 27,43). La pensano così «ma si sbagliano» (Sap. 2,21). In attesa della controprova, non resta che resistere e pregare: «Dio, per il tuo Nome, salvami, per la tua potenza rendimi giustizia» (Salmo 54). Anche una sommaria analisi del cuore della Lettera di Giacomo individua questo scontro mai sedato perché giocato tra i sei personaggi in cerca d’autore annidati nella nostra intima personalità: «Da dove vengono le vostre liti? Bramate e non riuscite a possedere, invidiate e non riuscite a ottenere e perciò fate guerra e uccidete». Otto attributi descrivono la sapienza che viene da Dio: trasparente, pacifica, mite, arrendevole, misericordiosa, imparziale, senza ipocrisia, feconda di giustizia. C’è una forza anche nell’autorevolezza dei giusti.
Secondo i discepoli, nel Vangelo di oggi, un ordine e una gerarchia erano necessari. Essere servo, nella organizzazione sociale giudaica, era considerato un obbrobrio.  I discepoli volevano sapere chi tra loro fosse il primo. Chi di noi non vorrebbe migliorare la propria posizione senza danneggiare gli altri e per fare, anzi, del bene a sé e agli altri? A chi non verrebbe il sospetto che forse certi ruoli sono vere vocazioni del Signore, tremende responsabilità da assumere in “profonda umiltà”? La discussione dei discepoli rivelava una ambizione di grandezza oppure (come pare suggerisca Matteo 18,1-10) una legittima curiosità di sapere chi era più caro a Dio nel Regno dei cieli? Si trattava dunque di concorrenza o di una legittima preoccupazione di entrare nelle graduatorie di gradimento di Dio?
Tra voi non sia così.
«E giunsero a Cafarnao e, davanti alla casa, domandava loro…e sedutosi chiamò i dodici…». Le folle lo lasceranno in pace fino al cap. 10; ora Gesù è ritirato con la propria comunità e l’insegnamento non è rivolto a politici rampanti, cattedratici carrieristi o dirigenti autoritari; è rivolto particolarmente alla chiesa perché almeno lì, e lì prima di tutto, i discepoli sperimentino un laboratorio e una simulazione di ciò che si vedrà quando il Regno mostrerà la sua consistente visibilità. Per Dio esistono dei primi posti spettanti agli ultimi, ai minori, ai piccoli, ai servi: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli… Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Luca 12, 37; Marco 10, 45). I servi sono serviti. Così accade alla mensa eucaristica di domenica davanti all’umile Dio. «L’innocente, nel senso latino del termine (innocens), è colui che non-nuoce. Né a se stesso, né agli altri. Quando l’egoismo regna, per evitare di nuocere a se stessi, ci si adopera a nuocere agli altri. Ma Gesù di Nazaret insegna al contrario che nella misura in cui si nuoce agli altri si nuoce a se stessi. Pertanto manda a monte tutto il gioco. E’ un guastatore, lo si uccide. Quel che è accaduto a Gesù accade nel corso della storia a coloro che portano un riflesso dell’innocenza eterna: li si sopprime in molti modi: violenza, astuzia …[4]».
Maurice Zundel[5] scrive: “Il Dio che si rivela in Gesù Cristo, è un Dio che ha perso tutto eternamente… Dio è Dio perché non ha nulla. Dio è il grande Povero, la cui sola beatitudine è quella di donarsi…”. Solo con un Dio così “inoffensivo” si può entrare veramente in comunione. Nessuno può sentirsi offeso da un Dio inginocchiato davanti a te e se Gesù è in ginocchio, nel mondo viene introdotta una nuova scala di valori che è appunto lo stile che Gesù propone ai suoi amici “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.


[1] François Varillon L’umiltà di Dio, Qiqajòn, 2000 pag. 146.
[2] Christian Bobin, L’uomo che cammina, Ed Qiqajon – Bose.
[4] François Varillon L’umiltà di Dio, Qiqajòn, 2000, pag. 55 e 95.
[5] Prete svizzero, teologo contestato, poeta, scrittore. Amico del Card. Montini che, da Papa, lo inviterà a predicare il ritiro quaresimale in Vaticano nel 1972.




15 settembre 2024. Domenica24a
LA CROCE ATTACCAPANNI

24 DOMENICA B

Preghiamo.
O Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti, non abbandonarci nella nostra miseria: il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio, certi di salvare la nostra vita solo quando avremo il coraggio di perderla. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Isaia 50,5-9
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
Salmo 115.  Camminerò alla presenza del Signore, nella terra dei viventi
Amo il Signore perché ascolta il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo.
Mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi.
Ero preso da tristezza e angoscia. Allora ho invocato il nome del Signore: “Ti prego, liberami, Signore”.
Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli: ero misero ed egli mi ha salvato
Hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Dalla lettera di san Giacomo apostolo 2,14-18
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.
Dal Vangelo secondo Marco 8,27-35
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Va’ dietro a me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”.

LA CROCE ATTACCAPANNI. Don Augusto Fontana

Ricordo che un giorno avevo convocato un gruppo di giovani e adulti per una giornata di riflessione. L’appuntamento era in una casa parrocchiale abbandonata in uno spopolato paese di montagna. Quando girai la chiave nella toppa, seguito da vocianti e spensierati amici, fui investito da uno squallido abbandono. Faceva freddo, fuori e dentro. Capii subito che l’accoglienza ce la saremmo dovuta guadagnare con un efficiente lavoro casalingo di squadra. Ma ciò che mi colpì fu una croce astile, piantata in un piedistallo ligneo lì nell’ingresso. La compagnia dei buontemponi entrò con tutta la dotazione di cappotti e cappelli che finirono appesi su quella croce. Una croce ridotta ad appendiabiti. Anche Pietro, a mio nome, ha voluto fare di Gesù l’attaccapanni delle sue buone opinioni borghesi guadagnandosi un esorcismo «Torna dietro a me, Satana!».  Già! Quale paradossale attributo confiderò domenica al Signore, senza mettere a repentaglio la mia ortodossia e senza compromettere troppo le mie ovvietà religiose ed esistenziali?
La fede proclamata in strada.
«Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti, non abbandonarci nella nostra miseria: il tuo Spirito santo ci aiuti a credere con il cuore e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio, certi di salvare la nostra vita solo quando avremo il coraggio di perderla». Con questa preghiera la liturgia inaugurerà una nuova settimana lasciandosi dietro, o portandosi dentro, giorni da cardiopalmo. Storie di umana ovvietà, accanto a tutte le altre silenziose ovvietà di tenerezza e onestà che si consumano nelle case, nei luoghi di lavoro e del disagio. Non potrò prescindere da questi ciottoli di strada quando domenica sarò anch’io chiamato, per l’ennesima volta, a sostenere la misteriosa curiosità del Signore: «Mentre camminavano per la strada interrogava i suoi discepoli: “Cosa dicono di me?”» (Marco 8,27-35). Ancora più imbarazzante sarà la sua sfrontata richiesta: «Ma io chi sono per voi? Cosa dite di me?» che in filigrana rivela il suo risvolto: «Voi, chi dite di essere?». Dare un giudizio di merito su Gesù Servo (Isaia 50, 5-9), comporta definire la misura della mia esistenza. Ce n’è abbastanza per andarci cauto o aspettarmi uno degli esorcismi più duri pronunciati da Gesù: «Torna dietro a me, Satana!» e non essermi di inciampo perché «la fede se non ha le opere è morta» (Lettera di Giacomo 2,14-18).
«Sei venuto a rovinarci!».
Ripetiamolo. L’Evangelo secondo Marco scorre polarizzato da tre domande: Chi è Gesù? Chi è il discepolo? Ma soprattutto: Dove ci porta? Domande che levitano o precipitano insieme. Tre sono gli eventi fondamentali di rivelazione della personalità di Gesù nell’evangelo di Marco:  all’inizio quando Gesù si mette in file con i peccatori e partecipa al movimento di riforma di Giovanni  detto “il Battezzatore” e riceve l’investitura dal Padre: «Questo è il mio Figlio prediletto di cui mi vanto!»; al centro, quando Pietro celebra il suo sincero, ma problematico Credo: «Tu sei il Cristo» sullo sfondo di una Trasfigurazione che non si sa se abbia il sapore del giorno di pasqua o del venerdì santo; alla fine, sotto la croce, quando l’impuro comandante del plotone di esecuzione vede spirare “in quel modo” il suo condannato a morte e presta la sua bocca al Padre celebrando il suo Salmo: «Costui è veramente il Figlio di Dio».
Ma durante tutto l’Evangelo inciampiamo in un susseguirsi di domande e di opinioni su Gesù: «Come possiamo credergli se i nostri scribi non stanno dalla sua parte?… Dove ha imparato a dire e fare queste cose?… Chi è questo che prima sembra Dio e poi frequenta ubriachi e pubblici peccatori?… Chi crede di essere, perdonando i peccati?… Che ha fatto di male?…». Sono domande sospese nel vuoto, senza risposta, affidate ad un silenzio che chiama una mia risposta. Altre domande suscitano vespai di opinioni tra il blasfemo e il perplesso: «è fuori di sé… un bestemmiatore… un eretico… un demonio… un fantasma…». Qualcuno ci azzecca, compresi gli indemoniati: «Io so chi tu sei: il santo di Dio». Ineccepibili intuizioni, teologie ortodosse, proclamazioni sacrosante che hanno solo il difetto di tenercelo a debita distanza esentandoci dalla sequela: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci!…Che hai tu in comune con me, Gesù?» (Marco 1,24; 5,7). Nessuno di noi è stato risparmiato dal rischio che si corre quando ci si avvicina troppo a Lui e ci si lascia sedurre. Molti di noi sono uomini/donne dell’anticamera, perennemente uomini e donne della vigilia. Abbiamo intuito che la vita delle nostre carabattole va in fumo: «Nessun uomo può vedere il mio volto e restare vivo» (Esodo 33,20). Per questo mi sento un po’ afflitto dal morbo di Parkinson, quella sindrome che ti inchioda le gambe al pavimento nella spasmodica frenesia di muovere passi concepiti nella testa ma mai generati dal circuito sensoriale: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Marco 7,6).
La pagina dell’Evangelo di oggi esprime dunque tutto il problema della comunità di Marco, ma anche della chiesa di oggi: chi è Gesù secondo Dio, secondo la folla, secondo te? L’attività di Gesù provoca gli uomini; i quali lo giudicano secondo le loro piccole speranze e le loro idee personali. L’inchiesta raccoglie risultati di tutto rispetto: «Dicono che sei Giovanni il Battista, Elia o uno dei profeti». Pietro fa un passo avanti nei confronti della gente: «Tu sei il Cristo, il consacrato, il Messia stesso». La sua è una proclamazione che troverebbe consenziente anche la Congregazione Vaticana per la dottrina della fede, ma è inquinata dall’ideologia del successo.
Gesù capisce che la sua precedente catechesi è risultata insufficiente e fa due gesti: sgrida e incomincia da capo a spiegare. Il nostro credere è un cammino con tappe progressive. Siamo cocci resistenti o ribelli alla mano del vasaio che non smette di ricominciare, correggere, rettificare. Prima di questo problematico incontro tra Gesù e i discepoli, Marco riferisce la guarigione del cieco di Betsaida. Guarigione che offre non pochi spunti interpretativi per l’inchiesta di Cafarnao oggetto della nostra meditazione. Si tratta di una guarigione strana, inizialmente malriuscita. Dopo il primo tentativo, il cieco quasi si lamenta: «Vedo gli uomini come se fossero alberi che camminano». Occorre una guarigione ancora più radicale e decisiva: la cecità aveva resistito al primo impatto liberante di Gesù. Così è per Pietro, nostra controfigura. La sua è una professione che non lo coinvolge pienamente; prova ne sia l’imminente tradimento. Pietro «ragiona secondo gli uomini», vuol salvare le proprie carabattole, si vergogna davanti ad una generazione dal pensiero unico che chiede miracoli, risonanze clamorose, chiese piene e piazze acclamanti, share di ascolto in concorrenza con telenovele e deprimenti concorsi televisivi. «La minorità – scrive Enzo Bianchi[1]dovrebbe diventare una scelta, un obiettivo da perseguire. Per comprendere il senso di questa scelta abbiamo solo il rovesciamento della logica mondana, il paradosso delle Beatitudini. Essendo un paradosso non si può credibilmente argomentare, persuasivamente formulare, efficacemente comunicare. La ragione non può nulla contro i paradossi e i paradossi sono impotenti e retrocedono di fronte alle argomentazioni. La minorità, come l’amore, vive solo di GESTI, come ha fatto Francesco. La “mimica” di Francesco dello spogliarsi davanti al vescovo è il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di “dire” la minorità che appartiene invece all’orizzonte del comportamento “sine glossa” più che a quello delle dichiarazioni di principio o dei documenti».
Paolo scrisse: «Di nient’altro mi vanto se non della croce di Cristo scandalo per gli uni e idiozia per gli altri… Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo mio Signore, per il quale considero tutte queste cose come spazzatura, per guadagnare Cristo» (1 Corinti 1, 18-13; Filippesi 3, 7-8).  Ecco perché la domanda di Gesù: «Io chi sono per voi?» diventa: «Voi, chi dite di essere?».
Santi sì, ma non a piedi asciutti.
Riconoscere il Messia può voler dire trovare la chiave interpretativa e direzionale dell’esistenza. Mi perseguitano domande: «Come sarei oggi, se non l’avessi incontrato? E come potrei essere se lo avessi seguito per davvero?». Riconoscerlo come Messia vuol dire accettare di scendere dalla barca e camminare sul fluido, così come ha tentato di fare Pietro in altra occasione «Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù» (Matteo 14,29). Santi sì – direbbe il monaco Arturo Paoli – ma non a piedi asciutti: «Diventeremo santi mettendoci nell’acqua come Pietro, accettando anche il rischio che mancanze intermittenti di fede ci facciano affondare[2]». Riconoscere il Messia significa frequentare un luogo assai comune, percorso freneticamente da milioni di persone: la strada. Una prospettiva questa che Gesù di Nazaret ha fatto propria. Lui attraversa, vive, abita le strade. Sa che qui incontrerà persone bisognose di liberazione. La strada è un crocevia di incontri tra uomini, di passione e sofferenza, un cammino che Pietro tenta di fermare. «Se la chiesa vuole incontrare i poveri, gli esclusi o gli emarginati, è necessario che entri in familiarità con la strada e con la vita che in essa trabocca. Ripercorrere la strada, abitarla, significa abitare ogni frazione della vita comune, il tempo, la politica, il territorio, le nostre chiese, affinché nessuno possa sentirsi solo o abbandonato[3]».


[1] Horeb 18/97 pp.67-74
[2] A.Paoli Ricerca di una spiritualità per l’uomo d’oggi pag 93
[3] Editoriale di CREDERE OGGI 1998 n. 5/1998




8 settembre 2024. Domenica 23a
CON GESU’ UNA CHIESA CHE LIBERA

Domenica 23 ciclo B

Preghiamo. O Padre, che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire la tua parola di coraggio a tutti gli smarriti di cuore, perché si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Isaìa 35,4-7a
Dite agli scoraggiati: «Coraggio, non temete! Il vostro Dio viene a liberarvi, Egli viene a salvarvi». 5Allora i ciechi riacquisteranno la vista e i sordi udranno di nuovo. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Salmo 145. Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre (testo ebraico: custodisce la verità in eterno)
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri, sostiene l’orfano e la vedova,
sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
 Dalla lettera di san Giacomo apostolo 2,1-5
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.  Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Dal Vangelo secondo Marco 7,31-37
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.  Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.  E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

CON GESU’ UNA CHIESA CHE LIBERA. D. Augusto Fontana

Jesucristo liberador”.
Titoli come questo si sovrappongono, si modulano, si duplicano, si mascherano nell’editoria cristiana sud americana. E sempre per ragionare sull’inevitabile funzione pasquale di Gesù, quella di salvare e liberare. Fu “Teologia della liberazione”, fatta di martiri oltre che di teologi. Ora dichiarata fuori uso senza meriti distinti, sfiancata e silenziata da decenni di procedimenti disciplinari. Nella cloaca massima delle nostre società-chiese i poveri restano ancora più poveri e gli oppressi non giungono a nutrirsi neppure delle briciole che cadono dalle mie aristocratiche scrivanie. I teologi della liberazione oggi scrivono poco, si incontrano raramente, sono sempre meno e quando si riuniscono non rilasciano dichiarazioni: si percepisce lo spessore eloquente del loro silenzio. Forse non é più tempo di denunce profetiche, per lasciar spazio al silenzio “sapienziale” che parli più con i fatti e la testimonianza che con le parole? “Siamo indisponibili – scriveva il teologo J.M Vigil – ad ogni “teologia della inevitabilità”, ad ogni “cultura del fatalismo”. La realtà è concepita come storia di salvezza e, simultaneamente, come salvezza di una storia che procede tra alti e bassi. La missione cristiana non ci separa dalla storia; al contrario ci rimanda ad essa”. Anche il profeta Isaia ha scritto la sua “piccola apocalisse” ed il capitolo 35, che viene proclamato nella liturgia odierna, ne costituisce un assaggio. È percorso da un ritmo di opposizione e di capovolgimento. Ciò che ora è sterile diventerà fecondo, la debolezza si capovolgerà in forza. Si tratta di una nuova creazione: il linguaggio e la scenografia ci autorizzano a questo collegamento. L’azione di Dio è vista come un intervento che capovolge una situazione sociale e non solo nei segreti angoli dell’anima. Anche per il brano odierno di Marco (7,31-37) la “salvezza di Dio” significa il capovolgimento della situazione: tu, catecumeno, tu eletto, senti sì o no il bisogno di un capovolgimento della situazione? I ciechi, gli storpi, gli zoppi, i muti, i sordi, gli stranieri, le vedove, gli orfani e tutti coloro che non godono delle provvidenze sociali sono i primi clienti della salvezza portata da Cristo, i primi invitati al banchetto regale, quelli che dovevano essere onorati nelle Cene fraterne dalla Chiesa (come scrive Giacomo nella seconda Lettura di oggi: 2, 1-5).
Abbiamo, domenica scorsa, meditato su un altro brano del Vangelo di Marco, nel quale Gesù attacca direttamente i farisei perché mettono al posto del comandamento di Dio l’osservanza della tradizione degli uomini. Ed è questo il primo tratto – il meno sottolineato per lo più nelle nostre assemblee cristiane – della figura di Gesù come liberatore. Oggi il vangelo ci parla dell’abbattimento di una barriera che ci è difficile immaginare quanto fosse per gli ebrei alta e invalicabile: quella nei confronti dei non ebrei e pagani. Ed ecco che Gesù compie miracoli in terra pagana e profetizza che l’eredità del regno passerà nelle mani di coloro che ne erano esclusi[1]”.
L’agire autorevole.
La guarigione del sordomuto (o come meglio si dovrebbe tradurre: sordo-balbuziente) è posta da Marco come conclusione dell’istruzione che segue il primo racconto del miracolo dei pani. Marco struttura questa guarigione nella stessa forma della guarigione del cieco (8,22-26) e intende darvi un particolare significato teologico: il sordo-balbuziente e il cieco rappresentano i discepoli della comunità di Marco, e quindi anche noi, che abbiamo occhi ma non vediamo, abbiamo orecchi ma non ascoltiamo. “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite “noi vediamo!” il vostro peccato rimane” (Giovanni 9, 41). La gente che assiste per ora è ancora in una fase di innamoramento: “Sei un dio! Sei un mito!”, potremmo tradurre con linguaggio contemporaneo la frase riportata da Marco: “Ha fatto bene ogni cosa!”. Proprio come se si trovassero ad assistere ad una nuova creazione del mondo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1,31). Applausi! “Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità”. (Marco 1,22).
A tappe verso il profondo.
Nelle guarigioni e liberazioni narrate da Marco scorgiamo gli indizi di una catechesi battesimale. Sono miracoli che avvengono in modo elaborato e quasi faticoso, sotto forma anche di esorcismo. Vediamo alcuni particolari del testo di oggi. Siamo in piena zona pagana (Tiro/Sidone/Decapoli). Il transito, dal punto di vista della razionalità del viaggio di Gesù, non si giustifica; sarebbe come andare da Firenze (Tiro) alle Marche (lago di Galilea) passando per Bologna e Rimini (Sidone e Decapoli). Una lunga deviazione. C’è dunque un’intenzionalità teologica: le zone indicate sono frequentate da pagani considerati impuri da Israele. Il Signore ci avvicina nelle nostre zone di infedeltà e di lì passa e ripassa per fare, dello spazio della nostra incredulità, una occasione e una zona di fede. Lì alcuni anonimi gli portano un sordo-balbuziente. Qui il soggetto è un sordo. Il termine usato nel testo greco (kôfos) significa anche “tonto”: l’’uomo che non intende la Parola di Dio rimane inebetito e intontito: “l’uomo nel benessere non comprende ed è come una bestia” (Salmo 49,13). L’uomo presentato a Gesù è anche farfugliante, uno che parla poco e male (mogilalos), avendo la lingua inceppata e impedita non solo per le relazioni umane ma anche per la lode nel culto. Emette solo suoni, ma non pronuncia parole sensate: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode” (Salmo 51, 17). E lo pregano: la preghiera esprime la nostra responsabilità nei confronti di tutti gli uomini. Lo pregano di imporgli la mano. Ma il Gesù di Marco fa ben di più che un gesto della mano. Nel racconto odierno si possono contare sei gesti, che corrispondono quasi a sei tappe di un cammino del Signore insieme con te:
ti porta in disparte, lontano dalla folla
“buca” l’orecchio con le dita,
tocca la lingua con saliva,
guarda al cielo,
geme,
parla.
La guarigione è l’incontro tra i tempi del Signore e i miei. Questo è l’itinerario cristiano: una paziente successione progressiva. Dio porta il popolo in disparte, lontano dalla terra della propria schiavitù. Nel Salmo 115, 5 si dice che “gli idoli hanno bocca ma non parlano, hanno orecchi ma non odono”. Gesù cerca di separarci dagli idoli che ci rendono simili a loro: marionette. Lì, in disparte gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua. E’ un’operazione di ri-creazione. Gesù ricostruisce l’icona di Dio tramite lo Spirito che qui viene indicato con la saliva, che, secondo la cultura del tempo, veniva considerata come solidificazione umida del soffio vitale. Poi Gesù, con lo sguardo, rinvia tutto al Padre attraverso la preghiera. E geme. E’ il gemito di Dio di fronte al dolore ed è il gemito che emette tutta la creazione, come dice Paolo[2]. È il gemito che Cristo lancia dalla croce, è il gemito che lo Spirito lancia verso il Padre intercedendo per gli uomini. Anche noi nella liturgia ci uniamo al gemito di Gesù: “Padre che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire una parola di coraggio a tutti gli smarriti nel cuore, perchè si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie”. La Chiesa si fa Parola attraverso la testimonianza e non solo emettendo giornalini, comunicati, chiacchiere, concerti di campane o di cori.
Orecchio salvato, lingua guarita.
Due sono i livelli emergenti dalle letture: uno più marcatamente liturgico-spirituale ed uno più chiaramente sociale-ecclesiale.

  1. Livello liturgico-spirituale. Essendo, il testo di Marco, una chiara catechesi battesimale è necessario riprenderne le sollecitazioni per la conversione della Chiesa. Il discepolo non può presumere di essere capace da solo di ascoltare la Parola di Dio nè di saper annunciare e lodare “correttamente”. La fede nasce dall’ascolto quando permettiamo al dito di Gesù di forare le membrane interiori dell’ascolto; la lode e l’annuncio nascono da un ascolto guarito. La preghiera diventa un farfugliare vano per chi non basa la propria preghiera su un profondo ascolto guarito. Noi siamo come i catecumeni della comunità dell’evangelista Marco, ciechi che non vedono i segni della misericordia di Dio e delle sue chiamate, sordi che non sanno ascoltare la sapienza delle sue parole, farfuglianti che non sanno proclamare e lodare, storpiati dalle nostre abitudini e paure. Stiamo andando verso Lui, il Signore, condotti dalla Chiesa, sottobraccio gli uni con gli altri per condurci reciprocamente a Lui, proprio come in quel tempo.
  2. Livello sociale-ecclesiale. Il secondo livello riguarda la posizione che tiene la Chiesa nei confronti del ribaltamento delle situazioni: in Isaia e nel Salmo 146 appare chiaro che Dio è “partigiano” nel senso che prende parte, prende una parte. Gesù non dà una generica “benedizione”, ma tocca i centri sensoriali e di percezione più cronicamente impermeabili ad ogni stimolo. Una delle esigenze contemporanee più urgenti è quella di abbattere le barriere che impediscono la comunicazione, soprattutto abbandonando linguaggi consolidati che ci rendono accettabile la compagnia degli omogenei, ma ci rendono incapaci di ascoltare parole che ci mettono in crisi e dire parole che abbiano un senso per sordi e muti.

[1] E.Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Borla, Vol. 2° pagg. 338ss.
[2] Romani 8,22-27