LA SCHIZOFRENIA DI ISRAELE. Già nel 2009!

2009

Marcia DEI FOLLI – LA SCHIZOFRENIA DI ISRAELE TRA LE MACERIE DELLA STRISCIA

di Uri Avnery (Il manifesto 04/01/2009)
Prima di demonizzarlo e bombardarlo a Gaza, Hamas è stato appoggiato da Tel Aviv, per contrastare l’Olp. E con i raid di oggi, lo Stato ebraico non farà altro che rafforzare il movimento islamico

Appena dopo la mezzanotte, l’emittente araba di Al Jazeera stava trasmettendo le notizie degli eventi di Gaza. Improvvisamente la telecamera ha inquadrato in alto, verso il cielo scuro. Lo schermo era nero fondo, non si riusciva a distinguere niente. Ma c’era un suono che si poteva sentire: il rumore degli aerei da guerra, uno spaventoso, terrificante boato. Era impossibile non pensare alle decine di migliaia di bambini di Gaza che stavano sentendo, nello stesso momento, quel suono, paralizzati dalla paura, in attesa delle bombe dal cielo.
«Israele deve difendersi dai razzi che stanno terrorizzando le nostre città del sud», ha spiegato il portavoce israeliano. «I palestinesi devono rispondere alle uccisioni dei loro combattenti nella Striscia di Gaza», ha dichiarato il portavoce di Hamas. Per essere esatti, nessun cessate il fuoco è stato interrotto, perché nessun cessate il fuoco era mai iniziato. Il requisito principale di ogni cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deve essere l’apertura dei passaggi. Non ci può essere vita a Gaza senza un flusso costante di rifornimenti. Ma le frontiere non sono state aperte, se non poche ore ogni tanto. Bloccare un milione e mezzo di esseri umani per via di terra, mare e aria è un atto di guerra, esattamente come il lancio delle bombe o dei razzi. Paralizza la vita nella Striscia di Gaza: elimina gran parte delle fonti che creano occupazione, porta centinaia di migliaia al limite della morte di fame, blocca il funzionamento della maggior parte degli ospedali, distrugge la distribuzione di elettricità e d’acqua.
Coloro che hanno deciso di chiudere i passaggi – sotto qualsivoglia pretesto – sapevano che non ci sarebbe stato nessun reale cessate il fuoco in queste condizioni. Questo è il fatto principale. Poi ci sono state piccole provocazioni volte deliberatamente a suscitare la reazione di Hamas. Dopo diversi mesi durante i quali i razzi Qassam a malapena si sono visti, un’unità dell’esercito è stata inviata nella Striscia «per distruggere un tunnel che arrivava vicino alla recinzione della frontiera». Da un punto di vista puramente strategico, avrebbe avuto più senso tendere un’imboscata sul nostro lato della frontiera. Ma lo scopo era quello di trovare un pretesto per metter fine al cessate il fuoco, in una maniera che consentisse di addossare la colpa ai palestinesi. E così è stato, dopo diverse piccole azioni del genere, nelle quali alcuni guerriglieri di Hamas sono stati uccisi, Hamas ha risposto con un massiccio lancio di missili, ed ecco, il cessate il fuoco è giunto alla fine. Tutti hanno incolpato Hamas.
Qual è lo scopo? Tzipi Livni lo ha annunciato apertamente: rovesciare il governo di Hamas a Gaza. I Qassam sono serviti solo come pretesto. Rovesciare il governo di Hamas? Suona quasi come un capitolo estratto dalla «Marcia dei folli». Dopo tutto non è un segreto che fu il governo israeliano a supportare Hamas, all’inizio. Una volta interrogai su questo l’allora capo dello Shin-Bet, Yakakov Peri, che rispose enigmaticamente: «Non lo abbiamo creato noi, ma non abbiamo impedito la sua creazione.»
Per anni le autorità d’occupazione promossero il movimento islamico nei territori occupati. Ogni altra iniziativa politica era rigorosamente soppressa, ma lo loro attività nelle moschee era permessa. Il calcolo era semplice, e ingenuo: al tempo l’Olp era considerato il nemico principale, Yasser Arafat il satana. Il movimento islamico predicava contro l’Olp e Arafat ed era perciò visto come un alleato.
Abu Mazen, un «pollo spennato».
Con l’esplodere della prima intifada nel 1987, il movimento islamico si rinominò ufficialmente Hamas (l’acronimo arabo di «movimento islamico di resistenza») e si unì alla lotta. Anche allora lo Shin-bet non mosse un dito contro di loro per quasi un anno, mentre i membri del Fatah erano imprigionati o uccisi in gran numero. Solo dopo un anno lo sceicco Ahmed Yassin e i suoi colleghi furono arrestati. Da allora la ruota ha girato. Hamas è il satana odierno, e l’Olp è considerato da molti in Israele quasi una branca del movimento sionista. La conclusione logica per un governo di Israele interessato alla pace sarebbe stata quella di fare ampie concessioni alla leadership di Fatah: la fine dell’occupazione, la firma di un trattato di pace, la fondazione dello stato di Palestina, il ritiro entro i confini del 1967, una soluzione ragionevole al problema dei rifugiati, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Questo avrebbe sicuramente arrestato l’ascesa di Hamas.
Ma la logica ha una scarsa influenza sulla politica. Niente del genere è accaduto. Al contrario, dopo l’uccisione di Arafat, Abu Mazen, che ha preso il suo posto, è stato definito da Ariel Sharon un «pollo spennato». Ad Abu Mazen non è stato concesso il minimo margine di operatività politica. I negoziati, sotto gli auspici americani, sono diventati una barzelletta. Il più autentico leader di Fatah, Marwan Barghouti, è stato mandato in carcere a vita. Al posto di un massiccio rilascio di prigionieri, ci sono stati «segnali» meschini e offensivi.
Abu Mazen è stato umiliato sistematicamente, Fatah ha assunto l’aspetto di una conchiglia vuota, e Hamas ha ottenuto una risonante vittoria alle elezioni palestinesi, le elezioni più democratiche mai tenute nel mondo arabo. Israele ha boicottato il governo eletto. Nella successiva battaglia interna, Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. E ora, dopo tutto ciò, il governo di Israele ha deciso di «rovesciare il governo di Hamas a Gaza».
Il nome ufficiale dell’azione bellica è «piombo fuso», due parole tratte da una canzone infantile su un giocattolo della festa ebraica di Hanukkah. Sarebbe stato più appropriato chiamarla «guerra delle elezioni». Anche nel passato le azioni militari sono state intraprese durante campagne elettorali. Menachen Begin bombardò il reattore nucleare iracheno durante la campagna del 1981. Quando Shimon Peres affermò che si trattava di una trovata elettorale, Begin alzò la voce al comizio seguente: «Ebrei, davvero credete che io potrei mandare i nostri figli coraggiosi alla morte, o, peggio ancora, ad esser fatti prigionieri da degli animali, solo per vincere le elezioni?». Begin vinse.
Ma Peres non è Begin. Quando, durante la campagna del 1996, ordinò l’invasione del Libano, tutti erano convinti che si trattasse di una trovata elettorale. La guerra fu un fallimento, Peres perse le elezioni e Netanyahu salì al potere. Barak e Tzipi Livni stanno ora ricorrendo allo stesso vecchio trucco. Secondo i sondaggi, la prevista vittoria di Barak gli ha fatto guadagnare 5 seggi della Knesset. Circa 80 morti palestinesi per ogni seggio. Ma è difficile camminare sui cadaveri. Il successo potrebbe evaporare in un istante, se la guerra cominciasse a essere considerata un fallimento dall’opinione pubblica israeliana. Per esempio, se i missili continuano a colpire Beersheba, o se l’attacco di terra porta a un pesante numero di vittime tra gli israeliani.
Un esperimento scientifico
Il momento è stato scelto con cura anche da un altro punto di vista. L’attacco è cominciato due giorni dopo Natale, quando i leader americani e europei sono in vacanza. Il calcolo: anche se qualcuno volesse provare a fermare la guerra, nessuno rinuncerebbe alle vacanze. Il che ha garantito diversi giorni senza alcuna pressione esterna. Un’altra ragione che rende il momento appropriato: sono gli ultimi giorni della permanenza di Bush alla Casa bianca. Ci si aspettava che questo idiota assetato di sangue appoggiasse entusiasticamente l’attacco, come in effetti ha fatto. Barack Obama non ha ancora iniziato il suo incarico, e ha quindi un pretesto per rimanere in silenzio: «C’è un solo presidente».
Questo silenzio non fa presagire nulla di buono per il mandato di Obama. La linea fondamentale è stata: non bisogna ripetere gli errori della seconda guerra del Libano. Questo è stato ripetuto incessantemente in ogni notiziario e talk show. Ma ciò non toglie che la guerra di Gaza sia una replica pressoché identica della seconda guerra del Libano. Il concetto strategico è lo stesso: terrorizzare la popolazione civile attraverso attacchi aerei costanti, seminando morte e distruzione. I piloti non corrono alcun pericolo, in quanto i palestinesi non hanno una contraerea. Il calcolo: se tutte le infrastrutture che consentono la vita nella Striscia sono letteralmente distrutte, e si arriva quindi alla totale anarchia, la popolazione si solleverà e rovescerà il regime di Hamas. Abu Mazen rientrerà poi a Gaza al seguito dei carri armati israeliani. In Libano questo calcolo non ha funzionato. La popolazione bombardata, cristiani inclusi, si è radunata attorno a Hezbollah, e Nashrallah è diventato l’eroe del mondo arabo. Qualcosa di simile accadrà probabilmente anche questa volta. I generali sono esperti nell’usare le armi e nel muovere le truppe, non nella psicologia di massa.
Qualche tempo fa scrissi che il blocco di Gaza può essere inteso come un esperimento scientifico, mirato a scoprire quanto si può affamare una popolazione prima che scoppi. Questo esperimento è stato portato avanti con il generoso aiuto dell’Europa e degli Stati uniti. Finora non è riuscito. Hamas è diventato più forte e la gettata dei missili Qassam più lunga. La presente guerra è una continuazione dell’esperimento con altri mezzi. Potrebbe essere che l’esercito «non abbia alternativa» se non riconquistare la Striscia, perché non c’è altro modo per fermare i Qassam, se non quello – contrario alla politica del governo – di arrivare a un accordo con Hamas. Quando partirà la missione di terra, tutto dipenderà dalla motivazione e dalla capacità dei combattenti di Hamas rispetto ai soldati israeliani. Nessuno può prevedere quanto accadrà.
Giorno dopo giorno, notte dopo notte, Al Jazeera trasmette immagini atroci: brandelli di corpi mutilati, parenti in lacrime in cerca dei loro cari tra le dozzine di cadaveri, una donna che solleva la sua bambina da sotto le macerie, dottori senza mezzi che cercano di salvare le vite dei feriti.
In milioni stanno vedendo queste immagini terribili, giorno dopo giorno. Queste immagini saranno impresse nella loro mente per sempre. Un’intera generazione coltiva l’odio. Questo è un prezzo terribile, che saremo costretti a pagare ancora a lungo dopo che gli altri effetti della guerra saranno stati dimenticati in Israele.
Ma c’è un’altra cosa che si sta imprimendo nelle menti di questi milioni: l’immagine dei corrotti e passivi regimi arabi. Visto dagli arabi, un fatto s’impone su tutti gli altri: il muro della vergogna. Per il milione e mezzo di arabi a Gaza, che stanno soffrendo così terribilmente, l’unica apertura al mondo che non sia dominata da Israele è il confine con l’Egitto. Solo da lì può arrivare il cibo che consente la vita, da lì arrivano i medicinali che salvano i feriti. Al culmine dell’orrore questo confine resta chiuso. L’esercito egiziano ha bloccato l’unica via d’accesso per cibo e medicinali, mentre i chirurghi operano senza anestetici.
Per il mondo arabo, da un capo all’altro, hanno fatto eco le parole di Hassan Nashrallah: «I leader egiziani sono complici in questo crimine, stanno collaborando con il «nemico sionista» che cerca di rompere il popolo palestinese». Si può assumere che non intendesse solo Mubarak, ma anche tutti gli altri leader, dal re saudita al presidente dell’Anp. Se si guarda alle manifestazioni in tutto il mondo arabo, se si ascoltano gli slogan, se ne deduce l’impressione che i loro leader sono visti da molti come patetici nel migliore dei casi, come meschini collaborazionisti nel peggiore.
Questo avrà conseguenze storiche. Un’intera generazione di leader arabi, una generazione imbevuta dell’ideologia nazionalista secolare araba – i successori di Nasser, di Hafez al-Assad e Yasser Arafat- sarà messa fuori scena. In campo arabo, l’unica alternativa percorribile è l’ideologia del fondamentalismo islamico.
Questa guerra è un presagio infelice: Israele sta perdendo l’occasione storica di fare la pace con il nazionalismo arabo secolare. Domani potrebbe essere davanti a un mondo arabo uniformemente fondamentalista, un Hamas mille volte più grande.

 traduzione di Nicola Vincenzoni




LAUDATO SI’. Commento ai Capitoli
Autori vari

 Per amore di nostra madre Terra. Lettura della Laudato si’, capitolo per capitolo.
 (da Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto)

INTRODUZIONE. Egidio Palumbo.

Una novità.
Con l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, per la prima volta il magistero pontificio riflette sul tema dell’ecologia in un modo più convincente e completo. Affronta, infatti, il tema dell’ecologia, certamente onorando il magistero dei papi che l’hanno preceduto, ma nell’orizzonte di una duplice prospettiva:
1) assumere la visione di una ecologia integrale, dove il tema dell’ambiente è strettamente connesso allo sviluppo tecnologico, al sociale, al culturale, al politico (interesse per la polis, per la città), alla condizione degli impoveriti della terra, alla sapienza delle religioni e – lì dove esistono – delle loro rispettive teologie;
2) intraprendere un cammino di conversione ecologica che chiede un cambiamento dei nostri stili di vita.
Inoltre, il papa elabora il testo valorizzando, secondo il criterio della collegialità, i contributi di varie Conferenze episcopali (Stati Uniti, Germania, Brasile, Patagonia-Comahue, Paraguay, …) e nel contempo accoglie le intuizioni e gli studi di scienziati, teologi e pensatori come H.J. Schellnhuber, P. Teilhard de Chardin, R. Guardini, J. C. Scannone, P. Ricoeur, anche di Dante Alighieri e perfino del musulmano sufi Ali al-Khawwas. In dialogo con tutti costoro il papa si propone di comprendere il mondo e la sfida di una ecologia integrale ponendosi dalla parte del “rovescio della storia”, vale a dire dalla parte delle periferie geografiche ed esistenziali, poiché è da una visuale decentrata che si colgono meglio i processi in atto.
Infine, sullo sfondo dell’enciclica vi è la consapevolezza, evidenziata dalla fede biblica, che l’essere umano (adam) è fatto di terra (adamah), è un terroso (Gen 1,26; 2,7; Laudato si’, n. 2): la terra gli appartiene, è dentro il suo corpo, è il suo habitat, è la sua casa, che a sua volta è la “casa comune” che appartiene a tutti, e che dovrebbe essere oggetto della cura di tutti e non del dominio e dell’abuso di alcuni.
La metodologia che struttura l’enciclica
Il papa nello scrivere l’enciclica assume lo schema metodologico-interpretativo in uso nella pastorale e nella teologia della Chiesa latinoamericana, una metodologia che viene da lontano, dalla JOC (Jeunesse Ouvrière Chrétienne, Gioventù Operaia Cristiana), movimento cristiano sorto in Belgio nel 1925 e sviluppatosi in Francia nel 1927. La metodologia si articola intorno a quattro verbi che scandiscono quattro momenti del processo interpretativo della realtà: vedere, giudicare, agire, celebrare.
a) Vedere, ovvero esaminare la situazione odierna della nostra “casa comune”. A questo primo momento è dedicato il 1 (nn.20-61).
b) Giudicare, ovvero discernere la situazione, evidenziando le cause del degrado, le sfide e le risorse. Qui il discernimento si realizza su due fonti del sapere: quello scientifico (cap. 3: nn. 102-136) e quello biblico-teologico (cap. 2: nn. 63-100; cap. 4: nn. 138-162). Qui si realizza in maniera esemplare e veritiera il dialogo tra scienza e fede, tra il sapere scientifico e il sapere sapienziale ed etico della fede cristiana.
c) Agire, ovvero la proposta di itinerari e di pratiche che interpellano la politica internazionale e locale, l’impegno sociale, il dialogo interreligioso (cap. 5: nn. 164-201), la cura educativa (per formare ad una “cittadinanza ecologica”) e il vissuto spirituale, cioè il vissuto orientato e animato dallo Spirito del Signore (cap. 6: nn. 203-245). È nell’agire quotidiano che si avverte l’urgenza di tenere insieme (interdipendenza) l’ecologico con il politico, il sociale, l’educativo e lo spirituale. Qui è la “conversione ecologica”.
d) Celebrare, è una celebrazione che scaturisce dall’adorazione del Creatore e dal rispetto e dalla cura della vita e della terra come casa comune, come sorella (n. 246). Qui, come sin dall’inizio (n. 1; 10) e lungo tutto il testo dell’enciclica, aleggia lo spirito fraterno e materno di S. Francesco di Assisi, il santo patrono di tutti coloro che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia (oggi anche molti giovani), figura esemplare per coloro che si prendono cura di tutto ciò che è debole e fragile, e promuovono con coraggio una ecologia integrale.

CAPITOLO 1
La situazione della nostra casa comune. Tindaro Bellinvia.

Il parallelismo tra l’enciclica Pace in terris di papa Giovanni XXIII e Laudato si’ di papa Francesco, proposto da Enzo Bianchi nella sua introduzione dell’enciclica sulla cura della casa comune, mi sembra convincente non solo perché Papa Francesco come l’allora pontefice del Concilio si rivolge ad una platea più ampia di quella dei cattolici, ma soprattutto perché effettivamente nel primo caso eravamo sull’orlo di una guerra nucleare mondiale, nel secondo caso ci troviamo sull’orlo del precipizio di una catastrofe ambientale se non si compiono decisi passi verso un’ecologia integrale.

  1. La cultura dello scarto

Nel primo capitolo dell’enciclica Laudato si’ papa Francesco mette subito in risalto i rischi di una cultura dello scarto presente purtroppo nella società contemporanea dedita a consumare e scartare. Scrive il papa: «Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli essere umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura (n. 22)». Una lettura contestualizzata dell’enciclica ci porta a rilevare criticamente come nella sua storia recente l’Italia ha potuto sperimentare di continuo i rischi connessi all’incapacità di creare un circuito virtuoso di produzione industriale con un riutilizzo all’infinito dei materiali prodotti. L’Italia patria della plastica solo di recente ha timidamente iniziato a invertire la tendenza all’inquinamento senza scrupoli dell’ambiente. Quintali di rifiuti di tipo civile di ogni tipo sono finiti in discarica per decenni senza essere precedentemente differenziati, creando danni ambientali e inquinando spesso le falde acquifere.
Ma la questione più delicata è emersa nel contesto dei rifiuti industriali e dei rifiuti speciali che, invece di essere effettivamente smaltiti in modo accurato e corretto, spesso sono stati occultati in discariche abusive o accumulati senza alcun criterio in grandi capannoni per poi andare a fuoco misteriosamente (vedi i numerosi incendi in Lombardia degli ultimi tempi). Centinaia di inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno evidenziato come lo smaltimento illecito di rifiuti anche molto pericolosi sia stato e ancora purtroppo è una strategia di molte imprese di tutta l’Italia. Come dimostra la storia della terra dei fuochi in Campania, molta parte dei rifiuti pericolosi del nord sono stati occultati in discariche al sud, grazie alla complicità delle classi dirigenti locali e con l’apporto operativo fondamentale delle mafie. In alcuni casi la fame di lavoro al sud ha prodotto bonifiche mortali.
Una su tutte la storia paradossale e inquietante dell’Isochimica di Avellino. Una storia di vite a perdere. La vita di decine di operai che senza alcuna protezione dal 1982 al 1987, nel binario morto della stazione di Avellino, hanno “liberato” le carrozze delle ferrovie italiane del pericoloso amianto che ne rivestiva le pareti. Una storia raccontata in un bel libro curato dal sociologo Antonello Petrillo paradigmatica del modo di operare di pezzi dello Stato, di certi imprenditori e della debolezza dei lavoratori in certi contesti dominati da logiche di ricatto occupazionale. Logiche di ricatto occupazionale alla base delle quali territori bellissimi della nostra Sicilia sono stati devastati con la presenza invasiva di impianti petrolchimici o di centrali elettriche a base di combustibili fossili rimodellando il territorio e i tessuti urbani con una poco nascosta logica coloniale.
L’Eni è arrivata, ad esempio, nel caso di Gela a riservare l’acqua di qualità agli impianti e al quartiere dei dirigenti e tecnici del nord e lasciare l’acqua del dissalatore a gran parte della popolazione locale. Spesso poi non sono le normative a mancare nel guidare i controlli, ma difetta il complesso di equilibri tra le varie componenti del sistema che si rivelano a tutto vantaggio dei grossi gruppi industriali. Per questo può succedere che anche a seguito di direttive precise degli enti controllori rispetto al rinnovo degli impianti le società possono rinviare gli interventi (vedi caso Milazzo) mettendo a rischio popolazioni residenti e lavoratori.
Scrive Francesco: «il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie (n. 22)». Non solo queste affermazioni non possono essere smentite ma bisogna mettere in evidenza che l’incapacità di “assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie” ha provocato un commercio vergognoso di tali scorie, non solo come abbiamo prima evidenziato all’interno delle stesse nazioni in cui i rifiuti sono stati prodotti ma anche verso nazioni più povere. Il caso dell’uccisione il 24 maggio del 1994 a Mogadiscio in Somalia della giornalista Ilaria Alpi e del teleoperatore Miran Hrovatin ha ben messo in evidenza un intreccio perverso tra falsa cooperazione internazionale, traffici d’armi e di scorie industriali. La giornalista è stata trucidata perché stava indagando su questi traffici e sulle complicità istituzionali che li coprivano e li alimentavano.
A svelare al mondo lo smaltimento illecito di rifiuti in Somalia (iniziato già negli anni Ottanta) sarà lo tsunami del 26 dicembre 2004 che ha colpito e devastato parti delle regioni costiere dell’Indonesia, dello Sri Lanka, dell’India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh, delle Maldive ma che è riuscito a raggiungere anche le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km dall’epicentro del sisma). Ebbene sulle spiagge somale stravolte dallo tsunami sono riemersi fusti e interi container di rifiuti pericolosi. Come scrive Marzia Ronconi quando si parla di rifiuti pericolosi si fa riferimento a: «rifiuti sanitari, oli e sostanze oleose, batterie, rifiuti contaminati con bifenili policlorurati (PCB) e scorie d’amianto».
Ma è anche importante quanto specifica più avanti: «La produzione mondiale di rifiuti pericolosi si stima raggiunga annualmente 350 milioni di tonnellate; il 90% di questi viene prodotto dai paesi industrializzati, di cui i maggiori produttori sono gli Stati Uniti e l’Europa». Questo dato di realtà ci fa capire quanto i disastri ambientali dei paesi in via di sviluppo non siano causati da fattori interni, quanto dal tentativo dei paesi industrializzati di scaricare su quelli più poveri la loro incapacità o non volontà di instaurare dei processi di produzione veramente green, che puntino a riutilizzo infinito dei materiali.

  1. Il clima come bene comune

I cambiamenti climatici, anch’essi per lo più provocati dai processi industriali di Stati Uniti, Europa e negli ultimi anni anche Cina, tra l’altro rischiano di far ricadere i loro effetti sui paesi più poveri. Se è vero che certi cambiamenti climatici nei tempi lunghi possono dipendere da fattori naturali, l’idea ormai largamente condivisa dagli scienziati di tutto il mondo è che la velocità di tali cambiamenti è chiaramente da imputare al ciclo del carbonio.
L’apertura alle fonti energetiche pulite c’è stata in tutti i paesi ma è evidente che ancora ci sono forti resistenze e forti interessi a mantenere l’uso delle fonti energetiche fossili. L’estrazione e la lavorazione di petrolio comportano tra l’altro un enorme impatto ambientale in molti paesi: un esempio per tutti la Nigeria. Qui i disastri ambientali nel sud del paese provocati dalle compagnie petrolifere hanno portato a ingenti spostamenti di popolazioni verso il nord e da lì verso l’Europa. E l’inquinamento ambientale come spesso accade è coperto dalla corruzione tra imprese e uomini delle istituzioni. La nostra Eni, ad esempio, non è stata al centro di intrecci di corruzione e disastri ambientali solo in Nigeria ma in diversi altri paesi africani. Tra questi paesi il Congo è quello dove esponenti del governo locale e alti vertici dell’Eni sono stati al centro di discussi affari sul gas in odore di tangenti, in cui si evidenzia come alla collettività locale rimane solo l’inquinamento e i lavori più umili e mal pagati, mentre i dirigenti delle multinazionali e i politici del luogo si spartiscono profitti da capogiro. Un bel modo di “aiutarli a casa loro”.
In generale è evidente che i cambiamenti climatici impatteranno maggiormente sui più poveri e Francesco su questo è netto: «i cambiamenti climatici danno origine a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono dalla miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa (n. 25)».
Se alcuni territori costieri saranno sommersi dall’acqua, se certi territori diventeranno inospitali per la desertificazione, non sarà un problema per chi ha risorse economiche e potere politico-istituzionale, sarà un problema per chi già vive di stenti e tra mille difficoltà. Diversi paesi costieri dell’Africa che vivevano di pesca si sono trovati in difficoltà perché grandi imprese hanno operato nei loro mari con potenti mezzi depauperando il patrimonio ittico. I defraudati hanno reagito in diversi modi: chi inventandosi nuove attività magari attinenti al turismo, chi scegliendo di migrare, chi dandosi alla pirateria in mare. Le risorse turistiche in alcuni casi possono diventare una valida alternativa ma per essere tali dovrebbero essere maggiormente gestite dalle popolazioni locali invece che essere in mano alle multinazionali occidentali. Inoltre, è difficile diventare attrattivi turisticamente dove i disastri ambientali hanno ormai reso poco appetibili i territori, mentre dove l’equilibrio ambientale è ancora buono incombe il rischio della sommersione delle coste a causa del repentino cambiamento climatico. Insomma, evitare sconvolgimenti climatici e proteggere l’ambiente è un bene prima di tutto per le popolazioni più povere.

  1. L’acqua un bene inestimabile

Nel complesso rapporto dell’uomo con il pianeta Terra un ruolo importante ha sempre avuto e sempre avrà l’acqua. È importante, dunque, l’appello del Santo Padre sull’argomento: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità» (n. 30).
Sono parole inequivocabili quelle che usa Francesco a proposito di acqua e diritti umani. Negare l’accesso all’acqua ai poveri in nome delle leggi del mercato è qualcosa di inaccettabile umanamente e cristianamente. Insomma, non si può scendere a compromessi su questo. D’altronde in diversi paesi molto poveri dell’Africa, l’Asia o il Sud America ancora oggi si consuma acqua di scarsa qualità o addirittura inquinata (con la conseguente diffusione di malattie), perché mancano le infrastrutture per renderla accessibile a tutti e anche perché le imprese operanti in questi paesi (spesso multinazionali) non fanno nulla per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni.
In Italia sul tema della privatizzazione dell’acqua c’è stato un grande movimento per la ripubblicizzazione di essa. Grazie ad una raccolta firme molto partecipata si è arrivati al referendum del 12 e 13 giugno 2011, 26 milioni di cittadini italiani sancirono che sull’acqua non si sarebbe potuto più fare profitto. E con quel “Sì” tracciato sulla scheda i cittadini decisero di abrogare (parzialmente) una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’“adeguata remunerazione del capitale investito”. «Togliere quel passaggio comportava niente più margini, finanza speculativa o business, semmai un servizio efficiente a fronte di investimenti sulla rete tangibili, ad esempio per ridurre le perdite. In forza del fatto che “il diritto all’acqua potabile e sicura ed ai servizi igienici” – come sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010 – è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”». A distanza di otto anni molti dubbi sulla reale applicazione dei risultati di quel referendum… più che dubbi certezze, se, come ha fatto il sito acquabenecomune.org, si vanno a vedere i bilanci delle più grandi partecipate italiane quotate in borsa che, a fronte di aumenti consistenti in bolletta, invece di aumentare gli investimenti per migliorare qualità dell’acqua e servizi di distribuzione hanno costantemente aumentato i dividendi degli azionisti. Ciò dimostra la fondatezza e l’urgenza dell’appello del Santo Padre di ridurre l’influenza della logica di mercato dalla gestione dell’acqua. Fino a quando a dominare le strategie degli enti gestori degli acquedotti saranno i profitti da spartire l’idea dell’acqua come bene comune rimarrà solo un’utopia.

  1. L’iniquità dei rapporti planetari

In conclusione, il primo capitolo dell’enciclica Laudato si’ invia un messaggio chiaro che pervade tutto il documento pontificio: «oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre più un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della Terra quanto il grido dei poveri» (n. 49). Parlare di biodiversità, di preservare i polmoni verdi della Terra, di ricchezza di colture per l’agricoltura contro i rischi delle grandi proprietà di imporre le monoculture, di conservazione e anzi sviluppo di varie tipologie di semi e di frutti contro la conformità delle grandi corporation che tendono a semplificare per rendere i contadini più dipendenti dalle loro produzioni, deve servire appunto a legare la difesa dell’ambiente al superamento della povertà. L’uno ha senso se si lega all’altro.
Anche i promotori delle battaglie civili promosse in Italia, e in tante parti del pianeta, contro l’eccesso di cementificazione del territorio devono trovare un canale di comunicazione con le fasce sociali più deboli. Preservare il paesaggio come bene comune deve diventare non un’esigenza da ricchi illuminati, ma un forte imperativo di tutte le fasce sociali, rendendo socialmente conveniente tutelare e preservare il territorio. Chiaramente per fare tutto ciò bisogna rispondere ai bisogni primari di quei ceti sociali impoveriti dalla lunga crisi economica di questi anni. Si deve prospettare sicuramente un’alternativa ad uno sviluppo economico tutto improntato su cementificazione del territorio e proliferazione di industrie inquinanti, ma è evidente che una via verde, anche se basata su un nuovo modo più equilibrato di produrre e consumare, deve sempre far intravedere un miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi.
L’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ riteniamo sia utile, fin dal suo primo capitolo, a indirizzare autorevolmente il dibattito pubblico verso una maggiore consapevolezza della questione ambientale legandola in modo indissolubile alla questione sociale e, dunque, all’emancipazione dei poveri.

CAPITOLO 2
L’urgenza di uno sguardo contemplativo.  Gregorio Battaglia.

Il capitolo primo ci ha offerto la possibilità di fermarci a considerare quello che possiamo chiamare lo “status quaestionis”. Si è trattato di elencare tutte le gravi problematiche, che interessano “la casa comune” per giungere alla conclusione che il tempo che ci sta di fronte non può essere occupato a semplici dibattiti, ma che, invece, è quanto mai urgente avviare un serio ripensamento degli stili di vita e dello stesso modo di produrre.
Il capitolo secondo si propone di offrire, innanzitutto ai credenti, ma anche a coloro che si dichiarano lontani da una fede esplicita, la possibilità di poter assumere uno sguardo diverso e non necessariamente opposto a quello che proviene dalla scienza e dalla tecnica. L’universo, del resto, non si presenta a noi come un puro oggetto da decifrare, da studiare o semplicemente da utilizzare per aumentare il benessere dell’umanità: «quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse, ciò comporta anche gravi conseguenze per la società» (n. 82). L’universo, invece, è più comprensibile, se si impara ad accoglierlo come “mistero”, come realtà che ci parla di un progetto di amore e che tutto il movimento esistente in esso sia causato dalla forza dell’amore. Il documento fa riferimento alla Divina Commedia di Dante Alighieri, il quale «parlava dell’amor che move il sole e l’altre stelle» (n. 77).
Questo diverso sguardo sull’universo è reso ancor più necessario di fronte ai grandi disastri provocati da un approccio, come quello tecnico-scientifico, che ha reso il mondo sempre meno abitabile. Non si tratta di contrapposizione, ma di unire sguardi diversi per meglio accostarsi alla verità dell’universo. Il documento sottolinea che «se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. E’ necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità. Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa» (n.63).

  1. Saremo ancora capaci di meraviglia?

Molti anni fa A. Heschel nella sua opera L’uomo non è solo faceva la seguente considerazione: «L’umanità non perirà per mancanza di informazione, ma per mancanza di apprezzamento. L’inizio della nostra felicità sta nel comprendere che una vita senza meraviglia non vale la pena di essere vissuta. Quello che ci manca non è la volontà di credere, ma la volontà di meravigliarci». Solo un animo che sa meravigliarsi, che sa cogliere l’ineffabile presente nelle cose, proprio lui è capace di abitare la terra con vera sapienza, perché il suo rapporto con essa e con l’universo intero è vissuto essenzialmente sul piano del dono, a cui corrisponde la presa di coscienza di un compito da assumersi. Leggiamo nella Laudato si’: «Dire creazione è più che dire ‘natura’, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore ed un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono, che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale» (n. 76).
Chi si lascia sconvolgere dalla presenza dell’Ineffabile fa l’esperienza di come essa sia in grado di suscitare in lui uno sguardo di meraviglia ed allo stesso tempo di operare un vero spogliamento del suo essere, che lo riporti alle sue misure di creatura umana. Afferma papa Francesco nell’enciclica: «il modo migliore per collocare l’esser umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore assoluto della terra è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore ed unico padrone del mondo, perché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi» (n.75). Ricondotti alla propria condizione di creature l’uomo e la donna scoprono che «tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. (…) Dio ha scritto un libro stupendo le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo. (…) Dai più ampi panorami alle più esili forme di vita la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza» (nn. 84-85). 

  1. La sapienza dei racconti biblici

Per educarci al dono della meraviglia non si può fare a meno di ritornare al libro delle Scritture, che hanno la capacità di condurci ad uno sguardo diverso. La prima pagina della Bibbia si apre con queste parole: «In principio Dio creò il cielo e la terra. (…) Dio disse e la luce fu». Quel principio di cui parla la Bibbia non vuole riferirsi ad un inizio cronologico, ma a ciò che costituisce il fondamento di tutto il reale. Così per la Bibbia a fondamento di tutto sta il “dire” di Dio, la sua Parola, che chiama all’esistenza le cose che non sono. Giovanni aprirà il suo Vangelo dicendo che «in principio il Verbo», riprendendo così l’apertura del libro della Genesi e sottolineando che la ragione ultima delle cose sta in questa Parola che è verbo e quindi agisce creando o salvando.
In quest’ottica l’universo non è il frutto di forze caotiche, ma esso trova il suo senso in una Parola, che lo chiama all’esistenza e questo suo esistere non è altro che una risposta a questa chiamata. Afferma la Laudato si’: «L’universo non è sorto come risultato di un’onnipotenza arbitraria di una dimostrazione di forza o di un desiderio di autoaffermazione. La creazione appartiene all’ordine dell’amore. L’amore di Dio è la ragione fondamentale di tutto il creato» (n. 77). Non solo le creature umane, ma tutto l’universo si trova coinvolto in questa vocazione alla vita e vivendo si dà lode a Colui, che creando ha visto tutto come “Tov”, cioè come “buono e bello”.

  1. Cosa dice la Bibbia dell’uomo

La lettera/enciclica si sofferma brevemente sulla creazione dell’uomo, sottolineando come per il libro della Genesi ogni uomo e ogni donna sono un frutto di amore, fatti ad immagine e somiglianza di Dio: «Siamo stati concepiti nel cuore di Dio e quindi ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario» (n. 65). Questa affermazione ci mostra l’immensa dignità di ogni persona umana, che non si può ridurre ad una “cosa”, ma che è una realtà di un valore infinito. Essa è capace di possedersi, di liberamente donarsi, di entrare in comunione con altre persone.
In effetti per i racconti biblici l’uomo è posto al culmine di tutto il processo creativo, costituendone il vertice ed in un certo senso il punto in cui il mondo trova la propria autocoscienza, in quanto capacità di riflettere e di decidere in libertà, senza dover sottostare pienamente a determinismi biologici. Questa particolare costituzione dell’uomo, dotato di libertà, ma allo stesso tempo delimitato nel tempo e nello spazio, lo pone in una posizione molto scomoda, per cui non è difficile che oscilli tra profonde depressioni e grandiosi deliri di onnipotenza.

  1. Noi non siamo Dio

Per la Bibbia davvero grande è il mistero dell’uomo, che nella sua povera consistenza di argilla impastata, contiene in sé una scintilla divina, che lo pone al vertice del creato. Dice la Laudato si’: «Questi racconti suggeriscono che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra» (n. 66). Nella sua verità più profonda l’uomo e la donna si realizzano in quanto capaci di aprirsi alla relazione nelle sue diverse forme, perché nel momento in cui essi si chiudono in se stessi, essi tradiscono la loro vocazione alla vita ed oscurano quella luce presente in essi.
Riprendendo il dato biblico l’enciclica così si esprime: «Secondo la Bibbia queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato. L’armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato è stata distrutta per aver noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate. Questo fatto ha distorto anche la natura del mandato di soggiogare la terra e di coltivarla e custodirla» (n. 66). I grandi cambiamenti climatici, che ormai sono sotto i nostri occhi e che per alcuni di noi costituiscono una grave minaccia alla vita, sono certamente da inserire in questa “rottura” della relazione dell’umanità con il suo “habitat”, che è costituito dalla terra. Se il termine “peccato” nel suo riferimento ebraico vuol dire principalmente “sbagliare bersaglio”, allora bisogna concludere che l’uomo ha fallito il suo compito di “custode” del creato.
Nel racconto della Genesi il termine “soggiogare” è meglio definito dagli altri due verbi: “coltivare” e “custodire”, che impegnano l’uomo e la donna non tanto a spadroneggiare nei confronti della terra e di quanto contiene, ma a prendersi cura di tutto il giardino o, come direbbe oggi papa Francesco, della casa comune. Questa relazione è subito saltata, mettendo in crisi anche le altre due. Da qui la prima grande domanda che l’uomo si sente rivolgere da Dio: «Dove sei?» (Gen 3,9). Quest’uomo interpellato è Adamo, un nome che viene da “adamah”, che significa “terra rossiccia”, “argilla”. Egli non è distinto dalla Terra, ma è parte di essa, è composto dei suoi stessi elementi, ma il suo essere dotato di intelligenza gli ha fatto smarrire quale stretto legame intercorre tra lui e quel giardino che lo ospita.
L’interrogativo che Dio rivolge a questo “Adam” non è di natura speculativa, ma riguarda l’aspetto empirico, come a dirgli: “in quale mondo abiti?”, oppure: “dov’è la tua casa?”. Il testo della Genesi fa notare che “i due” a cui Dio rivolge questo interrogativo di fatto si erano nascosti per la vergogna dopo aver creduto possibile diventare “dio per se stessi”. Bisogna dire che la vergogna di Adam e della sua donna sono oggi la nostra vergogna, perché abbiamo creduto nell’onnipotenza della scienza ed oggi non sappiamo renderci conto “in quale mondo abitiamo” e di quale storia siamo responsabili. Se riuscissimo a ripartire da questa vergogna, essa potrebbe costituire il punto di svolta per un itinerario pedagogico di ricostruzione del nostro modo di abitare la terra ed allo stesso tempo di avviare processi di cambiamento, che ci permetta di vivere per la vita e non dando morte.
Abbiamo preso alla lettera il diritto romano che parla di “uti et abuti” (usare e abusare) nei confronti delle proprietà che si posseggono e così abbiamo pensato di non essere per nulla responsabili della vita, della bellezza delle cose e degli esseri viventi presenti sulla terra. Nel funzionamento del creato la collocazione dell’uomo è finalizzata a rendere visibile quell’economia della gratuità, che sottostà all’agire di Dio e che si traduce nella custodia della vocazione, che interessa ogni creatura, ma l’umanità di ieri e di oggi si è avvitata in quell’idea di progresso infinito, che non tiene in alcun conto i limiti della stessa terra. Per la Bibbia la terra è di Dio ed Egli l’ha donata agli uomini, perché si rapportino con essa con piena responsabilità. Dice la Laudato si’: «Questa responsabilità di fronte ad una terra che è di Dio, implica che l’essere umano, dotato di intelligenza, rispetti le leggi della natura e i delicati equilibri tra gli esseri di questo mondo» (n. 68).

  1. La mancata custodia del fratello

Il racconto di Caino e Abele, che nel libro della Genesi occupa il quarto capitolo, parla dell’altro grande fallimento, che riguarda la vocazione dell’uomo ad aprirsi a relazioni fraterne, vissute nell’accoglienza e nella condivisione con l’altro. La storia di Caino e Abele è lì a dimostrare l’incapacità dell’uomo a costruire rapporti di vera prossimità. L’altro, il prossimo viene colto più come una presenza che disturba, invece di essere accolto come occasione di crescita e di arricchimento reciproco. Così nelle prime pagine della Bibbia risuona il secondo grande interrogativo da parte di Dio. «Dov’è Abele, tuo fratello?». Il none Abele, vuol dire “soffio”, perché la vita dell’uomo è davvero come un soffio, che gli altri possono soffocare o custodire. Caino ha scelto di non essere il custode del soffio del fratello, per questo ha preferito toglierlo di mezzo.
Riprendendo questo racconto di Caino e Abele la Laudato si’ così commenta: «Trascurare l’impegno di coltivare e mantenere una relazione corretta con il prossimo, verso il quale ho il dovere della cura e della custodia, distrugge la mia relazione interiore con me stesso, con gli altri, con Dio e con la terra. Quando tutte queste relazioni sono trascurate, quando la giustizia non abita più sulla terra, la Bibbia ci dice che tutta la vita è in pericolo. (…) In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione e che la cura autentica della nostra vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (n. 71).
L’eliminazione del fratello da parte di Caino, un avvenimento che è un tutt’uno con la scomparsa del prossimo, e la grande omologazione linguistica e culturale, che interessa la costruzione della torre di Babele, sono per la Bibbia dei fatti emblematici, che rivelano la durezza del cuore umano. Siamo, così, di fronte al paradosso di ogni esistenza umana: siamo fatti per la relazione, ma o per paura o perché presi da grandi deliri alla resa dei conti restiamo incapaci di rispondere a ciò che costituisce il vero senso della nostra avventura umana. Annota la Laudato si’: «Non è un caso che nel cantico in cui loda Dio per le creature san Francesco aggiunga: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore” Tutto è collegato. Per questo si richiede una preoccupazione per l’ambiente unita al sincero amore per gli esseri umani e un costante impegno riguardo al problema della società» (n. 91).
Il capitolo secondo dell’enciclica si chiude facendo riferimento allo “sguardo” di Gesù: «Gesù invitava a riconoscere la relazione paterna che Dio ha con tutte le creature, viveva una piena armonia con la creazione. (…) Era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo» (n. 96). A motivo della sua resurrezione Gesù è anche la parola ricapitolativa di tutta la creazione, perché le cose, il tempo e lo spazio, tutto è avvolto dalla luce del Signore Risorto.

CAPITOLO 3
La radice umana della crisi ecologica. Raffaella Campo
Nel capitolo terzo dell’enciclica Laudato si’ Papa Francesco analizza la radice umana della crisi ecologica riallacciandosi direttamente ad un’affermazione contenuta nel paragrafo 53: «Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli». Il pontefice promuove una coraggiosa rivoluzione culturale invitando a riflettere sulle contraddizioni insite nell’attuale modello di sviluppo economico e sociale.

  1. La tecnologia, il progresso e la coscienza di un limite

Il Papa sottolinea e riconosce il valore del progresso scientifico e tecnologico, grazie al quale si sono conseguiti risultati eccezionali nell’ambito della medicina, dei trasporti, delle telecomunicazioni, capaci di offrire all’uomo un innegabile miglioramento della qualità della vita. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, la scienza e la tecnologia vengono definite come un «prodotto meraviglioso della creatività umana che è un dono di Dio» (n. 102). Tuttavia – sottolinea il pontefice – non possiamo ignorare quanto finora tale progresso si sia basato sullo sfruttamento incontrollato delle risorse del pianeta e sullo sfruttamento del “capitale umano”. Significativa è l’espressionedebito ecologico (n. 51) usata per sottolineare come lo sviluppo si sia basato sull’inequità planetaria con conseguenze ambientali probabilmente irreversibili e conseguenze sociali drammatiche: «Il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta… Gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera» (n. 48).
Tutto questo accade perché l’uomo moderno «non è stato educato al corretto uso della sua potenza» e, a differenza del passato, ha perso il controllo: «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». All’inizio del capitolo terzo ricorre l’espressione “sviluppo sostenibile”, un concetto non certo nuovo, che anzi molti studiosi giudicano ormai superato, a cui tuttavia il Papa conferisce un rinnovato significato. Rappresenta in primis il radicamento dell’enciclica all’interno di un percorso scientifico, economico e politico che risale agli anni Settanta. L’attenzione a livello internazionale verso l’ambiente e i disastri ecologici globali, ha iniziato infatti a manifestarsi piuttosto tardi in occasione della conferenza ONU tenutasi a Stoccolma, il 16 giugno del 1972, dove i capi di 110 delegazioni hanno approvato la “Dichiarazione di Stoccolma sull’ambiente umano”. Questa Conferenza ha tracciato delle linee guida per i Governi degli Stati aderenti al fine di proteggere, razionalizzare e salvaguardare le risorse naturali a beneficio delle generazioni future.
Successivamente, la diffusione dell’idea di “Sviluppo Sostenibile” è avvenuta con il “Rapporto Bruntland”, elaborato nel 1987 dalla Word Commission on Environment and Development (WCED) dell’ONU, all’interno del quale si affermava che: «per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri». Si metteva cioè in luce l’esigenza di un cambiamento della visione del rapporto tra attività economica e mondo naturale, sostituendo il modello economico dell’espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo) come chiave per il progresso futuro.
Nel giugno del 1992, nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro, i paesi partecipanti diedero vita a 5 basilari documenti volti a definire i diritti, le responsabilità e i doveri universali delle nazioni in campo ambientale. In quell’occasione si stilò l’Agenda 21, un vero e proprio programma d’azione all’interno del quale si declinarono specifici obiettivi che tutti gli Stati avrebbero dovuto perseguire fino al XXI secolo. Grande rilievo ebbe anche la conferenza di Kyoto del 1997 e il successivo protocollo entrato ufficialmente in vigore nel 2005, in cui si stabilì una riduzione del 5% delle emissioni di gas serra da conseguire entro il 2012. Tale percorso, tra alti e bassi, è giunto fino a giorni nostri trovando un momento significativo nell’Accordo di Parigi, sottoscritto il 12 dicembre del 2015 da 196 Stati.

  1. Il paradigma tecnocratico

Il Papa riconosce il valore del percorso fin qui intrapreso, ma sottolinea che il fallimento dei vertici mondiali sull’ambiente è stato determinato dal fatto che la politica è stata sottomessa alla tecnologia e alla finanza.
Nel capitolo III dell’enciclica al centro dell’analisi vi è infatti “il paradigma tecnocratico”, quello che ha imposto un certo modello di sviluppo e di consumo, basato sul dominio dell’economia finanziaria sull’economia reale e sulla “ecologia umana”. Si tratta di un paradigma omogeneo e unidimensionale in cui risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e possiede l’oggetto che si trova all’esterno (cf. n. 106).
A differenza del passato, in cui l’uomo accompagnava e assecondava le possibilità offerte dalle cose stesse, oggi l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi la mano, diventando invece contendenti (cf. n. 106). Da qui il mito della crescita illimitata e la menzogna circa la disponibilità infinita delle risorse del pianeta. La parola chiave infatti è “dominio”, un dominio impressionante di pochi detentori della conoscenza e del potere economico sull’insieme del genere umano. Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio potere anche sull’economia e sulla politica determinando il prevalere delle logiche basate sul profitto e sugli interessi particolari. Sono proprio le logiche di dominio tecnocratico che portano a distruggere la natura e a sfruttare le persone e le popolazioni più deboli. Il rischio è che «le nuove forme di potere derivate da paradigma tecno-economico finiscano per distruggere anche la libertà e la giustizia» (n. 53).
Il primo passo pertanto è riconoscere che “la scienza e la tecnologia non sono neutrali” e che pertanto vanno inserite all’interno di un orizzonte di senso, di un’etica solida capace di orientare e dare un valore alle scelte dell’uomo. A questo proposito – afferma il Papa – è necessario superare la frammentazione del sapere, che offre soluzioni momentanee e parziali, per ricercare un approccio olistico che tenga conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle diverse aree del sapere, comprese la filosofia e l’etica sociale.
Papa Francesco ci parla di una cultura ecologica integrale e invita a contrastare l’avanzare del paradigma tecnocratico opponendo un nuovo paradigma, basato sulla centralità dell’uomo, della sua dignità, della sua libertà: La libertà umana può limitare, orientare la tecnica, «metterla al servizio di un altro tipo di progresso più sano, più umano, più sociale» (n. 112). Significativo il fatto che il Pontefice indichi alcune occasioni concrete in cui questo è già visibile, anche se in scala ridotta, ad esempio nei gruppi di produttori che optano per sistemi di produzione meno inquinanti sostenendo modelli di vita, di felicità, di convivialità non consumistici. Oppure quando fa riferimento all’utilizzo della tecnica per migliorare le condizioni di vita di chi soffre.

  1. Verso una nuova antropologia

Secondo il Pontefice una coscienza ecologica integrale non potrà affermarsi se prima non verrà riconsiderato il concetto di antropocentrismo. A questo proposito, sottolinea che l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di “amministratore responsabile”. Papa Francesco conduce una critica lucida e aspra contro l’antropocentrismo deviato, cioè quell’antropocentrismo basato sul senso di onnipotenza e che non tiene conto del fatto che l’uomo non è separato dalla realtà, dalla natura, dal mondo in cui è inserito. Un antropocentrismo deviato dà luogo a uno stile di vita deviato e al relativismo pratico tipico della nostra epoca che misura tutto sulla base di interessi personali e contingenti.
Proprio da questa cultura del relativismo – afferma – deriva la logica che porta a sfruttare i bambini, ad abbandonare gli anziani, a ridurre altri in schiavitù, a sopravvalutare la capacità del mercato di autoregolarsi, a praticare la tratta di esseri umani, il commercio di pelli di animali in via di estinzione e di “diamanti insanguinati”. È la stessa logica di molte mafie, dei trafficanti di organi, del narcotraffico, è la logica “usa e getta” che produce tanti rifiuti solo per il desiderio smodato di consumare più di quello di cui si ha realmente bisogno. È di fondamentale importanza – sostiene Bergoglio – comprendere che «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale». Bisogna comprendere che “Tutto è connesso” e che il rapporto uomo-mondo deve basarsi su altri e alti valori umani quali la conoscenza, la volontà, la libertà e la responsabilità.
Può forse in questa sede essere utile ricordare che l’etica della responsabilità è al centro di un celebre saggio del filosofo tedesco Hans Jonas, intitolato “Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica”. Alla fine degli anni ’70 Jonas, partendo dalla constatazione che l’uomo è diventato per la natura più pericoloso di quanto un tempo la natura lo fosse per lui, pose il problema non solo della sopravvivenza, ma anche dell’unità della specie e della dignità della sua esistenza. Tra il “principio di speranza” di Ernst Bloch e il “principio di disperazione” di Gunther Anders, Jonas proponeva il principio di responsabilità, della responsabilità nei confronti di chi è presente e di chi verrà dopo di noi; il filosofo sottolinea come esista un dovere dell’umanità a esserci che non va confuso con il dovere di esistere del singolo, un dovere verso l’esistenza deve essere una priorità in tutti i campi della vita umana. Il fatto che la riflessione di Jonas risulti attuale significa che la meta è ancora lontana, che i progressi e i rimedi sono stati finora troppo lenti e insufficienti.

  1. L’etica del lavoro

Un altro passaggio importante presente nel III capitolo dell’enciclica è quello che riguarda la difesa del lavoro. Il Papa pone l’accento, ancora una volta, sul fattore economico, sottolineando questa volta la necessità di ripensare e valorizzare il ruolo del lavoro nella nostra società. È prioritario ridare al lavoro la dignità e la centralità che merita perché è nell’ambito lavorativo che avviene lo sviluppo multiforme della persona. In esso si mettono in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Per questo bisogna acquisire la consapevolezza che «i costi umani sono anche costi economici» (n. 128) e viceversa. «Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società» (n. 128).
Il Papa ritiene indispensabile promuovere un’economia che offra occupazione attraverso la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Vi è una denuncia del liberismo sfrenato che di fatto riduce l’accesso al lavoro e impedisce ai più di beneficiare delle risorse. Vi è un appello alla politica, affinché contenga lo strapotere di coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. Contenere e limitare non significa frenare la creatività umana, che è un dono speciale dato da Dio, ma saper valutare e riconsiderare gli obiettivi, i fini, gli effetti, i limiti etici dell’attività umana.
Il papa cita questioni aperte e dibattute come quella sugli OGM, ammette che vi possano essere dei benefici nel loro utilizzo, tuttavia evidenzia i problemi relativi alla concentrazione di terre produttive nelle mani di pochi, e quelli legati alla compromissione di delicati ecosistemi. Questo è solo un esempio delle questioni che richiedono un approccio multiprospettico. A questo proposito si rende necessario avviare «un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio, in grado di considerare tutta l’informazione disponibile e che coinvolga tutti gli attori in campo in una prospettiva ampia, democratica ed etica. La liberazione dal paradigma tecnocratico si avrà realmente quando la tecnica sarà orientata prioritariamente a risolvere i problemi concreti degli altri e aiuterà gli uomini a vivere con più dignità e meno sofferenze (cf. n. 112). Facciamo nostro l’invito a riscoprire quell’«autentica umanità» che finora «sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica quasi impercettibilmente» (n. 112), a ricostruire pazientemente un orizzonte etico condiviso in cui ridare centralità alla persona umana e ai suoi bisogni.

  1. Riflessioni conclusive

Nel terzo capitolo dell’enciclica Laudato si’ è contenuto, a mio giudizio, un messaggio importante, in grado di offrire un significativo contributo al dibattito sulle questioni ambientali e sulle loro implicazioni economiche, politiche ed etiche. Papa Bergoglio chiama in causa, senza mezzi termini, quei poteri cosiddetti “forti” che dominano i settori cruciali della politica e della finanza.
Ho cercato di interrogarmi su quali risposte finora siano pervenute dal mondo politico-finanziario rispetto alle questioni sollevate dal Santo Padre nel 2015. Mi sono chiesta soprattutto che spazio possano avere le istanze di equità e di giustizia sociale nei tempi attuali dominati da sovranismi, populismi e neonazionalismi.
a) Le risposte che ho trovato, inutile nasconderlo, non sono confortanti.
I capi di governo attuali, in primis quelli delle potenze più avanzate tecnologicamente, non sembrano intenzionati ad affrontare le sfide in questione. Basti pensare a Donald Trump che ha dichiarato che non esiste un’emergenza climatica e ha ridotto al minimo l’impegno del governo statunitense per contrastarla, abrogando buona parte delle leggi che prevedevano la riduzione delle emissioni inquinanti da parte dei veicoli e la chiusura delle centrali a carbone più inquinanti. Trump è intervenuto in extremis all’ultima Conferenza Onu sul clima, abbandonando i lavori in anticipo e senza rilasciare alcuna dichiarazione ufficiale. Di fatto, gli stati Uniti hanno disatteso l’Accordo di Parigi e mancheranno buona parte degli obiettivi perseguiti.
Altrettanto preoccupanti, parlando di dominio tecnocratico, sono le risultanze delle inchieste che rivelano come sempre più spesso il mondo dei social media e dell’informazione sia manipolato e piegato ai fini della propaganda politica. Basti pensare alla recente inchiesta di Report sui presunti finanziamenti russi alla Lega di Matteo Salvini. Sarebbe sbagliato, tuttavia, lasciarsi andare al facile pessimismo. È chiaro che si rende necessaria una risposta da parte delle istituzioni democratiche e soprattutto degli organismi sovranazionali. In questo la lettera pastorale del Papa funge da sprone anche per rinnovare con maggior forza quegli impegni assunti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.
b) Alcuni segnali positivi sono giunti dall’Unione Europea e mi piace pensare che ciò sia dovuto anche al profondo retaggio culturale che fa del vecchio continente una culla di civiltà.
Negli ultimi tempi ha cominciato a diffondersi sempre più l’uso del termine “finanza sostenibile”, per identificare il processo che porta, nell’adozione di decisioni di investimento, a tenere in considerazione i fattori ambientali e sociali, con l’obiettivo di orientare gli investimenti verso attività sostenibili e di lungo periodo. Nel marzo 2018 è stato presentato il “Piano d’azione della Commissione europea per finanziare la crescita sostenibile” con lo scopo di collegare il mondo della finanza alle esigenze specifiche dell’economia per apportare benefici alla nostra società e al nostro pianeta, proseguendo il percorso già intrapreso con l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, all’interno del quale l’Unione europea ha stabilito l’obiettivo di ridurre entro il 2030 del 40% le emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 2005. il Piano d’azione mira a riorientare i flussi di capitali verso investimenti sostenibili al fine di realizzare una crescita sostenibile e inclusiva; gestire i rischi finanziari derivanti dai cambiamenti climatici, dall’esaurimento delle risorse, dal degrado ambientale e dalle questioni sociali e promuovere la trasparenza e la visione di lungo termine nelle attività economico-finanziarie.
A questo proposito, ritengo opportuno, in conclusione, citare anche un saggio intitolato “Apripista” appena pubblicato negli Sati Uniti da Marc Benioff, un miliardario fondatore e capo di Salesforce, azienda di software per le imprese oggi leader nel settore. Egli sostiene la necessità di riformare il capitalismo concentrato solo sul profitto e sull’interesse degli azionisti in direzione di un equocapitalismo. A suo giudizio, con l’aumento delle diseguaglianze e delle tensioni sociali “fare del bene” non deve essere più considerato come un obiettivo filantropico lasciato alla buona volontà discrezionale delle industrie, ma deve essere un ingrediente essenziale per la tenuta del sistema democratico di mercato e per lo stesso successo delle imprese. È convinto che la natura del business stia cambiando, con i mercati che premiano anche in borsa chi fa del bene ed è socialmente responsabile.
Benioff ha dimostrato questa teoria con i fatti. Già 20 anni fa aveva inserito nella sua cultura aziendale il give back (restituire alla società) con la formula del destinare l’1% dei profitti ad attività caritatevoli. L’anno scorso ha sostenuto nella città di S. Francisco il referendum per introdurre una tassa sulle imprese ad alta tecnologia da devolvere a favore dei senzatetto. La proposta ha avuto successo e attualmente la Salesforce è il primo contribuente della nuova tassa. In generale, la crescita esponenziale dell’azienda di Benioff negli ultimi 15 anni testimonia che l’impegno sociale non è incompatibile con la redditività. Durante il Social Forum di Davos, Benioff ha sostenuto che i governi debbano intervenire per regolare il settore, affinché tutte le industrie siano trasparenti e costruiscano un rapporto di fiducia con gli utenti. Ed è significativo il fatto che lui sottolinei come questo sia necessario per evitare la crisi del sistema democratico. Il caso Benioff non è isolato ed è emblematico del fatto che altre strade di sviluppo sono percorribili.
Alla luce di quanto detto, risulta evidente che le parole del Pontefice possono rappresentare oggi un autentico faro nella notte, capace di guidare gli uomini verso la formazione di una nuova coscienza ecologica condivisa, in grado di garantire la sopravvivenza del genere umano nelle migliori condizioni possibili, attraverso un tipo di progresso più sano, più sociale, più integrale.

CAPITOLO 4.
Un’ecologia integrale. Marcello Badalamenti.
«La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale.» (Laudato si’, n. 13). «Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. [Vi è bisogno di] una presa di coscienza» (n. 14).
Il nostro intervento ha come finalità quella di un invito a maturare in coscienza sulla problematica dell’etica ecologica e a curare quel possibile disinteresse, che può annidarsi, consapevolmente o inconsapevolmente, dentro il cuore di ciascuno di noi e che forse si dimentica si chiami peccato che conduce alla morte. Più che pretesa, si vuole essere, un’umile proposta, per un confronto e una salutare riflessione.

  1. L’ ecologia integrale

Cosa si intende per ecologia integrale non è difficile comprenderlo: il riferimento è alla concezione che sdogani il nesso ecologico da logiche naif o associazionistiche, anche se viene, fin dalle prime battute dell’enciclica, riconosciuto che il movimento ecologico mondiale «ha percorso un lungo e ricco cammino» (n. 14), per situare invece, la realtà dell’ecologia, nella sfera della vita concreta e quotidiana. Ma non solo, per la riflessione che ne deriva, ciò significa che l’ecologia integrale ha che fare anche con la ricerca teologica. Uno studioso dell’argomento – Morandini – afferma che «Laudato si’ è certo appello, invito a rinnovare urgentemente le pratiche (personali, sociali, ecclesiali), ma è anche una vera sfida teologica, un invito a riprendere e approfondire alcune parole guida della fede cristiana» .
Nell’ambito della teologia morale, di cui mi occupo, ciò significa una prima cosa che non possiamo dismettere: la sfida ecologia è un serio problema/opportunità per la vita morale del credente, visto che, come afferma papa Francesco: «Siamo cresciuti pensando che eravamo [di sora nostra madre terra] proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla… dimenticando [amara costatazione!] che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito da elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ci ristora» (n. 2). Nei primi tre paragrafi, di questo quarto capitolo sull’ecologia integrale, viene presentata la realtà molteplice dell’ecologia: ambientale, economica e sociale (nn. 138-142), culturale (nn. 143-147) e, molto significativamente, della vita quotidiana (nn. 147-155).
Non sembri un’affermazione scontata, ripeto, il ribadire che ogni riferimento all’ecologico ha una valenza teologica, prima che sociale o etica; esso è di un’importanza fondamentale, per educare, specie i cristiani, a prendere sul serio ogni problematica che gli soggiace e ad interrogarsi seriamente su quel volere di Dio che bisogna sempre ricercare, per attuare la propria vocazione cristiana. Una volontà di Dio che “passa” dal grido dei poveri, dalla loro giustizia e da quella condivisone e solidarietà che non può essere “elemosina” ma bensì, professione di fede in atto sull’incarnazione di Cristo che dona senso al tempo, alla creazione e alla storia.
Avendo dinanzi questa consapevolezza ci si apre un cammino che, i numeri seguenti, sempre di questo capitolo quarto, evidenziano, parlando del bene comune, come imprescindibile impegno morale che soggiace al problema ecologico globale. Si afferma, tra l’altro: «Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione [quella preferenziale per i più poveri] è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune» (n. 158).

  1. Il principio del bene comune (n. 156-158)

Questi tre numeri dell’enciclica, relativi alla dottrina sociale della Chiesa e alla molteplicità di risvolti etici che ne derivano, bisogna saperli leggere, non perdendo di vista che, l’etica, ha bisogno di una risposta fattiva che derivi dallo spessore della propria fede (identità!), affinché il credente si possa incontrare con i propri simili, anche non credenti (confronto!), in un’umanità che chiama, tutti (dialogo!), a risposte concrete e fondanti la responsabilità del proprio convivere umano e sociale.
«Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma, come ho cercato di mostrare nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium [nn. 186-201], esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede» (n. 158).
Come si vede queste espressioni diventano motivo per aprirci ad una seria riflessione di verifica circa il nostro pensare ed operare credente, senza alibi o risposte ‘fatte’, preconfezionate, ma nella ricerca di una risposta che sia obbedienza al Vangelo, nel bene possibile che io – ciascuno di noi – può realizzare oggi. La preferenza verso i poveri, a cui una piena concretizzazione del bene comune dovrebbe rivolgere lo sguardo, richiedono, il porsi sulla stessa lunghezza d’onda della creazione che è dono da accogliere e far maturare per il bene di tutti: «Il Padre buono – afferma papa Francesco [Evangelii gaudium, n. 187] – desidera ascoltare il grido dei poveri… rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori della volontà del Padre e del suo progetto».
Bisogna ritrovarsi impegnati ad attenuare, gli effetti dell’attuale squilibrio, e ciò dipende da ciò che facciamo ora (cf. Laudato si’, n. 161). Ricordiamoci che «la difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro» (Laudato si’, n. 162). Il pericolo di quell’etica individualistica, denunziata dal concilio in Gaudium et spes n.30 e dalla Evangelii gaudium n.177, è sempre dinanzi alla nostra storia, ne consegue che è urgente orientarsi verso due prospettive esistenziali.

  1. Abbiamo bisogno di formarci e di convertirci

Sono questi due ambiti, formazione e conversione, che ci investono, come esigenza del nostro credere – la nostra fede in Dio creatore e nell’uomo custode del creato – e del nostro vivere – la nostra vita morale che parta da un cuore nuovo e riconciliato – per porre la necessità di una ecologia integrale nell’orizzonte della nostra quotidianità credente: «La crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore» (Laudato si’, n. 217).
a) In primo luogo: fede ed etica non sono in competizione. Teologia ed ecologia non possono disgiungersi dalla propria vita fede e dall’impegno di ciascuno di una vita morale che sia specchio di ciò che si crede; come direbbe san Paolo (indicativo/imperativo): se sei cristiano devi comportarti da cristiano. Abbiamo per troppo tempo taciuto che la fede per essere reale non può che incarnarsi nella storia e dunque chiedere risposte che aiutino questa, la storia, a splendere come historia salutis per l’umanità intera.
Quando con i nostri comportamenti, le nostre scelte, i nostri pensieri, affossiamo la bellezza del creato non possiamo che tradire il senso di una creazione consegnataci come dono, da far fruttificare e da, a sua volta, consegnare, a chi viene dopo di noi, come, chi ci ha preceduto ha fatto con noi. Come abbiamo ribadito non si tratta di giustizia, pura e semplice, ma di carità/amore frutto di un impegno che si fa dono. L’enciclica difatti riconosce che «non sempre noi cristiani abbiamo raccolto e fatto fruttificare le ricchezze che Dio ha dato alla Chiesa, dove la spiritualità non è disgiunta dal proprio corpo, né dalla natura o dalle realtà di questo mondo, ma piuttosto vive con esse e in esse, in comunione con tutto ciò che ci circonda» (n. 216).
b) In secondo luogo: l’ecologia è cosa nostra – res nostra agitur! La fede se non si pone nell’impegno concreto diviene individualisticamente vissuta a scapito degli altri; non possiamo permetterci, ancora, di “concepire” la vita di fede come una ricerca del bene che mi faccia andare in paradiso, dimenticando che, se non sono seriamente impegnato a far andare in paradiso anche il fratello che mi sta accanto, io, di certo, il paradiso, scusate la battuta, me lo posso scordare!
L’affermazione del documento conclusivo il Sinodo dell’Amazzonia, recentemente celebrato, che richiede che si riconosca il peccato relativo alle mancanze contro il creato, è di certo un indirizzo che non potrà che avere dei risvolti educativi importanti per far maturare, in coscienza, atteggiamenti e comportamenti figli di un’ecologia integrale. Ecco cosa afferma al n. 82: «Proponiamo di definire il peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro gli altri, la comunità e l’ambiente. È un peccato contro le generazioni future e si manifesta in atti e abitudini di inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, trasgressioni contro i principi di interdipendenza e la rottura delle reti di solidarietà tra le creature (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, 340-344) e contro la virtù della giustizia» .
Ciò, sebbene già presente nella Laudato si’ con varie accezioni, indica il bisogno di far sì che la conversione arrivi ad una confessione delle proprie colpe in materia di ecologia e, di contro, la confessione si traduca in riparazione con una soddisfazione necessaria e corale . Sì, lo ribadiamo: visto che «già troppo a lungo – come afferma papa Francesco nella Laudato si’ – siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco» (n. 229).
La stessa riflessione teologica, come riflessione sul vissuto che si pone in ascolto del grido dei poveri, come papa Francesco chiede che sia, deve porsi dinanzi alla persona che agisce, preoccupandosi di far maturare, sempre più, quella coscienza etica, che ci faccia crescere in quel senso di fraternità che il nostro essere comunità credente – Chiesa di Cristo! – esige e contempla. Ben possiamo comprendere che non vi sono, in questo versante, specialisti del settore, bensì uomini e donne – noi – in cammino per un impegno, come lo chiama papa Francesco, che attenui gli effetti di un disastro, che ormai è iniziato, del nostro cosmo, ambiente, creato, e che ci vede tutti partecipi, tutti responsabili, tutti impegnati.
c) Ecco che in terzo luogo bisogna chiedersi: cosa sto facendo? Tutti noi, noi qui presenti, possiamo e dobbiamo iniziare, o continuare se già abbiamo iniziato, a fare, qualcosa in questo versante, preoccupandoci delle piccole cose e, secondo le nostre competenze e responsabilità, sollecitando le grandi cose, specie a livello sociale e politico, responsabilità, questa, che compete specie ai laici, come ci ricorderebbe il concilio nella Gaudium et spes, che ribadisce, proprio ai laici: si «assumano la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (n. 43).
Ciò, significativamente ci vedrà impegnati ad andare controcorrente per sanare quella nefasta costatazione di una ‘globalizzazione dell’indifferenza’ e, peggio, di quella ‘cultura dello scarto’ che è non solo dinanzi a noi ma, dentro di noi: nei nostri modi di pensare e dunque di agire. Dobbiamo sentirci tutti interpellati da queste salutari parole di denunzia di papa Francesco: «Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità… Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (Evangelii gaudium, n. 53).
Espressioni da tener sempre dinanzi per un serio esame di coscienza che parta non da ciò che abbiamo fatto (pensieri, parole, opere), ma da ciò che dovevamo fare e che non abbiamo fatto (omissioni). Ed ancora: «Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Evangelii gaudium, n. 54; cf. Laudato si’, nn. 203-209).
La responsabilità etica deriva dal grado di maturità della propria coscienza alla problematica, che è, in modo irrevocabile e perentorio per il nostro futuro prossimo, postaci dinanzi, oserei dire, con la brutalità dell’evidenza. Inoltre ciò è, inesorabilmente, vero, e, purtroppo, già denunziato da decenni, dai profeti che sanno leggere i segni dei tempi, interrogandoci con la prepotenza della verità. Come non ricordare, difatti, ciò che scriveva, e ben trenta anni orsono, un profeta dei nostri tempi, il teologo morale Bernard Häring, nel terzo volume della sua opera Liberi e fedeli in Cristo: «L’educazione ecologica può avere successo solo là dove il sapere o conoscenza in vista della salvezza è prevalente ed è capace di padroneggiare e integrare in sé il sapere in vista del dominio» . Espressioni eloquenti e chiare, un invito, suasivo e solenne, a metterci in cammino, a maturare lo scandalo del vangelo, cioè la forza di una annunzio/presenza che faccia prendere consapevolezza da una parte dei disastri che alimentiamo, e, convertendoci di cuore, invertendo la rotta, salvaguardare e custodire il creato per il nostro domani e quello di coloro che vengono dopo di noi.
Termino con delle frasi del Patriarca Bartolomeo I, tenace assertore, ormai da anni, della causa dell’ecologia integrale: «La creazione è un dono di Dio a tutta l’umanità. È nella creazione, alla quale partecipano gli esseri umani, che si attua la grazia salvifica di Dio per la salvezza del mondo. Così, siamo sempre stati particolarmente attaccati all’idea che la distruzione della natura sia innanzitutto una questione spirituale e un peccato. Ecco perché la risposta deve anche essere spirituale. Preghiamo per la creazione… La preghiera è essenziale, ma è solo un primo passo. I cristiani devono impegnarsi nello sviluppo di un’ecologia spirituale basata sul tema della conversione. Spesso sentiamo la questione della conversione quando parliamo, ad esempio, del sacramento della confessione. È la stessa cosa qui. Se la distruzione dell’ambiente è un peccato, non possiamo proteggerlo senza convertirci. Perché è dalla conversione dei cuori che verrà la consapevolezza della nostra responsabilità».

CAPITOLO 5.
 La responsabilità etica di abitare la Casa comune. Egidio Palumbo e Maria Grazia Recupero.

Assumere uno stile dialogico e ospitale.
Nel cap. V della Laudato si’ papa Francesco propone alla politica – intesa come impegno a costruire la polis, la città, la convivenza umana a livello locale e internazionale – e alle religioni a prendersi cura della “casa comune” che è la nostra terra, a saperla abitare e gestire, assumendo uno stile non arrogante e padronale, bensì dialogico e ospitale.

  1. Il dialogo nella prospettiva dell’ospitalità

a) Conformarsi a Cristo Gesù
Quando il papa propone il dialogo non lo fa per opportunità tattica, ma per indicare uno stile dialogico e ospitale, il più adeguato da assumere in una società oggi essenzialmente plurale dal punto di vista culturale, religioso e politico. Soltanto lo stile dialogico e ospitale, creando relazioni e legami, può evitare che la pluralità si sbricioli in una molteplicità di frammenti autoreferenziali ed eccentrici, chiusi nel guscio delle proprie identità esclusiviste e fondamentaliste, ricurve su sé stesse e non aperte all’altro. Saper gestire il fenomeno della differenza e della realtà plurale è una delle sfide più importanti del XXI secolo. Il dialogo, vissuto nel segno dell’ospitalità, aiuta ad affrontare al meglio la sfida della differenza e del pluralismo.
Perciò papa Francesco aveva già affermato nella Evangelii gaudium al n. 49: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce di essere rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti». La Chiesa è chiamata a conformarsi a Gesù Cristo, il quale non fu una persona eccentrica, bensì umile, mite, aperta sempre all’ascolto, sempre dialogante e ospitale. Di conseguenza, sempre nella Evangelii gaudium, nell’ambito del dialogo sociale come contributo alla pace, il papa dedicava ben ventuno paragrafi al dialogo (nn. 238-258), che vediamo riproposto nel cap. V di Laudato si’.
b) Il volto di una Chiesa dialogante
Non possiamo, però, dimenticare che sullo sfondo di queste pagine dell’enciclica di papa Francesco vi è la prima enciclica programmatica del pontificato di Paolo VI, Ecclesiam suam, pubblicata il 6 agosto 1964, dove il papa proponeva il volto di una Chiesa dallo stile dialogante . Al n. 67 Paolo VI scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». È la prima volta che il termine dialogo (colloquium) entra in un documento ufficiale del magistero. Per Paolo VI il dialogo ha innanzitutto una dimensione trascendente, perché la relazione tra Dio e l’uomo è relazione dialogica: attraverso di essa Dio si comunica a noi e ci dona gratuitamente la salvezza (cf. nn. 72-78). Inoltre il dialogo per la Chiesa è «un modo di esercitare la missione apostolica; è un arte di spirituale comunicazione» (n. (83); perciò esige chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza pedagogica, capacità di adattamento all’interlocutore, immedesimazione con l’interlocutore (cf. nn. 83-84). E tutto questo in un clima di amicizia e di servizio (cf. n. 90).
Con quali interlocutori è chiamata a dialogare la Chiesa? Qui Paolo VI delinea quattro cerchi concentrici – che sembrano evocare la relazione di comunione fraterna senza “spigoli”… –, al cui centro sta il nostro Dio dialogante che sostiene e guida l’umanità e le Chiese. Primo cerchio: il dialogo abbraccia il vasto orizzonte dell’umano (cf. nn. 101-110). Secondo cerchio: il dialogo abbraccia tutti coloro che credono in Dio (cf. nn. 111-112). Terzo cerchio: il dialogo abbraccia i cristiani fratelli separati (le Chiese Ortodosse, le Chiese della Riforma e le Chiese Anglicane: cf. nn. 113-116). Quarto cerchio: il dialogo abbraccia i cristiani che appartengono alla Chiesa Cattolica (cf. nn. 117-123).
c) Nel segno dell’ospitalità
Dialogo e ospitalità sono strettamente correlati. Si dialoga meglio quando si esce dal proprio guscio adolescenziale e ci si lascia ospitare e abitare dall’altro. Perché è così che si ampliano gli orizzonti della nostra identità umana e di fede, è così che ci si arricchisce reciprocamente e si cresce secondo la statura della persona adulta e matura. Dialogo e ospitalità, allora, generano la “cultura dell’incontro”, di cui spesso parla papa Francesco, dove è fondamentale l’accettazione della differenza, il rispetto e l’accoglienza dell’altro, ben sapendo che tutto questo non è qualcosa di naturale e di spontaneo, ma richiede un impegno e una dedizione particolari, una disponibilità a decentrarsi e a mettersi umilmente in un cammino di ricerca e di simpatia ed empatia per comprendere il mistero dell’altro, perché – lo sappiamo bene – la presenza dell’altro non suscita solo ammirazione ma anche inquietudine e disorientamento .

  1. Le religioni in dialogo con le scienze e in dialogo tra loro

Dentro questo mondo plurale, la presenza delle religioni, compresa quella cristiana, assume una rilevanza pubblica significativa. Le religioni, infatti, oltre che avere i loro riti e le loro pratiche, hanno anche una loro comprensione esperienziale di Dio, dell’uomo, del mondo, della terra, del cosmo e della condizione degli impoveriti. Ponendo in stretta relazione Dio-umanità-terra-cosmo-poveri, le religioni ci comunicano la loro visione della vita, esprimono il senso e la via salvifica che orienta (o dovrebbe orientare) il modo di abitare e di vivere dell’uomo sulla terra: non padronale e autoreferenziale, bensì da figlio/figlia e da fratello/sorella, da creatura e da custode, da “giardiniere” e da “pastore”, da pellegrino e da ospite .
Per questo papa Francesco, con grande insistenza e parresia, nella Laudato si’ esorta le religioni a coinvolgersi nel cammino dialogico e ospitale sia con le scienze (cf. nn. 199-200), sia tra di loro (cf. n. 201), per offrire un contributo alla cura della nostra “casa comune” e alla difesa dei poveri. «La gravità della crisi ecologica – scrive il papa – esige da noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità, ricordando sempre che “la realtà è superiore all’idea” (Evangelii gaudium, n. 231)» (Laudato si’, n. 201).

 3. La responsabilità etica e politica di abitare e gestire la Casa comune

Rievocando la pregnanza del termine greco oikos – che vuol dire “casa” e più ampiamente “ambiente dove si vive” – dovremmo pensare all’eco-logia come elaborazione di analisi sulla “casa comune”, mentre l’eco-nomia si dovrebbe preoccupare della sua gestione. Che si tratti della famiglia o dell’intero pianeta, l’etimologia colloca entrambe le dimensioni nell’orizzonte d’un progetto in cui tutti gli abitanti sono coinvolti. Nel suo complesso l’enciclica Laudato si’ mostra come tali presupposti siano tutt’altro che scontati.
Rispetto alla lunga storia del vocabolo “economia”, già presente nel pensiero antico, non è un caso che la parola “ecologia” abbia una matrice ottocentesca e tutta occidentale, legata alla massiccia alterazione degli equilibri naturali prodotta principalmente dall’industrializzazione. La necessità di studiare con attenzione specifica l’interrelazione tra l’uomo e l’ecosistema deriva dai risvolti strabilianti, e al tempo stesso inquietanti, dell’allora nascente società di massa. Potremmo cioè ammettere che sin dagli esordi l’ecologia si costituisca come studio della “crisi ecologica”. Dai disastri ambientali alle migrazioni, che oggi coinvolgono enormi masse di persone sconvolgendo gli equilibri geopolitici del pianeta, papa Francesco opera un’efficace connessione tra quelle che diremmo “catastrofi naturali” e “catastrofi culturali”.

  • Catastrofi naturali e catastrofi culturali

Il capitolo V dell’enciclica si snoda, in particolare, «tanto nelle crepe del pianeta che abitiamo, quanto nelle cause più profondamente umane del degrado ambientale» (n. 163). In diversi passi emerge, ad esempio, la preoccupazione per la “desertificazione” come progressiva distruzione della biodiversità (cf. n. 169). Da quest’immagine vorrei partire, richiamando la suggestiva metafora di Hannah Arendt che coglie nel “deserto che avanza” la nullificazione delle capacità politiche degli uomini.
La pensatrice ebrea aveva ben impressa la catastrofe totalitaria, la disumanizzazione elevata a sistema di governo, ma certamente il deserto rimane a rappresentare simbolicamente il rischio cui ogni società, in ogni tempo, può imbattersi. L’inaridirsi della “vita in comune” – questo il primo ed ultimo significato della ‘politica’ – riguarda in special modo la razionalizzazione onnipervasiva su cui si basa l’economia di mercato orientata al guadagno continuativo e non alla copertura del fabbisogno. Sotto il profilo che qui interessa maggiormente, l’efficienza del paradigma tecnocratico-capitalistico ha impoverito, fino a svuotala, la relazione istituita dallo scambio di beni. Ne risulta il predominio della meccanica produzione di merci che si aggirano in un mondo ritenuto calcolabile e controllabile tecnicamente: «Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti» (n. 106). Non si può più condividere la certezza d’uno sviluppo progressivo e perfettibile cha tanto aveva «[…] entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (n. 106) uniti intorno al potere, apparentemente razionale e sconfinato, del libero mercato.
Quale libertà, insomma, per la condizione umana che Max Weber definiva “disincantamento del mondo” , e che è stata poi asetticamente denominata “globalizzazione”? Più che un’astrazione univoca, quest’ultima rappresenta attualmente il corto circuito culturale tra le forme democratiche e lo schema capitalistico dell’accumulo, nel miraggio della disponibilità infinita in cui convergono spreco di risorse, inquinamento, sovrapproduzione di rifiuti, guerre, vessazioni ecc. Se per certi versi la globalizzazione ha unificato il pianeta, almeno per l’incremento dei flussi di consumo, ci si sarebbe aspettati anche un’imponente crescita del benessere dal punto di vista spirituale. Snodo fondamentale in tale direzione la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) a sugellare che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e che “devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (artt. 1-2). Volgerei a questo punto in forma d’interrogativo un importante passaggio della Laudato si’: quanto «si è andata affermando la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune» (n. 164)?

  • Quali abitanti per la Casa comune?

Le relazioni internazionali non hanno saputo sostenere in chiave solidale l’attenzione e la cura per i mali del pianeta, sia sul piano umanistico che ambientalistico. Hanno piuttosto nutrito le dialettiche paranoiche con cui politica ed economia «[…] tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e avere cura dei più deboli» (Laudato si’, n. 198). Sul piano sovranazionale, ma anche locale, non è stata superata la dinamica acquisitiva che esige lo scarto incolmabile tra vincitori e vinti, tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non ha (indipendente dal ‘chi’ di turno).
Occorre perciò fortificare i pilastri etici del dibattito pubblico incoraggiando «una concezione più ampia della qualità della vita» (n. 192). Non un progetto di sviluppo sostenibile bensì un “progetto sostenibile di sviluppo” che sposti l’attenzione dallo sviluppo – principale interesse della modernità – alla sostenibilità come categoria della possibilità costantemente aperta a dubbi sui propri trionfi, sulle realizzazioni definitive, sulle conquiste irreversibili dei diritti, insomma sul compimento della perfetta umanità.
L’enciclica indica un diverso rapporto limite-possibilità da condividere nell’ambito d’una multi-level governance (pure fuori dai luoghi tipici del potere), una sorta d’unità poliedrica che si scompone e si ricompone, a seconda delle particolarità di ogni ambiente e di ogni circostanza, per la cura dei beni comuni globali (cf. n. 174). Anche “a costo” di capovolgere il classico modello del calcolo razionale mezzi/fini che, portato all’estremo, utilizza il bene comune come strumento per il profitto. Invece i «costi sarebbero bassi se raffrontati al rischio dei cambiamenti climatici. In ogni modo, è anzitutto una decisione etica, fondata sulla solidarietà di tutti i popoli» (n. 172), osserva e fa osservare papa Francesco, indicando un percorso impegnativo per risalire eticamente dagli effetti ai mezzi, non tralasciando esempi pratici: «Uno studio di impatto ambientale non dovrebbe essere successivo all’elaborazione di un progetto produttivo o di qualsiasi politica, piano o programma. Va inserito fin dall’inizio e dev’essere elaborato in modo interdisciplinare, trasparente e indipendente da ogni pressione economica o politica. […]. C’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione» (n. 183).
In questo passo, che fa subito pensare al concetto di parresia, arriva l’eco più propriamente cristiana del capitolo V, con uno slancio oltre qualunque steccato confessionale. Del resto, accettando l’antica derivazione riportata da Lattanzio, il latino religare concerne “l’essere legati”. Relazione analoga al politico “vivere assieme” – in quanto autocostruzione dell’uomo e mai autosvilimento o autodistruzione. «La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità» (n. 201). In tal senso la religiosità non può che arricchire il confronto costruttivo sulla cura della “casa comune”. In termini filosofici, è in gioco il “credente” come colui che pone al politico la domanda capitale: sei credibile? Così inquadrata, la semplicità di papa Francesco si fa folgorante: «Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso» (n. 194).

  • «Qual è dunque il posto della politica?» (n. 196)

L’interrogativo del papa, che è anche la domanda cruciale della filosofia politica di cui mi occupo, non può fare a meno di collocare la decisione al cuore della politicità: negli ultimi anni i maggiori vertici mondiali sull’ambiente «non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci» (n. 166). Suddetta constatazione permette di rilanciare ulteriormente sulle conseguenze della globalizzazione: come mai la denaturalizzazione dei confini (politici, giuridici, finanziari) non è stata seguita da una degna internazionalizzazione della politica, ma ha perfino segnato il ritorno alla chiusura di politiche populiste e sovraniste? Forse perché i molteplici processi di denazionalizzazione rendono difficilmente individuabili gli spazi della scelta politica e quindi il riconoscimento di responsabilità? In questo vuoto pericoloso, che alimenta sempre il “fiorire del deserto”, giungono le parole di papa Francesco. E sono talmente dirette da risultare scandalose per il potere come dominio, che più aumenta meno responsabilizza: «quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di interazione orientate al bene comune» (n. 198).
Prendendo le distanze dall’operato di leader politici e classi dirigenti a vario titolo, la “pro-vocazione” di papa Francesco è un “chiamare” i grandi a farsi piccoli, così come i piccoli a farsi grandi, ponendosi al servizio di «responsabilità comuni ma differenziate» (n. 170). In questa formula di reciprocità, che evita sapientemente i rischi dell’omologazione, sono racchiuse le potenzialità salvifiche delle “differenze” in grado di generare sinergie impossibili in un mondo omogeneo: «Non si può pensare a ricette uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione» (n. 180), col pericolo di «imporre ai Paesi con minori risorse pesanti impegni sulle riduzioni di emissioni […]. In questo modo si aggiunge una nuova ingiustizia sotto il rivestimento della cura per l’ambiente» (n. 170).
Bisogna aver cura delle differenze, nel significato che mutuo da Jacques Derrida, con cui ogni identità individuale e collettiva dovrebbe fare i conti: misurarsi incessantemente col proprio limite, come con quello di ciascun ordine culturale, ripensare frontiere, ricostruire linguaggi e codici simbolici, nell’infinita differenza di ogni soggetto con sé stesso assoggettato all’infinita differenza dell’altro che mi chiama alla responsabilità.
La differenza riguarda anche il differimento nel tempo, aspetto essenziale e più volte rimarcato nella preoccupazione per la casa comune: indispensabile alla politica lungimirante è il carattere della continuità «[…] giacché non si possono modificare le politiche relative ai cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente ogni volta che cambia un governo. I risultati richiedono molto tempo e comportano costi immediati con effetti che non potranno essere esibiti nel periodo di vita di un governo. […]. Che un politico assuma queste responsabilità con i costi che implicano, non risponde alla logica efficientista e “immediatista” dell’economia e della politica attuali, ma se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità» (n. 181).

  1. Per una rotta condivisa

Dinanzi ad una politica priva di visioni “altrimenti possibili”, le forme di convivenza improntate all’assolutezza del paradigma razionale tecno-economico finiscono col distruggere «non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia» (n. 53), componenti vitali per la casa comune che l’enciclica Laudato si’ ha merito di inquadrare in una prospettiva tanto ampia quanto complessa, consentendo l’apporto di molteplici punti di vista alla ricerca di una rotta condivisa e non certo confinata all’ambito economico-finanziario. Assume invece il senso – sia come direzione che come significato – di una ecologia integrale o radicale, restituita attraverso l’iniziale accenno alle radici etimologiche. Si diceva che il progetto di cura dell’ambiente non può che essere globale perché interessa tutti i suoi abitanti. In che modo siamo coinvolti? Senza mezze misure, se non siamo coloro che curano evidentemente saremo tra coloro che necessitano di cure. Ulteriormente confermata, dunque, l’esigenza di pensare a lungo termine il circuito dell’azione politica, che si modifica continuamente mentre viene a sua volta modificata dalle circostanze: non però un universo di relativismo universale, bensì un’opportunità per affidare a ciascuno la responsabilità del proprio punto di vista e delle proprie scelte.
L’esperienza mostra che persino «i migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso» (n. 181). La leggerezza con cui la politica affronta le fragilità del pianeta non sembra aver colto il risvolto positivo delle sfide mondiali poste dalla globalizzazione, nondimeno torna il nesso tra natura e cultura giacché, almeno sul piano culturale, il «peggio non è né inevitabile né irreparabile» . Nonostante «l’umanità del periodo post-industriale sarà forse ricordata come una delle più irresponsabili della storia, c’è da augurarsi che l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (n. 165).

CAPITOLO 6.
Educazione e spiritualità ecologica. Alberto Neglia
Di fronte alla inequità planetaria, a cui l’enciclica dedica un notevole spazio nel primo capitolo (cf. nn. 48-52), con conseguenze ambientali probabilmente irreversibili e conseguenze sociali drammatiche in cui di fatto, «il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta» (n. 48), credo che nessuno di noi può restare indifferente. Nell’enciclica c’è l’invito ad uscire dall’indifferenza momentanea e soprattutto è presente la sollecitazione a fare un profondo cammino interiore che ci tenga svegli e capaci di assumerci la responsabilità nei riguardi degli altri e nei riguardi di tutto il creato.

  1. «Appello a una profonda conversione interiore»

Nel capitolo sesto, che prendiamo in considerazione, è presente un invito esplicito alla “conversione ecologica” (cf. nn. 216-221). Viene messo in evidenza subito che essa suppone una più profonda conversione interiore. Viene detto esplicitamente al n. 217: «Se “i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”, la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore. Tuttavia dobbiamo anche riconoscere che alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente. Altri sono passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoerenti. Manca loro dunque una conversione ecologica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana».
In questo testo viene evidenziato che, se vogliamo fare una seria la conversione interiore, siamo chiamati a ritornare a guardare un Volto, il volto di Gesù, a lasciarci animare e plasmare da questo volto e, uscendo da una cornice mentale attraverso la quale leggiamo la vita e gli avvenimenti, coinvolti da questo Volto, ci poniamo in modo nuovo e creativo nelle relazioni con i fratelli e con tutte le creature. 

  1. Nel volto di Cristo si svela il mistero trinitario e la vocazione dell’uomo

Questa connotazione trinitaria è evidenziata da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’: «Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza questa opera comune secondo la propria identità personale. Per questo, «quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza, dobbiamo lodare tutta la Trinità» (n. 238).
In fondo qui ci viene detto che, per intraprendere una seria conversione ecologica e operare cambiamenti radicali nel nostro stile di vita, è determinante partire da uno sguardo contemplativo che viene dalla fede: «Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri» (n. 220). Si tratta di prendere consapevolezza che la nostra vita umana e spirituale non principia da noi e neppure a noi è finalizzata. Alla sua fonte e al suo supremo compimento sta Dio-Amore. Questo Dio-Agàpe è Padre-Figlio e Spirito Santo. Il messaggio cristiano ci svela una meravigliosa ed esaltante realtà che ci coinvolge personalmente. Il Dio che ci ha manifestato Gesù Cristo è un Dio la cui essenza è relazione gratuita, comunione, cioè la Trinità. La sua vita intima, eterna, ciò che lo costituisce Dio, è il suo essere in comunione. Questa affermazione è assolutamente vitale per noi. Si chiarisce ancora nell’enciclica:  «Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria. San Bonaventura arrivò ad affermare che l’essere umano, prima del peccato, poteva scoprire come ogni creatura «testimonia che Dio è trino». Il riflesso della Trinità si poteva riconoscere nella natura «quando né quel libro era oscuro per l’uomo, né l’occhio dell’uomo si era intorbidato». [170] Il santo francescano ci insegna che ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile. In questo modo ci indica la sfida di provare a leggere la realtà in chiave trinitaria» (n. 239).
Bonaventura non si inventa questo, ma riprende ciò che Paolo evidenzia più volte. La memoria pasquale della Chiesa nascente ha riconosciuto la presenza della Trinità nell’atto stesso della Creazione: vari inni cristologici (Col 1,15-18; Ef 1,3-14; Gv 1,1-3) e diverse confessioni di fede (1Cor 8,6; Eb 1,1-4) attestano la convinzione profonda che il Dio operante negli eventi salvifici di Pasqua è anche il Dio della prima origine che ha dato e dà esistenza a tutte le cose. Tutta la Creazione è connotata, quindi, dalla presenza della Trinità. Ne deriva che l’uomo per realizzare la sua vocazione, è chiamato a vivere nella relazione gratuita non solo con gli altri uomini, ma con tutte le creature. Viene detto esplicitamente:  «Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità» (n. 240).
Non dunque nella chiusura di uno spirito sazio di sé (soggettivismo moderno), né nella statica solitudine di una sostanza incomunicabile (oggettivismo antico), l’uomo è persona-immagine di Dio, ma nell’apertura e reciprocità della comunicazione dell’amore, nell’essere con gli altri per edificare con loro il futuro e narrare nel tempo una storia nell’amore, che sia il riflesso meno infedele possibile della storia dell’amore eterno. E noi siamo chiamati a lasciarci coinvolgere da questo volto trinitario e a raccontarlo nella storia con lo stile di Cristo, sia nel rapporto con gli altri uomini, soprattutto i poveri, sia con tutto il creato. Ci dice l’enciclica: «…Cristo ha assunto in sé questo mondo materiale e ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce. Come pure il riconoscere che Dio ha creato il mondo inscrivendo in esso un ordine e un dinamismo che l’essere umano non ha il diritto di ignorare. Quando leggiamo nel Vangelo che Gesù parla degli uccelli e dice che “nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6), saremo capaci di maltrattarli e far loro del male? Invito tutti i cristiani a esplicitare questa dimensione della propria conversione, permettendo che la forza e la luce della grazia ricevuta si estendano anche alla relazione con le altre creature e con il mondo che li circonda, e susciti quella sublime fratellanza con tutto il creato che san Francesco d’Assisi visse in maniera così luminosa» (n. 221).
Gli altri non sono dunque il limite del proprio esistere (l’inferno sono gli altri: Sartre), ma, in quanto l’uomo è recettività essi sono la soglia dove comincia veramente ad esistere. Nel più profondo del suo essere creaturale… l’uomo ha bisogno dell’altro.

  1. «Una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco»

Vocazione allora dell’uomo e di tutto il creato è vivere la relazione la comunione e in questo modo esprimere l’immagine trinitaria e relazionale che Dio ha impresso nel volto dell’uomo e di ogni opera creata, così esprime la sua vocazione alla salvezza e alla gloria. Ma, oggi in modo più evidente, gli incontri precedenti ce lo hanno mostrato, stiamo vivendo in modo sbagliato la relazione con gli altri uomini e con le componenti altre della creazione, non sapendo riconoscere l’opera vivificante dello Spirito santo che ci richiederebbe un rapporto di rispetto e di amore. Le creature sono per noi un oggetto neutro di consumo, oggetti che servono a soddisfare i nostri desideri, strumenti per il nostro benessere senza limiti e senza leggi. È urgente allora un processo educativo che ci aiuti a riscoprire, il senso vero della vita, la gioia del vivere insieme. L’enciclica ci offre delle piste: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri» (n. 222).
Cosa è la sobrietà? A noi sembra una parola sconosciuta, fuori moda, ma essa indica una qualità della vita che ritorna più volte nella proposta paolina, e anche Pietro esorta: «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). I termini usati, nel greco biblico, per definire lo stato di sobrietà sono il sostantivo nêpsis e il verbo néphein, in contrapposizione a methÿein che indica lo stato di ebbrezza (e anche di sonnolenza). Nella letteratura dei padri del deserto, la sobrietà (nêpsis) è prima di tutto frutto della presenza di Dio, è un dono suo, un carisma, quindi più che meritata va implorata e accolta, è la via di ogni virtù, è anche chiamata hesychìa (quiete) del cuore, ed ha come fine la carità. È, cioè, stato d’animo che consente di affrontare la vita con gli occhi pieni della luce di Dio.
Come dono che viene dall’alto, è realtà che tocca la coscienza personale. Come ogni dono va accolto e coltivato, «Solamente partendo dal coltivare solide virtù è possibile la donazione di sé in un impegno ecologico» (n. 211); e, perché porti frutto necessita di un’ascesi faticosa, la quale implica un costante controllo di sé e una diuturna vigilanza nei confronti delle pulsioni istintuali, nonché del desiderio di autoaffermazione, perciò delle dinamiche del possesso e del potere. La sobrietà, accolta e coltivata, fa emergere una nuova consapevolezza interiore che poi si rende visibile nelle scelte, nei comportamenti, nei gesti, nelle pratiche sociali, negli stili di vita. Si tratterà spesso di piccoli gesti che si inscrivono però in grandi orizzonti perché accompagnati da una coscienza politica e dalla consapevolezza di prendere parte ad una strategia piccolissima di cambiamento. L’enciclica sottolinea alcuni di questi gesti: «È molto nobile assumere il compito di avere cura del creato con piccole azioni quotidiane, ed è meraviglioso che l’educazione sia capace di motivarle fino a dar forma ad uno stile di vita. L’educazione alla responsabilità ambientale può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via. Tutto ciò fa parte di una creatività generosa e dignitosa, che mostra il meglio dell’essere umano. Riutilizzare qualcosa invece di disfarsene rapidamente, partendo da motivazioni profonde, può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità» (n. 211).
Una seria educazione alla sobrietà rende l’uomo capace di scegliere liberamente, la sobrietà è luce che educa a dire di no alla dittatura del mercato, che procura morte, ed educa a sfidare la legge del conformismo, nella consapevolezza che, come scriveva R. Osho, «si possiede davvero solo ciò che si usa, altrimenti se ne è posseduti». Questa consapevolezza nuova è humus che educa all’autolimitazione dei propri bisogni, a saper distinguere tra esigenze fondamentali e quelle superflue, a valorizzare le potenzialità creative di ogni individuo arricchendone la vita in tutti i suoi aspetti, ad imparare ad accettare certi limiti, oltre i quali è opportuno non andare per il bene di tutti.

  1. «Ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri»

a) Responsabili dei fratelli
Una mente sobria è una mente capace di respiro e di attenzione, libera e attenta alla vita degli altri. La sobrietà, quindi, non è passività, ma si rivela atto di responsabilità verso se stessi e verso gli altri. La sobrietà, infatti, praticata nel tempo strappa il credente, ma anche ogni uomo di buona volontà, dalla tentazione del disamore e del disimpegno nella vita e lo educa a vivere la tensione tra presente e futuro, cercando di essere fedele tanto al suo presente quanto al suo futuro. L’uomo educato alla sobrietà organizza la vita a livello collettivo e individuale con la preoccupazione di garantire a tutti, senza egoismi e senza sprechi, il soddisfacimento dei bisogni primari, fondamentali, e, come diceva Gandhi, si impegna a «vivere più semplicemente, così che anche gli altri possano semplicemente vivere». E tiene presente che ogni essere umano, al di là delle esigenze legate al corpo, ha anche esigenze spirituali, affettive, intellettive e sociali. Chi vive sobriamente impara a guardare il mondo, gli avvenimenti con lo sguardo dei poveri. «In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze spirituali (n. 232)». Chi si educa a vivere sobriamente impara a condividere la sorte dei calpestati, dei crocifissi di oggi e, spartendo la sua vita con loro si fa attivamente critico verso le strutture, le leggi inventate da alcuni per defraudare altri uomini degli spazi di libertà. Illuminato da Cristo, chi vive in sobrietà, si lascia divorare per sfamare la fame dei poveri e si lascia spezzare l’esistenza per ridare speranza all’uomo a cui la vita è negata.
b) Responsabili del creato
Oggi ci sentiamo tutti minacciati da una emergenza cosmica dai segni inequivocabili. Sentiamo quasi risuonare le attualissime parole del profeta Geremia: «Io vi introdussi in una terra giardino che vi offriva i suoi prodotti e le sue delizie. Ma voi, una volta presone possesso, l’avete profanata e il mio dono l’avete reso un’abominazione» (Ger 2,7). Sale dalla natura una grande domanda di solidarietà che investe indubbiamente l’impegno personale privato e richiede:

– uno spirito di sobrietà nel consumare i doni della natura, l’acqua, le piante, gli animali, il suolo coltivabile;

– un grande rispetto per la natura, per i boschi, per l’ambiente di tutti, evitando di inquinare, riducendo o eliminando prodotti non degradabili dal nostro ménage quotidiano;

– utilizzando con discernimento prodotti chimici, che aumentano la quantità del prodotto, ma rischiano di trasformarsi in un boomerang.

Questa partita oggi è così importante che non si può più affidare solo all’intelligenza e alla buona volontà delle singole persone. È necessario che i cristiani, assieme agli uomini di buona volontà, si organizzino come custodi del creato per promuovere itinerari educativi che aiutino nell’opera di salvaguardia del creato. In questo orizzonte, la capacità di vivere il limite e in sobrietà oggi nei confronti delle tante possibilità, diventa una chiave del nostro benessere, non solo per noi ma per tutti, per il pianeta. L’arte del vivere richiede il senso della giusta misura, della moderazione, altrimenti non c’è sopravvivenza nella società. È bene ricordarlo, nell’era delle mille scelte, la capacità di mettere a fuoco le cose implica il potere di dire di no e diventa l’ingrediente importante per una vita più ricca. Come insegna S. Francesco, semplicità del vivere è la fonte della perfetta letizia.




SE NON PER DIO ALMENO PER UMANITA’
Card. Battaglia

SE NON PER DIO, FATELO PER CIÒ CHE D’UMANO RESTA NELL’UMANITÀ…
Card. Mimmo Battaglia (Avvenire 08/07/2025)
Il pianeta risuona tamburi di guerra da ogni direzione dell’orizzonte. In Ucraina tredicimila civili cancellati dal fuoco; a Gaza cinquantasette mila vite spente come candele nella corrente in ventuno mesi d’assedio; dal Sudan quattro milioni di corpi in marcia alla ricerca di un fazzoletto d’ombra; in Myanmar tre milioni e mezzo di volti dispersi fra cenere e giungla; e, sopra tutti, una città invisibile che non smette di crescere: centoventidue milioni di profughi lanciati nel vento come semi. Questi numeri – li sentite pulsare? – dovrebbero gelare il sangue, ma sfumeranno come bruma se non accostiamo l’orecchio al battito che custodiscono. Ogni cifra è una fronte che scotta, una fotografia sbiadita stretta in un pugno, una voce che domanda solo un minuto senza sirene.
A voi che impugnate le leve del potere – governi in doppiopetto, consigli d’amministrazione oliati come ingranaggi, alleanze militari dalla voce di metallo – dico che il Vangelo non fa sconti né ammorbidisce la verità. Non domanda tessere, non pretende incenso: impone di riconoscere l’uomo quando lo si vede, di chiamare male ciò che schiaccia l’uomo. «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto» non è un soprammobile pio: è norma primaria scritta con il polso di Dio.
Non esistono clausole, non c’è piè di pagina abbastanza piccolo per nascondere l’egoismo.
Se volete essere guida e non timone allo sbaraglio, fermate i convogli carichi di morte prima che varchino l’ultima dogana; smontate i macchinari che colano piombo e forgiatene aratri, tubature, banchi di scuola. Portate i bilanci di guerra sulla cattedra di un maestro stanco: trasformate milioni stanziati per missili in sale parto illuminate, ambulanze capaci di raggiungere finanche le sofferenze più remote.
E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate – se ci riuscite – la locuzione «obiettivi strategici».
Il Vangelo – per chi crede e per chi non crede – è uno specchio impietoso: riflette ciò che è umano, denuncia ciò che è disumano.
Se un progetto schiaccia l’innocente, è disumano.
Se una legge non protegge il debole, è disumana.
Se un profitto cresce sul dolore di chi non ha voce, è disumano.
E se non volete farlo per Dio, fatelo almeno per quel poco di umano che ancora ci tiene in piedi.
Quando i cieli si riempiono di missili, guardate i bambini che contano i buchi nel soffitto invece delle stelle. Guardate il soldato ventenne spedito a morire per uno slogan. Guardate i chirurghi che operano al buio in un ospedale sventrato. Il Vangelo non accetta i vostri comunicati “tecnici”.
Scrosta ogni vernice di patria o interesse e ci lascia davanti all’unica realtà: carne ferita, vite spezzate.
Non chiamate «danni collaterali» le madri che scavano tra le macerie.
Non chiamate «interferenze strategiche» i ragazzi cui avete rubato il futuro.
Non chiamate «operazioni speciali» i crateri lasciati dai droni. Togliete pure il nome di Dio se vi spaventa; chiamatelo coscienza, onestà, vergogna. Ma ascoltatelo: la guerra è l’unico affare in cui investiamo la nostra umanità per ricavarne cenere. Ogni proiettile è già previsto nei fogli di calcolo di chi guadagna sulle macerie.
L’umano muore due volte: quando esplode la bomba e quando il suo valore viene tradotto in utile.
Finché una bomba varrà più di un abbraccio, saremo smarriti. Finché le armi detteranno l’agenda, la pace sembrerà follia. Perciò, spegnete i cannoni. Fate tacere i titoli di borsa che crescono sul dolore. Restituite al silenzio l’alba di un giorno che non macchi di sangue le strade.
Tutto il resto – confini, strategie, bandiere gonfiate dalla propaganda – è nebbia destinata a svanire. Rimarrà solo una domanda: «Ho salvato o ho ucciso l’umanità che mi era stata affidata?» Che la risposta non sia un’altra sirena nella notte.
Convertite i piani di battaglia in piani di semina, i discorsi di potenza in discorsi di cura. Sedete accanto alle madri che frugano tra le macerie per salvare un peluche: scoprirete che la strategia suprema è impedire a un bambino di perdere l’infanzia. Portate l’odore delle pietre bruciate nei vostri palazzi: impregni i tappeti, ricordi a ogni passo che nessuno si salva da solo e che l’unica rotta sicura è riportare ogni uomo a casa integro nel corpo e nel cuore.
A noi, popolo che legge, spetta il dovere di non arrenderci. La pace germoglia in salotto – un divano che si allunga; in cucina – una pentola che raddoppia; in strada – una mano che si tende. Gesti umili, ostinati: “tu vali” sussurrato a chi il mondo scarta. Il seme di senape è minimo, ma diventa albero. Così il Vangelo: duro come pietra, tenero come il primo vagito. Chiede scelta netta: costruttori di vita o complici del male. Terze vie non esistono.
 Piega, Cristo, l’orgoglio dei potenti, invita chi forgia armi a piegare il ferro in vanghe, chiama ogni coscienza a spalancarsi e difendere il fragile con la testardaggine di chi sa che il bene è moneta che non svaluta. Ogni minuto di ritardo incide un nuovo nome sul marmo.
Che questa pagina – spoglia di retorica, ruvida di Vangelo – diventi specchio: chi vi si guarda decida se restare servo della violenza o farsi servo dei fratelli.
Dio del respiro negato, strappa il tavolo ai signori che vendono il mondo a colpi di vertice.
Capovolgi le loro carte di ferro: che il piombo sparso torni zolla, che il bilancio armato diventi culla. Offri ai potenti lo specchio che non sanno rompere: il volto di un bambino senza notte, il tremito di un medico rimasto senza luce.
Fa’ che non possano distogliere lo sguardo finché il privilegio diventa vergogna e la vergogna si fa giustizia.
Ricordaci che la carne vale più dell’emblema, che chi fa profitto sul sangue scava la propria fossa, che l’alba non appartiene a chi ha cannoni ma a chi custodisce un abbraccio.
Taci le sirene, piega le bandiere gonfie di rumore, e ridonaci un silenzio capace di far fiorire il futuro. Amen 




Giornata mondiale per cura del creato
Messaggio di Papa Leone XIV

PAPA LEONE XIV PER LA X GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO 2025
[1° settembre 2025]

Semi di Pace e di Speranza
Il tema di questa Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, scelto dal nostro amato Papa Francesco, è “Semi di Pace e di Speranza”. Nel 10° anniversario dell’istituzione della Giornata, avvenuta in concomitanza con la pubblicazione dell’Enciclica Laudato si’, ci troviamo nel vivo del Giubileo, “pellegrini di Speranza”. E proprio in questo contesto il tema acquista il suo pieno significato.
Molte volte Gesù, nella sua predicazione, usa l’immagine del seme per parlare del Regno di Dio, e alla vigilia della Passione la applica a sé stesso, paragonandosi al chicco di grano, che per dare frutto deve morire (cfr Gv 12,24). Il seme si consegna interamente alla terra e lì, con la forza dirompente del suo dono, la vita germoglia, anche nei luoghi più impensati, in una sorprendente capacità di generare futuro. Pensiamo, ad esempio, ai fiori che crescono ai bordi delle strade: nessuno li ha piantati, eppure crescono grazie a semi finiti lì quasi per caso e riescono a decorare il grigio dell’asfalto e persino a intaccarne la dura superficie.
Dunque, in Cristo siamo semi. Non solo, ma “semi di Pace e di Speranza”. Come dice il profeta Isaia, lo Spirito di Dio è in grado di trasformare il deserto, arido e riarso, in un giardino, luogo di riposo e serenità: «In noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri» (Is 32,15-18).
Queste parole profetiche, che dal 1° settembre al 4 ottobre accompagneranno l’iniziativa ecumenica del “Tempo del Creato”, affermano con forza che, insieme alla preghiera, sono necessarie la volontà e le azioni concrete che rendono percepibile questa “carezza di Dio” sul mondo (cfr Laudato si’, 84). La giustizia e il diritto, infatti, sembrano rimediare all’inospitalità del deserto. Si tratta di un annuncio di straordinaria attualità. In diverse parti del mondo è ormai evidente che la nostra terra sta cadendo in rovina. Ovunque l’ingiustizia, la violazione del diritto internazionale e dei diritti dei popoli, le diseguaglianze e l’avidità da cui scaturiscono producono deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità. Aumentano in intensità e frequenza fenomeni naturali estremi causati dal cambiamento climatico indotto da attività antropiche (cfr Esort. ap. Laudate Deum, 5), senza considerare gli effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati.
Sembra che manchi ancora la consapevolezza che distruggere la natura non colpisce tutti nello stesso modo: calpestare la giustizia e la pace significa colpire maggiormente i più poveri, gli emarginati, gli esclusi. È emblematica in tale ambito la sofferenza delle comunità indigene.
E non basta: la natura stessa talvolta diventa strumento di scambio, un bene da negoziare per ottenere vantaggi economici o politici. In queste dinamiche, il creato viene trasformato in un campo di battaglia per il controllo delle risorse vitali, come testimoniano le zone agricole e le foreste divenute pericolose a causa delle mine, la politica della “terra bruciata” [1], i conflitti che scoppiano attorno alle fonti d’acqua, la distribuzione iniqua delle materie prime, penalizzando le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale.
Queste diverse ferite sono dovute al peccato. Di certo non è questo ciò che aveva in mente Dio quando affidò la Terra all’uomo creato a sua immagine (Gen 1,24-29). La Bibbia non promuove «il dominio dispotico dell’essere umano sul creato» (Laudato si’, 200). Anzi, è «importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a “coltivare e custodire” il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre “coltivare” significa arare o lavorare un terreno, “custodire” vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura» (ivi, 67).
La giustizia ambientale – implicitamente annunciata dai profeti – non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano. Essa rappresenta una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente. Si tratta, in realtà, di una questione di giustizia sociale, economica e antropologica. Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento. In un mondo dove i più fragili sono i primi a subire gli effetti devastanti del cambiamento climatico, della deforestazione, e dell’inquinamento, la cura del creato diventa una questione di fede e di umanità.
È ormai davvero il tempo di far seguire alle parole i fatti. «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (ivi, 217). Lavorando con dedizione e con tenerezza si possono far germogliare molti semi di giustizia, contribuendo così alla pace e alla speranza. Ci vogliono talvolta anni prima che l’albero dia i suoi primi frutti, anni che coinvolgono un intero ecosistema nella continuità, nella fedeltà, nella collaborazione e nell’amore, soprattutto se quest’amore diventa specchio dell’Amore oblativo di Dio.
Tra le iniziative della Chiesa che sono come semi gettati in questo campo, desidero ricordare il progetto “Borgo Laudato Si’”, che Papa Francesco ci ha lasciato in eredità a Castel Gandolfo, come seme che può portare frutti di giustizia e di pace. Si tratta di un progetto di educazione all’ecologia integrale che vuole essere un esempio di come si può vivere, lavorare e fare comunità applicando i principi dell’Enciclica Laudato si’.
Prego l’Onnipotente di mandarci in abbondanza il suo «spirito dall’alto» (Is 32,15), affinché questi semi e altri simili portino abbondanti frutti di pace e di speranza.
L’Enciclica Laudato si’  ha accompagnato la Chiesa Cattolica e molte persone di buona volontà per dieci anni: essa continui ad ispirarci e l’ecologia integrale sia sempre più scelta e condivisa come rotta da seguire. Così si moltiplicheranno i semi di speranza, da “custodire e coltivare” con la grazia della nostra grande e indefettibile Speranza, Cristo Risorto. Nel suo nome invio a tutti voi la mia benedizione.
Dal Vaticano, 30 giugno 2025
LEONE PP. XIV
___________________________________
[1] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,  Terra e cibo, LEV 2015, 51-53.




Questione ambientale, priorità della Chiesa
M.Liut (Avvenire)

Questione ambientale è una priorità della Chiesa.
Matteo Liut (Avvenire 2 luglio 2025)
Leone XIV ha ribadito che la cura della casa comune delineata da Francesco nella Laudato si’ è impegno inderogabile: le scelte dei Grandi in materia pesano infatti sulla vita dei più piccoli.

Ma perché la Chiesa parla ancora di temi come la deforestazione, l’inquinamento, la biodiversità minacciata, il cambiamento climatico? Che hanno a che fare queste emergenze planetarie con la Messa, le liturgie, le preghiere, la pastorale, le devozioni, la carità e tutti quegli atti che da secoli qualificano la vita delle comunità cristiane? Insomma, va bene che i credenti in Cristo si prendano cura dei poveri, dei sofferenti e si ritrovino per celebrare i loro riti religiosi, ma si fa ancora fatica a capire perché essi si preoccupino di tutela dell’ambiente, risorse minerarie, fonti d’acqua, distribuzione delle materie prime.
Dieci anni fa, quando papa Francesco pubblicò la sua enciclica sulla cura della casa comune, la Laudato si’, si colse subito la portata profetica della sua scelta ma, nonostante l’enorme coinvolgimento soprattutto tra i giovani su questo fronte, nel tempo abbiamo ceduto alla tentazione di considerarlo quasi un “personale pallino” del Pontefice. Dobbiamo ammettere che gran parte del sentire comune ha legato questa attenzione alla sensibilità propria del Papa argentino, ignorando i movimenti, le associazioni e le iniziative sul territorio nate proprio sulla spinta del documento del 24 maggio 2015. In questi giorni, però, papa Leone XIV ci ha fatto ben comprendere che non è così e che questo impegno non solo non è più derogabile, rinviabile o depennabile dalle agende della politica internazionale, ma è di fatto parte costitutiva del patrimonio comune della Chiesa cattolica e del suo agire nella storia. Lo ha spiegato in maniera chiara nel messaggio inviato il 30 giugno alla FAO e lo ha sancito in modo chiaro e netto ieri nella riflessione scritta in vista della decima Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato: salvaguardare l’ambiente, afferma Prevost senza se e senza ma, è «questione di fede».
È un punto fermo, un messaggio “ad intra” ma anche “ad extra”: ai cattolici ricorda il fondamento teologico del loro agire a favore della salvaguardia dell’ambiente (riprendendo chiaramente il concetto di ecologia integrale della Laudato si’), davanti al mondo intero chiarisce che la Chiesa non farà mai un passo indietro su questo tema. E non può fare diversamente perché da secoli ha imparato ad ascoltare la voce di quel Creato che l’umanità è chiamata a «coltivare e custodire». Lo ha fatto proprio stando alla scuola della liturgia, leggendo e meditando, durante la Veglia pasquale della notte del Sabato Santo, il racconto della creazione riportato nel primo capitolo della Genesi. In quella celebrazione, che rappresenta il culmine e il senso dell’esistenza della Chiesa nella storia, il rito liturgico più importante di tutti, i cristiani hanno compreso che il Creato non è semplicemente un enorme “ecosistema” basato su leggi fisiche di interdipendenza tra esseri animati e risorse naturali, ma è portatore di un senso più grande, è l’immagine di quella casa eterna che è il cuore di Dio e a cui tutti siamo destinati. Prenderci cura della nostra vita terrena (che si chiama così proprio perché ha dimora sulla Terra ed è radicata nella terra) è un segno di eternità, è il nostro modo di entrare già in quella vita eterna, che non è semplicemente ciò che viene dopo la morte, ma il grembo d’amore che ci genera continuamente come umanità, giorno dopo giorno.
E allora ecco la radice sociale dell’impegno nella cura dell’ambiente da parte dei cristiani, quella radice che sta animando queste prime settimane del pontificato di papa Leone XIV, nelle cui parole cogliamo una pacata e coerente fedeltà all’intento di mettersi sulla scia del Papa della Rerum novarum, ovvero del Papa che ha indicato le radici teologiche dell’impegno nella società da parte dei battezzati.
Ebbene, sottolinea Prevost con il suo stile teologicamente e spiritualmente fondato, farsi carico della questione ambientale non è un’ossessione da epoca post­-petrolifera, ma una precisa necessità di giustizia. Perché? Perché non tutti pagano allo stesso modo il conto delle iniquità prodotte da uno sfruttamento squilibrato delle risorse o delle conseguenze nefaste dei conflitti armati o ancora dei giochi di potere che fanno del controllo delle materie prime un’arma di dominio e di supremazia. Non tutti subiscono in modo uniforme le ferite di una Terra che «sta cadendo in rovina» (una rovina, specifica il Papa, dovuta anche alle attività antropiche): i primi a vedere minacciata la propria dignità (sì la dignità di figli di Dio e quindi di sorelle e fratelli di ogni essere umano) sono i poveri, gli ultimi, gli emarginati. Un esempio su tutti: le popolazioni indigene, indicate dal Papa come simbolo di tutti coloro cui viene imposto di vivere ai margini della storia, mentre i “grandi”, ad esempio, cercano di garantirsi l’accesso alle “terre rare” sulla pelle delle popolazioni minacciate da bombe e droni. Dunque ecco perché i cristiani parlano della questione ambientale: per loro, nota bene Leone XIV, è prima di tutto una questione di «giustizia sociale, economica e antropologica». Lo hanno capito mettendosi – attraverso gli atti che da sempre qualificano la loro vita da credenti – ai piedi della Croce di Cristo e alla luce del Risorto. Lì hanno imparato a farsi carico dell’intera umanità e, soprattutto, a prendersi le proprie responsabilità. Ovvio, in definitiva, che sia preciso dovere della Chiesa ricordare ai potenti e ai “grandi” che ogni loro scelta ha precise conseguenze soprattutto sull’esistenza quotidiana dei più piccoli.




Ministero della Pace
Proposta da una Rete di Associazioni

L’Europa si riarma, un coro di voci cattoliche vuole un ministero della Pace.
Giuseppe Muolo AVVENIRE martedì 24 giugno 2025

 Una rete di sigle rilancia, in risposta al piano RearmEu, la vecchia idea di don Benzi. Manfredonia (Acli): «Bisogna cambiare cultura». Notarstefano (Ac): «Scontro continuo è un gioco al massacro».

Riaccendere i riflettori sulla necessità di un Ministero della Pace. Non nuova, ma sempre valida idea (anche alla luce della cronaca) di don Oreste Benzi. È univoca la proposta di Fondazione Fratelli TuttiAzione Cattolica ItalianaAssociazione Comunità Papa Giovanni XXIII e Acli. L’hanno presentata ieri, a Roma, nell’auditorium “Bachelet” della Domus Mariae. L’iniziativa è stata promossa dalla campagna “Ministero della Pace” e sottoscritta da oltre 30 realtà associative ed enti del mondo cattolico.

Secondo Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli, infatti, «per preparare la pace bisogna prepararsi alla pace, senza aumentare le spese militari», come si pensa di fare al vertice Nato a L’Aja. Perché in questo modo «si fomentano solo le paure e le angosce delle persone e si pensa che la difesa armata sia la sola strada possibile». Bisogna «cambiare cultura». Una missione che «può sembrare utopica, ma è l’unica possibile».
Il ministero della Pace va proprio in questa direzione. Tra i suoi obiettivi ci sono la promozione della comunicazione e della trasformazione nonviolenta dei conflitti, della giustizia riparativa e dell’educazione alla pace nei curricula scolastici e universitari; l’adozione di strumenti di mediazione e prevenzione dei conflitti sociali e ambientali; l’avvio di azioni e di attività di monitoraggio per la riconversione civile dell’industria bellica; il sostegno ai Corpi civili di pace, al Servizio civile universale e alle altre forme di difesa civile non armata e nonviolenta; e infine il supporto a una cooperazione internazionale equa e sostenibile. Inoltre, sono stati pensati due organi propositivi e consultivi per programmare e progettare. Il loro scopo è indicare le priorità da coordinare a livello nazionale.
Una proposta, secondo padre Francesco Occhetta, segretario generale della Fondazione Fratelli Tutti, che indica «un modo diverso di vivere, capace di intendere la giustizia come riparativa e non vendicativa, di mediare i conflitti, di dialogare e di porre un sogno all’interno della società, non la paura e la vendetta che animano oggi gli interessi politici dei grandi e dei potenti».
Matteo Fadda, presidente dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ha ricordato che l’idea di un ministero simile è nata da un’intuizione di don Oreste Benzi. Gli venne in mente negli anni ‘90, in seguito all’esplosione della guerra nella ex Jugoslavia. «Da quel momento in poi – ha sottolineato – cominciò a pensare a un organismo istituzionale per costruire la pace con opere diverse che intervenissero sul piano educativo, sociale, legislativo, della sicurezza e, quindi, anche delle relazioni internazionali, della diplomazia e del dialogo».
Una visione che torna oggi più che mai d’attualità, «in un momento in cui il mondo ha preso una direzione totalmente diversa», ha sottolineato Giuseppe Notarstefano, presidente di Azione Cattolica Italiana. «Il tema – ha aggiunto – è cercare di superare la convinzione che l’unica via possibile per i conflitti sia lo scontro continuo tra Paesi, che è un gioco al massacro». Invece occorre «riprendere una logica di multilateralismo, rafforzare gli organismi internazionali e promuovere un maggiore coordinamento delle politiche pubbliche». La stessa via l’ha indicata Laila Simoncelli, coordinatrice nazionale della campagna, che ha esortato tutti a «creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti e strutture più solidali».
Tra gli altri, è intervenuta anche Giovanna Martelli, della Fondazione Rut, già deputata del Pd. «Ragionare in modo multidisciplinare su questi temi – ha detto – è molto importante anche in una società come la nostra che sembra apparentemente in pace, ma vede recrudescenze violente in tanti ambiti».




Pace. Il magistero di Papa Francesco
Don Bignami

Le vie della pace

Il magistero della pace di Francesco attraverso i messaggi per le Giornate mondiali per la Pace.
Don Bruno Bignami[1]

UN CANTIERE

Dodici anni di Pontificato offrono molteplici riflessioni. Se si guarda al tema della pace, possiamo parlare di un magistero fecondo e generativo. Rileggendo i messaggi per la Giornata mondiale della Pace dal 1° gennaio 2014 al 2025, si riscontrano due caratteristiche.
La prima è data dallo stretto legame con la Storia. Il magistero della pace di Francesco risente degli eventi accaduti negli anni di ministero come vescovo di Roma.
Affronta il tema delle migrazioni, fronteggia gli strascichi della crisi finanziaria mondiale del 2007-2008, accompagna la stagione della pandemia, illumina le questioni legate alla crisi ambientale e ai progressi dellat ecnologia, si concentra sulle drammatiche guerre in Ucraina e in Medioriente.
Non sono stati anni semplici. Tuttavia, l’insegnamento di Papa Francesco è un viatico per la stagione della complessità.
Da qui la seconda caratteristica: questi testi regalano un vocabolario della pace. Lo si evince dai titoli: fraternità, indifferenza, nonviolenza, migrazioni, politica, speranza, dialogo, riconciliazione, conversione ecologica, cura, educazione, lavoro, intelligenza artificiale, remissione del debito. C’è davvero tanto. E c’è il pericolo di perdersi se non si coglie il filo rosso che attraversa una riflessione che ha un chiaro intento educativo.
Da queste due caratteristiche emerge una prima fondamentale conclusione: il magistero di Francesco non semplifica, ma offre strumenti per abitare la complessità.  Il nocciolo della proposta sulla pace è composto di tre passaggi determinanti:

  • dalla globalizzazione dell’indifferenza alla fraternità attraverso il perdono;
  • dalla cultura dello scarto alla cultura della cura grazie all’ecologia integrale;
  • dalla corsa agli armamenti alla nonviolenza passando per l’impegno educativo.

FRATERNITÀ
È la questione centrale. I primi messaggi (dal 2014 al 2016) approfondiscono il tema della fraternità, che poi troverà ulteriori sviluppi nell’enciclica Fratelli tutti (FT). La pace è esercizio di fraternità. Siamo tutti fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre, amati e voluti da Dio. Ciò che contrasta e smentisce la fraternità è la “globalizzazione dell’indifferenza”, che crea l’abitudine alla sofferenza degli altri.  Troppe sono le vittime innocenti delle guerre dimenticate, accanto alle persone che ogni giorno muoiono di fame, sono sfollate, vivono nella paura e sono costrette a emigrare. Il grido di dolore dell’umanità sofferente chiede di essere ascoltato, mentre viviamo un tempo in cui le peggiori disumanità si realizzano nell’indifferenza generale. Assistiamo a tre livelli di indifferenza: verso Dio, verso il prossimo e verso il creato. Quando si pensa di non dover nulla a nessuno e l’uomo si sente autosufficiente, ecco che lo sguardo finisce per ripiegarsi nel narcisismo. L’aumento delle informazioni non significa crescita dell’attenzione verso chi soffre. L’indifferenza anestetizza e relativizza la gravità dei problemi. “Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete” (2016).  L’indifferenza verso il prossimo sfocia nel disimpegno e nell’accettazione delle peggiori scelte di politica economica, capaci di generare ingiustizie, divisioni, violenze e scarti umani. A ciò porta l’esclusiva ricerca del benessere individuale o nazionale.
I nazionalismi sono il veleno della fraternità. Al contrario, “Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona!” (2016). Tale ragione teologica si fonda sulla scelta originaria del Creatore di amare l’umanità. Per questo l’ha creata e ha affidato all’uomo la responsabilità della fraternità, ossia l’insopprimibile anelito alla comunione. Francesco ha intuito che la famiglia umana è legata a un unico destino ed è chiamata a vivere “la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri” (2014). Lo stesso discepolato in Cristo costituisce una nuova nascita, come mostra san Paolo nella celebre Lettera a Filemone, rimandando lo schiavo Onesimo al padrone con la raccomandazione di trattarlo da fratello (2015).  I problemi del nostro tempo, in primis la pandemia, hanno offerto una lezione: “abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri” e “nessuno si può salvare da solo” (2023). Senza fraternità non è possibile uscire da una pandemia. Senza fraternità le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale aggravano le disuguaglianze (2024). Senza fraternità la politica è chiusura nazionalistica (2019). Senza fraternità c’è sfruttamento del lavoro (2022) e degrado ambientale (2020). Senza fraternità si costruisce la cultura del nemico e si fomentano schiavitù (2015). Senza fraternità si alimentano i conflitti e si ostacola la pace. Più volte il Papa ha ricordato in negativo l’episodio biblico di Caino che uccide Abele e, in positivo, la parabola evangelica del buon Samaritano (2016). Torna la domanda: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Le radici della pace si trovano nella fraternità. Non c’è altro sentiero verso una pace duratura. Non saranno né le armi né la deterrenza a garantire l’umanità, ma nuove relazioni improntate sul reciproco riconoscimento. La speranza risiede in un cammino di riconciliazione che tralascia la tentazione di dominare sull’altro per abbracciarlo come persona e come figlio di Dio: “L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé” (2020). La forza del perdono rimette in piedi le persone e le riabilita a nuovi percorsi di riconciliazione. Si rinvigoriscono le relazioni tra le persone e tra i popoli.
LA CURA
In molti messaggi è forte la denuncia. Ci sono atteggiamenti che denotano una diffusa cultura dello scarto: la corruzione, il commercio della droga, l’inquinamento, la devastazione dell’ambiente, lo sfruttamento del lavoro, la speculazione finanziaria, la prostituzione, il debito, le forme di schiavitù, l’illegalità, le migrazioni forzate, le condizioni inumane nelle carceri. Le violazioni della dignità umana minano la pace. Ogni volta che le persone vengono scartate ed emarginate si finisce per rafforzare modelli relazionali iniqui. Dopo la pubblicazione della Laudato Si’ nel 2015 l’ecologia integrale è divenuta proposta continua, ma era già ben presente nel primo messaggio del 2014: “Siamo spesso guidati dall’avidità, dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non custodiamo la natura, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura e da mettere a servizio dei fratelli, comprese le generazioni future”. Da qui la necessità di far crescere la cultura della cura. Lo stato di salute precario della casa comune per cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, ’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento delle foreste e la distruzione dell’ambiente ci obbligano a riconoscere il peccato ecologico e a prenderci cura del dono che abbiamo ricevuto dal Creatore.  Il compito di “coltivare e custodire” (Gen 2,15) ri corda la responsabilità di ciascuno anche verso il futuro. Occorre convertire lo sguardo perché ci apriamo “all’incontro con l’altro e all’accoglienza del dono del creato, che riflette la bellezza e la sapienza del suo Artefice” (2020). Di fronte alle crescenti disuguaglianze serve una bussola che imprima una rotta comune pienamente umana al processo di globalizzazione. Ciò può avvenire “soltanto con un forte e diffuso protagonismo delle donne, nella famiglia e in ogni ambito sociale, politico e istituzionale”(2021). Se Papa Francesco aveva elogiato i movimenti popolari per il loro protagonismo sui temi del lavoro, della casa e della terra, in modo analogo la pace esige un’apertura di credito a categorie di persone spesso trascurate, come i giovani (2022), le donne (2021), le popolazioni indigene (2020). Nel 2022 ha scritto: “C’è una “architettura” della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un “artigianato” della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico: a partire dal proprio cuore e dalle relazioni in famiglia, nella società e con l’ambiente, fino ai rapporti fra i popoli e fra gli Stati”. Viviamo sfide sistemiche e interconnesse (2025). La filantropia che si limita a do- nazioni senza mettere in discussione sistemi culturali e strutture non può portare né alla pace né a cambiamenti duraturi. L’ecologia integrale sa ascoltare il grido del povero e della terra, osa connettere questioni ambientali e sociali, opera scelte anche nell’interesse delle future generazioni.
LA NONVIOLENZA
La pace esige un ulteriore passaggio dalla corsa agli armamenti all’esercizio della nonviolenza. Le armi seminano morte e violenza. Francesco ricorda che “finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità” (2014). Ciò comporta la scelta del disarmo e di optare per la non proliferazione delle armi nucleari e chimiche. Inoltre, gli investimenti militari disperdono risorse che potrebbero essere utilizzate per finalità più importanti, come lo sviluppo umano integrale, la lotta alla povertà e alla fame, la garanzia dei bisogni sanitari per tutti. Preoccupa la crescita esorbitante delle spese militari. Per questo, nel 2021 e nel 2025 il Pontefice ha rilanciato la proposta presente in FT di costituire un Fondo mondiale per lo sviluppo dei Paesi più poveri. È tempo di realizzare la profezia di Isaia di trasformare le spade in vomeri, soprattutto nell’epoca di tecnologie sempre più devastanti e anonime.

L’IA applicata agli armamenti può favorire “un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra” (2024).

I sistemi d’arma autonomi non potranno mai diventare soggetti moralmente responsabili. Inoltre, c’è sempre il pericolo che armi sofisticate finiscano in mani sbagliate, facilitando la follia della guerra, atti terroristici o distruzioni di massa. “Gli accordi inter nazionali e le leggi nazionali, pur essendo necessari e altamente auspicabili, non sono sufficienti da soli a porre l’umanità al riparo dal rischio dei conflitti armati. È necessaria una conversione dei cuori che permetta a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello di cui prendersi cura, con il quale lavorare insieme per costruire una vita in pienezza per tutti” (2014). Inoltre, tra le armi in circolazione da disinnescare vi sono anche “i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza” (2019): le parole al vento della politica che costruisce nemici per salvaguardare se stessa non porteranno mai alla pace perché minano la dignità di ogni persona. Il sentiero impervio da percorrere è quello della nonviolenza. I processi non



violenti di costruzione della pace sono i più credibili, perché introducono un disinteresse gratuito. La violenza, infatti, provoca enormi sofferenze e genera facilmente la sete di vendetta. I signori della guerra desiderano scatenare rappresaglie e far degenerare le relazioni in conflitti letali. “La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato” (2017). Se alla violenza si risponde con la violenza si continua a rimanere nella spirale perversa della guerra che porta alla morte e alla distruzione. La nonviolenza, invece, è “un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità” (2017). Dunque, la forza delle armi inganna. Esse illudono che la conclusione possa essere vera vittoria. Al contrario, la non violenza praticata ha prodotto risultati in molte occasioni, dall’India di Gandhi alle lotte razziali di Martin Luther King negli USA, dalle donne in Liberia alla caduta dei regimi comunisti in Europa. La non violenza attiva è frutto di un impegno educativo che nasce nella famiglia e si espande nella società. Essa permette di abitare i conflitti senza farli degenerare in guerra, e trasformarli in opportunità di convivenza tra diversi. L’artigianato della pace passa attraverso la costruzione di comunità nonviolente.
LE VIE DELLA PACE
Papa Francesco ha coniato l’espressione di “guerra mondiale a pezzi” per descrivere i conflitti del nostro tempo. I suoi appelli insistenti hanno trovato nei messaggi destinati a tutti gli uomini di buona volontà una sintesi significativa per la formazione di coscienze artigiane di pace. Bergoglio non si è mai rassegnato alla cultura militaresca che vede nelle armi l’unica soluzione e che fomenta odio e violenza. I suoi dodici messaggi andrebbero letti in parallelo con il magistero non scritto che l’ha portato a Lampedusa e a Lesbo per commemorare i migranti morti in mare, a dialogare con ambasciatori e governanti, a piantare ulivi di pace, ad abbracciare capi religiosi, fino a baciare i piedi di nemici che si sono combattuti per anni. Un’ostinazione fuori misura, radicata nella fede in Cristo. Le vie della pace passano dall’incontro.


[1] direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della CEI e docente di Teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana




Riflessione sui quesiti del referendum
Diocesi di Bergamo

RIFLESSIONE QUESITI REFERENDUM ABROGATIVI SU LAVORO E CITTADINANZA

In vista del referendum previsto per l’8 e 9 giugno 2025, che coinvolge quattro quesiti sul tema del lavoro un quesito sulla cittadinanza, volentieri offriamo un semplice e speriamo utile documento che permetta di comprendere quanto siamo chiamati a scegliere esercitando il dovere ed il diritto del voto, elementi irrinunciabili all’esercizio ed alla tutela della nostra democrazia. Come cittadini cristiani, appartenenti alle Comunità Ecclesiali Territoriali, e uomini e donne di buona volontà, non vogliamo dettare linee ma comprendere insieme e non lasciare che le cose accadano senza averci pensato con serietà. Come ci ricorda il magistero della Chiesa, ritraducendo il messaggio del Vangelo, i credenti hanno il compito del pensiero e la responsabilità della parola. Ci sembra prezioso dunque abitare e dare una declinazione delle dimensioni che l’appuntamento referendario ci propone con l’intento di essere protagonisti della costruzione della vita buona governata dalle istituzioni restando sempre compagni di strada di tutti nella costruzione di convivialità civili giuste e fraterne. Ci riproponiamo dunque di esaminare, avvalendoci della competenza di tante amiche ed amici, le proposte referendarie rispettando la pluralità di opinioni e orientamenti, ma anche permettendo alla Dottrina Sociale della Chiesa, da sempre attenta alla dignità della persona e alla giustizia sociale, di offrire spunti significativi per una lettura di quanto proposto.

Quesiti sul lavoro 

I seguenti quesiti di questo Referendum abrogativo mettono in risalto alcune questioni cardine del lavoro in sé e per sé: il lavoro come luogo di restituzione di dignità e di speranza, il lavoro come sostentamento economico personale e per la propria famiglia, il lavoro come un diritto e il lavoro come posto sicuro. La dinamica del lavoro non può prescindere da questi elementi che devono essere garantiti a tutte le persone che svolgono un’attività lavorativa. Il lavoro è una delle prime azioni sociali a cui siamo chiamati a partecipare. Lo dice la nostra Costituzione all’art. 1. Attraverso l’azione quotidiana e partecipativa del lavoro contribuisco al miglioramento di un piccolo pezzo di mondo che, insieme a quello degli altri va a immaginare nuovi modelli e nuove prospettive, con la speranza di poter costruire un mondo migliore per tutti. Ogni quesito referendario, che si presenta forse nella sua definizione più tecnica, merita una riflessione approfondita, tenendo conto di questi principi e valutando gli impatti sulle persone e sulla società nel suo complesso.

·         Jobs Act – Disciplina dei licenziamenti illegittimi 

Abrogazione delle norme del decreto legislativo n. 23/2015, che regolano i licenziamenti illegittimi per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti. Attualmente, queste norme prevedono l’indennizzo economico senza obbligo di reintegro.

 Il quesito propone l’abrogazione del contratto a tutele crescenti, ripristinando la possibilità di reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Attualmente, nelle aziende con oltre 15 dipendenti, i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 non hanno diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, anche qualora un giudice riconosca l’assenza di giusta causa o giustificato motivo. Il quesito intende abrogare questa disposizione. La Dottrina Sociale della Chiesa sottolinea l’importanza della dignità del lavoratore, evidenziando che il lavoro è espressione della persona e non deve essere ridotto a mera merce. Pertanto, una riflessione su questo quesito dovrebbe considerare l’equilibrio tra la protezione dei diritti dei lavoratori e la necessità di un mercato del lavoro dinamico.

·         Indennità di licenziamento nelle piccole imprese 

Eliminazione del tetto massimo di sei mensilità all’indennizzo per i lavoratori licenziati ingiustamente in aziende con meno di 15 dipendenti.

 L’obiettivo di questa proposta referendaria è cancellare il tetto all’indennità di licenziamento nelle piccole imprese (in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento). Il quesito punta ad abrogare il limite massimo dell’indennizzo economico previsto per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle imprese con meno di quindici dipendenti. In questo caso, si vorrebbe restituire al giudice la piena discrezionalità nel determinare l’ammontare del risarcimento in base alla gravità della violazione.

·         Contratti a termine – Durata e proroghe 

Abrogazione parziale delle norme che regolano la durata massima e le condizioni per proroghe e rinnovi dei contratti di lavoro subordinato a termine.

 Il quesito propone di limitare l’uso dei contratti a termine, richiedendo specifiche causali. Il quesito del referendum si concentra sui contratti a tempo determinato, istituto di lavoro flessibile che coinvolge oltre 2,3 milioni di persone in Italia. La normativa attuale consente di avviare un rapporto di lavoro a termine per un periodo fino a 12 mesi senza dover fornire alcuna motivazione. L’intento della proposta è quello di reintrodurre l’obbligo di specificare la causale per questo tipo di contratti, così da incentivare la stabilizzazione del lavoro e arginare la crescente precarietà. Il lavoro deve essere orientato al bene della persona, evitando forme di precarietà che possano compromettere la dignità del lavoratore. Una riflessione su questo quesito dovrebbe considerare la necessità di proteggere i lavoratori da forme di lavoro instabile, pur rispettando le esigenze del mercato.

·         Responsabilità solidale negli appalti 

Abrogazione delle norme che escludono la responsabilità solidale del committente, appaltatore e subappaltatore per infortuni subiti dai lavoratori dipendenti di imprese appaltatrici o subappaltatrici, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese coinvolte.

 Il quesito riguarda l’ampliamento della responsabilità dell’impresa committente in caso di infortuni o malattie professionali nei lavori in appalto. L’intervento proposto mira ad estendere la responsabilità in caso di incidenti anche all’azienda appaltante, e non solo agli appaltatori. Attualmente, in caso di incidenti sul lavoro dovuti a carenze di sicurezza negli appalti, la responsabilità del committente è limitata solo ai rischi “generici” e non a quelli “specifici” dell’appaltatore. Il quesito mira a rendere sempre responsabile il committente, permettendo ai lavoratori e alle loro famiglie di ottenere un risarcimento diretto. La Dottrina Sociale della Chiesa sottolinea la dimensione sociale del lavoro, indicando che il lavoro deve essere svolto in condizioni di sicurezza e rispetto per la persona. Una valutazione di questo quesito dovrebbe tenere conto dell’importanza di garantire ambienti di lavoro sicuri e della responsabilità delle imprese nel tutelare la salute dei lavoratori.

Quesito sulla cittadinanza 

·         Cittadinanza Italiana – Riduzione del periodo di residenza legale.

Proposta di dimezzare da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto agli stranieri extracomunitari maggiorenni per presentare domanda di cittadinanza italiana. Il diritto verrebbe esteso automaticamente anche ai figli minorenni dei richiedenti.

 Il referendum sulla cittadinanza ha come obiettivo quello di abrogare due norme della vigente legge sulla cittadinanza in modo da ridurre da dieci a cinque anni di residenza legale in Italia il periodo necessario per chiedere la cittadinanza italiana per lunga residenza da parte di un cittadino straniero (non appartenente all’Unione Europea). Tutti gli altri requisiti previsti dalla legge rimangono invariati; lo straniero maggiorenne per ottenere la cittadinanza dovrà dimostrare un forte radicamento sociale, una stabilità economica e di essere incensurato dal punto di vista penale. La proposta referendaria non rappresenta un’apertura generalizzata né prevede che la cittadinanza sia acquisita automaticamente in ragione della sola nascita in Italia (ius soli). La riforma ha il limitato scopo di dimezzare i tempi per la concessione della cittadinanza. Il dimezzamento dei tempi non è un fatto burocratico ma sostanziale perché incide fortemente sulla vita delle persone e sul cambiamento della società. Oggi per ottenere la cittadinanza per avvenuta integrazione sociale nel nostro Paese occorrono almeno quattordici anni (dieci anni, come si è detto, di residenza ininterrotta e tre, più spesso quattro, per la conclusione del procedimento presso il Ministero dell’Interno). Questa lunghissima prospettiva temporale è il caso più favorevole! Non sempre uno straniero ha un lavoro con un buon reddito e la residenza dal primo momento che arriva in Italia; più spesso le persone straniere, anche quando sono state regolari nel loro soggiorno fin dall’inizio, hanno impiegato diversi anni per superare la precarietà lavorativa e disporre di un buon alloggio e non hanno sempre avuto la residenza fin dall’inizio del loro soggiorno. La cittadinanza quindi arriva anche dopo vent’anni di vita nel nostro Paese durante i quali sono rimasti ai margini di tanti aspetti della vita sociale e fuori dall’esercizio dei diritti politici. Il dimezzamento dei tempi per la concessione della cittadinanza, riducendo questi tempi abnormi, cambierebbe la vita di molte persone e renderebbe più equo e ragionevole il procedimento di acquisizione della cittadinanza.  Il numero dei beneficiari potenziali dell’effetto del referendum è molto significativo, perché secondo le statistiche ISTAT sugli oltre 5 milioni di stranieri legalmente residenti in Italia al 1° gennaio 2023, sono oltre 2.300.000 i cittadini extra UE già titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; un permesso che viene rilasciato a chi ha requisiti simili a quelli richiesti per l’acquisto della cittadinanza. Molti degli stranieri perciò potrebbero decidere, con tempi dimezzati rispetto a quanto accade oggi, di presentare la domanda di concessione della cittadinanza, e ottenendola diventerebbero automaticamente cittadini italiani anche i loro figli minorenni e con loro conviventi. Molti minori con cittadinanza di altri Paesi che frequentano stabilmente le nostre scuole e vivono come i nostri figli, ma non sono cittadini, lo diventerebbero. Il tempo delle attuali procedure impedisce a tanti genitori extra-UE che da tempo vivono e lavorano legalmente in Italia di trasmettere la cittadinanza italiana ai loro figli prima del compimento della maggiore età; ciò contribuisce ad aumentare artificiosamente nelle scuole italiane il numero di alunni che formalmente sono stranieri anche se in realtà sono nati in Italia o vi sono arrivati molto giovani (secondo le statistiche del Ministero dell’Istruzione nell’anno scolastico 2022/2023 gli alunni non italiani erano quasi 900.000, il 65% dei quali erano nati in Italia). Per effetto della velocizzazione dell’acquisizione della cittadinanza ottenuta dai loro genitori in tempi più brevi, se il quesito referendario vincerà, tanti minori, oggi forzatamente stranieri, diventerebbero italiani. Saremmo gli unici in Europa a richiedere il requisito dei cinque anni di residenza? No, al contrario, l’Italia si allineerebbe a quanto avviene nei paesi europei più dinamici dal punto di vista sociale, culturale ed economico. Il termine di 5 anni di soggiorno legale ininterrotto per la concessione della cittadinanza ai cittadini di Stati non appartenenti alla UE è oggi già previsto in Francia, Germania, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Lussemburgo, Svezia. La Slovenia esige invece qualcosa di più, ma meno dell’Italia, ovvero 8 anni. Salvo l’eccezione della Spagna che mantiene ancora il requisito di 10 anni di residenza (con molte eccezioni tuttavia in quanto il termine è drasticamente ridotto a solo 2 anni per i cittadini d’origine dei paesi ispano-americani che sono la maggioranza degli stranieri) solo paesi come Ungheria, Slovacchia, Polonia, Croazia e Austria, tradizionalmente chiusi verso le migrazioni, sono sulla stessa posizione attuale di chiusura dell’Italia. L’Italia di oggi dall’inizio degli anni settanta (ovvero da cinquant’anni), da Paese di emigrazione (con oltre 6 milioni di italiani all’estero e oltre 60 milioni di oriundi d’Italia) è diventata Paese di immigrazione, con oltre 5 milioni di stranieri legalmente residenti, molti dei quali nati in Italia, a cui la vigente legge sulla cittadinanza italiana impedisce il diritto a partecipare pienamente alla vita pubblica. Nello stesso tempo, come ci ricordano tutti gli studi sulla materia, l’Italia vive forte diminuzione del tasso di natalità avviandosi verso un crollo demografico che si accompagna a un forte invecchiamento della popolazione; due fattori che agiscono a tenaglia mettendo in pericolo il suo futuro sia sotto il profilo economico ma anche sotto il profilo della tenuta sociale. Per affrontare questo drammatico scenario non servono più stranieri posti ai margini della società come fossero solo braccia od ospiti permanenti, ma servono nuovi cittadini che hanno deciso di scegliere l’Italia come paese nel quale vivere e radicare il loro futuro e quello dei loro figli. Tutte le democrazie più solide sono quelle che sono capaci di includere nuove persone, sono aperte alla mobilità e guardano al futuro e non al passato. Non dimentichiamo anche sui nostri territori, i numerosi appelli di imprese associazioni di categoria, in merito alla necessità di nuovi lavoratori e lavoratrici, per permettere anche al nostro tessuto produttivo di crescere, come non dimentichiamo le esperienze già in atto di inclusione di giovani stranieri accolti e formati da paesi extra UE. La nuova legge sulla cittadinanza che si vuole ottenere tramite il referendum, correggerebbe una disciplina che risulta ormai anacronistica, non giusta, oltre che autolesionista, contrastando il declino del nostro Paese. Non si tratta di benevolenza verso gli stranieri ma di una scelta di futuro per tutti gli italiani.




La partecipazione dei lavoratori agli utili e gestione di impresa è legge

La partecipazione dei lavoratori agli utili e gestione di impresa è legge

Angelo Picariello  AVVENIRE mercoledì 14 maggio 2025

La Cisl aveva raccolto 400mila firme, in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione. Potranno entrare nei cda, previste anche commissioni paritetiche e consultazioni aziendali

La proposta di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese è legge, la numero 1573 (divenuta disegno di legge numero 1407 già approvato dalla Camera dei deputati il 26 febbraio) ha ottenuto in via definitiva, stamattina, il via libera del Senato. L’aula di Palazzo Madama ha approvato con 85 sì, 21 no e 28 astenuti. Il voto si è avuto dopo la relazione della senatrice Paola Mancini, di Fratelli d’Italia: la commissione aveva deliberato sul provvedimento articolo per articolo mentre l’Aula è stata chiamata a esprimersi solo con una votazione finale.
Promossa dalla Cisl, con la sottoscrizione di oltre 400mila firme depositate presso la Corte di Cassazione, era andata all’esame delle Commissioni congiunte Lavoro e Finanze della Camera, per poi passare all’esame del Senato. Questa normativa è stata concepita in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione ( «la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende») «nel rispetto dei princìpi e dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e internazionale, al fine di rafforzare la collaborazione tra i datori di lavoro e i lavoratori, di preservare e incrementare i livelli occupazionali e di valorizzare il lavoro sul piano economico e sociale», recita l’articolo 1. Una legge «storica», la definisce il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi. Un testo «coraggioso», per Maria Stella Gelmini.
Si tratta di una proposta articolata, che prevede la possibilità per i rappresentanti dei lavoratori di partecipare ai consigli di sorveglianza e anche ai consigli di amministrazione e regola la distribuzione ai lavoratori dipendenti «di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, effettuata in esecuzione di contratti collettivi aziendali o territoriali». I premi di produttività e le forme di partecipazione agli utili d’impresa corrisposti a lavoratori dipendenti sono assoggettati all’imposta sostitutiva del 5% per il 2025, con limite superiore elevato a 5mila euro.
Sono anche previsti piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro. Sono anche regolate delle modalità di partecipazione consultiva dei lavoratori alle decisioni. Viene inoltre costituita una Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori.
Sono previsti anche piani di azionariato diffuso, e commissioni paritetiche per i piani di miglioramento e innovazione, e piani di formazione continua per i lavoratori che partecipano agli organismi partecipativi. La normativa si applica anche alle società in forma cooperativa.




Casa sfitta? Che peccato!


OTTIMA ESEMPLARE INIZIATIVA A PARMA.

E’ peccato lasciare la casa sfitta.

Il CIAC offre garanzie per i proprietari e nelle stesso tempo garanzie per lavoratori che potrebbero pagare affitto ma non trovano disponibilità dai proprietari per persone straniere.

Crazie CIAC!