DRAMMA CARCERI, SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE)

DRAMMA CARCERI SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE 28 giugno 2024)
Provvedimento non più differibile
I numeri che provengono dal pianeta carcere, anche a volersi fermare a quello dei suicidi, sono agghiaccianti. Ma sono tempi, questi, in cui gli orrori raccontati quotidianamente dai media hanno indotto ad alzare le difese dell’indifferenza per evitare di precipitare nello sconforto. Questi numeri, pur drammatici, sono diventati emotivamente neutri. Se almeno potessero gridare il dolore straziante e il senso di totale abbandono di chi ha deciso di farla finita, se potessero portarci il pianto sommesso della sua disperazione, se ci potessero contagiare la sua angoscia di non poter neppure salutare le poche persone al mondo che piangeranno la sua morte, se ci potessero far vedere i suoi occhi vuoti di futuro e di speranza mentre si toglie la vita – perché non ha più una sola ragione per protrarla – probabilmente ci soffermeremmo con desolazione infinita e con vergogna senza requie su questi numeri.
Allora, forse, coloro che possono fare qualcosa capirebbero che neppure un giorno in più di inerzia sarebbe giustificabile. E fare qualcosa in una situazione di così drammatica emergenza non può consistere nel progettare nuove carceri, nel prevedere ulteriori assunzioni, nell’immaginare trasferimenti di detenuti stranieri. La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi. Se in un pericoloso tratto di strada si verifica un incidente gravissimo, prima di assicurare che sarà rivista la segnaletica, che verrà rafforzato il guardrail, che sarà imposta una riduzione del traffico, bisogna soccorrere chi, vittima dell’incidente, sta rischiando la vita. Nell’attuale girone penitenziario ogni intervento in grado di rendere meno insopportabile la soffocante e degradante quotidianità carceraria potrebbe risultare prezioso al di là di ogni aspettativa. Ma non c’è dubbio che in questo momento il principale fattore dell’invivibilità detentiva è il sovraffollamento, moltiplicatore esponenziale di tutti i fattori di deprivazione della dignità, che ormai è tornato al livello di quello che poco più di dieci anni fece condannare il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante.
Non è più differibile (da tempo, per la verità) uno strumento di rapido decongestionamento. Un’amnistia e/o un indulto – strumenti ai quali sono stato contrario quando venivano usati come semplici, periodici provvedimenti di “sfioro” del “troppo pieno” penitenziario, non accompagnati da rimedi strutturali che impedissero il puntuale ripresentarsi dell’incivile fenomeno – potrebbero nella drammatica situazione penitenziaria rivelarsi provvidenziali. E sarebbe confortante vedere una volta tanto tutte le forze politiche convergere su soluzioni condivise, tanto più che nessuna di esse può dirsi del tutto esente da responsabilità. Ma, essendo facilissimo immaginare gli allarmistici slogan (“Svuotacarceri, sicurezza a rischio”) con cui si boicotterebbe qualsiasi tentativo in tal senso, almeno si provveda secondo la proposta Giachetti, attualmente in esame (della ripetutamente annunciata iniziativa del ministro Nordio, parleremo quando ad essa il Governo darà disco verde e corsia di urgenza, come avvenne in occasione dell’improcrastinabile introduzione del reato di rave-party): aumento della riduzione di pena per i detenuti che con il loro positivo percorso ne sono già stati o ne saranno dichiarati meritevoli dalla magistratura di sorveglianza. L’atteggiamento negativo sinora espresso al riguardo, non solo dalle forze di maggioranza, non consente ottimismi. La deprimente spiegazione sarebbe che pure in tal caso (come, a maggior ragione, per amnistia e indulto) lo Stato si dimostrerebbe debole. Dunque, piuttosto che ammettere la necessità di porre rimedio ad un proprio errore, lo Stato preferisce che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva: sì, perché ciò a cui assisteremo durante l’incipiente estate (da sempre stagione insopportabilmente feroce con i detenuti) sarà una raccapricciante progressione del numero di suicidi, che chiamare omicidi colposi non sarà purtroppo forzata metafora.
Ovviamente, qualora si riuscisse a intervenire con provvedimenti di emergenza – almeno per contenere questo insostenibile rosario di suicidi: veri j’accuse, che persone affidate allo Stato gli rivolgono non per averle private della libertà, ma della dignità di uomo – si dovrebbe immediatamente cominciare a ragionare su tutte le provvidenze normative, strutturali e di personale specializzato in grado di evitare il riproporsi di una situazione indegna di un Paese civile, dando preliminarmente risposta ad alcune ineludibili domande. Come mai l’attuale popolazione penitenziaria supera le 60.000 unità nonostante un indice di criminalità decrescente (per restare ai reati più gravi: 300 omicidi all’anno), mentre trent’anni fa la popolazione penitenziaria era di circa 40.000 con una criminalità molto più preoccupante (1.000 omicidi all’anno)? Come mai si è ritenuto di ignorare i già pronti progetti di riforma penitenziaria di cui sono inutilmente ingombri i cassetti ministeriali? Come mai, per contro, gli unici, significativi propositi di intervento normativo in materia riguardano l’abolizione del delitto di tortura (per non privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”); l’introduzione del reato di rivolta carceraria (“ a tutela dell’ordine pubblico negli istituti penitenziari”); il ridimensionamento in chiave securitaria della funzione rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della Carta (perché “l’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici”)? Non sappiamo se temere più il silenzio o le risposte.




Anche per la politica il metodo sinodale
Don Bruno Bignami (Avvenire)

«Il leaderismo fa sempre terra bruciata. Anche per la politica il metodo sinodale»
Marco Iasevoli (Avvenire 23 giugno 2024)

 È iniziato il conto alla rovescia verso la 50esima Settimana sociale di Trieste: il risveglio della partecipazione e l’impegno per la buona politica si candidano a fare da filo rosso tra “laboratori della partecipazione”, “villaggi delle buone pratiche” e “piazze della democrazia. L’appuntamento è dal 3 al 7 luglio. Ad avviare i lavori sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nella domenica conclusiva invece sarà presente papa Francesco che presiederà la celebrazione eucaristica.
Intervista a don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il Lavoro della Cei. È un osservatorio speciale quello di don Bruno Bignami. Un osservatorio sulla politica e sulle istituzioni, alla luce di una “delega” che chiede di dialogare con i decisori pubblici e riflettere sullo stato della salute della democrazia nel Paese. Dall’incrocio tra le due prospettive don Bignami ha dato alle stampe “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp. 142, euro 24).

Don Bruno, la politica vive una crisi espressa da disaffezione e astensionismo: c’è una cura?
La politica domanda partecipazione, che non piove dal cielo. Esige cura e impegno. Per capire cosa c’è che non va potremmo partire da esperienze in crescita come il Terzo settore. Chi si è impegnato in questi anni si è accorto che poteva contribuire al cambiamento sociale, che si poteva migliorare la vita delle persone, che si poteva incidere… Non è avvenuta la stessa cosa in politica, dove il leaderismo, l’autoreferenzialità e le logiche di potere hanno fatto terra bruciata intorno. Molti che si sono avvicinati alla politica sono usciti delusi e scottati. A meno di rassegnarsi a vivere da comparse.

Nel suo libro lei indica la strada della spiritualità e della fraternità: come si traducono nell’agone sociale e politico?
Serve coraggio. Un credente non può fare politica mettendo tra parentesi la fede. Detto altrimenti: il mistero dell’incarnazione e quello pasquale di morte e resurrezione non sono tangenziali alla vita cristiana, ma ne costituiscono il midollo. L’incarnazione comporta la condivisione della storia, la capacità di servire il popolo, di abitare i conflitti. Il mistero pasquale ricorda che non c’è vittoria senza croce. Non c’è bene comune attraverso l’affermazione di sé. Come insegnava il teologo De Lubac, incarnazione, morte e resurrezione dettano il ritmo della spiritualità cristiana in tre tempi: radicamento, distacco e trasfigurazione. Altro che affogare nel dibattito sulla rilevanza o irrilevanza dei cattolici in politica… Lo spirito umano per sbocciare ha bisogno di condizioni che non siano sempre favorevoli.

A Trieste è possibile aspettarsi svolte sul fronte dell’impegno sulla sfera pubblica?
Alla 50esima Settimana Sociale di Trieste si cercherà non solo di tastare i battiti del cuore democratico del nostro Paese, ma si intenderà fare esperienza di partecipazione. Saranno gli oltre mille delegati a tracciare sentieri e percorsi futuri. Serve un di più di ascolto perché ci possa essere una base di proposta. Si può essere fiduciosi…

Tra riforme e questioni sociali e ambientali urgenti non manca lo spazio per uno specifico contributo dei credenti. Manca un metodo?
Sicuramente manca un metodo, ma il Cammino sinodale della Chiesa ha contribuito ad acquisirlo: abbiamo imparato ad ascoltare, a partire dal basso, a esercitarci nel discernimento comunitario, a raggiungere la profondità della conversazione spirituale. Ma non basta. Forse occorre creare luoghi di confronto stabile tra laici sulle grandi questioni sociali del nostro tempo, liberi da ideologie di ritorno. Senza percorsi condivisi è difficile che nascano sogni.

La strada della fraternità come può aiutare anche nel gran caos globale?
Un altro modo per dire la fraternità è la responsabilità circa il bene comune. La Bibbia mostra in Caino e Abele la tragedia della fraternità, che può giungere all’uccisione dell’altro. Il testo sacro non illude. Il samaritano, però, vive la fraternità non tanto di sangue ma per il sangue, ossia per la vita dell’altro. Romano Guardini sosteneva che la democrazia poteva stare in piedi solo sulla fiducia che tutti vogliono davvero il bene comune. Oggi sembra prevalere il sospetto che l’altro cerchi solo il proprio interesse. Si può cambiare paradigma attraverso uno sguardo limpido. Ha ragione papa Francesco: ci salverà la tenerezza, non il potere.

IL LIBRO

Dare un’anima alla politica

Il nuovo lavoro di don Bruno Bignami, “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp.142, euro 24) parte dall’immagine evangelica del lievito, non preoccupato della propria visibilità e tuttavia capace di far fermentare la pasta, simbolo di una presenza allo stesso tempo serena e ferma, pacifica ed efficace. È al lievito che pensa l’autore quando pensa anche oggi, al ruolo dei cristiani in politica. Il libro è diviso in due parti. La prima è fondativa e mostra come il cristianesimo tocca e forma le coscienze. La seconda parte raccoglie alcune testimonianze di vissuto o di pensiero sulla spiritualità in politica: Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e David Sassoli “raccontano”, attraverso la loro esperienza in epoche diverse, differenti sfumature del rapporto tra spiritualità cristiana e politica. La prefazione è del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana.




Settimana sociale
Zamagni. Cattolici in politica (Avvenire)

Fondamenta comuni della democrazia. Il grande compito per i cattolici italiani
Stefano Zamagni (AVVENIRE 23 maggio 2024)

 Verso la Settimana Sociale: nella realtà plurale di oggi va restituita centralità al metodo democratico, non lasciando che sia ridotto a mera procedura o a monopolio dei partiti E i cristiani devono tornare a “immischiarsi”. Dibattito aperto sul tema dell’appuntamento in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio, tra società civile, istituzioni ed economia. A poco più di 40 giorni dalla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani a Trieste il professor Stefano Zamagni, economista, già presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, offre la sua riflessione sul tema della manifestazione – la democrazia – aprendo il dibattito sull’evento.


 A metà degli anni ’90 si svolse a Torino una Settimana Sociale dei Cattolici in Italia sul tema della democrazia. A distanza di quasi quaranta anni, il medesimo tema sarà oggetto della 50esima Settimana Sociale a Trieste nei giorni 3-7 luglio 2024, il cui titolo – assai evocativo – è “Al cuore della democrazia”. Ancora una volta, il mondo cattolico si ritrova per interrogarsi sul fondamento del principio democratico in un contesto socio-politico affatto differente per mettersi, come sempre, in cammino. Le considerazioni che seguono vanno lette su tale sfondo.
Conviene iniziare da un paio di chiarimenti. Il principio democratico è molto antico. Risale alla Grecia di Aristotele. Demos kràtos significa “potere al popolo”. Aristotele e altri furono molto chiari nell’indicare i due pilastri del principio democratico. Eppure si tende a identificare la democrazia con la pratica delle elezioni, le quali appartengono alla categoria dei mezzi e non già dei fini. Infatti si possono avere elezioni anche in Paesi non democratici. Due – dicevo – i pilastri del principio democratico. Per un verso, coloro i quali esercitano l’azione di comando sono tenuti a dare conto delle azioni da essi compiute. Non solo narrare, cioè raccontare quel che si è fatto, ma dare le ragioni in forza delle quali certe decisioni sono state prese – ragioni che possano essere comprese dal cittadino. Per l’altro verso, coloro i quali non si riconoscono in quelle ragioni devono poter avere il diritto di protestare, ovviamente in modi civili, ed eventualmente devono essere liberi di lasciare la comunità (è il cosiddetto “ voting by feet”).
Questi principi basilari sono stati implementati nel corso del tempo secondo due diverse tradizioni di pensiero. L’una è la tradizione Hobbesiana; l’altra è quella Rinascimentale. La tradizione Hobbesiana si rifà al pensiero di Thomas Hobbes (Leviathan, 1651), secondo cui è lo Stato che invera la società civile; idea che verrà poi perfezionata da Hegel. Allo Stato, spetta dunque il compito di dire come la società civile deve organizzarsi e quali sono i criteri in forza dei quali una società si definisce civile. Per la tradizione rinascimentale, invece, è vero esattamente il contrario: è la società civile che dà senso e forza allo Stato e non viceversa. La ripresa in tempi moderni della tradizione neo-rinascimentale è uno dei grandi meriti di Jacques Maritain e dei pensatori del personalismo cristiano (si veda di Maritain L’uomo e lo Stato e pure Umanesimo integrale). È sempre bene ricordare che la nostra Costituzione pone il suo fondamento nella tradizione neo-rinascimentale. All’articolo 1 si legge: «L’Italia è una Repubblica democratica (non uno Stato) fondata sul lavoro». Lo Stato è parte della Repubblica. E nell’articolo 2 si legge che la Repubblica è fondata, e tenuta in piedi, anche dai corpi intermedi della società (società civile organizzata, Terzo settore ecc.). Fino a un trentennio fa il principio democratico accolto dal mondo cattolico è stato quello della tradizione neo-rinascimentale. Dopo di allora, ha iniziato a prendere corpo una sorta di slittamento semantico: senza quasi accorgersene, si è andati verso la tradizione di pensiero neo Hobbesiana. A ben considerare, è questa una sorta di tradimento dello spirito del Codice di Camaldoli. Un secondo chiarimento, concerne la confusione di pensiero tra politica e partitica. La Politica, termine che deriva da polis (città), appartiene, per il pensiero greco, alla ragion pratica; la partitica, invece, nasce nel XIX secolo dopo l’illuminismo e la rivoluzione francese e il suo ambito è piuttosto quello della ragion tecnica. Perché è importante questa distinzione? Perché ci aiuta a capire che si sbaglia sia quando si dice che i partiti sono diventati irrilevanti sia quando si pensa che la politica possa ridursi totalmente alla partitica – quanto a significare che l’unico modo di occuparsi di politica, sia quello di iscriversi a un qualche partito politico. Il che è falso. Al tempo stesso va detto che l’espressione “pre-politica” è priva di senso. Nessuno che viva in società può affermare di non interessarsi di politica. I partiti sono bensì uno strumento essenziale per fare politica ma non sono l’unico strumento. Forse quando si dice “non mi occupo di politica” si intende significare: “non mi occupo di partitica”.
Il celebre teologo Henry De Lubac ha scritto che il cristiano che non si interessa di politica – non certo di partitica – non è fedele al Vangelo. Sulla medesima posizione si collocano tre dichiarazioni recenti di altrettanti Pontefici. «La politica come servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate politica» (Paolo VI). «Sogno il ritorno diretto in politica dei laici cattolici» (Benedetto XVI). «Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Francesco). Non v’è bisogno di commenti, se non per suggerire due conseguenze che sono derivate dalla non presa in considerazione di tali ammonimenti. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che pone la sua ispirazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Si tenga presente che le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nell’anticamera della partitica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasmissione degli interessi della cittadinanza verso la politica vera e propria. Ciò precisato, di quali trasformazioni – non parlo di mere riforme – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non può mancare? Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità, un modello che alle categorie di pubblico e privato aggiunge quella del civile. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’articolo 118 della Carta costituzionale, dal Codice del Terzo settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la piena sussidiarietà: è la sussidiarietà orizzontale, che si limita alla co-progettazione e non si spinge fino alla co-programmazione. Per attuare quest’ultima occorre dare ali alla sussidiarietà circolare, il cui fondamento è negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio, di fine XIII secolo. Si badi che il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro del variegato mondo del Terzo settore e della Business Community, con compiti di co-programmazione.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha urgente bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno sia del profitto sia del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che il lavoro, nella sua duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistica, cooperativa, sociale, benefit. Non è accettabile né una prosperità senza inclusione né una inclusione senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema scuola-università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare a essere in primis luoghi di educazione e in secundis luoghi di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di con-azione – parola che deriva dalla crasi di conoscenza e azione – e il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non a partire da una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani a inserirsi “nella realtà totale”. Non si può continuare a tenere in piedi la obsoleta dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecno-scientifica. È al pensiero della complessità che occorre oggi educare, superando vetusti riduzionismi.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. Come noto, il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica unica. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su princìpi etici condivisi se non vuole ridursi a mero proceduralismo e se si vuole scongiurare il conflitto sociale. Ci si rifugia nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa né fa mai domande, da cui il relativismo oggi dilagante. Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa civitas. Invero, la comunanza che si deve cercare non può essere né quella propria di una comunità culturale né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è stato il Cristianesimo ad affermare per primo il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente quello concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Vediamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. Si tratta allora di avviare, in modo sistematico, una riflessione sull’uomo (la cosiddetta quaestio de homine) che è certamente desunta dalla fede cristiana ma che può essere esibita anche come ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile.<

Per chiudere. Pensare a nuove forme di impegno politico è, oggi, un compito di primaria rilevanza da assolvere, se il mondo cattolico vuol continuare a offrire un messaggio di speranza. Le certezze che ci offre l’esaltante progresso tecnico-scientifico non ci bastano, perché la questione odierna non è tanto decidere cosa fare per ottenere ciò che vogliamo, ma decidere cosa è bene che si voglia. Di qui l’esigenza di una nuova speranza. È comprensibile che la speranza di chi non ha sia diretta sull’avere. Continuare a crederlo oggi sarebbe un grave errore. Se è vero che lasciar cadere la ricerca dei mezzi più efficaci sarebbe stolto, ancor più vero è riconoscere che la nuova speranza va diretta ai fini.

Avere dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile di quel  trade-off[1]. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui iper-globalizzazione e quarta rivoluzione industriale stanno mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione. Restituire un’anima alla politica. Ci vogliono grandi cause, ancorché talvolta deviate dal loro alveo originale, per mobilitare le persone in gran numero. Non esiste forza politica, degna di questo nome, che non si rifaccia a un’ispirazione. Senza di essa, un partito si riduce a una mera aggregazione di interessi, sia pure legittimi. È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione come quella sopra abbozzata? Penso proprio di sì, purché se ne voglia prendere atto. Un antico proverbio tibetano dice che quando c’è un grande traguardo anche il deserto diventa una strada. Se il grande traguardo è riportare la categoria di bene comune – il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – al centro dell’agenda politica, il deserto della crisi attuale può diventare una grande opportunità. A patto che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine né solo inizio. Origine e inizio si possono anche dimenticare col tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo “zampillo d’acqua” fuoriesce in modo continuo.


[1] Scambio, compromesso (ndr)




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Il movimento di lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere è partito dalle lavoratrici e lavoratori a fine 1800. Ovviamente in questi decenni sembra che stia tornando la necessità di rivedere ancora questo dovere-diritto di lavorare per vivere e non vivere per lavorare. Quindi siamo ancora alla ricerca, come abbiamo sentito dalle interviste, di un’armonizzazione tra tempo di lavoro e di vita È una questione di etica del lavoro che non riguarda solo le organizzazioni imprenditoriali e sindacali ma riguarda anche la coscienza personale ma anche la pastorale stessa. Dove mai si è parlato di questo problema nella catechesi degli adulti o nella formazione dei giovani? Allora è problema etico che riguarda lavoratori e lavoratrici, in particolare con grave ricaduta sulle lavoratrici a causa del loro ruolo genitoriale e anche di cura.

Il tema non è solo di organizzazione di orario ma è culturale su due piani: quello personale e quello collettivo.

Quello personale perché è chiaro che ognuno dei lavoratori rischia di appiattirsi sui ritmi richiesta dall’azienda e anche in nome della produttività. È chiaro che è un modo di coscientizzarsi anche nei confronti del proprio rapporto personale con il tempo di lavoro.

Ma è anche un problema collettivo. Sta già arrivando per le grandi aziende e banche l’occasione di incominciare a pensare alla settimana corta, a parità di salario e di produttività. Potrebbe essere necessaria una legislazione.

Siamo alla ricerca di un lavoro che sia dignitoso ma anche decente dal punto di vita dei lavoratori che hanno bisogno del tempo per la propria cultura, per la propria salute, per il proprio sport, per l’educazione dei figli, per la famiglia.

Occorrono quindi anche delle contrattazioni di secondo livello dove le aziende, i lavoratori e le Organizzazioni sindacali possano sperimentare gradualmente nuove forme, senza indebolire ovviamente la produttività e le performances delle aziende.

Chiudo con una frase di Papa Francesco tra le tante. In una intervista del 2018 diceva così: «Quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà, di schiavitù e di scarto».




Messaggio CEI per il 1 maggio 2024
Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia.

Messaggio dei Vescovi per la Festa dei Lavoratori (1° maggio 2024) . “Il lavoro per la partecipazione e la democrazia”

  Lavorare è fare “con” e “per”.
 «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Queste parole di Cristo aiutano a vedere che con il lavoro si esprime «una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre» (Laborem exercens, 26). Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un “fare qualcosa”, ma è sempre agire “con” e “per” gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana» (Centesimus annus, 41). In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la “cosa pubblica” è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico. È particolarmente significativo che le Chiese in Italia siano incamminate verso la 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio), sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia.
Il “noi” del bene comune: la priorità del lavoro.
Come ricorda Papa Francesco in Fratelli tutti, per una migliore politica «il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (n.162).  Le politiche del lavoro da assumere a ogni livello della pubblica amministrazione devono tener presente che «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro» (ivi). Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei “pensatori” che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti (cfr. Fratelli tutti, 169). Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. È necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile.
Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia.
 “A ciascuno il suo” è questione elementare di giustizia: a chiunque lavora spetta il riconoscimento della sua altissima dignità. Senza tale riconoscimento, non c’è democrazia economica sostanziale. Per questo, è determinante assumere responsabilmente il “sogno” della partecipazione, per la crescita democratica del Paese.

  • Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione. Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali.
  • Un lavoro dignitoso esige anche un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale, che sono i concreti segnali di giustizia di tutto il sistema socioeconomico (cfr. Laborem exercens, 19). Bisogna colmare i divari economici fra le generazioni e i generi, senza dimenticare le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Fino a quando non saranno riconosciuti i diritti di tutti i lavoratori, non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese. A questo compito di giustizia sono chiamati anche gli imprenditori, che hanno la specifica responsabilità di generare occupazione e di assicurare contratti equi e condizioni di impiego sicuro e dignitoso.
  • I lavoratori, consapevoli dei propri doveri, si sentano corresponsabili del buon andamento dell’attività produttiva e della crescita del Paese, partecipando con tutti gli strumenti propri della democrazia ad assicurare, non solo per sé ma anche per la collettività e per le future generazioni, migliori condizioni di vita. La dimensione partecipativa è garantita anche dalle associazioni dei lavoratori, dai movimenti di solidarietà degliuomini del lavoro e con gli uomini del lavoro che, perseguendo il fine della salvaguardia dei diritti di tutti, devono contribuire all’inclusione di ciascuno, a partire dai più fragili, soprattutto nelle aziende.
  • Le Chiese in Italia, impegnate nel Cammino sinodale, continuano nell’ascolto dei lavoratori e nel discernimento sulle questioni sociali più urgenti: ogni comunità è chiamata a manifestare vicinanza e attenzione verso le lavoratrici e i lavoratori il cui contributo al bene comune non è adeguatamente riconosciuto, come anche a tenere vivo il senso della partecipazione. In questa prospettiva, gli Uffici diocesani di pastorale sociale e gli operatori, quali i cappellani del lavoro, promuovano e mettano a disposizione adeguati strumenti formativi. Ciascuno deve essere segno di speranza, soprattutto nei territori che rischiano di essere abbandonati e lasciati senza prospettive di lavoro in futuro, oltre che mettersi in ascolto di quei fratelli e sorelle che chiedono inclusione nella vita democratica del nostro Paese.

 Roma, 24 gennaio 2024
La Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace




Commercio armi. Una legge per nascondere
G.Beretta (ROCCA)

COMMERCIO ARMI
Una legge per nascondere
Giorgio Beretta[1] (Rocca 1 marzo 2024)

Lo scorso 21 febbraio è stato appro­vato al Senato il Disegno di legge (Atto Senato n. 855) di iniziativa governativa che modifica la legge n. 185 («Nuove norme sul control­lo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento»), leg­ge che dal 1990 regolamenta le esporta­zioni italiane di armamenti. Col pretesto di apportare «alcuni aggior­namenti» per «rendere la normativa na­zionale più rispondente alle sfide deri­vanti dall’evoluzione del contesto inter­nazionale», il governo Meloni intende porre sotto il proprio controllo e limita­re l’applicazione dei divieti sulle espor­tazioni di armamenti, ridurre al minimo l’informazione al parlamento e alla so­cietà civile eliminando, tra l’altro, dalla Relazione ufficiale annuale tutta la do­cumentazione riguardo alle operazioni svolte dagli istituti di credito nell’import-export di armi e sistemi militari italiani.
La legge sull’export di armamenti.
La legge 185/90 è stata una conquista del­le associazioni cattoliche e laiche che ne­gli anni Ottanta con la campagna «Contro i mercanti di morte» hanno promosso un’ampia mobilitazione nazionale denun­ciando gli scandali del commercio italia­no di armamenti: mobilitazione che ha portato il parlamento a definire norme ri­gorose per impedire l’esportazione di ma­teriali militari non solo agli Stati sottopo­sti a misure di embargo, ma anche a Paesi coinvolti in conflitti armati, a governi re­sponsabili di gravi violazioni dei diritti umani e verso Paesi la cui politica contra­sta con i principi dell’articolo 11 della Co­stituzione. Prima, per cinquant’anni, era rimasta in vigore la legge fascista promul­gata col Regio Decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941, firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, con cui l’intera materia delle esportazioni di armamenti era vin­colata al «segreto di Stato» e sottratta al­l’esame del Parlamento.
Il veto del Governo sui divieti.
Con la riforma prospettata dal Disegno di legge l’applicazione di questi divieti viene sottoposta alla discrezione del Governo attraverso il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd) presieduto dal Presidente del Consiglio. Un simile Comitato era pre­visto in origine dalla legge, ma successi­vamente era stato cancellato. Adesso vie­ne reintrodotto per «assicurare un coordi­namento adeguato al massimo livello po­litico delle scelte strategiche in materia di scambi di armamento», si legge nella rela­zione della Relatrice, la senatrice Stefania Craxi (Forza Italia). Ma, di fatto, con un’unica funzione: porre il veto ai divieti alle esportazioni di armi che il Ministero Affari Esteri e Cooperazione Interna­zionale (Maeci), su proposta dell’Autorità nazionale Uama (Unità Autorizza­zioni Materiali Armamento), può de­cidere in applicazione delle norme stabili­te dalla legge e, soprattutto, delle decisio­ni votate dal Parlamento. Il  Comitato Interministeriale Scambi Difesa (Cisd) avrà, infatti, quindici giorni di tempo per esa­minare i divieti proposti dal Maeci e da Uama e potrà annullare ogni loro propo­sta di divieto senza che nessuno, nemme­no il Parlamento, ne sappia nulla. È, in concreto, la nuova formula del «segreto di Stato» del governo Meloni che si attua an­che attraverso un’ampia serie di ulteriori modifiche alla legge. Ciò che si vuole evitare è il ripetersi di casi come quello del gennaio 2021 in cui Uama e il ministero degli Esteri, a seguito di una “soluzione parlamentare votata ad ampia maggioranza, hanno revocato le licenze di esportazione di «bombe e missili» ad Ara­bia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per il loro coinvolgimento nel conflitto in Yemen: un conflitto che ha causato più di 20mila vittime tra la popolazione civile innescan­do una gravissima catastrofe umanitaria tuttora in corso. La decisione di Uama e del ministero degli Esteri ha creato fibrillazioni nell’industria militare che per la prima volta, nei trent’an­ni dall’entrata in vigore della legge, si è vi­sta revocare alcune licenze in base alle pre­scrizioni della legge.
Ridurre l’informazione al Parlamento.
Ma ciò a cui il Governo mira con il disegno di legge è soprattutto ridurre l’informazione al Parlamento e alla società civile. Informa­zione che è già stata erosa negli anni, ma che è tuttora garantita dalla Relazione che la Presidenza del Consiglio deve inviare ogni anno alle Camere riportando tutte le opera­zioni autorizzate e svolte riguardo alle espor­tazioni di armamenti. Oggi la Relazione deve, infatti, contenere «indicazioni analiti­che – per tipi, quantità e valori monetari – degli oggetti concernenti le operazioni con­trattualmente definite indicandone gli stati di avanzamento annuali sulle esportazioni, importazioni e transiti di materiali di arma­mento e sulle esportazioni di servizi oggetto dei controlli e delle autorizzazioni previste dalla presente legge» (Art. 5). Nel disegno di legge, il governo si era però limitato a chiedere di «rafforzare la piena leggibilità della relazione» ( … ) «preferendo, laddove possibile, la presentazione di sinte­si esplicative delle attività esaminate alla mera produzione di allegati documentali». Il colpo di grazia è arrivato, invece, da un emendamento (emendamento 1.15 testo 2) presentato in Commissione al Senato che modifica radicalmente la Relazione annua­le. Se verrà approvato anche alla Camera non sarà più richiesto, come previsto fin dall’en­trata in vigore della legge 185/90, che la Re­lazione annuale contenga le succitate «indi­cazioni analitiche», ma soltanto – come già avviene – «i Paesi di destinazione con il loro ammontare suddiviso per tipologia di equi­paggiamenti» e «con analoga suddivisione, le imprese autorizzate» e «l’elenco degli ac­cordi da Stato a Stato».
Sparisce la lista delle «banche armate».
Ma soprattutto dalla Relazione verranno eliminati tutti i dati sulle singole auto­rizzazioni ed esportazioni per tipo di armi, quantità e valore e tutte le infor­mazioni riguardo alle attività delle ban­che. Sono proprio queste informazioni che hanno finora permesso di ricostrui­re e documentare numerose esportazio­ni di materiali d’armamento a Paesi ari­schio e di conoscere gli istituti di credito che le hanno appoggiate. I correntisti non sapranno più dalla Relazione annuale quali sono le banche, nazionali ed este­re, che traggono profitti dal commercio di armi in particolare verso regimi auto­ritari e Paesi coinvolti in conflitti arma­ti. Grazie alla costante e meticolosa azione della Campagna di pressione alle «banche armate», dal 2000 tutte le banche hanno adottato delle direttive di responsabilità sociale di impresa per definire la loro po­sizione riguardo non solo alla produzio­ne e alla commercializzazione di armi nu­cleari, mine anti-persona, bombe a grap­polo ma anche riguardo agli armamenti convenzionali. Con l’emendamento appro­vato al Senato viene cancellato l’obbligo di riportare nella Relazione governativa tutte le informazioni sugli istituti di cre­dito e quindi di poter avere dalla fonte ufficiale informazioni precise sulle atti­vità bancarie. Un favore all’Aiad, l’Asso­ciazione nazionale che raduna tutte le 214 principali aziende del settore della dife­sa, che ha ripetutamente accusato le ban­che di «voler fare le etiche» limitando fi­nanziamenti e sevizi all’industria milia­re. La legge 185/90 non è mai stata accettata dall’industria militare e dai centri di infor­mazione e di ricerca ad essa collegati. Con queste modifiche, promosse dal governo Meloni, ma sostenute anche da alcuni rap­presentanti dell’opposizione, si vogliono mettere a tacere le associazioni attive nel controllo dell’export militare. In vista del­l’esame alla Camera la Rete italiana pace e disarmo ha predisposto una mobilitazio­ne nazionale per impedire che il commer­cio italiano di armi torni ad essere oggetto di una pericolosa opacità che non favori­sce la promozione della pace e della sicu­rezza comune, ma alimenta guerre e vio­lenze, sostiene le violazioni dei diritti e provoca morti innocenti in tante zone del mondo. Tutte le informazioni sono dispo­nibili su sito: www.retepacedisarmo.org


[1] Giorgio Beretta è analista del com­mercio interazio­nale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni. Svol­ge la sua attività di ricerca per l’Osserva­torio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurez­za e difesa (Opal) di Brescia che fa parte della Rete italiana pace e disarmo (Ripd).




L’inverno demografico una questione scottante.
P. Montesperelli (Rocca)

L’inverno demografico una questione scottante.
Paolo Montesperelli[1] (Rocca 04/02/2024)

Il cosiddetto «inverno demografico», cioè il calo e l’invecchiamento della popolazione italiana, raggela il san­gue … di fronte a un problema che si sta arroventando. È una rivoluzione silenziosa, senza botti, clamori, barricate; eppure è dirom­pente la sua portata attuale e, forse ancor più, quella futura.
Non dare torto ai fatti.
Partiamo da qualche dato. Dagli anni ’90 fino al 2014 la quantità della popolazione in Italia è rimasta sostanzialmente stabi­le: la diminuzione degli italiani veniva compensata dall’ingresso degli stranieri. Dal 2015 il totale della nostra popolazione (italiani e stranieri) diminuisce sensibil­mente. Secondo le previsioni dell’Istat, nel 2070 saremo 10 milioni in meno; è come se ogni anno perdessimo una città come Trieste. Nell’ipotesi peggiore ci ritrovere­mo con 20 milioni di persone in meno. Diminuisce la popolazione complessiva, ma aumenta la proporzione degli anziani. Questo progressivo invecchiamento è mol­to evidente se consideriamo la classe di età più numerosa nel corso degli anni. Nel 1861 prevaleva la categoria da 0 a 4 anni di età; nel 2003 il primato passava alla clas­se 34-39 anni; nel 2023 la maggioranza ri­guarda i 55-59enni; nel 2050 probabilmen­te quella più estesa sarà la classe dei 70-74enni. Ma già prima di quella data po­tremmo scalare la classifica: potremmo non essere uno dei Paesi più vecchi al mondo, ma in assoluto il più vecchio. Perché la popolazione italiana invecchia? Per almeno due ragioni: la vita si è pro­lungata; e nascono meno bambini. Partia­mo dal primo grande processo. Viviamo più a lungo, il che, naturalmente, è un gran bene che ci rende tutti più sicuri e più sod­disfatti. Anche qui può essere utile guar­dare alle nostre spalle. Per chi nasceva nel 1861, vi era un’alta probabilità di morire intorno a 30 anni; ovviamente molti supe­ravano quella soglia, ma la mortalità in­fantile era molto diffusa. Chi nasceva nel 1921 poteva fondatamente sperare di so­pravvivere fino a 50 anni. Nel 2021 siamo passati a 82 anni. Oggi, rispetto a quanto accadeva in passato, è come se ogni anno guadagnassimo 3-4 mesi di vita in più. Las­senza di guerre, i progressi della medici­na e della qualità della vita spiegano que­sto importantissimo miglioramento. Passiamo ora al secondo grande proces­so, il calo delle nascite. Nel 1952 per ogni donna in età fertile nascevano in Italia cir­ca 2,5 bambini; nel nostro Meridione qua­si 3,5 bambini. Oggi il rapporto è dimez­zato, siamo all’1,2; inoltre dal 2004 sono praticamente sparite le differenze fra ter­ritori; sicché anche il Meridione si è alli­neato al ribasso, con tutte le altre aree ita­liane. Se nascessero 2 figli per coppia di genito­ri, il ricambio generazionale garantirebbe la stabilità della popolazione. Invece, come abbiamo visto, siamo ben al di sotto di quella soglia e ciò spiega in gran parte per­ché la nostra popolazione si riduce a gran­di passi. Un paio di altri dati conferma questo andamento: nel 1964 è nato più di un milione di bambini; nel 2021 appena 400mila, meno della metà.
Demografia, lavoro: due trappole.
Ciò sta innescando quella che gli esperti chiamano «la trappola demografica», cioè una specie di spirale in caduta: avere meno figli oggi significa meno genitori domani; il calo dei genitori determinerà la riduzio­ne del totale dei figli; quando questi pochi figli diventeranno genitori, essi genereran­no ancor meno figli e così di seguito. In­somma, se non scardineremo quella trap­pola, se non subentreranno interventi pro­fondi, gli italiani saranno sempre meno e con sempre più anziani. Gli effetti negativi dell’invecchiamento sono molti: aumentano le necessità legate alla sanità, alla previdenza e all’assistenza e ciò fa crescere il debito pubblico. A pari­tà di risorse, se lo Stato spendesse di più per gli anziani, spenderebbe meno per i giovani, che oggi rappresentano una nuo­va emergenza sociale.
Un’altra «trappola» riguarda il mercato del lavoro, che incide sullo scenario che sto richiamando. In estrema sintesi, gli occu­pati regolari versano i contributi che finan­ziano le pensioni degli anziani; ne versa­no relativamente pochi, solo perché sono molto bassi i salari, fra i più bassi di Euro­pa. Ma se non aumenterà di molto l’occupa­zione e se la popolazione continuerà a di­minuire, decresceranno anche i lavorato­ri regolari e quindi si ridurranno ulterior­mente le risorse per le pensioni. Insomma lo scenario è grigio scuro sia per i pensio­nati, nel timore di ulteriori tagli alle pen­sioni; sia nei giovani, per il rischio di esse­re oggi disoccupati e domani pensionati poveri. In alcune regioni già oggi ci sono 3 occu­pati ogni 4 pensionati. E evidente lo squi­librio. Allora bisognerebbe aumentare gli occupati e regolarizzare quelli che già la­vorano: il lavoro nero e precario sono uno spreco per la comunità, oltre a rappresen­tare una forma vergognosa di sfruttamen­to. Il nostro mercato del lavoro è avaro, sì, ma anche «maschilista», perché sfavorisce le donne: rispetto alle opportunità degli uo­mini, poche, mediamente, riescono a tro­vare un’occupazione; se vi riescono, soven­te il lavoro è meno qualificato e le possibi­lità di carriera sono più ridotte.
Qualcosa di analogo capita a tanti giova­ni. Il 23% di loro è «scoraggiato», cioè non studia più, non lavora né cerca lavoro. An­che questa è una risorsa dispersa, dilapidata: il nostro Welfare avrebbe molto bisogno di immettere nel mondo del lavoro tanti lavoratori giovani, per rispondere all’invec­chiamento progressivo e rapido della no­stra popolazione. Purtroppo alcuni dati anche recenti ci dicono che aumenta l’oc­cupazione ma non quella dei giovani.
Per riequilibrare il rapporto fra gli anziani e le altre classi di età, dovrebbero aumen­tare in maniera consistente le nascite, che invece sono in forte calo, come abbiamo visto. Su questo argomento fino a poco tem­po fa era facile incontrare giudizi trancian­ti e moralistici: «le coppie sono egoiste», «le donne non vogliono più rispondere alla loro più importante vocazione che è l’essere madri» e amenità del genere. Ora i dati resi pubblici sono talmente eclatanti da ridurre fortemente le spiegazioni semplicistiche.
Urgenze, prospettive …
In altri Paesi il calo delle nascite è stato ri­dotto solo grazie a interventi sociali ade­guati. Una seria politica per la natalità deve saper guardare molto avanti, giacché i pro­cessi demografici non possono essere inter­rotti dalla sera alla mattina e i loro effetti si riproducono in un ampio lasso di tempo prima di tornare indietro. In altre parole, dobbiamo porre in campo politiche «strut­turali», stabili nel tempo, dotate di una grande capacità programmatoria; non pan­nicelli caldi, o interventi-tampone che cam­biano col passaggio da un governo all’altro, tanto per rastrellare un po’ di consenso in vista delle prossime elezioni.
Sarebbero auspicabili vari interventi corag­giosi: politiche di supporto (non risicato) al reddito delle famiglie; politiche fiscali di sostegno alle coppie giovani; congedi geni­toriali di vario tipo; la diffusione di asili nido pubblici e di altri servizi per bambini (oggi molto scarsi, soprattutto al Sud). E poi do­vremmo smettere di frapporre ostacoli de­rivanti dal tipo di famiglia o dalla cittadi­nanza dei genitori e dei loro figli: fosse solo perché non ce lo possiamo più permettere. Però su questo scenario non si allungano solo ombre. La presenza di tanti anziani compor­ta anche alcuni vantaggi, che però spesso sono sottovalutati. Le loro pensioni, per quanto spesso magre, garantiscono entrate regolari ai pensionati stessi, ai loro figli e ai loro nipoti. Insomma, le pensioni sono un’importante forma di «welfare familiare». Un tempo essere anziani comportava mag­giori rischi di fragilità economica rispetto invece ai giovani. Ora il rapporto è invertito, non perché la situazione degli anziani sia migliorata, ma soprattutto perché quel­la dei giovani è peggiorata. Ad esempio, se consideriamo le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta, quelle con almeno un anziano sono il 5,6%, mentre le famiglie giovani con almeno un figlio minore sono ben il 13,4%.
Un altro vantaggio derivante dall’invec­chiamento della popolazione è rappresen­tato dall’incremento di prodotti e servizi destinati alla terza età; secondo alcuni eco­nomisti, ciò determina l’aumento del 5% annuo della nostra crescita economica. Alcuni importanti settori e attività produt­tive si giovano proprio del fatto che si estende la «silver economy». Pensiamo ad alcuni servizi oggi molto rilevanti: il turi­smo per anziani; la ristrutturazione delle case per renderle più agevoli; la mobilità assistita; la telemedicina; i centri di riabi­litazione, ginnastica o danza; la ristorazio­ne capace di garantire una migliore salu­brità degli alimenti; e molto altro ancora.
. . . e una nuova «terza età».
Ciò che più colpisce anche un osservatore distratto è il fatto che gli attuali anziani sono molto diversi da quelli di ieri e del­l’altro ieri. Oggi la loro salute è mediamente assai migliore, tanto che un settantenne di oggi è molto più giovanile di un settanten­ne di ieri. Il livello di scolarizzazione è ben più alto. L’attuale «terza età» è più esigen­te nella domanda di cultura e di prodotti (materiali e immateriali) di elevata quali­tà. Ormai non è affatto difficile trovare anziani «smanettoni», abili col computer, naviganti di lungo corso nei mari di inter­net (il 40% degli anziani usa regolarmente internet, una percentuale impensabile fino a pochi lustri fa).
Particolare non da poco: la maggiore du­rata della vita consente agli anziani di avere più tempo da progettare e investire per il futuro, non solo a favore proprio e dei pro­pri familiari e parenti; ma anche per la comunità circostante. Pensiamo al volon­tariato, all’associazionismo, alle parroc­chie, ai comitati di quartiere, ad altre isti­tuzioni basate sulla condivisione: sono tut­te occasioni che vedono una forte parteci­pazione di anziani, animati dal desiderio di contribuire al bene comune e alla de­mocratizzazione della vita civile. Come a dire: esiste un rapporto fra demografia e democrazia e tale rapporto implica anche qualche risvolto positivo.


[1] Professore ordina­rio di sociologia all’Università di Roma «La Sapien­za»




Basta coi cattolici sonnambuli
De Rita (Avvenire)

«Basta coi cattolici sonnambuli. Ma per incidere serve una lunga marcia»
De Rita, sociologo e fondatore del Censis
Angelo Picariello (AVVENIRE 18/02/2024)
https://avvenire-ita.newsmemory.com/?token=09c8d1eb14086cf29f0ec54cb1e4f388_63033edf_5eca5

Ci sono anche i cattolici fra i “sonnambuli” descritti dall’ultimo rapporto Censis, e questo atteggiamento fra l’impaurito e il rinunciatario caratterizza anche il loro atteggiamento politico. Per Giuseppe De Rita «il sonnambulo è un cattolico che compie una serie di peccati di omissione, un cittadino egoista per paura che tralascia di fare tante cose, dal civile al religioso, dall’andare a votare all’andare a messa». Per il fondatore del Censis, si tratta di ripartire dalle fondamenta, «dalla pre-politica, dalla realtà. Non esiste cristianesimo che non si occupa della realtà. A partire dal tema più pressante, la denatalità ». Affermazione che, proferita dal padre di 8 figli (e nonno di 15 nipoti), assume un senso quanto mai concreto.

Pagnoncelli evidenziava però che anche i cattolici praticanti finiscono spesso per chiedere alla politica solo di migliorare la loro condizione.

È una situazione generalizzata, di una politica che si occupa solo degli interessi singoli e non di mediare con gli interessi collettivi, nella prospettiva del bene comune. Imperversa la politica dei “bonus”, lo Stato che regala, a questo o a quello. Senza una “visione”, una vera proposta politica.

A elaborarla dovrebbero essere i cosiddetti corpi intermedi, voluti proprio dai cattolici in Costituzione.

Ma noi assistiamo alla loro desertificazione. La dottrina sociale della Chiesa nasce con Leone XIII, a fine Ottocento, ma allora c’erano dei sindacati forti, c’era la lega delle cooperative “rosse” e c’erano quelle “bianche”, le casse di mutualità: una boscaglia di cespugli intermedi. Ci sono stati poi i coltivatori diretti, che sono andati oltre la logica di classe dei braccianti, per farsi piccoli imprenditori. La grande intuizione della Dc fu quella di dare voce a queste realtà, creando un interclassismo dinamico e un ascensore sociale che permise a tanti poveri e analfabeti di affrancarsi, o di affrancare i propri figli da quella condizione.

Tutte le sigle che cita ci sono e operano ancora.

Ma è sotto gli occhi di tutti che la politica è diventata un’altra cosa, cerca il rapporto diretto con i cittadini, senza mediazioni. Disancorata dalla realtà, che è costituita anche dai tanti luoghi in cui la dignità dell’uomo si realizza, come stabilisce la Costituzione, dalla famiglia ai partiti, dai sindacati alle associazioni. Manca del tutto una dialettica sociale.

Un cattolico che vuol partecipare oggi, da dove può iniziare?

Bisogna intendersi sul significato di partecipare. Se uno vuol partecipare alla vita politica per sua ambizione non è neanche tanto difficile. Le strutture di partito ci sono e sono anche scalabili facilmente, lo ha fatto Renzi nel Pd, e ora Schlein con l’operazione primarie; lo ha fatto Conte con il M5s, Salvini nella Lega. Il problema si pone per chi ha voglia di dare il suo contributo alla collettività, senza l’ambizione di fare politica in prima persona. Dove va, e come fa, in questa situazione?

Lei ha partecipato a molti incontri in ambito cattolico per una nuova progettualità politica. Realtà che però faticano a rendersi visibili, incisive. Che giudizio ne ha tratto?

Li ho trovati molto “caldi”, interessanti e carichi di passione. Ma poi manca la perseveranza, la consapevolezza di dover fare una lunga traversata per cambiare le cose. Bisogna riprendere l’impegno dal basso, dagli enti locali, dalle comunità montane, dalle parrocchie, dal Terzo settore.

Non è che manchi, in Italia, l’impegno del Terzo settore.

Ma manca la capacità di fare il passo ulteriore, decidendo che cosa fare da grandi per elaborare una proposta politica.

Sta parlando di un partito?

Sarà per inclinazione professionale, ma preferisco parlare di pre-politica. Non in modo astratto. Parlo di proposte politiche chiare e puntuali, su temi specifici, in realtà concrete.

L’arcivescovo Paglia parla anche della necessità di una nuova pastorale.

Ho in mente una mia personale esperienza, nel 1974, quando il cardinale vicario Ugo Poletti mi coinvolse con monsignor Di Liegro, monsignor Clemente Riva e Luciano Tavazza per una riflessione sui “mali di Roma”. Il cardinale, scherzando mi disse che era dai tempi di Federico Barbarossa che un laico non parlava nella Cattedrale di San Giovanni. Due anni dopo, nel 1976, ci fu il convegno “Evangelizzazione e promozione umana”, che aprì una stagione di grande impegno nella Chiesa e di grande rinnovamento politico. Bisogna riprendere a fare questo: promozione umana.

La Settimana sociale di Trieste può essere l’occasione?

Certamente, ma bisogna farsi carico maggiormente di quel che il Papa chiede in continuazione, di uscire dal nostro ambito, non basta parlare fra noi 

Elaborare proposte pre-politiche può essere di aiuto anche a chi ha scelto di fare politica ma, in questo quadro asfittico, fa fatica a incidere?

Sicuramente. Bisogna ripartire del livello parrocchiale e diocesano. Scegliere dei temi, fare delle proposte operative. Il cristianesimo nasce nella realtà, e si è sempre sviluppato nella realtà. Poi, per paura dei protestanti e dei comunisti, abbiamo preso un po’ l’abitudine di limitarci a professare la dottrina, la verità, con una certa astrattezza, Senza più appassionarsi alla realtà.

Intanto i cattolici in politica sono divisi, spesso impegnati a inviarsi scomuniche a vicenda.

Non mi pare saggio. Siamo già pochi, dovremmo almeno cercare di andare d’accordo fra noi…

L’idea di una nuova Camaldoli europea lanciata dal cardinale Zuppi la condivide?

Condivido. Si tratta di riprendere in mano, tutti insieme, una grande profezia di pace e sviluppo. Ma servono uomini e cristiani all’altezza di questa grande sfida.

I giovani, dopo decenni di crisi della politica, hanno un’idea molto vaga dell’impegno il bene comune. Non si rischia di offrire loro una risposta a una domanda che non si pongono?

Bisogna allora lavorare con loro perché questa domanda torni a nascere. Non possono loro rassegnarsi a un cristianesimo che rinunci a incidere, e non noi possiamo trasferire loro un’idea così ridotta, miope e falsata, del cristianesimo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA «Il Terzo settore deve fare un passo in più, elaborare proposte.

Bene l’idea di una “Camaldoli europea”. I credenti smettano di lanciarsi scomuniche reciproche, siamo già pochi, meglio provare a lavorare insieme»

Giuseppe De Rita, 91 anni,




Sul FINE-VITA in E.R.
D. Menorello (Avvenire)

«Ecco cosa non va nella delibera dell’Emilia-Romagna sul fine vita»

Domenico Menorello   (AVVENIRE martedì 13 febbraio 2024)

https://www.avvenire.it/vita/pagine/l-intervento-ecco-cosa-non-va-nella-delibera-del-emilia-romagna-sul-fine-vita

Incongruenze, errori tecnici, nodi etici: il giurista Domenico Menorello (network “Sui tetti”), del Comitato nazionale per la Bioetica, sull’atto che regola il percorso per il suicidio assistito.

Sul molto complesso tema del cosiddetto “fine vita”, ben venga un dibattito alto e pluralista sulle finalità perseguibili dal Servizio sanitario nazionale, ma allo scopo ogni attore deve interpretare con lealtà la propria parte. Allora, senza entrare in questa sede nel merito delle differenti visioni antropologiche che trascinano differenti concezioni anche del “bene” cui sono preposte le istituzioni (per chi scrive, si rimanda al libello L’eutanasia non è la soluzione, Cantagalli-Tempi, 2023), è necessario attirare l’attenzione su alcune gravi criticità metodologiche contenute nella recente iniziativa meramente amministrativa dell’Emilia-Romagna (dgr 194/24 e determina direttoriale 2596/24), che introducono nel dialogo pubblico anche inaccettabili mistificazioni.
1. Prima premessa: l’art. 97 della Costituzione accoglie il fondamentale principio di legalità, secondo il quale tutti gli atti amministrativi devono essere previsti da una norma legislativa, in quanto nella Repubblica è solo la rappresentanza legislativa l’interprete della sovranità popolare sancita dall’art. 1 della stessa Carta fondamentale. Ciò vale soprattutto per le prestazioni sanitarie erogate dagli ospedali pubblici. Sul punto, la giurisprudenza della Corte costituzionale è granitica nell’affermare che solo «il legislatore nazionale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 282/2002, n. 353/2003, n. 338/2003, n. 134/2006, n. 115/2012, n, 231/2017, n. 72/2020, n. 91/2020). Per tale ragione, la legislazione nazionale, fra cui l’art. 1, comma 554, della legge 208/2015 e l’art. 1, comma 7, D. Lgs n. 502/1992, ha affidato la fissazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) a un Decreto della Presidenza del Consiglio (cfr. Dpcm 12.1.2017).
Seconda premessa: molti chiedono che il Servizio sanitario pubblico assicuri una nuova prestazione, quale sarebbe l’assistenza medica e farmacologica a una persona che domandi un farmaco e modalità sanitarie idonee per suicidarsi. La domanda allora è semplice: esiste una legge o un Lea che preveda tale prestazione? La risposta è certamente negativa. Esistono ben due leggi sul cosiddetto “fine vita”, la 219/2017 e la 38/2010, ma nessuna prevede una prestazione sanitaria di procurare la morte. Di qui, i sostenitori del suicidio medicalmente assistito (Sma) hanno proposto 15 leggi regionali, benché le Regioni non abbiano alcuna competenza a legiferare in materia, come acclarato dal parere dell’Avvocatura generale dello Stato del 15 novembre 2023. Lo stesso governatore dell’Emilia-Romagna in un’intervista a Repubblica del 13 febbraio 2024, si dichiara «in attesa della legge nazionale», ritenendo che «fare 20 leggi regionali sul fine vita sarebbe ridicolo». Invece, la determina direttoriale 2596/24, al punto 5, impone alle Aziende sanitarie emiliano-romagnole di «assicura[re] l’attuazione» del suicidio assistito con «l’individuazione di personale adeguato» nonché «fornendo» i farmaci indicati dagli organi consultivi, quindi introducendo una prestazione sanitaria obbligatoria priva di copertura di legge, e quindi illegittima per violazione degli artt. 97 e 117 della Costituzione.
2. Se non esiste alcuna legge che consenta una prestazione sanitaria (Lea) per procurare la morte, questa è forse consentita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, visto che il governatore dell’Emilia-Romagna, nella medesima intervista, giustifica i propri atti amministrativi anche «per dare applicazione alla sentenza della Corte»? Per la verità, se non vogliamo sovvertire le dinamiche costituzionali, mai si potrebbe invocare una sentenza come se fosse una legge-quadro del Parlamento (cfr. Antonio Ruggeri, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, Giappichelli, febbraio 2024). In ogni caso, non è assolutamente vero che gli atti emiliano-romagnoli siano consequenziali al dictum della Consulta. Anzi, se ne allontanano sensibilmente.
In primo luogo, la sentenza 242/19 della Corte costituzionale è inequivocabile nel precisare che «la declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Quindi, non si può prevedere – come invece accade con una semplice determina in Emilia-Romagna – un obbligo di prestazione sanitaria sulla base di tale pronuncia, che ha un significato del tutto diverso, solamente indicando, cioè, alcuni requisiti in presenza dei quali, e del tutto eccezionalmente, l’aiuto al suicidio non sarebbe penalmente perseguibile.
In secondo luogo, la stessa sentenza della Corte 242/2019 ritiene necessario che la verifica di tali requisiti avvenga a mezzo dell’«intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze» e ha deciso che «nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti», individuati addirittura citandone gli estremi legislativi nazionali di riferimento, cioè «l’art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012» (poi legge 3/2018) e «l’art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013». Ebbene, si tratta dei cosiddetti Cet, Comitati etici territoriali, con competenze anche per il fondamentale profilo farmacologico, da ultimo costituiti in forza del dm 23A00852 del 26 gennaio 23 e che hanno una composizione omogenea sul territorio nazionale, sulla base dell’ulteriore dm 23A00853 del 30.1.23. Invece, la dgr emiliano-romagnola 194/2024 istituisce due comitati totalmente sganciati dalla normativa nazionale. È come se per suonare la Nona di Beethoven anziché un’orchestra sinfonica si incaricasse una rock band… Ne uscirebbe una musica ben diversa. Così, allo stesso modo, se ogni Regione potesse istruire comitati a proprio piacimento per interpretare i requisiti della Corte si otterrebbe esattamente quella babele in tema di prestazioni sanitarie incidenti sulla vita e sulla morte palesemente incostituzionale e che lo stesso Bonaccini bolla come risultato «ridicolo». Quel che è certo è che affidare le valutazioni di cui alla sentenza 242/2019 a organi diversi da quelli indicati dalla stessa pronuncia significa violare e non certo “applicare” i precetti della Corte.
3. Infine, la dgr 194/2024 assume fra i propri presupposti la decisione del Comitato nazionale per la Bioetica (24 febbraio 2023), ma nella propria motivazione non cita quanto effettivamente deliberato dall’organo consultivo del governo bensì la postilla di sette componenti che hanno dissentito non votando la delibera stessa. In effetti, il parere ufficiale del Cnb è esattamente nel senso opposto a quello che si legge nella delibera emiliana, perché, per le valutazioni sui requisiti per l’esimente dal reato ex art. 580 Codice penale indica «i Comitati etici territoriali di cui al decreto del 26 gennaio 2023» (gli stessi prescelti dalla sentenza della Corte). Non solo: lo stesso Cnb «ritiene anche che debba essere fatto ogni sforzo per evitare che vi siano approcci troppo differenziati o addirittura contrastanti nella valutazione delle condizioni indicate dalla Corte costituzionale», il che significa esplicitamente escludere la possibilità che ogni Regione si costruisca Comitati etici a propria immagine. Dunque, che l’Emilia-Romagna sia andata nella direzione opposta a quella auspicata dal Cnb, addirittura facendo intendere di seguire l’orientamento dello stesso organo di indirizzo bioetico, è decisione non solo certamente illegittima ma che costituisce anche un precedente inaccettabile sul piano delle corrette relazioni fra istituzioni.




Nigeria. Cristiani perseguitati.
P.M. Alfieri (Avvenire)

Nigeria. Cristiani perseguitati.
Paolo M. Alfieri (AVVENIRE 7 febbraio 2024)
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/nel-mirino-sono-finite-oltre-duemila-scuole-cristi

In 15 anni 52mila fedeli uccisi, tragedia nascosta in Nigeria. Nel mirino sono finite oltre duemila scuole cristiane e 18mila luoghi di culto. Numerosi i sacerdoti rapiti, alcuni poi assassinati. La lotta per le risorse si mescola al fanatismo religioso. Una vera “guerra” che pochi vogliono definire tale. Da una parte il terrorismo di Boko Haram, dall’altra i pastori nomadi Fulani che razziano anche le terre altrui. Debole la risposta del governo. La Chiesa invita al dialogo.

Quand’è che una guerra si può definire guerra? Servono ancora dichiarazioni formali? Due eserciti contrapposti? O è necessario raggiungere un certo numero di morti per far scattare la definizione? Sono anni che la Nigeria, gigante africano da 200 milioni di abitanti, è in guerra con sé stessa. E se a lungo è stato il terrorismo islamista di Boko Haram negli Stati a maggioranza islamica del Nord a richiamare l’attenzione, da qualche tempo è la fascia centrale del Paese, la cosiddetta “Cintura di mezzo”, la zona in cui il sangue scorre più copiosamente. La lotta per le risorse qui si mischia facilmente alle differenze etniche e religiose, in un contesto che vede crescere la competizione tra i mandriani islamici Fulani in arrivo dalle terre di un nord sempre più arido e gli agricoltori cristiani locali, con questi ultimi da tempo nel mirino.
Basta vedere quanto accaduto a Natale, quando per quattro giorni, nello Stato di Plateau, oltre un migliaio di Fulani ha attaccato circa 25 comunità cristiane, tra le zone di Bokkos, Mangu e Barkin Ladu. I morti sono stati quasi 170, tanto che nello Stato ora vige il coprifuoco. «Molti sfollati hanno cercato rifugio nelle chiese, con le organizzazioni religiose che hanno fornito assistenza primaria, data l’assenza di sostegno da parte del governo», sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Jalang Mandong, un sopravvissuto che ha perso dieci parenti nel massacro, ha riferito che gli attacchi avevano lo scopo di «prendere di mira i cristiani» e «disturbare la celebrazione del Natale», tentando anche di «impossessarsi delle terre di queste comunità». Lotta per le risorse e fanatismo religioso, in un mix sempre più complicato ma facilmente replicabile. Tanto che le violenze si sono ripetute, ancora, la scorsa settimana, con oltre 50 vittime nella stessa zona: scuole, luoghi di culti e case date alle fiamme e il dito puntato, ancora una volta, contro i pastori musulmani Fulani.
Originari del nord della Nigeria, sempre più soggetta a siccità e inondazioni, i pastori nomadi si spostano verso sud in cerca di terra per il loro bestiame, nelle zone agricole dei Berom e di altri gruppi etnici in maggioranza cristiani. «Questi attacchi sono ricorrenti. Vogliono cacciarci dalla nostra terra ancestrale, ma noi continueremo a resistere a questi assalti», spiega Magit Macham, che era tornato dei recenti assalti dalla capitale dello stato, Jos, per festeggiare il Natale con la sua famiglia. Al momento dell’attacco, Macham sta chiacchierando con suo fratello fuori casa quando il rumore di un generatore di benzina viene interrotto da colpi di pistola: «Siamo stati colti alla sprovvista e quelli che potevano scappare sono fuggiti, gli altri sono stati catturati e uccisi con i machete», racconta oggi. Secondo l’arcivescovo emerito di Abuja, cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, «è impensabile che il governo, con tutti i mezzi che ha a disposizione, non sia in grado di identificare chi sono i mandanti, chi sono quelli che comprano le armi» utilizzate in questi attacchi.
Quanto sta accadendo, ha sottolineato nei giorni scorsi il cardinale a “Vatican News”, «è più di una guerra: stiamo ancora aspettando di vedere che cosa fa il nostro governo adesso». A lungo la Chiesa locale e lo stesso cardinale Onaiyekan, dopo i vari attacchi, hanno esortato le comunità cristiane e musulmane a unirsi contro la violenza e l’endemico sistema di impunità, esaltando l’importanza del dialogo interreligioso per la pacifica convivenza. Non c’è alcuna voglia, insomma, di avvalorare la tesi della persecuzione religiosa anche se, di certo, c’è la necessità di fare luce sulle connessioni e le protezioni di cui possono godere gli autori delle violenze e avere giustizia. Il governatore dello Stato di Plauteau, il cristiano Caleb Manasseh Mutfwang, da parte sua non ha esitato invece a usare il termine “genocidio”, nel suo discorso di inizio anno, riferendosi agli ultimi massacri. «Che Dio liberi la Nigeria da questi orrori», le parole di papa Francesco dopo l’Angelus del 31 dicembre scorso.
Non sono mancate, negli ultimi anni, accuse all’amministrazione dell’ex presidente Muhammadu Buhari, in carica fino a maggio dello scorso anno e lui stesso di origine fulani, non solo per l’inefficacia dell’azione dell’esercito nella regione a difesa delle comunità locali, ma anche per il piano presentato, e poi sospeso, delle cosiddette “zone Ruga”. Questi insediamenti per i pastori islamici nomadi avrebbero dovuto comprendere aree di pascolo e villaggi con alcune infrastrutture di base: una scuola, un centro sanitario e un veterinario. In questo modo, ospitando i gruppi di pastori e il loro bestiame, questo sistema avrebbe reso più facile identificare le vie di pascolo, consentendo teoricamente di ridurre i conflitti con gli agricoltori stanziali. Il piano, però, è stato fortemente criticato, e poi rinviato a tempo indeterminato, dalle autorità locali degli Stati coinvolti, perché gli insediamenti avrebbe sottratto acqua e terre alle comunità locali senza compensazioni, legalizzando di fatto un sistema predatorio. Gli attacchi, in parallelo, sono andati crescendo.
Se si considerano anche i morti provocati dai terroristi di Boko Haram (che oggi sono in numero più ridotto, ma rappresentano comunque una fonte di instabilità soprattutto nel Nord del Paese), circa 52.250 cristiani sono stati uccisi da miliziani islamici in Nigeria dal 2009, secondo un rapporto dell’Ong nigeriana Intersociety. Oltre 30mila di queste vittime sono state colpite durante gli otto anni di presidenza Buhari. Nello stesso arco di tempo, anche 34mila musulmani sono morti in attacchi terroristici condotti dagli islamisti. Nel mirino sono finite complessivamente oltre 2.200 scuole cristiane e circa 18mila luoghi di culto, considerando le chiese e le sale di preghiera; oltre 700 i cristiani che sono stati sequestrati e numerosi i sacerdoti uccisi. Le violenze hanno inoltre provocato sfollamenti di massa.
Numeri tragici, da guerra aperta, ma che in pochi, per mille ragioni, osano definire tale. Secondo il direttore di Intersociety, Emeka Umeagbalasi, l’amministrazione Buhari «ha radicalizzato le forze di sicurezza, ha dato loro l’ordine di marciare per proteggere i pastori Fulani e ha aiutato la loro invasione dei terreni agricoli meridionali, delle foreste e della boscaglia». Altri ritengono che il fattore religioso sia solo uno dei motivi dietro agli assalti, sottolineando come anche i musulmani moderati siano vittime dei raid.
L’attuale presidente nigeriano, Bola Tinubu, non ha ancora spiegato come intende affrontare l’insicurezza diffusa, ha descritto gli ultimi attacchi ai cristiani come «primitivi e crudeli» e ha ordinato alla polizia di rintracciare i responsabili. Nel suo messaggio di inizio anno, però, ha ignorato vittime e famiglie dello Stato di Plateau, sostenendo che dalla sua elezione «la sicurezza è migliorata». Il vescovo Hassan Kukah, della diocesi cattolica di Sokoto, ha sottolineato che «il presidente Tinubu deve sapere che la legittimità del suo governo dipende dalla risoluzione di questo problema. I nigeriani stanno gradualmente perdendo la speranza nella capacità del loro governo di proteggerli e metterli al sicuro. Mentre noi leader religiosi abbiamo continuato a usare la nostra autorità morale per incoraggiare le persone a non farsi giustizia da sole, rischiamo di essere spazzati via dalla rabbia e dalla frustrazione del nostro popolo».
Lo sfondo è quello di una Nigeria che compete per il Sudafrica per essere la prima economia del continente africano, ma che vede crescere le disuguaglianze e diminuire il potere d’acquisto dei cittadini. Nonostante gli introiti dovuti alla vendita di petrolio – ma la produzione è scesa a 1,2 milioni di barili al giorno, quasi la metà rispetto a un decennio fa -, oltre 130 milioni di nigeriani vivono in condizioni di povertà, senza accesso a sanità, cibo, servizi. Secondo un recente studio, la Nigeria è il Paese in cui gli abitanti spendono la quota più alta del loro reddito (addirittura il 59%) solo per l’acquisto del cibo necessario a sfamarsi. Non sembra un caso se la sicurezza, in un contesto simile, sia così precaria: è dove ci sono meno risorse che il vento dell’estremismo e dell’intolleranza può soffiare più forte.