1 settembre 2024. Domenica 22a
L’ALBERO INTERROGHI LE SUE RADICI. 

Preghiamo. Guarda, o Padre, il popolo cristiano radunato nel giorno memoriale della Pasqua, e fa’ che la lode delle nostre labbra risuoni nella profondità del cuore: la tua parola seminata in noi santifichi e rinnovi tutta la nostra vita. Per Gesù Cristo il nostro Signore. Amen.
Dal libro del Deuteronòmio 4,1-2.6-8
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
 Salmo 15 (14). Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,  non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora chi teme il Signore.
Non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo resterà saldo per sempre.
Dalla lettera di san Giacomo apostolo 1,17-18.21-22.27
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Dal Vangelo secondo Marco 7,1-8.14-15.21-23
Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».  Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

L’ALBERO INTERROGHI LE SUE RADICI.  Don Augusto Fontana

La pianta, si sa, può giungere a inorgoglirsi del sovrabbondante fogliame o si può schiantare sotto il peso dei propri frutti: per questo dovrà sempre tornare ad interrogare le proprie radici per obbedire a “radicalità” sorgive.
Trascurando il comandamento di Dio, voi seguite le tradizioni di uomini.
In Afghanistan è nata la “legge per promuovere la virtù e prevenire il vizio”: il relativo Ministero stabilisce che le donne in pubblico devono coprire il volto “per evitare tentazioni”, non devono far sentire la propria voce, cantando o recitando poesie. Sono poi vietati la visione di immagini di esseri viventi su un computer o un cellulare, l’assenza di barba per gli uomini, i tagli di capelli “contrari alla Sharia”. Lo stesso vale per un’eventuale amicizia con un “infedele”.
Scriveva profeticamente fratel Enzo Bianchi: «Non sempre nelle vie religiose, anche nell’Antico Testamento, appare il volto di Dio: anche tra noi cristiani, quante volte abbiamo presentato il volto di un Dio perverso che spinge gli uomini ad allontanarsi! Spesso c’è chi fa un’esperienza dell’immagine dell’uomo, migliore dell’immagine di Dio. Gesù ha “evangelizzato” Dio, ha reso Dio “buona notizia”». Gesù di Nazaret irrompe come diversità amica tra altre diversità: pubblici peccatori, prostitute, omosessuali, preti sposati, coppie di fatto, ROM, musulmani, buddisti, induisti, ebrei, miscredenti. E chi più ne ha più ne metta; c’è ancora posto nel nucleo e nelle periferie di un cattolicesimo nato, esso stesso, come diversità fastidiosa, eretica, illegale e trasgressiva, ma sempre tentato di diventare una melassa di dogmatismi e legalismi. Anche la storia della nostra fede personale è una storia di ordinario pendolarismo tra la fedeltà allo Spirito o il bisogno gratificante di essere imbrigliati in dogmi, riti e precetti garantisti. Non siamo forse nell’epoca del precariato, del pensiero debole, delle fragili perseveranze? Non sentiamo forse, accanto al bisogno di tutele forti, anche il fastidio per un insopportabile fardello di divieti?
Quale Dio andremo a celebrare domenica? E’ forse un Dio notaio dal volto perverso e corrucciato quello che dona la Legge di vita e di cammino al suo popolo (Deuteronomio 4, 1-8)? Chi ci farà compagnia nella liturgia pasquale di domenica?  Una assemblea rassegnata ad un’osservante ma stolta verginità (Marco 7, 1-23)? E io sarò un ascoltatore della sua parola e un irriducibile trasgressore di tradizioni umane (Giacomo 1, 17-27)?
La Toràh SUL cuore.
«Beato l’uomo di integra condotta, che cammina nella Toràh del Signore» (Salmo 119, 1). Torah: il nome ebraico ha un sapore esotico; noi la chiamiamo Legge, quella di Mosè, ma equivochiamo deragliando verso interpretazioni giuridiche e sottofondi moralistici. In ebraico fu ed è la Toràh e non solo per sterili questioni terminologiche; il salmo 119 (118), lunga e tenera lode della Legge ebraico-cristiana, ne offre una modulazione armonica sorprendente chiamandola, di volta in volta, insegnamento, precetto, decreto, comando, sentenza, parola, volontà, giudizio, via, saggezza, conforto, meraviglia, promessa, alleanza. Nella frase di Gesù «Non sono venuto per abolire la Toràh, ma per portarla a compimento» (Matteo 5,17) affiora la continuità della Rivelazione biblica mai smentita; ed emerge anche – perché no? – l’animo del Gesù ebreo figlio di ebrei, quello che migliaia di volte ha recitato il Salmo 119:« Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene…Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge… nella terra del mio pellegrinaggio i tuoi precetti sono per me come un canto …La legge della tua bocca mi è preziosa più di mille pezzi d’oro e d’argento…Ho più saggezza degli anziani, perché osservo i tuoi precetti… Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca». Gesù dirà anche: «Avete udito che ai vostri padri fu detto…ma io vi dico» (Matteo 5, 22) offrendoci la tentazione di mettere in conflitto Toràh e Vangelo. D’altra parte l’esperienza ci dice che ogni amore si può imbastardire e ogni profezia si può inquinare quando si allontanano dalla loro sorgente o dalla loro radice. I maestri giudaici avevano costruito, sul primitivo nucleo della Toràh, 613 prescrizioni suddivisi in 365 proibizioni (come i giorni dell’anno) e 248 prescrizioni (come le parti del corpo umano secondo il computo rabbinico). L’intenzione era buona: si voleva che la Toràh abbracciasse tutta la vita e l’impegno dell’uomo. La pianta, si sa, può giungere a inorgoglirsi del sovrabbondante fogliame o si può schiantare sotto il peso dei propri frutti: per questo dovrà sempre tornare ad interrogare le proprie radici per obbedire a “radicalità” sorgive. E’ in atto una promessa del Signore: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande…Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Geremia 31, 33-34; Ezechiele 36, 27). Rabbi Mendel di Kozk diceva che nel testo sacro c’è scritto “scriverò la mia Parola sul loro cuore” e non “nel loro cuore” perché il cuore talora è chiuso, ma la Parola di Dio sta su di esso e quando in santi momenti si apre, è già pronta per cadervi dentro, sul fondo[1]. Chi ci crede ancora a questo profetico sogno di Dio divenuto promessa? Viviamo in tempi di furbizie illegali, di esasperati individualismi e di occulte manipolazioni delle coscienze. Chi ci crede ancora a quella promessa di Dio? Chi è disposto a rischiare di appellarsi alla coscienza, santuario di Dio, in cui «è stata seminata la Parola» e alla forza che il Signore continua ad espandere in noi, sempre ferita ma non per sempre uccisa?
Una legge per vivere e camminare, non per soccombere.
«Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore sta per darvi» (Deut. 4,1).
Nel Deuteronomio, scriveva P. Ernesto Balducci[2], si riconosce che la moltitudine dei profughi dall’Egitto divenne popolo in ragione della Legge. «Era una Legge solo in funzione di un popolo proteso in avanti. Quando la legge diventa un assoluto, in quel momento si arresta il viaggio, muore la speranza ed entriamo nell’idolatria del sabato contro cui Gesù dovette combattere. Questo lo dico perché la contrapposizione fra coscienza e legge viene mal posta e si fa fare alla legge la figura del male, come se la legge non dovesse esserci». Scriveva il profeta Geremia: «Quando verranno meno queste leggi dinanzi a me – dice il Signore – allora anche la gente di Israele cesserà di essere un popolo davanti a me per sempre» (Ger. 31, 36). La Torah viene data non per intenzioni dispotiche, ma per tenere saldi i legami di amore e tutelarci da delusioni cocenti: «Hanno abbandonato me sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono acqua» (Ger. 2,13). Nel dramma di Israele si rispecchia la tragedia di ogni assetato Adamo, a partire dall’Eden fino a me: «E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Romani 1, 28-31).  C’è tuttavia un altro versante, quello più oscuro, costituito dalla legge come strumento di potere degli uomini: «Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» dirà Gesù (Matteo 23,4). Da qualche tempo la Parola di Dio, la vita di Gesù e la sua Pasqua sono riemerse dal torpore che le aveva colpite sotto pesanti coltri che il Concilio Vaticano II° ha contribuito a scoperchiare. Ma restano aperte ferite o “nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese” come li chiamò il Card. Martini al Sinodo Europeo del 7 ottobre 99: «Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati.  Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale». Il dramma delle coscienze cristiane sta in questa difficile transizione dall’insegnamento degli uomini al comandamento/Parola di Dio; e ciò non si può pensare che avvenga senza sofferenze, strappi e lacerazioni. Anche la chiesa delle origini fu costretta a non rinviare di molto la difficile gestazione, come ci fa sospettare la pagina odierna di vangelo. Sulla scia dei profeti, Gesù ha riportato alla “radice” il “comandamento di Dio”, aiutandoci a capire che, con il pretesto delle nostre tradizioni, noi possiamo “mettere da parte” (v.8), “respingere o trascurare” (v. 9) e addirittura “invalidare la parola di Dio” (v. 13). I tre verbi che il testo greco integrale del Vangelo di Marco usa (compreso il v. 13 mutilato dalla liturgia), sono molto forti ed efficaci. Essi sostanzialmente ci dicono che spesso la nostra fede fa naufragio in uno stagno di pie abitudini.
Verginità stolta.
Le culture (e le religioni) non riescono a liberarsi mai totalmente dal bisogno dei gruppi di identificare situazioni, persone, spazi, atteggiamenti ritenuti puri o impuri, sacri o profani. Normalmente la purità è incollata all’idea del sacro e l’impurità a quella del profano. Si creano così confini invalicabili. Per questo Dio fu e resta recintato. Ma c’è sempre qualche birbone disposto a spostare picchetti o scombinare tutto. Come Gesù che ridefinisce confini e geografie. Anzi, pianta la sua tenda nel regno dell’impurità e rimette in discussione osservanze, spazi, tempi, classificazioni, atteggiamenti. Nella parabola delle dieci ragazze da marito (dette tradizionalmente “vergini”) Gesù parla di possibile stoltezza anche nella verginità. L’osservanza ossessiva e obbediente di regolamenti e riti non include, tutto compreso, la fedeltà del cuore. Ne sanno qualcosa il figlio maggiore della Parabola detta del Figliol prodigo, il borioso fariseo che prega accanto all’altare come controfigura del peccatore balbettante sulla soglia del santuario, il fariseo Simone mormoratore contro la prostituta che compie su Gesù gesti apparentemente immondi, ma di chiara allusione pasquale.
Dunque i discepoli erano stati beccati da alcuni farisei in flagrante trasgressione. L’obiezione che circolava nasceva dal comportamento disinvolto dei discepoli che non osservavano alcune usanze/norme di purità al ritorno dal mercato mettendo a repentaglio la legittimità e la purità dell’eventuale banchetto cultuale: era infatti stata estesa al popolo una norma inizialmente applicata solo ai sacerdoti (Numeri 18,8-13). Gesù risponde smascherando tre tipiche storture di logiche religiose che allignano ancora tra di noi dopo 2000 anni di evangelizzazione[3]:

  • Primo travisamento: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate le tradizioni degli uomini». E’ il rischio di attribuire a Dio nostri vaneggiamenti, di attaccare all’autoritativo chiodo di Dio gli abiti della nostra vita da pagliacci, di dare più onore al commento della Parola che alla Parola stessa, di ingombrare la porta di accesso a chi vuole accostarsi al Signore: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio dell’Inferno, il doppio di voi» (Matteo 23,15).
  • Secondo travisamento: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me». E’ l’antico lamento dei profeti che mettevano il dito sulla piaga della religiosità disumana e non compassionevole, della schizofrenia tra pubblica virtù e privati vizi. E’ la piaga del rigorismo ritualistico che nasce da dottrine che sono precetti di uomini e che rende così un culto “invano”.
  • Terzo travisamento: «Dal di dentro, cioè dal cuore, escono le intenzioni cattive». Marco fa una caricatura polemica di coloro che seppelliscono la Toràh del Signore sotto una catena di pignolerie e superstizioni assurde e un po’ ridicole o che la frantumano in una casistica tanto elaborata da far smarrire “i piccoli” oltre che il nocciolo della questione.

[1] M.Buber I Racconti dei chassidim, Grazanti, pag. 606.
[2] E.Balducci Il mandorlo e il fuoco, Vol.2 Borla, pag 331.
[3] AA.VV Omelie nelle comunità, Marietti.




25 agosto 2024. Domenica 21a
VOLETE ANDARVENE?

21°  DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Preghiamo. O Dio nostra salvezza, che in Cristo tua parola eterna ci dai la rivelazione piena del tuo amore, guida con la luce dello Spirito questa santa assemblea del tuo popolo, perché nessuna parola umana ci allontani da te unica fonte di verità e di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro di Giosuè 24,1-2.15-17.18
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».
 Salmo 33 .  Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Gli occhi del Signore sui giusti, i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
Il volto del Signore contro i malfattori, per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti.
Molti sono i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore.
Custodisce tutte le sue ossa: neppure uno sarà spezzato.
Il male fa morire il malvagio e chi odia il giusto sarà condannato.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi; non sarà condannato chi in lui si rifugia.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 5,21-32
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,60-69
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

VOLETE ANDARVENE? Don Augusto Fontana

 In queste domeniche, se siamo riusciti a seguire le indicazioni della liturgia, leggendo il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, abbiamo forse capito un po’ di più che cosa sia l’Eucaristia. Gesù conosce la nostra “fame”, i nostri bisogni e desideri e allora si fa pane per noi. Ma molti non lo hanno capito. I Giudei si sono fermati alla discussione dialettica e se ne sono andati sempre più convinti che Gesù sia un bestemmiatore che si fa Dio, uno che crede di essere più grande di Mosè, un matto che parla invitando a contaminarsi con il suo sangue e che sembra invitare al cannibalismo. Ma anche molti dei suoi discepoli sono perplessi: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?“. E’ difficile aver fede in uno che ti scombina tutto nella vita, che ti invita a lasciare tutte le cose che con fatica, giorno per giorno, hai accumulato, che ti propone la semplicità e l’umiltà, che non ti promette felicità terrene, che ti chiede di prendere la croce per seguirlo, che ti scombina il tuo credo religioso presentandosi come il Dio del cuore e non della Legge, che ti invita a superare la legge della vendetta (seppur proporzionata) per farti arrivare a perdonare sempre, che ti dice di amare il nemico, che si rivolge soprattutto ai peccatori e non alle persone perbene… Qualcuno avrà detto: “Belle le sue parole, ma andargli dietro è troppo compromettente”. “Volete andarvene anche voi?” Gesù non pratica sconti, non indora la pillola, non scende a compromessi, chiede di scegliere. La stessa cosa ci è stata presentata nel racconto della prima lettura. Dopo la conquista dei territori di Canaan Israele si trova in mezzo a popoli idolatri e Giosuè chiede di prendere solennemente una decisione: o con Dio o con gli idoli. Dopo le parole bisogna arrivare a una decisione. Dopo l’Eucaristia non si può più dire: “Adesso la Messa è finita, e tutto ricomincia come prima”. Eppure io, spesso, sono maestro di compromesso. Tante volte il nostro “buon senso”, “l’equilibrio” ci fanno da sponda per non scegliere, o meglio, per scegliere di star fermi, di non cambiare niente, di vivere in schemi ben sperimentati, in religiosità ben costruite da noi e dalla pubblica opinione. Siamo capaci di mettere insieme indifferenze o piccole cattiverie e la fede, mangio il Pane della liturgia, ma non spezzo il mio pane con chi ha fame, diciamo di essere in comunione con il Signore e continuiamo a vivere con i nostri progetti di non perdono… Mi piace allora la risposta di Pietro a Gesù. Anche lui avrà avuto tutti i suoi bravi dubbi, anche lui, forse ha capito quanto sia difficile seguire Gesù. Forse, questa volta, anche Pietro è un po’ consapevole della propria debolezza, e allora non dice: “Ti prometto”, dice invece il suo bisogno: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!”.

a) Sottolineo i verbi che Giovanni riferisce ai discepoli: “dopo aver ascoltato“, “mormoravano“, “non credevano“, “si tirarono indietro e non andavano più con lui“. Li medito uno ad uno, li rumino, li ripeto, li confronto con la mia vita…Io che discepolo sono? Chi è il mio Maestro? Sono anch’io nel numero dei discepoli che continuano a chiedere a Gesù: “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11, 1)? Sono fra quelli che gli camminano dietro, lungo le rive della vita e insistono nel domandargli: “Maestro, dove abiti?” (Gv 1, 39) Sono anch’io come Maria Maddalena, che continua a ripetere quel nome, anche nella più terribile esperienza di “assenza”: “Rabbuni, maestro mio!” (Gv 20, 10)?

b) “Questa parola è dura: chi può ascoltarla?”. Perché la Parola del Signore non è dolce, per me, più del miele alla mia bocca (Sal 119, 103)? Perché non amo custodirla nel cuore di giorno e di notte (Sal 119, 9. 11. 57)? Perché non è la luce che rischiara le mie notti e la lampada per tutti i miei passi (Sal 119, 105)?

c) “Gesù, conoscendo dentro di sé…“. Il Signore mi conosce fino in fondo, Lui sa, Lui scruta; Lui mi ha intessuto (Sal 139), mi ha costituito fin dal principio, dall’eternità (Pr 8, 23). Lui conosce il mio cuore e sa quello che c’è in ogni uomo. Ma davanti al suo sguardo, davanti alla sua voce che pronuncia il mio nome, davanti alla sua venuta nella mia vita, al suo continuo bussare (Ap 3, 20), io come reagisco? Che scelte faccio? Quali risposte gli offro? Forse comincio anch’io a mormorare, a tradirlo, ad allontanarmi, a dimenticarlo?

d) Giovanni ci parla anche dei verbi “andare” o “venire“, riferiti a Gesù. Comprendo che la mia vita di discepolo è condizionata da questi spostamenti davanti ai quali o seguo o abbandono: “Venire a me” (v. 65), “non andavano più con lui” (v. 66), “volete andarvene?” (v. 67), “da chi andremo?” (v. 68).

Una PAROLA-CHIAVE dei diversi testi liturgici di oggi potrebbe essere: DECIDERSI.

UN DECIDERE RESPONSABILE. Essere uomini e donne adulti significa essere obbligati a decidere nelle piccole e nelle grandi cose della vita. In altri termini, vivere è dover decidere. Ma soprattutto decidere bene, decidere il bene. Che cosa implica una buona decisione?

1) Decidere bene implica lasciare. Lasciare innanzitutto ciò che impedisce o almeno rende difficile la buona decisione. Le tribù di Israele debbono lasciare, rinunciare agli dèi dei loro padri e agli dèi degli amorrei (prima lettura). I discepoli devono superare i propri pregiudizi culturali e religiosi davanti allo scandalo dell’Eucarestia (vangelo).

2) Decidere bene è preferire. Certamente, preferire il bene al male, ma in molte occasioni sarà preferire il meglio al buono.

LA DECISIONE RESTA LIBERA.

«Forse anche voi volete andarvene?»: c’è un momento in cui questa frase deve risuonare per ciascuno di noi. E se in una chiesa, in una comunità, non risuona questo invito, si può rischiare una appartenenza senza anima, senza convinzione.
L’amico don Nando Bonati scriveva: «C’è un momento in cui questa frase deve risuonare per ciascuno di noi. C’è un momento di verità e di libertà in cui Gesù pone il problema: Volete andarvene anche voi?  Certo sarebbe stato uno scacco. All’interno della comunità occorre ad un certo punto la libertà di sbagliare per chi vuole sbagliare. Lo si avverte, lo si aiuta, gli si usa misericordia, poi lo si lascia libero. Proclamiamo l’anno sabbatico nella vita religiosa, nella vita di coppia, negli impegni presi: chi vuole andare se ne va… Sarà uno smacco, ma apparirà la verità che sta nel profondo del nostro cuore! La Chiesa non deve “scomunicare” nessuno; deve aiutare ciascuno a scoprire la propria verità: sarà lui a dire se è in comunione con Cristo e con i fratelli, oppure se ha rotto questa comunione. Quanta strada da parte di tutti!




18 agosto 2024. Domenica 20a
Io sono pane vivo da mangiare. Insieme.

20 domenica B

Preghiamo. O Dio, che sostieni il tuo popolo con il pane della sapienza e in Cristo tuo Figlio lo nutri con il vero cibo, donaci l’intelligenza del cuore perché, camminando sulle vie della salvezza, possiamo vivere per te, unico nostro bene. Per Gesù il Cristo e nostro Signore. AMEN
 Dal libro dei Proverbi  9, 1-6
La Sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».
Salmo 33 (34) Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino. R/.
Temete il Signore, suoi santi: nulla manca a coloro che lo temono.
I leoni sono miseri e affamati, ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene. R/.
Venite, figli, ascoltatemi: vi insegnerò il timore del Signore.
Chi è l’uomo che desidera la vita e ama i giorni in cui vedere il bene? R/.
Custodisci la lingua dal male, le labbra da parole di menzogna.
Sta’ lontano dal male e fa’ il bene, cerca e persegui la pace. R/.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 5, 15-20
Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.
Dal Vangelo secondo Giovanni 6, 51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

IO SONO PANE VIVO DA MANGIARE. INSIEME. Don Augusto Fontana

Mi sono chiesto molte volte cosa significa l’aggettivo “vivo” aggiunto al pane. Innanzitutto l’aggettivo rimanda al suo contrario: “morto”. Esiste, allora, un pane morto e un pane vivo? Cosa avrà voluto dire Gesù e l’evangelista? Non riesco a entrare nelle loro profondità. Mi accontento di riferirmi alla mia esperienza. Il pane morto potrebbe essere quello immangiabile, duro come un sasso o ammuffito. Oppure il pane morto è quello che mangio a tavola con altri in un silenzio imbronciato e ostile, senza parola. Il pane vivo è quello condito con parola e con amicizia che dà gioia, coraggio, condivisione. Pane vivo è pane mangiato in relazione, in intimità. Pane e Parola, dunque, come dice la prima Lettura dal Libro dei Proverbi dove la Sapienza(Parola) dice: «Venite e mangiate il mio Pane». Pane e Torah, Pane e Parola.
Nella tradizione ebraica il pane disceso dal cielo è la Torah e ora Gesù viene a dire che questo pane è lui. La Torah è per la vita degli uomini, perciò molte volte si legge: ho mangiato il libro, ho divorato il libro, ho mangiato la parola, come ad esempio: “quando la tua parola mi venne incontro la divorai con avidità” (Geremia 15,16).  Ed anche: « Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: «Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra». Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: «Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele». Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza».(Apocalisse 10, 8-10).
Giovanni, nell’elaborazione del suo discorso eucaristico-cristologico nella sinagoga di Cafarnao, ha usato temi e spunti della letteratura sapienziale dell’Antico Testamento. Per questo la liturgia ci propone come prima lettura il cap. 9 del libro dei Proverbi. Capitolo costruito in due parti: nella prima è la Sapienza che invita l’intera umanità al suo banchetto, cioè alla sua intimità. Il pane e il vino sono presi come immagini della Sapienza. Nella seconda parte invece è la sua rivale, la stupidità malvagia, che ironicamente invita anch’essa le genti al suo banchetto. La stupidità ha sempre dei discepoli e degli invitati alla sua tavola.
Anche Gesù prepara la sua mensa per l’umanità. Questa parte finale del discorso di Cafarnao è un pezzo di omelia delle liturgie eucaristiche delle prime comunità. E’ quindi una meditazione su quella Cena che ogni domenica si celebrava spezzando il pane. Il testo ha il suo centro nella frase “La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda”.  La mente corre al cap. 15: «Io sono la vite voi i tralci: senza di me non potete fare nulla» che richiama la frase del v. 51 che pare essere la formula di consacrazione usata nella comunità di Giovanni: «Il pane che io do è la mia carne per la vita del mondo» che si collega all’altra «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui». Si noti l’insistenza nel brano dei pronomi personali: mio, me, lui. Si tratta di un rapporto personale. Il pranzo è in tutte le culture e religioni un simbolo di intimità e di comunione.
L’espressione “mangiare la mia carne” poteva suonare come una forma di cannibalismo impuro. Non si poteva toccare il sangue senza divenire impuri. Qui invece Giovanni addirittura anziché usare il termine normale che si usava per l’attività del mangiare, usa il verbo greco“troghein” che significa “rosicchiare, masticare”. Ma sappiamo che Giovanni usa il termine carne anziché corpo, perchè carne, nella lingua semitica-aramaica significa “tutta la persona” nella sua concretezza e limitatezza quotidiana e nella sua intimità spirituale, nella sua vita e nella sua morte. Mangiare carne e bere sangue significa partecipare alla passione e morte del Signore, alla sua Sapienza, la Sapienza della croce. Secondo Amos (8,11)c’è nell’umanità non tanto fame di pane e sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore: «Ecco, verranno giorni, – dice il Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore»).
Allora:

  • unione personale e dialogica con Gesù
  • partecipazione alla modalità concreta con cui ha condotto la sua vita
  • condivisione della sua Parola-sapienza.

Molti credono che dire “fare comunione” significhi “essere uniti”, mentre il significato etimologico del termine deriva da un lemma latino “cum-munus”, che significa “condividere lo stesso incarico, la stessa responsabilità, le stesse funzioni. Si tratta di essere come Lui, degli “uomini mangiati”.

Un racconto.
Un uomo, un giorno aveva fame, fame di pane, fame di amicizia, fame di vera vita. Egli aveva anche un po’ di pane. E mentre si accingeva a mangiarlo incontrò un affamato, affamato come lui di pane, di amicizia e di vera vita. Allora spezzò il pane e ne diede al suo compagno. Si guardarono negli occhi. Dividere il pane divenne per loro, senza dirsi nulla, il dividersi la loro fame e il parteciparsi la loro amicizia. Poi uno disse: «Ora manco solo della vera vita». E l’altro gli rispose che la vera vita non esiste. Ma intanto dividendo il pane tra loro, essi si erano divisi anche la loro comune fame di vera vita. A questo punto il primo amò tanto il suo amico che gli lasciò mangiare tutto il suo pane in modo che lui, lungo il cammino, cadde per la debolezza e morì. Il suo corpo fu il suo ultimo dono e fu come l’ultimo pane da dividere con il suo amico, come se attraverso questa nuova divisione e partecipazione avesse tentato di dargli la vera vita. E quando il secondo mangiava un pezzo di pane, questo pane diventava il ricordo, la memoria dell’amico che si era sacrificato per lui. Il suo pane era diventato l’amico stesso. Era pane sacro. Così il primo aveva diviso con l’altro il pane di frumento, il pane dell’amicizia, il pane del desiderio di una vita nuova, il pane del dono totale della vera vita.




11 agosto 2024. Domenica 19a
ALZATI MANGIA CAMMINA. IO CON TE.

 19a domenica B

Preghiamo. Guida, o Padre, la tua Chiesa pellegrina nel mondo, sostienila con la forza del cibo che non perisce, perché perseverando nella fede di Cristo giunga a contemplare la luce del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
 Dal primo libro dei Re 19,4-8
In quel tempo, Elia si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
Salmo 33 .  Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce.
L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia.
 Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Ef 4,30- 5,2
Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,41-51
I Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”. Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: ‘‘E tutti saranno ammaestrati da Dio’’. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

ALZATI MANGIA CAMMINA. IO CON TE. [1]Don Augusto Fontana

Fino a domenica 25 agosto la nostra pasqua settimanale è condotta dal capitolo 6 del Vangelo di Giovanni dove Gesù si propone come pane. A volte per descrivere una persona diciamo che “è buono come il pane”. Cioè: è una persona che sa diventare significativa per quelli che incontra. Anche oggi i nostri occhi sono puntati su Gesù: una persona necessaria e buona come il pane, soprattutto per chi sta cercando di camminare nella carità e sperimenta fallimenti e stanchezze.
Tornano le domande necessarie, sempre, davanti a questo capitolo 6° di Giovanni: «Quale fame abita la nostra esistenza? Di quale nutrimento abbiamo davvero bisogno?».

“Con la forza datagli da quel cibo, camminò …”.
La vicenda e la figura di Elia sono centrali nella fede degli ebrei, ma anche per la prima comunità cristiana che vede in Gesù il vero profeta Elia, colui che tornando sulla terra avrebbe inaugurato il definitivo Regno di Dio.  La vicenda meditata oggi, riguarda una precipitosa fuga del profeta dalla persecuzione della regina Gezabele desiderosa di introdurre anche in Israele il culto al Dio Baal. Di fatto la fuga avviene verso un monte carico di significato per la fede: il monte Horeb. Lì Elia subisce la crisi della sua vocazione, ma da lì il Signore lo fa ripartire nutrendolo con pane e acqua.
Ora basta Signore”: anche un profeta può arrivare ad un punto tale di stanchezza da coltivare la voglia di dimettersi o di chiedere al Signore di lasciarlo dormire in pace (Si coricò e si addormentò). Le nostre strade sono luoghi di crisi, di stanchezza, di scoraggiamenti. Luoghi in cui diamo le dimissioni dalla nostra profezia. Luoghi dei 6 peccati di cui parla Paolo nella seconda lettura. Vien voglia di lasciarsi andare sotto il ginepro della rassegnazione e della mediocrità. A questa stanchezza provocata non dal super lavoro ma dalla abdicazione, dal non aver più coraggio di sognare, il Signore si propone come pane.
La vita, la vita familiare, l’attività pastorale o sociale o educativa sono tutte esperienze ad alto rischio di essere intorpidite, svuotate, prosciugate. Spero che nessuno abbia provato come me questa insopprimibile voglia di rintracciare un posticino tranquillo, un cespuglio qualsiasi, sotto cui adagiare la propria stanchezza. E comunque spero che egli abbia trovato a fianco una tiepida focaccia eucaristica e una brocca d’acqua biblica o un angelo di amico che lo abbiano rinfrancato per la strada da percorrere e per il coraggio dei propri sogni: «Io sono il pane vivoSu, mangia perché è troppo lungo per te il cammino».
“mormoravano di lui…Non è il figlio di Giuseppe?”. Un Dio post-clericale.
L’incredulità attorno a Gesù si manifesta, ieri e oggi, come mormorazione per il fatto che Dio non si presenta come vorremmo noi. E l’incredulità aumenta quando Gesù si propone come nostra ragione di vita: pane di vita.  Paolo dirà: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Galati 2,20). Beato lui! Mangiare Gesù significa allora accettare di assimilarne idee, abitudini, prospettive, scelte, passioni. Non basta dire il Credo, occorre arrivare fino al punto di mangiare.
Il mormorare è un verbo biblico ad alta densità di significato. Me lo trovo anche disseminato qua e là nelle pagine della mia vita di ieri e soprattutto di oggi. Quindi non me la prendo contro i giudei che dicono a Gesù: “Ma questo qui, chi è? Chi crede di essere? È uno di noi! È il figlio di Giuseppe” o contro i farisei che mormoravano contro Gesù perché frequentava gente moralmente inaffidabile (Lc 15,2; 19,7) o contro i suoi compaesani che si scandalizzavano di lui perché ne conoscevano le umili origini paesane (Mt 13. 53-57). Né me la prendo con i discepoli che lo piantano lì, come vedremo domenica 25 agosto (Gv 6,60-69): «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”. Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: “Questo vi scandalizza?”… Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui».
«Ciò che mai digeriranno è che Dio rifiuti le scenografie giganti per mostrare chi Lui è. Mai sopporteranno che Dio parli sottovoce, in punta di piedi, a bassa voce. Loro vogliono vedere fuochi d’artificio» (Don Marco Pozza).
Il quindicinale cattolico statunitense National Catholic Reporter nel 2018 pubblicava una Lettera Aperta ai vescovi americani, in vista dell’Assemblea della Conferenza episcopale, nella quale, tra l’altro, scriveva: “Presentatevi in abiti civili e lasciate a casa tutti i finimenti, i collarini, le talari, le croci di seta e pizzo e le croci pettorali. Dio vi riconoscerà. Fate questo piccolo passo in umiltà e incontratevi come fratelli[2].
Disse Enzo Bianchi: «gli uomini, soprattutto gli uomini «religiosi», sono sempre pronti a plasmarsi un vitello d’oro (cf. Es 32,1-6), un Dio manufatto secondo i loro bisogni e desideri… No, noi cristiani andiamo a Dio attraverso Gesù, «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15): narrando Dio con la sua vita, Gesù ha giudicato tutte le immagini e i volti di Dio che gli uomini si fabbricano con le proprie mani: ormai ciò che di Dio può essere conosciuto e predicato è ciò che è stato vissuto e predicato da Gesù».[3]


[1] Suggestioni da A. Pronzato, Parola di Dio ciclo B, Gribaudi, 1990
[2] Loic De Kerimel, En finir avec le cléricalisme, Ed Seuil, 2020, pag. 249
[3] Enzo Bianchi, Dire il Dio di Gesù Cristo, Milano, 8 aprile 2011 Basilica di S. Ambrogio




4 agosto 2024. Domenica 18a
DAL DONO AL DONATORE

18 domenica B –

Preghiamo. O Dio, che affidi al lavoro dell’uomo le immense risorse del creato, fa’ che non manchi mai il pane sulla mensa di ciascuno dei tuoi figli, e risveglia in noi il desiderio della tua parola, perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore. Per Gesù Cristo il nostro Signore. Amen.
Dal libro dell’Èsodo 16,2-4.12-15
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”». La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?» (Man hu’= מָן הוּא), perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».
 Salmo 77  Donaci, Signore, il pane del cielo.
Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato
non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura
le azioni gloriose e potenti del Signore  e le meraviglie che egli ha compiuto.
Diede ordine alle nubi dall’alto e aprì le porte del cielo;
fece piovere su di loro la manna per cibo e diede loro pane del cielo.
L’uomo mangiò il pane dei forti; diede loro cibo in abbondanza.
Li fece entrare nei confini del suo santuario, questo monte che la sua destra si è acquistato.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 4,17.20-24
 Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.  Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,24-35
 In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «Amen, Amen io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura (perisce, si rovina) ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».  Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «Amen, Amen io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».  Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

DAL DONO AL DONATORE. Don Augusto Fontana

Può capitare nei matrimoni aristocratici: lei trentenne si “innamora” di un ottantenne e si sposano; con un occhio a villa principesca e yacht lussuosissimo più che per afflato amoroso. Ma capita anche a noi, comuni mortali di essere grati di un dono ma sfuggenti nell’abbraccio al donatore. Anche con Dio. Il proliferare, in certi settori ecclesiali, di pratiche affini alla magia per conseguire guarigioni e assicurarsi il favore del Signore, prova che l’equivoco sul pane che Gesù offre è sempre attuale[3].
Così a Cafarnao… Gesù disse loro: « voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati…. Io sono il pane della vita… il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
Scriveva il biblista Fausti[4]: «Non desiderano tanto lui, quanto ciò che da lui viene. Sono come i polli che vanno dietro alla massaia per amore del becchime.
Israele, il primo giorno che entrò nella terra promessa, disse: «Che buono Dio!»; e danzò e tacque di stupore.
Il secondo giorno disse: «Che buono Dio, che ci ha dato la terra!»; e cantò e guardò con gioia il cielo e la terra.
Il terzo giorno disse: «Che buona la terra che Dio ci ha dato!»; e guardò con piacere la terra e il cielo.
Il quarto giorno disse: «Che buona la terra!»; e guardò con avidità la terra.
Il quinto giorno tacque, dimenticò il Padre e guardò con invidia il vicino.
Nel sesto giorno ognuno cominciò a litigare con il fratello, per ampliare i propri confini. Così ebbe ini­zio, e continuò, tutto ciò che leggiamo nei libri di storia e sui giornali: furti e omicidi, imbrogli e menzogne, violenze e ingiustizie, oppressioni e mali di ogni tipo. Il giardi­no divenne deserto e tutti finirono in esilio, senza terra, senza Padre e senza fratelli».

Dunque pare che la gente cerchi di mangiare a sbafo, di aggirare la condizione umana del “Con dolore trarrai dal suolo il cibo per tutti i giorni della tua vita. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Genesi 3, 17-19).
Dicono “Signore, dacci sempre questo pane”, intendendo il pane gratis senza oneri; l’equivoco si ripeterà al pozzo di Giacobbe con la samaritana (Gv 4,15): «Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».
Pane, acqua. Ma quale pane e quale acqua? Tornano le domande di necessarie, sempre, davanti a questo capitolo 6° di Giovanni: «Quale fame abita la nostra esistenza? Di quale nutrimento abbiamo davvero bisogno?». «L’uomo non vive di solo pane, ma vive di ciò che esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3; cfr. Mt 4,4)

Io-sono il pane della vita…Io-sono acqua viva”.

Cibo che dura per la vita eterna…Pane della vita potremmo tradurlo come “pane vitale”, “pane che dà la vita[5]. Quella dopo la morte, ma anche quella prima della morte, come scrive Giovanni nella sua prima Lettera (3,14): «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte».
Gesù si era presentato come colui che dà il pane, ora si identifica con il pane: «Io sono il pane». «Man­giarlo» significa assimilarlo, o meglio, esserne assimilati, per vivere di lui e come lui.
Già Ezechiele (3,1-3) riceve dal Signore uno strano ordine: “«Figlio d’uomo mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele».  Così io apersi la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo.  Poi mi disse: «Figlio d’uomo, ciba il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti do». Così io lo mangiai e fu nella mia bocca dolce come il miele”.
E Geremia (Ger 15,16) confessava al Signore: “Quando trovai le tue parole, le divorai con avidità; la tua parola fu per me una gioia e una letizia per il mio cuore”.
Anche il salmista canta: «Quale dolcezza al mio palato le tue promesse, Signore, più che miele nella mia bocca» (Salmo 119,103).
Come anche per l’autore di Apocalisse (10, 8-11):  Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: «Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra». Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: «Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele».  Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza. Allora mi fu detto: «Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni e re»”.
Credere verso…
L’omelia di Cafarnao punta sul verbo “credere in…” (nel testo greco “Pisteuein eis”= credere verso…) che indica l’orientamento della vita verso la persona di Gesù, come l’ago della bussola è sempre puntata verso il polo magnetico.  Credere è l’opera per eccellenza di Dio, che supera ogni nostro agitarci religioso.  Anche se questa opera assoluta, altrove è meglio specificata; in Luca la predicazione di Giovanni Battista suscita una domanda che è molto simile a quella che esce dalla bocca della folla qui a Cafarnao, e cioè Che cosa dobbiamo fare?”.
Giovanni Battista rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?”. Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Si direbbe che la domanda attraversa varie volte i Vangeli: Mt 19,16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Mc 10:17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Lc 10:25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Lc 18:18 Un notabile lo interrogò: «Maestro buono, che devo fare per ottenere la vita eterna?». E le risposte di Gesù, secondo i Sinottici, sono unificabili in: «Vai, vendi, dai ai poveri poi seguimi!…Fatti prossimo ».
Pare che Giovanni voglia intensificare un’opera di interiorizzazione: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Che non esenta dall’amore concreto.
Pane parlante.
Scriveva Enzo Bianchi: «Gesù si presenta come cibo in quanto Parola, Parola del Padre, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), Parola discesa dal cielo. La Parola di Dio è sempre stata letta nell’Antico Testamento come cibo, pane che dà la vita all’umanità (cf. Is 55,1-3; Pr 9,3-6, ecc.); ma ora questa Parola, detta molte volte e in diversi modi nei tempi antichi agli esseri umani tramite Mosè e i profeti (cf. Eb 1,1), è un uomo: è Parola di Dio umanizzata in Gesù di Nazaret. In questo senso Gesù si consegna agli umani quale “pane della vita”, pane che porta la vita.
Questo linguaggio è talmente vertiginoso che non è possibile commentare tali parole di Gesù: vanno solo accolte in adorazione. Gesù, sì, proprio Gesù, un uomo, un ebreo marginale di Galilea, il figlio di Maria e di Giuseppe, proveniente da Nazaret, è in verità la Parola di Dio e, in quanto tale, è cibo, pane per la nostra vita di credenti in lui. Chi può dire di essere in grado di capire e sostenere queste parole? Chi può dire di essere credente in questo modo? Certo, possiamo dire e cantare che Gesù è il pane della vita, possiamo pregare dandogli del tu e confessandolo quale nutrimento per la nostra esistenza, ma poi dobbiamo sentire che queste parole trascendono la nostra mente e il nostro cuore: noi aderiamo a lui, ma a tratti e mai pienamente… In ogni caso, forse il Signore ci chiede solo che tentiamo di dire e ridire queste parole; e di farlo sapendo che solo il suo dono, la sua grazia ci permette di renderle parole dette per ciascuno di noi in modo personalissimo, cioè come soltanto il Signore ci conosce. Possiamo però almeno intuire che, se davvero si crede a queste parole di Gesù, allora nel quotidiano, assimilando quel pane di vita che egli è, ci si fa pane per gli altri, in una semplice e feriale pratica di umanità».


[3] Fernando Armellini, Settimana news, http://www.settimananews.it/ascolto-annuncio/xviii-annum-un-pane-dona-la-vita-eterna/
[4] S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Giovanni, I, EDB, 2003
[5] Michele Mazzeo, Vangelo e lettere di Giovanni, Paoline, 2007, pag 195.




28 luglio 2024. Domenica 17a
DAL SEGNO DEI PANI AL PANE COME SEGNO

XVII domenica B

 Preghiamo. O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal secondo libro dei Re 4, 42-44
In quei giorni, da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Dal Salmo 144 (145).  Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza. R/.
Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente. R/.
Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità. R/.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni  4, 1-6
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Dal Vangelo secondo Giovanni  6, 1-15
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

DAL SEGNO DEI PANI AL PANE COME SEGNO[1]. . D. Augusto Fontana

La liturgia domenicale oggi interrompe ancora una volta la Lettura continua del Vangelo di Marco e ci squaderna il capitolo 6 di Giovanni che verrà proclamato quasi per intero fino a domenica 25 agosto. E’ la volta buona per leggere fin da oggi tutto il capitolo 6 per intero.
Pane per chi ha fame e fame per chi ha pane. Quale fame abita la nostra esistenza? Di quale nutrimento abbiamo davvero bisogno?
Il segno dei pani, unico segno narrato 6 volte da tutti gli evangelisti (due volte in Mc e Mt e una volta in Lc e Gv) è riletto da Giovanni con originalità. Al di là delle differenti accentuazioni tutti gli evangelisti interpretano il fatto in senso eu­caristico/pasquale.
Il capitolo 6 costituisce un punto nodale del quarto Vangelo. Eppure pare che abbia avuto una genesi un po’ faticosa; pare che sia un testo inserito tardivamente nel quarto Vangelo, l’unico che non conteneva il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.
L’evento è situato nel tempo di Pasqua e ….al di là del mare di Galilea, di Tiberiade, in quell’ansa del lago che sta tra Cafarnao e Tiberiade, che può essere attraversata in barca o percorsa a piedi sulla riva. Sono chiare allusioni all’esodo.
Tutto il c. 6 è un gioco di equivoci sul pane, come nel cap. 3 con Nicodemo sul «na­scere» e nel cap. 4 con la Samaritana sull’«acqua». L’equivoco nasce da un doppio senso: una parola ha un significato comune, ma anche un altro significato più importante e più profondo da scoprire. La lettura “simbolica” della realtà fa la differenza tra l’uomo e l’ani­male. Ogni cosa non rappresenta solo se stessa, ma anche rimanda ad altro. Chi non lo coglie, è un «uomo animale» (come dice S. Paolo), che non capisce le cose di Dio, ma neppure quel­le dell’uomo. Il fine del lavoro dell’uomo è mangiare per vivere. Ma come si mangia? L’animale consuma il suo pasto da solo alla greppia, o contende la preda con il rivale. L’uomo invece è fatto per mangiare abitualmente in modo conviviale. Il fast food, consumato in solitudine, soddisfa la fame dell’animale, ma non quella dell’uomo. C’è dunque pane e pane. C’è quello che si compra e si vende, per il quale si litiga e si uccide. Non è certo questo che fa vivere; ad esso, anzi, si sacrifica la vita. C’è però anche quello che si riceve e si condivide con i fratelli, in reciproco amore, che fa dei nostri bisogni il luogo di relazione e di comunione. Non sarà mai a sufficienza meditato il senso della domanda del Padre Nostro: «Dacci oggi (Luca 11,8: “ogni giorno”) il nostro pane “epiousion”» (Matteo 6,11) che banalmente viene tradotto con “pane quotidiano”, ma che letteralmente significa “pane sostanziale, essenziale”.
La composizione del testo.
Inizia con due racconti, uno sul monte (vv.1-15) e l’altro nel mare (vv.16-21); segue il discorso/dibattito sul vero pane (vv. 26-59), che porta all’accettazione o al rifiuto di Gesù, alla confessione di Pietro o al tradimento di Giuda (vv. 60-71).
Al centro del capitolo c’è «il pane», nominato 21 volte (su 25 in tutto il Vangelo di Giovanni). Come l’acqua e l’aria, anche il pane è sim­bolo primordiale di vita: lo si mangia per vivere. Ma, a differenza dell’acqua e dell’a­ria, non è solo dono della terra e del cielo; è anche frutto di lavoro, condito di gioia e fatica, di speranza e sudore.
Il segno di Gesù non può essere com­preso che alla luce della contrastante reazione che la sua parola suscita negli ascoltatori. Nel con­trasto fra i due tipi di lettura del segno si rivela chi è Gesù[2]. L’apertura e la conclusione del racconto, rivelano dove sta il contrasto tra le due “letture del segno”: all’inizio una grande folla segue Gesù «vedendo i se­gni che faceva sugli infermi» (v. 2); alla fine solo i Dodici rimangono, profes­sando la loro fede nella Parola: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68­-69). Dalla fede fondata sui segni, alla fede fondata sulla Parola; dalla fame di pane alla comunione personale con Gesù: questo è il percorso che il segno sollecita a compiere.
Al centro, Gesù.
Giovanni, ritoccando il racconto si­nottico, concentra la sua narrazione su Gesù che assume l’iniziativa di tutto ciò che avviene. Ha cura dei presenti senza attendere la sollecitazione dei discepoli (v.5); è lui che distribuisce personalmente il pane (vv. 10-11); infine ordina che siano «radunati» i pezzi avanzati (v. 12). Questo modo di narrare cela un’intenzione teologica. Giovanni intende così mostrare che Gesù, oltre a farsene dispensatore, è lui stesso quel pane donato. Il percorso da compiere non è semplicemente dal dono al donatore; occorre comprendere che il donatore si rende presente in ciò che dona, perché non offre altro che se stesso. Dal segno dei pani bi­sogna giungere al pane come segno di Gesù.
In comunione con il Padre.
Sul monte Gesù si ritira per cercare la comunione con il Padre ed è da questo luogo che, «alzati gli occhi, vide una grande folla ve­nire a lui» (v. 5). Nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca, Gesù “alza gli occhi al cielo” subito prima di rendere grazie sul pane e distribuirlo; in Giovanni invece “alza gli occhi sulla folla”. In tutta la Bibbia e anche nel vangelo di Giovanni tutte le volte che “si alzano gli occhi” succede qualcosa. La domanda è: forse non succedono più alcune cose perché non alziamo gli occhi?
La prova per i discepoli.
Nella sua iniziativa Gesù coinvolge i discepoli, attraverso il dialogo che in­tesse con due di loro. Dapprima si rivolge a Filippo, «per metterlo alla pro­va» (v. 6). La prova di Dio, nella Bibbia, assume di so­lito un duplice significato: discerne ciò che c’è nel cuore dell’uomo e sag­giandolo lo purifica, per condurlo ad assumere il pensiero di Dio.  Gesù «sapeva bene quello che stava per fare» (v. 6).  Filippo, messo alla prova, mostra subito la sua incredulità: pani per duecento denari… Il denaro è la paga per una giornata di lavoro per un operaio, quindi 200 denari sono lo stipendio di sei mesi; forse è il denaro che avevano nella cassa? Entra in scena Andrea, fratello di Pietro, il quale dice : C’è qui un ragazzino che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma che è questo per tante persone? Il ragazzino non c’è nei Sinottici. L’evangelista insiste dicendo che c’erano solo adulti (5.000 adulti). In quella situazione di mancanza di pane, l’unico che ha qualcosa è un ragazzino, un povero, un debole, uno che conta nulla. Ci sono 12 apostoli e 5000 adulti che hanno niente; solo quel ragazzo ha pani e pesci.
Da dove?
«Dove [letteralmente nel testo greco: “da dove”] possiamo comperare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». In greco risuona l’avverbio pothen (da dove), che nel Vangelo di Giovanni ricorre frequentemente con un accentuato significato cristologi­co[3], per designare Gesù nel suo venire dal mistero di Dio. A Cana si narra che il maestro di tavola non sapeva «da dove venisse il vino» (2,9). La donna di Samaria domanda a sua volta a Gesù: «Signore, tu non hai un mezzo per at­tingere e il pozzo è profondo; da dove dunque hai quest’acqua viva?» (4,11). Gesù ave­va affermato solennemente la sua origine dal Padre, origine contestata dai giudei che si fermano alla «carne» dicendo di conoscere la famiglia: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo? » (6,42).  Il pane vero che sazia l’uomo, come il vino di Cana e l’acqua di Sa­maria, proviene da quel «dove» che è il Padre. Dice Gesù: «Io so da dove vengo e dove vado» (8,14). Durante il processo ro­mano Pilato indagherà l’identità di Gesù con il medesimo avverbio: «Da do­ve sei?» (19,9).
Niente, poco, tutto.
L’origine di questo dono non sostituisce l’agire del­l’uomo. Anche in questo consiste la prova alla quale i discepoli vengono sottoposti. La domanda di Gesù evidenzia la loro impossibilità: due­cento denari non basterebbero per comperare pane sufficiente per tutti, e cin­que pani di orzo e due pesci, che cosa sono per tanta gente? Per Filippo e Andrea se non si ha abbastanza, nulla è possibile. Il poco equivale a niente; tanto vale quindi non impegnarsi. Gesù con il suo ge­sto capovolge la prospettiva: il poco che si possiede può essere comunque do­nato. Che siano duecento denari o cinque pani, il calcolo da fare non è se sia­no sufficienti, ma se si è capaci di investirli totalmente. Il gruppo di Gesù […] dà tutto quello che può, il ragazzino offre tutto quello che ha, la folla riceve tutto quello che chiede. […] In definitiva: se io do tutto quello che ho, il mio prossimo riceverà tutto quello che desidera. Il «se avessi di più» viene spazzato via da questa operazione[4]. Quando si dà tutto, è come se si donasse la propria vita. Al pari della vedova di cui parla­no Marco e Luca, la quale, gettando nel tesoro del tempio tutto quello che aveva, donava di fatto la propria vita (Mc 12,41-44; Lc 21,1-4), Gesù fa di questo gesto il segno dell’offerta totale di sé.
Radunate i frammenti.
Gesù dice ai discepoli: Radunate i frammenti avanzati : Radunate (il verbo greco è sunagô da cui deriva sinagoga) i frammenti (klàsmata). Nel testo della Didachè, anteriore a Giovanni, al cap. 9,4 si dice che, fatta l’eucarestia, si devono raccogliere i frammenti (sunagèin klàsmata). La comunità è sempre da costruire, anche dopo il rito.
C’è Pane e pane.
Papa Francesco ha citato spesso la teoria economica, dello «sgocciolamento» («trickle-down»), secondo la quale i benefici concessi alle classi più abbienti – ad esempio dal punto di vista fiscale – favoriscono l’intera società e «sgocciolano» anche sui poveri. In sostanza, secondo questa tesi, quando il liquido (la ricchezza) all’interno del bicchiere cresce, ad un certo punto tracima e sgocciola in basso, provocando ricadute favorevoli sia sulla classe media come sui più poveri. Francesco ne aveva parlato al numero 54 dell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium (novembre 2013): «Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare».  Seppure indiretto, un riferimento a queste teorie lo si ritrova anche nella enciclica «Laudato si’»: «Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui». A queste citazioni si è poi aggiunto un capoverso del discorso ai movimenti popolari, che Francesco ha tenuto a Santa Cruz de la Sierra il 9 luglio 2015, durante il viaggio in Bolivia. Un testo che può essere considerato una «mini-enciclica» sociale. Il Papa ha dapprima osservato: «L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. È un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. È una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo». Quindi ha aggiunto, con evidente riferimento alla teoria del «trickle-down»: «Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie. Non potranno mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».


[1] Fonti utilizzate: articoli di L. Fallica, B. Rossi, B. Maggioni in  PAROLE DI VITA  n. 2/2004.
[2] B. MAGGIONI, «La moltiplicazione dei pani», in M. MASINI (ed.), La parola per l’assemblea festiva. Diciassettesima domenica «per annum», Queriniana, Brescia 1972, 82.
[3] Sono 13 ricorrenze: 1,48; 2,9; 3,8; 4,ll; 6,5; 7,27 (2 volte); 7,28; 8,14 (2 volte); 9,29; 9,30; 19,9.
[4] P. BEAUCHAMP, «Le signe des pains», in Lumiere et vie 209 (1992) 57.




21 luglio 2024. Domenica 16a
CELEBRARE TEMPI DI RESPIRO. INSIEME.

16 domenica B

Preghiamo. Dona ancora, o Padre, alla tua Chiesa, convocata per la Pasqua settimanale, di gustare nella parola e nel pane di vita la presenza del tuo Figlio, perché riconosciamo in lui il vero profeta e pastore, che ci guida alle sorgenti della gioia eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Geremia 23,1-6
“Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo”. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: “Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una”. Oracolo del Signore. “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con cui lo chiameranno: ‘‘Signore-nostra-giustizia’’”.
Salmo 22. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 2,13-18
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Dal Vangelo secondo Marco 6,30-34
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

CELEBRARE TEMPI DI RESPIRO. INSIEME.  Don Augusto Fontana

«Anche gli animali avevano preteso da Domineddio il diritto alla domenica. “Cosa volete?” chiese il Signore. “Per me la domenica – disse il leone – è un gran bel mangiare la preda che afferro”. Il ghiro: “Per me è un gran bel dormire”. La scimmia: “Un gran bel ballare di ramo in ramo”. Il pavone: “Un grande sfoggio della mia ruota passeggiando in su e in giù”. E il maiale: “ Rigirarmi nella pozzanghera e poi asciugarmi al sole”. Furono accontentati. Ma poche domeniche dopo si presentarono tutti col muso lungo davanti al Creatore: “Queste domeniche non ci accontentano…”. “Sapete perché? – disse il Signore – Perché non avete capito che per fare domenica occorre qualcuno con cui stare insieme e parlare cuore a cuore”»[1].  Le favole sono il sorriso della sapienza innocente. O sogni di terre senza luogo? L’ho narrata a un giovane, di quelli che a fine settimana lavora con un “contratto week-end”, part-time verticale: 20 ore settimanali concentrate al sabato e alla domenica per uno stipendio di 600 euro al mese. Ultima ed estrema formula di lavoro flessibile. La favola franò in un silenzio senza sorriso, eloquente di perplessità. Forse – pensai – non si era sentito troppo onorato nel trovarsi classificato tra scimmie e maiali. O forse sognava un’improbabile domenica, una distesa sconfinata di tempo per un riposo sabbatico tra gente riunita a danzare la vita, a celebrare silenzi e memoriali di Dio, futuri cieli e terre nuove. Entrai in quegli occhi. Gli stessi dell’amico medico in turno di guardia dal sabato sera al lunedì mattina; stessi occhi delle lavoratrici con famiglia, casalinghe della domenica per condanna o per amore; stessi occhi dell’assonnato doppio-lavorista che incontro al bar mentre vado all’assemblea del Giorno del Signore.
In quegli occhi la domenica fa problema; per necessità indotte, fittizie, reali, invincibili. Problema di chiesa, ma non meno che di vissuto collettivo: siamo rassegnati in attesa che giunga da chissà quale Messia la saggezza di salvare, anche per noi preti, dei tempi di riposo per “essere” e per “stare insieme”. Attesa di celebrare il nostro fiato all’unisono con il solido respiro Pasquale del Signore: «In sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo giorno ha cessato e ha ripreso fiato» (Esodo 31,17. In ebraico: nefesh non significa “riposo” ma “fiato, respiro”). Riposarsi, prendere fiato (Spirito), respirare profondo: non è un’oziosa eccezione per divinità borghesi, ma vocazione universale per creature interpellate dal Qoelet: «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?»[2]. Il profeta Amos (8,11)  gridava: «Verranno giorni, dice il Signore, in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane nè sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore».
Il Catechismo della Chiesa cattolica ricorda:«Le necessità familiari o una grande utilità sociale costituiscono giustificazioni legittime di fronte al precetto del riposo domenicale[3]. I fedeli vigileranno affinchè legittime giustificazioni non creino abitudini pregiudizievoli per la religione, la vita di famiglia e la salute».
Si riunirono attorno a Gesù.
«Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro:  «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’».  Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare» (Marco 6, 30-31). Il testo di Marco appartiene ai Sommari; brevi passaggi di testi che servono a concentrare i temi precedenti e lanciare le pagine successive. Il testo della liturgia odierna nasce dall’invio in missione e si concluderà con la sezione dedicata al deserto, al pane donato in abbondanza, al gregge disperso che morirebbe sfinito senza l’efficace compassione di Gesù pastore.
Una missione, dunque, si è compiuta; da Marco non si sa come sia andata. Per Luca, invece[4], pare che sia andata bene, visto che ha voluto annotare la gioia dei discepoli, che contagia anche Gesù. Marco, più sobrio, mette in bocca a Gesù l’invito a seguirlo nel riposo. E’ una vocazione: “Venite!”. Ha bisogno di ripetere alla sua comunità di non illudersi delle masse che si accalcano: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore» (Salmo 127,1). Già nel suo primo capitolo l’evangelista Marco aveva annotato che Gesù, di fronte alla pressante ricerca delle folle, adotta due scelte: non lasciarsi  “catturare” (Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava) e non lasciarsi “addomesticare” in un cortile (Andiamocene altrove per i villaggi vicini). Inoltre Gesù spesso sente il bisogno di formare la sua comunità, di permetterle di sondare meglio la sua vita e le sue parole. In queste annotazioni di Marco c’è spazio per i mistici, ma anche per chi, come me, molto più prosaicamente ha bisogno di essere allertato sul rischio di diventare vedette o robot. E forse c’è posto anche per noi condannati dal rumore e dal lavoro. Pecore senza pastore, degne più di una compassione profetica («Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»[5]) che di una staffilata moralistica. Mosè aveva chiesto al Signore di mettere a capo della comunità di Israele «un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore» (Numeri 27,17). Eccolo questo pastore. Non come i pastori demagoghi che Geremia individua nel suo capitolo 23: succubi di alleanze scriteriate e di interessi privati in pubblica pastorale. Non mi sottraggo al fastidio di essere stato smascherato dal veggente profeta.  Eccolo dunque questo pastore carismatico capace di empatia e di sorprendente operosità.
Danza seppur con la schiena piegata!
Diastole e sistole, espansione e concentrazione, vita e celebrazione: sono sfide che hanno albe lontane. «Mosè disse a faraone: «Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio!». Il re di Egitto disse : «Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori! Fannulloni siete; fannulloni! Per questo dite: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni» (Esodo 5,3-18)….Il Signore disse: «Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo assoluto, sacro al Signore» (Esodo 35).
Triplice è l’alienazione del lavoro che altera i lineamenti dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio: la schiavitù, l’idolatria (del lavoro e dei suoi prodotti), il parassitismo.
Gli uomini della Bibbia, a cui non si può certo rimproverare un eccessivo spiritualismo o ideologismo, hanno spesso collegato il lavoro alla festa e alla gioia. Accostamento per noi, oggi, troppo ardito e incomprensibile. Il lavoro aveva le sue soddisfazioni e comunque era innervato di feste religiose: festa degli azzimi, festa delle settimane, festa delle capanne. L’uomo che lavora con la schiena piegata è anche un uomo che danza e celebra eretto davanti al suo Dio. Dopo l’Esodo, le feste assumeranno un valore celebrativo di eventi meno naturali e più storici. La festa è speranza che apre uno squarcio su terre e cieli nuovi che, dopo aver valorizzato la laboriosità dell’uomo, mostreranno la gratuità di Dio allo stato puro: «O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» (Isaia 55, 1-2; cf. Isaia 65, 17-23).
La richiesta del popolo, avanzata tramite Mosè, è limitata nel tempo e nello spazio: chiedono solo un breve tempo per celebrare, per riposare. Una liberazione totale non riescono neppure a sognarla e tanto meno ad esigerla. Ma in quella richiesta aleggia una religiosità «pericolosa», una turbolenza nello scorrere indiscusso di un’organizzazione economico-politica. Il faraone adduce motivi religiosi per mascherare la sua insicurezza politica: «Chi è JaHWeH perchè io debba obbedirgli?» (Es.5,2). Mosè ed Aronne vengono denunciati come agitatori che incitano allo sciopero. Il faraone interpreta il culto degli ebrei come ozio, mancanza di produttività, frode. Il riposo connesso con il culto viene dichiarato un’intollerabile scardinamento dell’organizzazione produttiva. Inizia così una fase più dura di sfruttamento. Il capitolo 26 del libro del Deuteronomio potrebbe aiutarci a cogliere il rapporto tra liturgia e lavoro, tra i sei giorni e il settimo. Mosè si rivolge ad Israele nella sua situazione di benessere, nella sua vita normale quotidiana, nella sua vita di comunità pasquale e di liturgia vissuta intorno al Tempio.  Il capitolo 26 regolamenta il dono delle primizie e delle decime dei frutti del lavoro. E’ una catechesi che fa risaltare lo spirito profondo che il Signore vuole da Israele: spirito religioso, ma anche sociale, spiritualità ma anche giustizia distributiva, spirito imprenditoriale ma anche di amore espansivo. La fede celebrata nella liturgia nasce dalla fede sperimentata nella storia. Le primizie devono essere consegnate al levita e allo straniero attraverso un rito liturgico e non come semplice atto amministrativo, fiscale, burocratico. Si dichiara così che la vita è possibile solo perché Dio ha donato la sua terra: «Ho portato le primizie dei frutti del terreno che Tu, Signore, mi hai donato». L’adorazione a Dio è strettamente legata ad un godimento dei beni, ma non egoistico: «Di ogni bene che il Signore ti ha dato ne godrai tu, la tua famiglia, il Levita e lo straniero che abita fra voi».  Anche la decima parte dei beni o dei guadagni veniva portata ogni anno al tempio e ogni 3 anni veniva deposta fuori dalla porta di casa e messa a disposizione di leviti, immigrati, orfani e vedove; viene considerata «cosa sacra» per cui se fosse trattenuta in casa per egoismo produrrebbe un sacrilegio[6]. Il Signore ha posto una tensione inarrestabile e progressiva in questa dinamica di dono, terra, suolo, lavoro, frutti, liturgia, giustizia-carità, comunione, gioia festosa: è vera storia e storia della salvezza il cui centro e fonte è la Liturgia che rimane veramente il luogo privilegiato del farsi continuo della giustizia-carità attraverso il dono divino ed il lavoro umano in sinergia ed ininterrotta cooperazione.
E’ la logica del sabato oggi (2024) violentato da massacri di civili, da odio e sangue. Un ebreo aveva scritto: Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele. La nostra contraddizione è che ci lamentiamo di non avere più tempo, che i nostri rapporti si sono imbarbariti, che non troviamo più il senso di ciò che facciamo e che abbiamo perso la qualità della vita. Di fatto ci è stato donato un giorno per tutto questo. Giorno per stare con il Signore, giorno della assemblea, giorno del riposo, giorno del senso. Più che un luogo (la chiesa) ci è stato donato un tempo (un giorno). Donare tempo è donare vita. Gli ebrei vivevano il sabato come dono di una “decima del tempo” a colui che viene celebrato come Signore della vita e Pastore della Chiesa. Tempo di rivelazione che “Dio è in mezzo a noi”, tempo di recupero della coscienza di appartenere ad un popolo.  “Come è bello e gioioso che i fratelli stiano insieme” (Salmo 133). In giorno di sabato veniva chiamato “esodo settimanale”, Menuchah cioè armonia, quiete, felicità, shalom, delizia, gloria. Come cura contro le nostre nevrosi. Giorno in cui si scopre che Dio abita la sua creazione. E’ giorno di santificazione. Giorno di “anima supplementare”. Giorno di scoperta che l’uomo ha un limite: sta qui il senso della proibizione di non andare oltre una distanza di 1 Km appunto per recuperare un nuovo rapporto con gli oggetti e le persone che lo circondano. Giorno per eccellenza dell’ascolto della Parola del Signore. Giorno della convivialità: tutti, il giorno prima, dovevano aiutare la donna a pulire e cucinare perchè anche la donna fosse libera di godere il piacere del riposo e della convivialità. Stare in riposo e celebrare insieme è un’arte da imparare. Non c’è domenica senza assemblea: non gli uni senza gli altri, non qualcuno al di sopra degli altri, non gli uni contro gli altri, ma gli uni per gli altri.  Nel 1998 veniva pubblicata la Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II,  “Il Giorno del Signore”: «Il legame tra il giorno del Signore e il giorno del riposo nella società civile ha una importanza e un significato che vanno al di là della prospettiva propriamente cristiana.  L’alternanza infatti tra lavoro e riposo, inscritta nella natura umana, è voluta da Dio stesso: il riposo è cosa «sacra», essendo per l’uomo la condizione per sottrarsi al ciclo, talvolta eccessivamente assorbente, degli impegni terreni e riprendere coscienza che tutto è opera di Dio. … Resta anche nel nostro contesto storico l’obbligo di adoperarsi perché tutti possano conoscere la libertà, il riposo e la distensione che sono necessari alla loro dignità di uomini, con le connesse esigenze religiose, familiari, culturali, interpersonali, che difficilmente possono essere soddisfatte, se non viene salvaguardato almeno un giorno settimanale in cui godere insieme della possibilità di riposare e di far festa.  Ovviamente, questo diritto del lavoratore al riposo presuppone il suo diritto al lavoro. Attraverso il riposo domenicale, le preoccupazioni e i compiti quotidiani possono ritrovare la loro giusta dimensione: le cose materiali per le quali ci agitiamo lasciano posto ai valori dello spirito; le persone con le quali viviamo riprendono, nell’incontro e nel dialogo più pacato, il loro vero volto.  Le stesse bellezze della natura – troppe volte sciupate da una logica di dominio che si ritorce contro l’uomo – possono essere riscoperte e profondamente gustate. Dato poi che il riposo stesso, per non risolversi in vacuità o divenire fonte di noia, deve portare arricchimento spirituale, più grande libertà, possibilità di contemplazione e di comunione fraterna…  In breve, il giorno del Signore diventa così, nel modo più autentico, anche il giorno dell’uomo. La domenica deve anche dare ai fedeli l’occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato.  L’Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini».
San Bernardo ai monaci che volevano darsi a pieno ritmo nella dire­zione spirituale, affermava: «La differenza tra un serbatoio e un canale è la seguente: mentre il canale scarica tutte le sue acque appena le riceve, il serbatoio attende fino a quando è colmo; dà ciò può dar via senza impoverirsi. Ora nel­la Chiesa ci sono molti canali, ma pochissimi serbatoi».

Se Israele osservasse perfettamente un solo sabato, il Messia verrebbe subito” (Midrash Esodo Rabbah).


[1] Giuseppe Piozzi Il giorno del Signore, Edizioni S.Paolo, Cinisello Balsamo 1997,  pag. 8-9.
[2] Qoelet 1, 3.
[3] Il riposo domenicale nasce da un processo di sabbatizzazione del Primo Giorno dopo il Sabato (la Pasqua di Gesù) che, inizialmente, rimase giorno di lavoro. La legge del riposo fu introdotta ufficialmente da Costantino nel 321. Ma i Padri della Chiesa non furono molto entusiasti: «E’ lo spirito che deve riposare astenendosi dal peccato».
[4] Luca 10, 17-20.
[5] Matteo 11, 28
[6] Cfr. anche Malachia 3,7-9




14 luglio 2024. Domenica 15a
DUE SANDALI AL VANGELO

15 domenica B

Preghiamo. Donaci, o Padre,  di non avere nulla di più caro del tuo Figlio,  che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Amos 7,12-15
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
 Salmo 84  Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni1,3-10
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
 Dal Vangelo secondo Marco 6,7-13
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. 

DUE SANDALI AL VANGELO. Don Augusto Fontana

«I cristiani devono essere poveri – pare che abbia detto un noto presule polemista – ma la chiesa deve essere ricca». Che è come dire: frate povero in ricco convento. Legittimo richiamo a chi è costretto come me alla protesi del portafoglio; ma non è un convincente sdoganamento per la chiesa. Paradossi. Sarebbe come dire, invertendo i fattori: chiesa povera per cristiani ricchi. Qualche volta accade. Per mia colpa, mia grandissima colpa.
«Cammina davanti a me».
«Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E comandò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (Marco 6, 7-9). E’ il nostro breviario di viaggio, come lo definisce Silvano Fausti[1]. Sembra un ordine più che un consiglio. L’apostolo Pietro, ricordandosi di questo comando, non s’era organizzato l’8 per mille e aveva detto ad un paralitico: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3,6). C’era abituato fin dalle campagne di evangelizzazione che Gesù faceva sperimentare ai suoi come un’aquila che insegna ai piccoli a volare. I Dodici non sono depositari unici di quella missione “ed incominciò a mandarli a due a due”. Il Vangelo è affidato alle mani di tutti e non solo di pochi preti o catechisti. L’evangelista Luca, infatti, allarga la platea: «Il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Luca 10,1).
Camminare davanti a lui. Gesù li aveva chiamati perché “stessero con lui” e “camminassero dietro di lui. Ogni passo in meno o in più avrebbe portato i discepoli alla deriva. Ora li manda avanti come battistrada. C’è una pedagogia del Signore, in tutto questo? La tradizione rabbinica direbbe di sì, come mi pare sostenga Alberto Mello[2]. I genitori camminano “con i figli” più piccoli assumendone gli stessi passi senza anticipi o ritardi, ma poi viene il tempo di invitare i figli a “camminare davanti a loro” come segno di raggiunta maturità. Così nell’interpretazione rabbinica si mette in evidenza la diversa posizione di Noè e di Abramo; del primo si dice che «camminava con Dio» (Genesi 6, 9), del secondo si ricorda l’invito di Dio: «Cammina davanti a me e sii integro» (Genesi 17,1). «Abramo cammina non solo “con” Dio, ma perfino “davanti” a lui: lo precede, gli apre la strada…Al più piccolo (cioè a Noè) il padre dà la mano e gli cammina insieme. Ma al più grande (cioè ad Abramo) il padre dà tutta la libertà di corrergli davanti, di trovare da sé la sua strada»[3].  Il Concilio Vaticano II° stimola i battezzati a vivere la fede non solo come obbediente intimità, ma anche come partecipata missione: «L’apostolato dei laici, che nasce dalla stessa vocazione cristiana, non può mai mancare nella chiesa…Si abituino i laici a lavorare nella parrocchia intimamente uniti ai loro sacerdoti, ad esporre alla comunità della chiesa i propri problemi e quelli del mondo e le questioni che riguardano la salvezza degli uomini perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti; diano, secondo le proprie possibilità, il loro contributo ad ogni iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiale… Questa evangelizzazione o annuncio di Cristo, fatta con la testimonianza di vita e con la parola, acquista una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni di vita quotidiana»[4].
I Dodici, dunque, insieme ai discepoli. Il pubblico si sta assottigliando, ma Gesù non demorde; chiama alcuni senza smettere di invitare i molti, anche le folle. Il Regno di Dio non è una partita di Champions League, pochi campioni che giocano incitati dal tifo di molti. Chi lo vuol seguire non può stare in panchina: «Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”» (Marco 8, 34). Tutti ad evangelizzare. E senza attrezzi o, meglio, con quei soli attrezzi compatibili con il suo, una croce. La croce che chiede di portare non è, a dispetto di certa predicazione doloristica, l’accettazione stoica di un mal di pancia o di un collega fetente o di una moglie petulante. È invece l’accettazione di una “fede a caro prezzo”, quella che ci trasferisce da una condizione di consumatori del supermarket della religione a testimoni coscienti. È la croce di una compromessa passione per il Regno di Dio, di una fede pasquale che sia attiva e responsabile, narrabile e seducente. La missione conosce i rifiuti spesso dovuti alle nostre colpevoli presunzioni e deficienze. Qualche volta il fallimento o l’indifferenza nascono dall’innocente fedeltà al messaggio: il profeta Amos, narra la prima lettura (Amos 7,10-17), va in rotta di collisione con Amasia, sacerdote del santuario di Betel, un santuario nato sano e imbastarditosi lungo la sua storia. Lì, in origine, Abramo aveva costruito un altare al Signore, compagno del suo viaggio di fede (Genesi 12, 8). Su quell’altare, più tardi, il re Geroboamo costruirà una copia del vitello d’oro asservendo altare, sacerdoti e culto alla propria politica espansionistica (1 Libro dei Re, 12, 28-33). La miscela di religione e potere è sempre micidiale; il profeta Amos resta vittima del loro patto mafioso: «Vattene, veggente, va a mangiare il pane altrove, ma non profetizzare più a Betel perché questo è il santuario del re e il tempio del regno». Amos scuote la polvere dai sui sandali dichiarando così che il santuario è terra pagana e impura. Anche il santuario può essere territorio da evangelizzare e luogo di sofferenza per la profezia.
Comunque non si va per piazzare una merce, non per scimmiottare managerialità aziendalistiche, ma per liberare, per penetrare fin là dove si annida il male profondo: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Marco 6, 12-13).  Gesù non vuole operare da solo e non intende creare una comunità stanziale, statica e isolata. Chiede una comunità che viva tra la gente, entri nei villaggi, stia tra i peccatori, frequenti gli incroci delle città. Oggi i crocicchi e gli incroci tagliano trasversalmente non solo le planimetrie urbane. Nuove sfide e nuovi confini  si aprono per una chiesa di cristiani invitati a non fare della propria fede un party esclusivo dove, tra l’altro, l’importante sia arrivare ad allungare le mani per primo e poi chi s’è visto s’è visto, come si usa dire.
Papa Francesco, nel suo discorso alla recente Settimana Sociale a Trieste (3-7 luglio 2024), ha anche esemplificato: “Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. Dobbiamo essere voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte».
Bastone, sandali e un vestito.
Un parrocchiano mi suggerì, un giorno, di installare, con la collaborazione di una banca locale, un terminale per il bancomat presso la porta della chiesa. Tutti avrebbero potuto collaborare economicamente nel più severo anonimato e con tanto di ricevuta. Non è vero che una scelta vale l’altra. C’è uno stile nella missione e nella testimonianza; un equipaggiamento che parrebbe la versione in prosa delle Beatitudini: «E comandò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche». Esistono versioni diverse da parte dei vari evangelisti. E’ segno dell’incontro dialettico tra le parole del Signore e le diverse situazioni di organizzazione delle prime comunità. Marco ammette i sandali, che invece sono esclusi dalla versione di Luca, e vi aggiunge un bastone forse simbolo del Signore a cui appoggiarsi o, forse, come strumento di cammino e memoria di Esodo. Luca ci tiene a ricordare che Gesù ha ammesso la legittimità, per i suoi missionari, di godere senza scrupoli della riconoscenza dei fratelli: «Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede» (Luca 10, 7).  E’ una dignità di cui Paolo non intende avvalersi, lavorando con le sue mani per non essere di peso ad alcuno[5]. «L’operaio è degno del suo salario; ma il salario non è l’oggetto della sua fatica[6]».  Padre Alex Zanotelli, missionario nella bidonville di Korogocho in Kenya, alcuni anni fa, rifiutava  500 milioni di lire del premio Feltrinelli assegnati dall’Accademia dei Lincei «per imprese di eccezionale valore morale e umanitario». Una radicalità non condivisa da molti di noi. Forse era convinto che il denaro non si decontamina automaticamente per il fatto che passa nelle mani di un prete o è destinato “a fare del bene”. Di qui sorgono le domande: il Vangelo ci chiede nuda imitazione o fondamentale obbedienza? Come restare fedeli alla immagine di chiesa degli Atti degli apostoli, immagine fantasiosa, utopica, anacronistica e impraticabile? I profeti hanno sempre avuto una propria “mimica”, una eloquente gestualità della vita, come Francesco d’Assisi che si denuda davanti al Vescovo in pubblico e Giovanni Battista «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? – chiede Gesù – Una canna agitata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re. Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta» (Luca 7, 24-26).
Il testo evangelico di oggi non esplicita, a dire il vero, il perché dell’austero equipaggiamento raccomandato. Possiamo supporre che una delle ragioni principali sia il desiderio di manifestare la prioritaria importanza del messaggio; il predicatore attrezzato con l’essenziale affida la sua autorevolezza al valore di quello che dice. Forse significa che la condizione propria degli uomini è quella di non avere né perfezione né autosufficienza, di essere in una condizione creaturale, di aver bisogno gli uni degli altri e di essere dipendenti gli uni dagli altri[7]. Forse c’è qualcosa di più: «di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta» (Luca 12, 30-31).
«Quale è il prezzo del gratuito?» si chiese la Rivista Liturgica nell’ormai lontano 1997. «Il denaro – scrive Italo de Sandre[8] – non è solo una cosa economica che qualcuno ha in tasca, un  dato staccabile da un contesto, ma il segno di un’interazione, di un rapporto sociale prodotto da diversi tipi di strutture e di azioni, causa o frutto di rapporti economici spesso disuguali e di conflitti…Il denaro costituisce anche un codice simbolico di comunicazione». Tra una condanna manichea dei mezzi e uno spudorato e acritico uso, ci sta la misericordia del perdono e la forza ermeneutica di questo vangelo per il nostro agire personale ed ecclesiale. «Gesù si mostra preoccupato di ciò che bisogna essere, più che di ciò che bisogna dire. E’ vero che la parola di Dio è efficace di per sé: non è la mia testimonianza a renderla credibile. Tuttavia la mia controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile. Nel male ho sempre un potere maggiore che nel bene: non so creare un fiore; so però distruggerlo[9]».


[1] Silvano Fausti, Ricorda e racconta il Vangelo, Editrice Ancora, Milano, pag. 188.
[2] A.Mello, La passione dei profeti, Ed Qiqajon, Bose, 2000.
[3] A.Mello, op. cit, pag. 96.
[4] Apostolicam actuositatem n.1, 6 e 10.
[5] «Voi ricordate fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio:  lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo  annunziato il vangelo di Dio» (1 Tessalonicesi 2, 9).
[6] T.W. Manson, I detti di Gesù nei vangeli di Matteo e Luca, Paideia, Brescia 1980.
[7] Raniero la Valle, Per una politica dalla parte dei poveri, in HOREB 1/1996, pag. 75
[8] Riti e denaro, in Rivista Liturgica, Ed. Messaggero n. 2/1997, pag 36 e 41.
[9] S.Fausti, op. cit. pag. 188




7 luglio 2024. Domenica 14a
Profeta, Rabbi e falegname. Praticamente Dio.

14° Domenica ord. B

Preghiamo. O Padre, togli il velo dai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Per Cristo Gesù il nostro Signore.
Dal libro del profeta Ezechiele2,2-5
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: Dice il Signore Dio. Ascoltino o non ascoltino – perché sono una discendenza di ribelli – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.
Salmo 122. I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi, siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti, del disprezzo dei superbi.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 12,7-10
Fratelli, perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.
Dal Vangelo secondo Marco 6,1-6
In quel tempo, Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi, insegnando.

 

PROFETA, RABBI E FALEGNAME. PRATICAMENTE DIO. Don Augusto Fontana

«Nemo propheta in patria» ripeteva spesso in perfetto latino mio padre ciabattino; si riferiva ai suoi beniamini cantanti lirici, adorati in oltralpe e fischiati in patria. Il proverbio è popolare; mite vendetta per farsi e fare coraggio nei fallimenti di routine, con quel pizzico di rischio che si corre appellandosi alla Sacra Scrittura senza tanti distinguo o mediazioni. Nessuno è profeta in patria: magra consolazione per il dipendente frustrato in azienda, per il prete incompreso in parrocchia, per la donna in carriera trattata come serva in casa. Aforisma sussurrato, forse, da molti compagni di strada, in tempi di ripudio, a don Milani, don Zeno, don Mazzolari, P. Balducci, P. Turoldo, d. Dossetti, Fr. Carretto, Mons. Romero, memorie simboliche, non solo clericali, della fatica quotidiana di noi conformisti a discernere, ascoltare e difendere la profezia vestita di stracci. Ancora oggi, come ieri per la santa città, Gesù si commuove: «Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te…» (Luca 13,34). Tocqueville chiudendo il suo saggio “Della democrazia in America” ci definisce «folla innumerevole d’uomini tutti uguali, terribilmente somiglianti l’uno all’altro, che girano su se stessi, senza sosta, per procurarsi piccoli e volgari piaceri dei quali rimpinzarsi l’anima». Ammesso e non concesso che tali siamo noi, è plausibile il fastidio per quegli uomini del Regno di Dio che Gesù chiama beati. Sono gli «uomini impossibili» che la ragione istituzionale e conformista dichiara falliti o non fruibili. A loro si concede, al massimo, un compenso nell’al di là, mal interpretando la promessa di Gesù: «Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti» (Luca 6,22-23).
Il mistero di Gesù appartiene a queste storie ed è il caso più clamoroso di ripudio di un uomo autentico,  profeta, rabbi e falegname, praticamente Dio, fatto simile a noi in tutto eccetto che nel peccato.
Per quanto mi riguarda non posso invocare l’alibi che io non c’ero alla fiera del ripudio. Devo riconoscere che nei miei anni di cammino verso la fede è accaduto un fatto strano e, forse, comune;  anch’io, come fanno gli artificieri, ho accostato questo Gesù con prudenza e circospezione, l’ho studiato nella sua conformazione, ho conosciuto i lati dirompenti, l’ho maneggiato con cura ed ora me lo trovo “disinnescato” tra le mani. Ho neutralizzato la sua carica esplosiva. Se fossi stato là a Nazaret sarei anch’io inciampato nello scandalo, dopo una breve stagione di stupore curioso, di quesiti pour parler, di delusione cocente per il suo look indistinguibile in uno stile di vita inavvicinabile: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Luca 9, 58). Come tutti i segugi di Dio anch’io annuso la sua scia e quando mi pare di percepirne la vicinanza ne sono deluso per il suo forte odore di fango e di quotidianità. Il Libro del Tao narra: «Un discepolo vide che il maestro si era alzato per uscire di casa. Era l’ora in cui normalmente il Maestro si dedicava alla contemplazione. Gli disse: “Maestro, state preparandovi a compiere qualcosa di sublime!”. “Sì – disse il Maestro – vado a spalare la neve davanti al cancello”. Allora il discepolo incalzò: “Maestro, vi prego insegnatemi la dottrina dell’illuminazione!”. “Hai mangiato la tua parte di riso? – disse il Maestro – Bene, ora vai a lavare la ciotola!”. Il discepolo andò. E, lavando la ciotola, fu illuminato[1]». Il mistero di Gesù, profeta e rabbi e falegname, praticamente Dio, appartiene a queste storie.
Tutti rimarrete scandalizzati.
La seconda sezione del Vangelo di Marco si chiudeva con la decisione da parte del potere religioso e civile di sopprimere Gesù: «tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Marco 3,6).
Questa terza sezione (3,7-6,6a) si chiude con un fallimento ancora più drammatico e in progressione: prendono le distanze da lui i parenti e i concittadini. Quelli che il vangelo chiama “i suoi” manifestano i primi dubbi sul suo equilibrio mentale quando vanno a prelevarlo «poiché, dicevano,“E’ fuori di sé”» (3, 21). Poi sono i compaesani a mostrare incredulità (6,3).
Ma non basta. In seguito saranno gli stessi discepoli ad essere coinvolti in questa incomprensione tanto da suscitare una domanda dolce e forte di Gesù: «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?»  (8, 17). C’è una cecità che non risparmia proprio nessuno verso questo Gesù Cristo che è scandalo per i giudei che dicono «Costui bestemmia» ed è stupidità per tutte le persone di buon senso (1 Cor. 1,22ss) che dicono «E’ fuori di sé». Fuori di sé, cioè impraticabile, esaltato, esagerato, imprudente, sbilanciato, decentrato. E avevano ragioni teologiche da vendere, senza saperlo: il suo baricentro era il Padre. Sento sibilare dietro l’orecchio la sua domanda: «La gente cosa dice sul mio conto?…E voi chi dite che io sia?».
L’evangelista Marco, da bravo narratore e catechista, sviluppa i suoi temi attorno a parole che sono come ritornelli: fede, incredulità, meraviglia…
Nei capitoli precedenti Marco registra spesso la reazione della gente: «tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo:  Non abbiamo mai visto nulla di simile!» (2,12). Anche quelli di Nazareth si meravigliano, ma si tratta di due tipi opposti di meraviglia. Quella dei primi nasce dalla gioia, quella dei secondi dalla delusione che la potenza di Dio si riveli in questo falegname. E’ uno stupore che si ferma alla soglia della fede che, invece, è anche adesione. Questo è il punto discriminante di tutto il Vangelo: accettare o no che Dio si riveli nell’uomo Gesù. Si può toccare l’uomo Gesù, opprimerlo intorno (“Tutti ti comprimono da ogni parte” 5,31) senza cogliere il suo mistero e senza fare la scelta di seguirlo. Marco aveva già ricordato un detto di Gesù: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»(3,35). Sembra che non ci sia scampo per chi presume di appartenergli nel sangue e nel clan, per chi sa tutto di lui e lo può maneggiare a piacere: «Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!» (Luca 13,26).
Temo il momento in cui potrebbe dirci di scostarci da lui. E non meno temo l’attimo in cui rischiamo di dirgli, in qualche modo, di fare le valigie. Un giorno – narra il vangelo – nella regione dei Geraseni una legione di oscuri demoni teneva vincolato un uomo tra sepolcri putridi dove i cosiddetti sani lo avevano relegato per incomprensibili convenzioni sociali. Per quei sani un porco valeva più di un uomo colpito dal male oscuro. Gesù libera l’uomo, ma un branco di porci si perde nei dirupi. Abbasso l’uomo e viva il prosciutto, gli mandano a dire senza complimenti: «Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio» (Matteo 8,34). E Dio fa le valige. Ma lì, a Gerasa, questo piccolo trasgressivo Dio, non era di casa. A Nazaret, invece, non lo si poteva proprio dire “extracomunitario”: lì c’era vissuto e, come dice Marco nel vangelo di oggi (Marco 6,1-6), tutti si ricordavano, seppur malamente, di lui e dei suoi parenti. Eppure tra stupori e incredulità «tutti si scandalizzavano di lui». Gesù non ha trattamento migliore di tutti gli out-sider, i fuori-posto di quella cultura che Paulo Freire chiama «cultura depositaria» costituita cioè da valori codificati e trasmessi come intangibili, di generazione in generazione. Una cultura dominante infettiva che si insinua tra i molti, senza risparmio né sconti per piccoli, poveri, schiavi. Praticamente un’epidemia: la paura che questo Gesù venga a rimescolare le carte e ricominciare i giochi magari svelando il baro.
E’ il rischio dell’ovvietà religiosa che provoca la sclerocardia, la durezza di cuore: «e si scandalizzavano di lui». Siamo al naufragio della fede. I discepoli nell’ora della prova si scandalizzeranno: «Gesù disse loro: “Tutti rimarrete scandalizzati…Allora Pietro gli disse: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò» (Marco 14,27). Forse si ricordava di una delle Sue micidiali beatitudini: «E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!» (Luca 7,23). L’ovvietà è ostacolo alla fede. C’è un modo di percepire e vivere le situazioni della vita e le relazioni con le persone che si chiama «ovvio». Consiste nel vivere come ordinario, scontato e previsto quello che si incontra. In base ad uno schema precostituito si incasellano gli eventi in un orizzonte che già conosciamo. Il diverso, il nuovo, che spesso si presenta in modo non eclatante e sintomatico, sfugge alla percezione, non acquista rilievo, non viene preso in considerazione, non mette in discussione. L’ovvietà favorisce la conservazione, il già noto, il garantito. Si tende a interpretare la realtà anziché “riceverla” per non dover cambiare le proprie idee, per non convertirsi davanti al profeta. Gesù si pone nella linea dei profeti rifiutati: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria». Anche i parenti del profeta Geremia tramano contro di lui (Ger.11, 18-29). «Quelli a cui ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito» dice il Signore al profeta Ezechiele (2, 2-5). Il popolo a cui si rivolge il profeta si sente protetto dal suo culto e dal suo tempio ed è lo stesso popolo «dalla testa dura» (Esodo 32,9) che si era costruito il vitello d’oro perchè voleva sicurezze religiose in alternativa alla presenza evanescente della Parola di Dio. Ora si fa proteggere dalla potenza politico-militare dell’Egitto. Il profeta denuncia il compromesso e l’abbandono della fede. La sua vita stessa oltre che le sue parole diventano un ammonimento e un fastidioso richiamo. Ma nonostante l’opposizione, Ezechiele deve rimanere al suo posto: «Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta è in mezzo a loro » (Ez. 2,5). Non mi resta che contare su questa fedeltà: «Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Timoteo 2, 13).
Kaj Munk, pastore protestante, ucciso dai nazisti nel 1944, scriveva: “Cosa dovrà dunque annunciare il predicatore oggi? Dovrei rispondere: la fede, la speranza e la carità? Sembra una bella risposta. Ma vorrei piuttosto dire: il coraggio. Ma neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l’intera verità. Il nostro compito oggi è la temerarietà, perchè ciò di cui noi, come Chiesa, manchiamo non è certamente nè di psicologia nè di letteratura; quello che a noi manca è una santa collera. I simboli della Chiesa cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba, il pesce, ma mai il camaleonte.
Ripassa da noi, Signore Gesù di Nazareth….
Trovo nella Storia di Cristo di Giovanni Papini una sua invocazione da neofita neo convertito. Lucida, ansimante, lunga preghiera  di cui non posso che riportare pochi sospiri: «Sei ancora, ogni giorno in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre. Ma è giunto il tempo che devi riapparire a tutti noi e dare un segno perentorio e irrecusabile a questa generazione. Tu vedi, Gesù, il nostro bisogno. Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa subito seguita da un’improvvisa scomparsa; un’apparizione sola, un arrivare e un ripartire, una parola sola nel giungere, un segno solo, un avviso unico, un’ora sola della tua eternità, una parola sola per tutto il tuo silenzio Abbiamo bisogno di te, di te solo e di nessun altro. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli. C’è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza. Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d’operaio povero; vogliamo vedere quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore e guariscono quando feriscono con lo sdegno e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni per quanto è dolce e incanta i bambini per quanto è forte. Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te e ci sforziamo di vivere con te, ma sempre troppo lontani da te. Ti aspetteremo ogni giorno a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore»[2].


[1] F. Pasqualino Gli orecchini di Dio ,SEI, Torino, pag 46.
[2] Domenico Porzio (a cura di), Incontri e scontri con Cristo, Ferro edizioni, Milano, 1971, pagg. 342-351.




30 giugno 2024. Domenica 13a
CREDERE PER TOCCARE

13° domenica B

Preghiamo. O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa’ che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Libro della Sapienza  1,13-15; 2,23-24
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.
Salmo 29. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
2 Corinti 8,7.9.13-15
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
Dal Vangelo secondo Marco 5,21-43
In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Mentre ancora parlava, [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.

CREDERE PER TOCCARE. Don Augusto Fontana

La compagnia dei cercatori…
Chi presiede alla morte e alla malattia? Una divinità, un demone, il destino, l’uomo? Mettere le mani sui codici della vita appartiene all’umanamente divino o alla trasgressione? Come classifichiamo le devote carezze a piedi marmorei di Madonne consunti da mani rinsecchite e da esaurite speranze umane? Dove collochiamo questi corpi infragiliti e questi spiriti incupiti dal male che inseguono santi e santoni ondeggiando come sciami d’api dietro un profumo di nettare salvifico? Sono illusi superstiziosi che toccano per credere o sono poveri di Dio che credono per poter finalmente toccare? Io non ho mai chiesto a Dio per la mia vita e dintorni, pur avendone bisogno, la manutenzione straordinaria di un miracolo; sto forse scivolando sulla china dello scetticismo o sono ancorato sul nudo pavimento della fede? Mi conforta questo Dio che “conosce le mie parole prima ancora che escano dalla bocca” (salmo 139). Mi consola il fastidio di Gesù: «Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione» (Marco 8, 12).
Dio non ha creato la morte – dice la prima lettura della liturgia odierna – e non gode per la rovina dei viventi. La morte dunque c’è, ma non doveva esserci. La Parola di Dio insiste a dare sulla morte quel tocco di illegittimità che è fondamentale per una visione della vita che sia conforme alla fede. E’ lecito simpatizzare con Paolo:«Chi libererà me, povero disgraziato, da questo corpo votato alla morte? Gesù Cristo nostro Signore, grazie a Dio![1]». Ovunque c’è istinto della vita, da quella parte c’è Dio, sembra ribadire anche l’evangelista Marco con quella sua quasi maniacale ossessione di narrare i miracoli di Gesù. Ben due miracoli in un colpo nel brano evangelico di oggi e 18 miracoli in tutto il suo vangelo[2]. Senza dimenticare che per Marco anche la morte di Gesù in croce è paradossalmente un miracolo, anzi «il miracolo vero».
Il testo evangelico di oggi contiene due racconti di miracoli disposti a sandwich: la rianimazione della figlia di Giairo e la guarigione della donna colpita da inguaribile emorragia.
Marco prosegue così nella sua catechesi battesimale. La fede è un toccare in profondità Cristo e lasciarsi toccare in profondità.
I due episodi si illustrano a vicenda e sono legati tra loro dalla ricorrenza di alcuni verbi: salvare, credere, toccare[3]. Ma sullo sfondo dell’attenzione dell’evangelista fanno capolino i due quesiti a cui Marco, dal primo all’ultimo capitolo, tenta di dare risposta: «Chi è Gesù?» e «Chi è il discepolo?». Nel contesto di tali quesiti sviluppa i suoi temi teologici[4].
La nuca e il volto di Dio.
I giudei non credevano nella risurrezione; la morte era un viaggio verso lo Sheòl, luogo dei morti, senza ritorno. La preghiera ebraica poteva osare chiedere solo che Dio ritardasse la morte[5]. Giairo, capo della sinagoga, osa una rottura della tradizione religiosa del proprio popolo. Chiede una guarigione così radicale da sembrare una risurrezione. Giairo sospetta che Gesù riveli un Dio imprevedibile. Resiste a chi lo invita a desistere: «Tua figlia è morta. Non disturbarlo più!». Matteo esplicita meglio di Marco: «Signore mia figlia è morta, ma tu vieni». E’ in questo “ma” che consiste la fede. «Ma tu, Dio misericordioso, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore e di  fedeltà, volgiti a me e mostrami la tua grazia: dona al tuo servo la tua forza, salva la figlia del tuo servo». (Salmo 86,15-17). Il “Ma” serve a distinguere. La storia della salvezza è la storia dei “macon cui reciprocamente si incontrano e si contraddicono Dio e gli uomini.
Anche la donna viene presentata come donna di fede, benchè nel suo gesto i confini tra fede e feticismo abbiano lo spessore di un filo da equilibrista: «Mi basta toccare la sua veste…». Costa poco giocarsi gli ultimi brandelli di speranza toccando simulacri, reliquie, lembi di taumaturghi. O la va o la spacca. L’intreccio tra credere e toccare è problematico, come ce lo potrebbe ricordare l’apostolo Tommaso, quello che non sa credere se non ci mette il naso. Per 3 volte oggi risuona la parola “toccare”. Pare che Marco punti molto su almeno tre significati.

Il primo: la donna mestruata, secondo le prescrizioni di Levitico 15, era impura e trasmetteva impurità religiosa a chiunque venisse in suo contatto. Lei sa dunque di commettere una trasgressione grave. Ma le prescrizioni valgono meno della vita e molto meno di un rapporto di fiducia con il giovane Rabbi Gesù.
Il secondo: toccare suppone vicinanza. Forma prima e fondamentale di conoscenza è il contatto con l’altro. Le cose e i corpi diventano luoghi di comunione; il toccare è reciproco. Esiste un tocco epidermico e un tocco profondo che trasforma il cuore; al tocco delicato del rapporto interpersonale si contrappone l’improduttivo schiacciare delle folle oceaniche.
Il terzo: la veste di Gesù è quella che ci ha lasciato in eredità ai piedi della croce, denudato. Forse è bene che il discepolo non lasci a terra quella Sua tunica sacerdotale e regale, il suo mantello profetico: occorre prendere più che toccare, rivestirsi più che sfiorare.
Anche Giairo aveva chiesto a Gesù di “stendere le mani perché la figlia sia salva e viva”. Chiede una liturgia del corpo, più che una scaramantica benedizione a distanza. E Gesù, quando prende sua figlia per mano, non vuole intorno folle di piagnoni strepitanti; li “caccia fuori”, come aveva malamente estromesso i commercianti dal tempio. Con lui entrano solo i tre discepoli della Trasfigurazione e del Getsemani insieme al piccolo gruppo di catecumeni. «Talità kum! Alzati!» dice. Non è l’abracadabra della magia.  E’ la parola creativa che i discepoli sentiranno sussurrare nel cuore tra la croce e la tomba. E’ liturgia pasquale. Mi spiacerebbe davvero, venutone il momento, essere tra quelli cacciati fuori.
 La fede di questi due catecumeni ha delle tappe: dalla periferia al centro.
Anche la fiducia che nasce nel nostro bisogno estremo e che ci fa toccare il calcagno di Dio è pur sempre fede, benchè incipiente, acerba. Quanti storpi e lebbrosi e oppressi dai faraoni hanno gridato: Signore, pietà! restando in attesa che Dio mantenesse le sue promesse. Anche davanti al depresso e fuggiasco Elia nella caverna dell’Oreb «si presentano tre fenomeni (vento, sisma e fuoco) che sembrano rivelare il Signore, ma che in realtà non lo rivelano, o meglio: non lo rivelano come il quarto (la voce di un silenzio). Non è questione di tutto o niente, di sì e no. La prospettiva adottata è relativa: nella quarta esperienza il Signore è molto più presente che nelle prime tre. Si tratta di gradi diversi. Anche la rivelazione del Sinai era consistita in questo: «Voi non vedevate alcuna figura: soltanto una voce» (Deut. 4, 12). Che significa “vedere una voce?”. L’essenziale nell’incontro con Dio è una voce che parla silenziosamente[6]». E’, forse, per questo motivo che gli evangelisti costruiscono le narrazioni dei miracoli attorno ad un perno concentrico: le parole di Gesù.
La donna parte da una posizione di fede anonima e ad alto rischio di superstizione (“tra la folla, alle sue spalle, toccò….”) lentamente viene condotta ad una esposizione pubblica (“gli disse tutta la verità”), all’ascolto della Parola e ad una relazione (“figliava in pace”).  C’è un itinerario della fede: dalle spalle di Dio al suo faccia a faccia, dalla sua nuca al suo volto.
Miracolo si, miracolo no!
Il miracolo, per gli uomini dell’epoca pre-cristiana e del primo secolo cristiano, era un evento possibile, atteso, narrabile[7]. La natura e la storia erano concepite costantemente come campo aperto dove Dio continuamente agiva e dove tutto, ogni volta, era frutto della sua azione. Dio agiva nel miracolo straordinario, ma non meno nella crescita del seme, nella nascita, vita e morte degli uomini. La gente del popolo era particolarmente soggetta ad epidemie o malattie spesso di origine oscura le cui cure erano possibili solo a chi aveva soldi. Accanto a Dio potevano agire anche altre forze angeliche o demoniache per cui ogni miracolo era da discernere. Anche i miracoli di Gesù sono stati attribuiti a Beelzebul. Esorcismi, guarigioni, miracoli sulla natura: il corpo, la psiche, l’ambiente sono attori che esprimono il dramma umano in cui Dio, in qualche modo, non è estraneo. Forse sorridiamo. La scoperta della sequenza del DNA ha lacerato residue verginità teologiche. Ci sentiamo adolescenti cresciuti. O forse siamo vecchi senza più stupore negli occhi, con quel velo di cataratta che appiattisce tutto, meno quando contiamo i soldi. Per noi quelle erano generazioni di creduloni: anche quei rabbini per i quali la Toràh, la Parola del Signore, conservava sempre un valore più grande di ogni miracolo.
Nel ricordo dell’attività taumaturgica di Gesù emerge un’interessante contraddizione: Gesù ha compiuto segni, prodigi, miracoli (comunque li vogliamo chiamare), ma si è mostrato perplesso circa il loro valore. Sono stati spesso il frutto della sua commozione per la debolezza umana, della sua irritazione per la durezza di cuore, del suo pianto, del suo stupore per la fede di pagani, donne e piccoli. I suoi miracoli si saldano sempre, sempre, con la sua predicazione. Gesù intende parlare all’uomo “in situazione”. Predicazione e miracoli fanno parte dello stesso movimento. Sono i segni del bisogno di salvezza che c’è nell’uomo e del potere liberante di Dio in Cristo. Il termine greco che Marco usa preferibilmente per indicare questi eventi è “dynamis”, atto di potenza, ma a volte li chiama anche “insegnamenti”. A noi che attendiamo i miracoli come prova certificante, fa un po’ meraviglia sapere dai vangeli che attorno ai miracoli circola un’evidente incomprensione dei discepoli e soprattutto l’ordine perentorio di Gesù di non dire nulla, non divulgare, fino alla grande rivelazione della passione. I miracoli sono insufficienti a condurre alla fede, sono inaffidabili. Il vento che scuote, il sisma che abbatte, il fuoco che ustiona, il cieco che vede, il pane che si duplica, l’acqua che è vino, la mummia che si rianima sono segni, come dice l’evangelista Giovanni. Ma solo la croce è, come direbbe Lévinas, voix de fin silence, voce di sottile silenzio (in ebraico: Qôl demamâ daqqâ).

«Dio si rivolge ad ognuno in modo diverso: a qualcuno attraverso un segno, a qualcun altro a voce alta. Tutto dipende da quanto si è lontani da Dio» (Rabbi Nachman di Breslav).


[1] Romani 7, 24-25
[2] Su 661 versetti del vangelo secondo Marco ben 180 sono dedicati ai  miracoli: il 25% dell’intero suo vangelo.
[3] AA.VV. Una comunità legge il vangelo di Marco, Dehoniane,  pag. 179.
[4] Servizio della parola, Queriniana, n.138/1982, pag. 85-87.
[5] Salmo 16,10; 49,16.
[6] Alberto Mello La passione dei profeti, Qiqajon, 2000, pag. 42.
[7] “La sezione dei miracoli e delle parabole nel vangelo di Marco” in Servizio della parola,138/1982, pagg. 35-55.