Confcooperative. PER CAMBIARE MODELLO DI SVILUPPO
Avvenire 5 OTTOBRE 2024

Festival dell’Economia civile a Firenze

IL MESSAGGIO DI CONFCOOPERATIVE  PER CAMBIARE IL MODELLO DI SVILUPPO
Un nuovo umanesimo dell’economia mettendo al centro le persone e i territori
Maurizio Gardini, presidente Confcooperative.  (AVVENIRE 5 ottobre 2024)

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L’economia civile per un nuovo umanesimo dell’economia. Per mettere al centro del modello di sviluppo le persone e i territori perché alla crescita del Pil deve far seguito la crescita del BES. È questo il messaggio che Confcooperative porta alla VI edizione del Festival dell’Economia Civile di Firenze la città simbolo dell’umanesimo dove lanciamo forte il messaggio dell’economia civile. Vanno rivisti i modelli di crescita e di sviluppo. Abbiamo molti, troppi esempi che ci dicono che quando l’economia risponde innanzitutto alla remunerazione del capitale accentua le diseguaglianze. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni, erano 800.000 nel 2005. Il 12% di italiani hanno scelto, secondo il Censis, di non curarsi per mancanza di disponibilità economica pur avendone bisogno. Nella fascia 18-35 anni abbiamo 2 milioni di Neet. A questi ragazzi prima che un lavoro dobbiamo dare una speranza, un orizzonte. Anche la Commissione Europea ha rivisto i modelli economici a taglia unica. Il ruolo delle cooperative è crescente ed è sempre più riconosciuto dall’Unione Europea. Nelle recenti norme sulle comunità energetiche, sulle piattaforme digitali e gestione dei big data, così come nella programmazione dell’assistenza sociosanitaria, per finire al piano d’azione di crescita che poggi su un ecosistema imprenditoriale plurale.  L’impresa cooperativa, con 176.000 imprese e 4,7 milioni di persone occupate è uno dei motori dell’economia sociale e civile che conta in Europa una platea più estesa composta da 2,8 milioni di imprese che danno lavoro a oltre 13,6 milioni di persone e rappresentano l’8% del Prodotto interno lordo europeo. E lo siamo anche in Italia dove rappresentiamo l’8% del Pil, diamo lavoro a 1,3 milioni di persone e rappresentiamo 12 milioni di soci. Un’occupazione di qualità, un’occupazione controcorrente che premia le donne che rappresentano il 61% dei nostri occupati, in un Paese in cui 1 donna su 4 lascia il lavoro per assistere un anziano o un minore. Le cooperative nascono per questo rispondere a bisogni, dare lavoro alle persone e generare sviluppo sul territorio e sono presenti e attive nella vita di tutti i giorni più di quanto si possa pensare. Dalle cooperative arriva il 25% dell’agroalimentare made in Italy (7 bicchieri di latte ogni 10 prodotti in Italia, 6 bicchieri di vino ogni 10; servizi di welfare a 7 milioni di persone (minori, anziani e persone svantaggiate); oltre il 30% della distribuzione organizzata. Il 23% del credito bancario concesso in Italia arriva dalle BBC (Banche Credito Cooperativo) che sono le uniche banche in oltre 700 Comuni in controtendenza rispetto alla desertificazione degli istituti bancari. La cooperazione di abitazione ha dato casa a 1 milione di famiglie in 70 anni.  Ai settori tradizionali si aggiungono le nuove frontiere del mutualismo dalle cooperative di comunità, ai workers buyout (ovvero le realtà salvate dal fallimento dai soci che le rilevano) alle comunità energetiche. Sulle cooperative di comunità attendiamo ancora la legge quadro nazionale che armonizzi le normative regionali. È un fenomeno che esalta l’autoimprenditorialità, la cittadinanza attiva delle persone. Una leva fondamentale per ridare vita a 5.500 comuni italiani, il 67% della superficie del paese, dove lo stato arretra e il privato speculativo non progetta investimenti, ma dove le persone hanno bisogno di servizi, di lavoro, di restare sul territorio per contrastare il dissesto idrogeologico, per valorizzare le tradizioni eno-turistico-gastronomiche. I workers buyout che rigenerano le imprese in fallimento dove i lavoratori diventano imprenditori di se stessi. Le comunità energetiche, il nuovo modello di produzione di energia elettrica pulita che fa bene ai conti delle famiglie, delle imprese e soprattutto all’ambiente.  Uno «strumento efficace per promuovere e tutelare anche le fasce più vulnerabili della popolazione, orientando l’economia verso il benessere collettivo e concorrendo a promuovere le condizioni che rendono effettivo il godimento dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione». Per sintetizzarla come ha scritto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in uno dei passaggi del suo messaggio consegnato alla nostra assemblea.  C’è ancora tanto da fare. Noi ci siamo, per un modello di crescita che, nell’alveo dell’economia sociale italiana ed europea, veda il protagonismo dell’autoimprenditorialità cooperativa che valorizzi persone e territori in un contesto di crescita e di sviluppo ambientale, sociale ed economico sostenibile. 




Per una chiesa in uscita
Giorgio La Pira

Bisogna lasciare – pur restandovi attaccato col fondo dell’anima – l’orto chiuso dell’orazione; bisogna scendere in campo; affinare i propri strumenti di lavoro: riflessione, cultura, parola, lavoro, ecc., altrettanti aratri per arare il campo della nuova fatica, altrettante armi per combattere la nostra battaglia di trasformazione e di amore. Trasfor­mare le strutture errate della città umana; riparare la casa dell’uomo che rovina! Ecco la missione che Dio ci affida! Tu mi dirai: ma è proprio questo il nostro compito? Non potremmo puntare più a fondo sull’orazione? È proprio necessario occuparci di tutto questo vasto complesso di problemi che distraggono l’anima dall’unico necessario? La risposta è precisa: l’orazione non basta; non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei ca­nali esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo. Bisogna trasformarla, la società!

Giorgio La Pira in “ La nostra vocazione sociale”, Ave, Roma 2004, pag 43




IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA
Avvenire 3 ottobre 2024

IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA.

Lucia Letizia Finetti (Avvenire 3 ottobre 2024)

 Pubblichiamo la testimonianza di Lucia Letizia Finetti, detenuta in un carcere del Nord Italia. Ha iniziato a raccontarsi qualche anno fa, nell’ambito di un laboratorio di scrittura.

In questo periodo si parla tanto di carcere ma nessuno di quelli che ne discutono sa in realtà il carcere che cos’è: né i garanti dei detenuti, né i volontari né il personale o la penitenziaria che dentro le mura ci vivono. I garanti lavorano su dati e testimonianze ma fra le mura di certo non hanno mai passato le notti, i natali, i ferragosti, e guardato negli angoli oscuri, perché in carcere come non si è liberi di uscire non si è liberi di entrare e andare dove si vuole, sono altri che ti ci portano e mostrano ciò che si vuole mostrare; i volontari non vedono i reparti, le celle, le docce, stanno negli spazi ufficiali. Gli agenti penitenziari sono l’altro lato della barricata, per loro i detenuti sono solo lavoro o, se stressati da anni di reparto, solo “scarti umani” che li inchiodano a un lavoro che non sopportano e che spesso hanno scelto solo per avere uno stipendio fisso e scappare dalla disoccupazione del nostro Meridione.
Quando giungi in carcere dalla vita civile hai l’impressione di trovarti all’inferno e più passano i giorni e più quell’impressione diventa realtà, non parlo di delinquenti abituali morti di fame che qui trovano vitto e alloggio che non hanno fuori, e non pagheranno, perché nullatenenti, il mantenimento perché, quasi nessuno lo sa, ma per stare in carcere si paga: 120 euro al mese che ti vengono sottratti dallo stipendio, se lavori, o ti arrivano da pagare fuori. La giustizia nel nostro Paese è una balena spiaggiata e morente e il carcere ne è la dimostrazione, un sistema punitivo e inutile perché non possiamo pensare di rieducare le persone tenendole chiuse quasi 24 ore su 24 in celle fatiscenti e sovraffollate (io stessa per mesi sono stata in una cella con la muffa alle pareti e dove ci pioveva dentro). Gli psicofarmaci sono la cosa più consumata in galera, molte li usano per passare la carcerazione incoscienti e dormendo, molte sono costrette ad usarli perché il carcere non è solo privazione della libertà (che paradossalmente è la cosa che ti pesa di meno), ma è trovarsi costrette a condividere giorno e notte la cella, spesso piccolissima, con 2 – 3 – 4 – 5 altre persone con cui non hai niente in comune e a volte sono disturbate psichicamente al punto da non poterci dormire la notte, spesso dentro per aggressioni e omicidi, e non sai cosa potrebbero farti mentre dormi; o sono psichicamente non violente ma non si lavano, pisciano nel letto e hanno altre orride abitudini, per non parlare di quelle che rubano oggetti o vestiti, ti diluiscono i detersivi con l’acqua o si fregano la tua spesa. In carcere urla, litigi, crisi sono all’ordine del giorno.
Il carcere è un mondo dove la normalità sparisce; per questo è così destabilizzante per chi ha sempre condotto una vita regolare: l’urbanità non c’è, la civiltà neanche, l’ignoranza e la convinzione che l’unica cosa che conta è la forza e i soldi radono al suolo qualsiasi comunicazione; è un luogo dove tutti fumano come turchi e venderebbero la propria madre per una sigaretta, quando ormai fuori è out da decenni; dove ottieni di più se fai peggio, dove sei costretto a fare la doccia in ciabatte per non beccarti malattie in docce che condividi con 30, 40, 50 persone; dove non vedi per anni una pianta ma solo cemento; dove mangi con piatti di plastica le stesse identiche cose di un vitto monotono, non potendo più mangiare una serie di cibi e bevande che ricordi e vedi solo in TV. Il carcere è alienante, dopo un po’ che ci sei dentro cominci a perdere pezzi di te stessa, dopo aver perso il nome di battesimo all’entrata, qui ci sono solo cognomi. Per prima se ne va la memoria, che risente del clima di insicurezza, precarietà, del rumore e dello stress continuo senza pause; poi cominci a perdere ogni interesse per il mondo esterno, a ciò che accade in quel fuori che non ti appartiene più; se hai qualcuno all’esterno ti struggi nella nostalgia e nella preoccupazione dei tuoi cari, ma pian piano l’esterno si perde e ti sembra di esser nato e cresciuto qui dentro, all’inferno, e che la vita al di fuori sia stata solo un sogno, un sogno perduto che non potrai più coltivare, e tutto ciò che eri, i tuoi interessi e le tue passioni, te stesso, non sia più importante perché è finito qui dentro, in questa cloaca da cui, forse, un giorno potrai uscire, ma che non uscirà più da dentro te stesso e allora è più facile mettersi un sacchetto di plastica in testa, aprire il gas del fornelletto da campeggio della cella e dormire per sempre: ecco che cosa è passato nella testa almeno una volta di chi è stato scagliato nella gehenna. Vi è da stupirsi che ogni giorno qualcuno cerchi di evadere con la morte al proprio assassinio?




Misure alternative al carcere. Si può, si deve, è meglio
A.M.Mira (Avvenire)

Carcere, così le misure alternative prevengono devianze e nuovi reati

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Il ricorso a pene alternative sta diventando sempre più frequente nel nostro Paese. Sono in forte aumento i beneficiari di progetti portati avanti fuori dalle celle, ben 84mila, a fronte di 61mila detenuti. L’ammissione della messa alla prova riguarda in buona misura giovani, italiani, imputati per reati di lieve entità

Antonio Maria Mira (Avvenire 24 agosto 2024)

A fronte di 61mila detenuti in carcere, molti di più, quasi 84mila beneficiano di misure alternative. Un numero in fortissimo aumento. Nel 2012 erano, infatti, solo 25.500 e quindi in dodici anni c’è stato un incremento del 228 per cento. Con risultati sicuramente positivi. Ad esempio, per la misura della sospensione del procedimento con messa alla prova, il numero dei casi è passato da 34.931 del 2020 a 55.534 del 2023, registrando un incremento del 59% (+76% al Sud, +65% al Centro, +48% al Nord). Mentre le revoche della misura sono arrivate appena all’1,8% del totale. Lo scrive il ministero della Giustizia nella Relazione inviata al Parlamento “sull’attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova e di pene sostitutive delle pene detentive, nonché sullo stato generale dell’esecuzione penale esterna”.

Ma chi beneficia di queste misure alternative al carcere? Si tratta di soggetti di giovane età (il 25% degli imputati ha un’età compresa fra i 18 e i 29 anni, il 23% fra i 30 e i 39, il 22% tra 40 e 49 anni, ma c’è anche un 11% di ultrasessantenni), di sesso maschile (85%), di cittadinanza italiana (82%), imputati coinvolti in attività lavorativa non retribuita di tipo socioassistenziale e sociosanitaria (64%). Qui il ministero fa un’importante affermazione: « Dall’analisi dei dati emerge che l’imputato ammesso all’istituto, nella maggior parte dei casi, non è ancora avviato al processo deviante; pertanto, l’ammissione alla messa alla prova, e la conseguente presa in carico da parte degli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna, ndr), può effettivamente svolgere una funzione di prevenzione della devianza, prevalentemente nei confronti di persone italiane di giovane età, con un’occupazione stabile e imputate per un reato di lieve entità, frequentemente legato alla violazione del codice della strada». Insomma, non si tratta di criminali ma di persone che il carcere potrebbe far peggiorare. E le misure alternative non sono dunque solo degli “svuota carcere” ma dei provvedimenti per salvare le persone, per recuperarle, come prevede la nostra Costituzione. Particolarmente importanti, proprio in questo senso sono i lavori di pubblica utilità. Attualmente il ministero ha in corso 13 convenzioni nazionali con enti, associazioni e istituzioni che rendono disponibili 2.496 posti. Sono poi stati firmati 18 protocolli nazionali tesi a pervenire localmente alla stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei tribunali. Ad oggi le convenzioni stipulate sono ben 11.827, distribuite uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’attività riguarda la tutela del patrimonio ambientale, quella del patrimonio culturale, storico e artistico, la promozione della sicurezza stradale, i servizi di supporto in attività socio assistenziali e socio-sanitarie, la Protezione civile, i servizi inerenti a specifiche competenze o professionalità, la manutenzione degli immobili e i servizi pubblici. Con la riforma Cartabia, per la sua applicazione nel 2023 sono stati siglati 38 protocolli operativi. « Il lavoro di pubblica utilità previsto quale pena sostitutiva in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni – si legge nella Relazione – sta dando sicuramente buona prova di sé, con un totale di 2.244 condannati che, al 31 marzo 2024, risultavano in carico agli Uepe, registrando un incremento del 50% rispetto al dato riferito al 31 dicembre 2023 (1.503)». A questi vanno poi aggiunti i quasi 9.500 lavori di pubblica utilità per violazioni del Codice della strada (guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti) e quasi 900 per violazioni della legge sugli stupefacenti. Ma i buoni risultati raggiunti non bastano. Così, per il Ministero, «appare di fondamentale importanza proseguire con un rigoroso lavoro sul territorio, mediante la costruzione di accordi e la sottoscrizione di protocolli per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale esterna, oltre a fortificare l’attività di collaborazione al trattamento penitenziario, al fine di implementare il numero dei detenuti che accedono alle misure alternative». Le soluzioni dunque ci sono, bisogna insistere. È l’invito al Parlamento degli esperti del Ministero.




ANCHE UN ROTTAME HA DIRITTO DI GALLEGGIARE
D.Augusto Fontana

Anche un rottame ha diritto di galleggiare.
Don Augusto Fontana

 Ho sognato di intervistare Lazzaro. Quel marcio rottame d’uomo che, nella Parabola del vangelo di Luca, si nasconde sotto la tavola del ricco stravaccato.
Lo raggiungo, imbarazzato, mentre sta raccogliendo la mollica con cui il signore perbene si è appena pulito le dita impiastricciate di arrosto. Ha una cancrena puzzolente ai piedi. Un bastardino, un po’ pagano come il suo padrone che non è circonciso, sta contendendo la mollica a Lazzaro. Insieme alla mollica lecca la cancrena. Peggio per te, povero Lazzaro, visto che i cani sono considerati animali impuri; così ti becchi anche l’impurità legale e rituale e sarai fuori dai santuari, quelli religiosi e quelli civili. Anche da noi, essere malati è una colpa. Dietro ogni giacca bisunta c’è il sospetto di un vizio. Dietro ogni cravatta c’è l’assunto di una virtù. Rassicurati, però: è tutto da dimostrare!
Incomincio l’intervista.
Telecamera n.1.
Carrellata.
Primo piano sulla cancrena.
Anche le piaghe fanno audience, soprattutto se sponsorizzate da una marca di detersivo: il mercato si è fatto furbo e i programmi sentimental-benefici rendono bene. Le piaghe di Lazzaro commuovono le mamme e fanno vomitare i bambini: gli uni e le altre verseranno l’obolo sul conto corrente 345692 della Banca d’Italia e correranno al Supermarket a comprare “Lava e sbianca”. Il buonismo italiano farà tombola: eleverà lo share di Canale 2, farà piovere sul bagnato delle banche, farà circolare merci e lavoro, metterà a posto la coscienza di mamme e bambini, commuoverà perfino il Papa. E il potere politico si farà perdonare i tagli alla spesa sociale. 

Microfono n.1: «Dunque, Lei si chiama?…»

I miei genitori mi hanno chiamato Eleazaro, ma tutti mi chiamano Lazzaro. Nella mia lingua, il nome Eleazaro significa “Dio aiuta”, ma il nome non mi ha portato fortuna. I miei preti dicono che Dio vuol bene a gente come me. Mah!…

Microfono: «E questo signore che La tollera sotto la tavola, come si chiama»?

Boh! Siete tutti uguali. Sembrate nati tutti dalla stessa p……………Credo che neanche Dio vi chiami più per nome. Del resto anche sui vostri giornali pubblicate solo i volti delle vittime; mai quelli dei mandanti. I responsabili restano, purtroppo, sempre senza nome. Forse perchè ciascuno possa mettere il proprio nome.

Microfono: «Ma voi quanti siete, in questo paese»?

In Europa 94,6 milioni di persone vivono sulla soglia di povertà e soffrono di importanti privazioni materiali e sociali, in Italia sono 13,4 milioni le persone che vivono in condizioni di povertà o esclusione sociale, il 22,8 % della popolazione. C’è chi sta meglio di me. Nel nostro Paese sono circa 3 milioni le persone che pur lavorando sono povere e non riescono a vivere in modo dignitoso:  guadagnano poco più di 950 euro al mese. Voi giornalisti dite che è cresciuta la ricchezza nazionale, ma dimenticate di dire che è cresciuta anche la povertà. E’ cresciuto il reddito medio, ma non contemporaneamente la redistribuzione della ricchezza. In tutte le manovre finanziarie recenti, con un taglietto di qua e uno di là, è andata a finire che nel 2023 le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie.

Microfono: «Mi consenta: Lei esagera i dati. Io giro per il mondo, leggo, ma gente come Lei è rara come le mosche bianche, almeno da noi».

– La gente come me va scoperta. Noi facciamo notizia solo quando un disoccupato si ammazza, un anziano uccide il suo usuraio, un negro vi stupra una donna, un profugo violenta i vostri confini o quando facciamo rissa tra noi. Venga con me, mi segua.

Stop alla telecamera.

Ci muoviamo verso Ebron al ritmo esasperatamente lento delle sue due stampelle. Il tempo non è più mio. E’ suo. La valle di Ebron è vicina. Lui conosce tutti: Meraiot piccolo delinquente, Cassub handicappato fisico, Abdia tossicodipendente, Idutun che ha infettato mezzo mondo non si sa come, Akkub il matto,  Maaca la prostituta decadente, Talmon vecchio vedovo senza parenti, Lidia immigrata, Arad il nomade, Sallum barbone senza fissa dimora come Lazzaro, Semaia ex carcerato fratello di altri tre carcerati, Codes madre nubile, Ibnia alcolizzato, Adaia malato semiparalizzato, Mesullam schiavo per pagare gli usurai, Malchia disoccupato, Galal profugo di guerra da Gaza.  L’occhio impudico della telecamera guardona ha stuprato le dignità di tutti.

Novantacinque milioni in Europa e più di sette milioni in Italia…divisi in categorie per la gioia dei sociologi. Siamo diventati numeri, statistiche, grafici, percentuali, tavole rotonde. Ma se non ci fosse la mollica di quel ricco seduto a tavola, non saprei come campare.

Microfono n. 1: «Esprima un desiderio»!

Prima di tutto desidererei diventare come quel ricco seduto a tavola  con te. Non mi basta più il diritto di mangiare le briciole. Voglio il mio diritto di sedere a tavola. Poi desidererei che cercaste di capire perchè siamo diventati così. Cercate di fare di meno e di capire di più. Tu, per esempio, non mi hai chiesto perchè sono ridotto in queste condizioni. O credi che sia io l’unico responsabile dei miei guai? O forse credi al destino? Non ti sei mai chiesto perchè il sottosviluppo galoppa nonostante la tua Chiesa cattolica mandi circa 60.000.000 euro all’anno alle missioni sparse nel mondo?

(Decisamente sfacciato il tipetto! Questa gente quando prende confidenza va a finire che alza la cresta e si candida a ingrossare le file dei terroristi).

 Stop all’intervista. Brevi convenevoli. Obolo di rito. Fine del sogno, anzi, dell’incubo.

Inizio a mettere ordine alle idee. Lazzaro mi ha suggerito, innanzitutto, di cercare le cause.
Ci provo: crisi del senso della socialità con forti spinte individualistiche; caduta del senso della legalità con inquinamento delle regole di una convivenza ordinata; crisi della partecipazione e della responsabilità con una abdicazione rispetto all’esercizio dei diritti-doveri di cittadinanza; crisi dei partiti e rinascita di aggregazioni lobbistiche, corporative o ad personam; crisi della moralità amministrativa; crisi della moralità economica.

Chiudo gli occhi e amo pensare che quel rottame umano di Eleazaro, in Paradiso galleggerà.




DRAMMA CARCERI, SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE)

DRAMMA CARCERI SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE 28 giugno 2024)
Provvedimento non più differibile
I numeri che provengono dal pianeta carcere, anche a volersi fermare a quello dei suicidi, sono agghiaccianti. Ma sono tempi, questi, in cui gli orrori raccontati quotidianamente dai media hanno indotto ad alzare le difese dell’indifferenza per evitare di precipitare nello sconforto. Questi numeri, pur drammatici, sono diventati emotivamente neutri. Se almeno potessero gridare il dolore straziante e il senso di totale abbandono di chi ha deciso di farla finita, se potessero portarci il pianto sommesso della sua disperazione, se ci potessero contagiare la sua angoscia di non poter neppure salutare le poche persone al mondo che piangeranno la sua morte, se ci potessero far vedere i suoi occhi vuoti di futuro e di speranza mentre si toglie la vita – perché non ha più una sola ragione per protrarla – probabilmente ci soffermeremmo con desolazione infinita e con vergogna senza requie su questi numeri.
Allora, forse, coloro che possono fare qualcosa capirebbero che neppure un giorno in più di inerzia sarebbe giustificabile. E fare qualcosa in una situazione di così drammatica emergenza non può consistere nel progettare nuove carceri, nel prevedere ulteriori assunzioni, nell’immaginare trasferimenti di detenuti stranieri. La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi. Se in un pericoloso tratto di strada si verifica un incidente gravissimo, prima di assicurare che sarà rivista la segnaletica, che verrà rafforzato il guardrail, che sarà imposta una riduzione del traffico, bisogna soccorrere chi, vittima dell’incidente, sta rischiando la vita. Nell’attuale girone penitenziario ogni intervento in grado di rendere meno insopportabile la soffocante e degradante quotidianità carceraria potrebbe risultare prezioso al di là di ogni aspettativa. Ma non c’è dubbio che in questo momento il principale fattore dell’invivibilità detentiva è il sovraffollamento, moltiplicatore esponenziale di tutti i fattori di deprivazione della dignità, che ormai è tornato al livello di quello che poco più di dieci anni fece condannare il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante.
Non è più differibile (da tempo, per la verità) uno strumento di rapido decongestionamento. Un’amnistia e/o un indulto – strumenti ai quali sono stato contrario quando venivano usati come semplici, periodici provvedimenti di “sfioro” del “troppo pieno” penitenziario, non accompagnati da rimedi strutturali che impedissero il puntuale ripresentarsi dell’incivile fenomeno – potrebbero nella drammatica situazione penitenziaria rivelarsi provvidenziali. E sarebbe confortante vedere una volta tanto tutte le forze politiche convergere su soluzioni condivise, tanto più che nessuna di esse può dirsi del tutto esente da responsabilità. Ma, essendo facilissimo immaginare gli allarmistici slogan (“Svuotacarceri, sicurezza a rischio”) con cui si boicotterebbe qualsiasi tentativo in tal senso, almeno si provveda secondo la proposta Giachetti, attualmente in esame (della ripetutamente annunciata iniziativa del ministro Nordio, parleremo quando ad essa il Governo darà disco verde e corsia di urgenza, come avvenne in occasione dell’improcrastinabile introduzione del reato di rave-party): aumento della riduzione di pena per i detenuti che con il loro positivo percorso ne sono già stati o ne saranno dichiarati meritevoli dalla magistratura di sorveglianza. L’atteggiamento negativo sinora espresso al riguardo, non solo dalle forze di maggioranza, non consente ottimismi. La deprimente spiegazione sarebbe che pure in tal caso (come, a maggior ragione, per amnistia e indulto) lo Stato si dimostrerebbe debole. Dunque, piuttosto che ammettere la necessità di porre rimedio ad un proprio errore, lo Stato preferisce che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva: sì, perché ciò a cui assisteremo durante l’incipiente estate (da sempre stagione insopportabilmente feroce con i detenuti) sarà una raccapricciante progressione del numero di suicidi, che chiamare omicidi colposi non sarà purtroppo forzata metafora.
Ovviamente, qualora si riuscisse a intervenire con provvedimenti di emergenza – almeno per contenere questo insostenibile rosario di suicidi: veri j’accuse, che persone affidate allo Stato gli rivolgono non per averle private della libertà, ma della dignità di uomo – si dovrebbe immediatamente cominciare a ragionare su tutte le provvidenze normative, strutturali e di personale specializzato in grado di evitare il riproporsi di una situazione indegna di un Paese civile, dando preliminarmente risposta ad alcune ineludibili domande. Come mai l’attuale popolazione penitenziaria supera le 60.000 unità nonostante un indice di criminalità decrescente (per restare ai reati più gravi: 300 omicidi all’anno), mentre trent’anni fa la popolazione penitenziaria era di circa 40.000 con una criminalità molto più preoccupante (1.000 omicidi all’anno)? Come mai si è ritenuto di ignorare i già pronti progetti di riforma penitenziaria di cui sono inutilmente ingombri i cassetti ministeriali? Come mai, per contro, gli unici, significativi propositi di intervento normativo in materia riguardano l’abolizione del delitto di tortura (per non privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”); l’introduzione del reato di rivolta carceraria (“ a tutela dell’ordine pubblico negli istituti penitenziari”); il ridimensionamento in chiave securitaria della funzione rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della Carta (perché “l’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici”)? Non sappiamo se temere più il silenzio o le risposte.




Anche per la politica il metodo sinodale
Don Bruno Bignami (Avvenire)

«Il leaderismo fa sempre terra bruciata. Anche per la politica il metodo sinodale»
Marco Iasevoli (Avvenire 23 giugno 2024)

 È iniziato il conto alla rovescia verso la 50esima Settimana sociale di Trieste: il risveglio della partecipazione e l’impegno per la buona politica si candidano a fare da filo rosso tra “laboratori della partecipazione”, “villaggi delle buone pratiche” e “piazze della democrazia. L’appuntamento è dal 3 al 7 luglio. Ad avviare i lavori sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nella domenica conclusiva invece sarà presente papa Francesco che presiederà la celebrazione eucaristica.
Intervista a don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il Lavoro della Cei. È un osservatorio speciale quello di don Bruno Bignami. Un osservatorio sulla politica e sulle istituzioni, alla luce di una “delega” che chiede di dialogare con i decisori pubblici e riflettere sullo stato della salute della democrazia nel Paese. Dall’incrocio tra le due prospettive don Bignami ha dato alle stampe “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp. 142, euro 24).

Don Bruno, la politica vive una crisi espressa da disaffezione e astensionismo: c’è una cura?
La politica domanda partecipazione, che non piove dal cielo. Esige cura e impegno. Per capire cosa c’è che non va potremmo partire da esperienze in crescita come il Terzo settore. Chi si è impegnato in questi anni si è accorto che poteva contribuire al cambiamento sociale, che si poteva migliorare la vita delle persone, che si poteva incidere… Non è avvenuta la stessa cosa in politica, dove il leaderismo, l’autoreferenzialità e le logiche di potere hanno fatto terra bruciata intorno. Molti che si sono avvicinati alla politica sono usciti delusi e scottati. A meno di rassegnarsi a vivere da comparse.

Nel suo libro lei indica la strada della spiritualità e della fraternità: come si traducono nell’agone sociale e politico?
Serve coraggio. Un credente non può fare politica mettendo tra parentesi la fede. Detto altrimenti: il mistero dell’incarnazione e quello pasquale di morte e resurrezione non sono tangenziali alla vita cristiana, ma ne costituiscono il midollo. L’incarnazione comporta la condivisione della storia, la capacità di servire il popolo, di abitare i conflitti. Il mistero pasquale ricorda che non c’è vittoria senza croce. Non c’è bene comune attraverso l’affermazione di sé. Come insegnava il teologo De Lubac, incarnazione, morte e resurrezione dettano il ritmo della spiritualità cristiana in tre tempi: radicamento, distacco e trasfigurazione. Altro che affogare nel dibattito sulla rilevanza o irrilevanza dei cattolici in politica… Lo spirito umano per sbocciare ha bisogno di condizioni che non siano sempre favorevoli.

A Trieste è possibile aspettarsi svolte sul fronte dell’impegno sulla sfera pubblica?
Alla 50esima Settimana Sociale di Trieste si cercherà non solo di tastare i battiti del cuore democratico del nostro Paese, ma si intenderà fare esperienza di partecipazione. Saranno gli oltre mille delegati a tracciare sentieri e percorsi futuri. Serve un di più di ascolto perché ci possa essere una base di proposta. Si può essere fiduciosi…

Tra riforme e questioni sociali e ambientali urgenti non manca lo spazio per uno specifico contributo dei credenti. Manca un metodo?
Sicuramente manca un metodo, ma il Cammino sinodale della Chiesa ha contribuito ad acquisirlo: abbiamo imparato ad ascoltare, a partire dal basso, a esercitarci nel discernimento comunitario, a raggiungere la profondità della conversazione spirituale. Ma non basta. Forse occorre creare luoghi di confronto stabile tra laici sulle grandi questioni sociali del nostro tempo, liberi da ideologie di ritorno. Senza percorsi condivisi è difficile che nascano sogni.

La strada della fraternità come può aiutare anche nel gran caos globale?
Un altro modo per dire la fraternità è la responsabilità circa il bene comune. La Bibbia mostra in Caino e Abele la tragedia della fraternità, che può giungere all’uccisione dell’altro. Il testo sacro non illude. Il samaritano, però, vive la fraternità non tanto di sangue ma per il sangue, ossia per la vita dell’altro. Romano Guardini sosteneva che la democrazia poteva stare in piedi solo sulla fiducia che tutti vogliono davvero il bene comune. Oggi sembra prevalere il sospetto che l’altro cerchi solo il proprio interesse. Si può cambiare paradigma attraverso uno sguardo limpido. Ha ragione papa Francesco: ci salverà la tenerezza, non il potere.

IL LIBRO

Dare un’anima alla politica

Il nuovo lavoro di don Bruno Bignami, “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp.142, euro 24) parte dall’immagine evangelica del lievito, non preoccupato della propria visibilità e tuttavia capace di far fermentare la pasta, simbolo di una presenza allo stesso tempo serena e ferma, pacifica ed efficace. È al lievito che pensa l’autore quando pensa anche oggi, al ruolo dei cristiani in politica. Il libro è diviso in due parti. La prima è fondativa e mostra come il cristianesimo tocca e forma le coscienze. La seconda parte raccoglie alcune testimonianze di vissuto o di pensiero sulla spiritualità in politica: Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e David Sassoli “raccontano”, attraverso la loro esperienza in epoche diverse, differenti sfumature del rapporto tra spiritualità cristiana e politica. La prefazione è del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana.




Settimana sociale
Zamagni. Cattolici in politica (Avvenire)

Fondamenta comuni della democrazia. Il grande compito per i cattolici italiani
Stefano Zamagni (AVVENIRE 23 maggio 2024)

 Verso la Settimana Sociale: nella realtà plurale di oggi va restituita centralità al metodo democratico, non lasciando che sia ridotto a mera procedura o a monopolio dei partiti E i cristiani devono tornare a “immischiarsi”. Dibattito aperto sul tema dell’appuntamento in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio, tra società civile, istituzioni ed economia. A poco più di 40 giorni dalla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani a Trieste il professor Stefano Zamagni, economista, già presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, offre la sua riflessione sul tema della manifestazione – la democrazia – aprendo il dibattito sull’evento.


 A metà degli anni ’90 si svolse a Torino una Settimana Sociale dei Cattolici in Italia sul tema della democrazia. A distanza di quasi quaranta anni, il medesimo tema sarà oggetto della 50esima Settimana Sociale a Trieste nei giorni 3-7 luglio 2024, il cui titolo – assai evocativo – è “Al cuore della democrazia”. Ancora una volta, il mondo cattolico si ritrova per interrogarsi sul fondamento del principio democratico in un contesto socio-politico affatto differente per mettersi, come sempre, in cammino. Le considerazioni che seguono vanno lette su tale sfondo.
Conviene iniziare da un paio di chiarimenti. Il principio democratico è molto antico. Risale alla Grecia di Aristotele. Demos kràtos significa “potere al popolo”. Aristotele e altri furono molto chiari nell’indicare i due pilastri del principio democratico. Eppure si tende a identificare la democrazia con la pratica delle elezioni, le quali appartengono alla categoria dei mezzi e non già dei fini. Infatti si possono avere elezioni anche in Paesi non democratici. Due – dicevo – i pilastri del principio democratico. Per un verso, coloro i quali esercitano l’azione di comando sono tenuti a dare conto delle azioni da essi compiute. Non solo narrare, cioè raccontare quel che si è fatto, ma dare le ragioni in forza delle quali certe decisioni sono state prese – ragioni che possano essere comprese dal cittadino. Per l’altro verso, coloro i quali non si riconoscono in quelle ragioni devono poter avere il diritto di protestare, ovviamente in modi civili, ed eventualmente devono essere liberi di lasciare la comunità (è il cosiddetto “ voting by feet”).
Questi principi basilari sono stati implementati nel corso del tempo secondo due diverse tradizioni di pensiero. L’una è la tradizione Hobbesiana; l’altra è quella Rinascimentale. La tradizione Hobbesiana si rifà al pensiero di Thomas Hobbes (Leviathan, 1651), secondo cui è lo Stato che invera la società civile; idea che verrà poi perfezionata da Hegel. Allo Stato, spetta dunque il compito di dire come la società civile deve organizzarsi e quali sono i criteri in forza dei quali una società si definisce civile. Per la tradizione rinascimentale, invece, è vero esattamente il contrario: è la società civile che dà senso e forza allo Stato e non viceversa. La ripresa in tempi moderni della tradizione neo-rinascimentale è uno dei grandi meriti di Jacques Maritain e dei pensatori del personalismo cristiano (si veda di Maritain L’uomo e lo Stato e pure Umanesimo integrale). È sempre bene ricordare che la nostra Costituzione pone il suo fondamento nella tradizione neo-rinascimentale. All’articolo 1 si legge: «L’Italia è una Repubblica democratica (non uno Stato) fondata sul lavoro». Lo Stato è parte della Repubblica. E nell’articolo 2 si legge che la Repubblica è fondata, e tenuta in piedi, anche dai corpi intermedi della società (società civile organizzata, Terzo settore ecc.). Fino a un trentennio fa il principio democratico accolto dal mondo cattolico è stato quello della tradizione neo-rinascimentale. Dopo di allora, ha iniziato a prendere corpo una sorta di slittamento semantico: senza quasi accorgersene, si è andati verso la tradizione di pensiero neo Hobbesiana. A ben considerare, è questa una sorta di tradimento dello spirito del Codice di Camaldoli. Un secondo chiarimento, concerne la confusione di pensiero tra politica e partitica. La Politica, termine che deriva da polis (città), appartiene, per il pensiero greco, alla ragion pratica; la partitica, invece, nasce nel XIX secolo dopo l’illuminismo e la rivoluzione francese e il suo ambito è piuttosto quello della ragion tecnica. Perché è importante questa distinzione? Perché ci aiuta a capire che si sbaglia sia quando si dice che i partiti sono diventati irrilevanti sia quando si pensa che la politica possa ridursi totalmente alla partitica – quanto a significare che l’unico modo di occuparsi di politica, sia quello di iscriversi a un qualche partito politico. Il che è falso. Al tempo stesso va detto che l’espressione “pre-politica” è priva di senso. Nessuno che viva in società può affermare di non interessarsi di politica. I partiti sono bensì uno strumento essenziale per fare politica ma non sono l’unico strumento. Forse quando si dice “non mi occupo di politica” si intende significare: “non mi occupo di partitica”.
Il celebre teologo Henry De Lubac ha scritto che il cristiano che non si interessa di politica – non certo di partitica – non è fedele al Vangelo. Sulla medesima posizione si collocano tre dichiarazioni recenti di altrettanti Pontefici. «La politica come servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate politica» (Paolo VI). «Sogno il ritorno diretto in politica dei laici cattolici» (Benedetto XVI). «Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Francesco). Non v’è bisogno di commenti, se non per suggerire due conseguenze che sono derivate dalla non presa in considerazione di tali ammonimenti. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che pone la sua ispirazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Si tenga presente che le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nell’anticamera della partitica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasmissione degli interessi della cittadinanza verso la politica vera e propria. Ciò precisato, di quali trasformazioni – non parlo di mere riforme – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non può mancare? Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità, un modello che alle categorie di pubblico e privato aggiunge quella del civile. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’articolo 118 della Carta costituzionale, dal Codice del Terzo settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la piena sussidiarietà: è la sussidiarietà orizzontale, che si limita alla co-progettazione e non si spinge fino alla co-programmazione. Per attuare quest’ultima occorre dare ali alla sussidiarietà circolare, il cui fondamento è negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio, di fine XIII secolo. Si badi che il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro del variegato mondo del Terzo settore e della Business Community, con compiti di co-programmazione.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha urgente bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno sia del profitto sia del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che il lavoro, nella sua duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistica, cooperativa, sociale, benefit. Non è accettabile né una prosperità senza inclusione né una inclusione senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema scuola-università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare a essere in primis luoghi di educazione e in secundis luoghi di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di con-azione – parola che deriva dalla crasi di conoscenza e azione – e il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non a partire da una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani a inserirsi “nella realtà totale”. Non si può continuare a tenere in piedi la obsoleta dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecno-scientifica. È al pensiero della complessità che occorre oggi educare, superando vetusti riduzionismi.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. Come noto, il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica unica. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su princìpi etici condivisi se non vuole ridursi a mero proceduralismo e se si vuole scongiurare il conflitto sociale. Ci si rifugia nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa né fa mai domande, da cui il relativismo oggi dilagante. Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa civitas. Invero, la comunanza che si deve cercare non può essere né quella propria di una comunità culturale né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è stato il Cristianesimo ad affermare per primo il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente quello concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Vediamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. Si tratta allora di avviare, in modo sistematico, una riflessione sull’uomo (la cosiddetta quaestio de homine) che è certamente desunta dalla fede cristiana ma che può essere esibita anche come ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile.<

Per chiudere. Pensare a nuove forme di impegno politico è, oggi, un compito di primaria rilevanza da assolvere, se il mondo cattolico vuol continuare a offrire un messaggio di speranza. Le certezze che ci offre l’esaltante progresso tecnico-scientifico non ci bastano, perché la questione odierna non è tanto decidere cosa fare per ottenere ciò che vogliamo, ma decidere cosa è bene che si voglia. Di qui l’esigenza di una nuova speranza. È comprensibile che la speranza di chi non ha sia diretta sull’avere. Continuare a crederlo oggi sarebbe un grave errore. Se è vero che lasciar cadere la ricerca dei mezzi più efficaci sarebbe stolto, ancor più vero è riconoscere che la nuova speranza va diretta ai fini.

Avere dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile di quel  trade-off[1]. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui iper-globalizzazione e quarta rivoluzione industriale stanno mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione. Restituire un’anima alla politica. Ci vogliono grandi cause, ancorché talvolta deviate dal loro alveo originale, per mobilitare le persone in gran numero. Non esiste forza politica, degna di questo nome, che non si rifaccia a un’ispirazione. Senza di essa, un partito si riduce a una mera aggregazione di interessi, sia pure legittimi. È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione come quella sopra abbozzata? Penso proprio di sì, purché se ne voglia prendere atto. Un antico proverbio tibetano dice che quando c’è un grande traguardo anche il deserto diventa una strada. Se il grande traguardo è riportare la categoria di bene comune – il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – al centro dell’agenda politica, il deserto della crisi attuale può diventare una grande opportunità. A patto che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine né solo inizio. Origine e inizio si possono anche dimenticare col tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo “zampillo d’acqua” fuoriesce in modo continuo.


[1] Scambio, compromesso (ndr)




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Il movimento di lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere è partito dalle lavoratrici e lavoratori a fine 1800. Ovviamente in questi decenni sembra che stia tornando la necessità di rivedere ancora questo dovere-diritto di lavorare per vivere e non vivere per lavorare. Quindi siamo ancora alla ricerca, come abbiamo sentito dalle interviste, di un’armonizzazione tra tempo di lavoro e di vita È una questione di etica del lavoro che non riguarda solo le organizzazioni imprenditoriali e sindacali ma riguarda anche la coscienza personale ma anche la pastorale stessa. Dove mai si è parlato di questo problema nella catechesi degli adulti o nella formazione dei giovani? Allora è problema etico che riguarda lavoratori e lavoratrici, in particolare con grave ricaduta sulle lavoratrici a causa del loro ruolo genitoriale e anche di cura.

Il tema non è solo di organizzazione di orario ma è culturale su due piani: quello personale e quello collettivo.

Quello personale perché è chiaro che ognuno dei lavoratori rischia di appiattirsi sui ritmi richiesta dall’azienda e anche in nome della produttività. È chiaro che è un modo di coscientizzarsi anche nei confronti del proprio rapporto personale con il tempo di lavoro.

Ma è anche un problema collettivo. Sta già arrivando per le grandi aziende e banche l’occasione di incominciare a pensare alla settimana corta, a parità di salario e di produttività. Potrebbe essere necessaria una legislazione.

Siamo alla ricerca di un lavoro che sia dignitoso ma anche decente dal punto di vita dei lavoratori che hanno bisogno del tempo per la propria cultura, per la propria salute, per il proprio sport, per l’educazione dei figli, per la famiglia.

Occorrono quindi anche delle contrattazioni di secondo livello dove le aziende, i lavoratori e le Organizzazioni sindacali possano sperimentare gradualmente nuove forme, senza indebolire ovviamente la produttività e le performances delle aziende.

Chiudo con una frase di Papa Francesco tra le tante. In una intervista del 2018 diceva così: «Quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà, di schiavitù e di scarto».




Messaggio CEI per il 1 maggio 2024
Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia.

Messaggio dei Vescovi per la Festa dei Lavoratori (1° maggio 2024) . “Il lavoro per la partecipazione e la democrazia”

  Lavorare è fare “con” e “per”.
 «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Queste parole di Cristo aiutano a vedere che con il lavoro si esprime «una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre» (Laborem exercens, 26). Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un “fare qualcosa”, ma è sempre agire “con” e “per” gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana» (Centesimus annus, 41). In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la “cosa pubblica” è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico. È particolarmente significativo che le Chiese in Italia siano incamminate verso la 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio), sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia.
Il “noi” del bene comune: la priorità del lavoro.
Come ricorda Papa Francesco in Fratelli tutti, per una migliore politica «il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (n.162).  Le politiche del lavoro da assumere a ogni livello della pubblica amministrazione devono tener presente che «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro» (ivi). Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei “pensatori” che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti (cfr. Fratelli tutti, 169). Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. È necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile.
Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia.
 “A ciascuno il suo” è questione elementare di giustizia: a chiunque lavora spetta il riconoscimento della sua altissima dignità. Senza tale riconoscimento, non c’è democrazia economica sostanziale. Per questo, è determinante assumere responsabilmente il “sogno” della partecipazione, per la crescita democratica del Paese.

  • Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione. Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali.
  • Un lavoro dignitoso esige anche un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale, che sono i concreti segnali di giustizia di tutto il sistema socioeconomico (cfr. Laborem exercens, 19). Bisogna colmare i divari economici fra le generazioni e i generi, senza dimenticare le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Fino a quando non saranno riconosciuti i diritti di tutti i lavoratori, non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese. A questo compito di giustizia sono chiamati anche gli imprenditori, che hanno la specifica responsabilità di generare occupazione e di assicurare contratti equi e condizioni di impiego sicuro e dignitoso.
  • I lavoratori, consapevoli dei propri doveri, si sentano corresponsabili del buon andamento dell’attività produttiva e della crescita del Paese, partecipando con tutti gli strumenti propri della democrazia ad assicurare, non solo per sé ma anche per la collettività e per le future generazioni, migliori condizioni di vita. La dimensione partecipativa è garantita anche dalle associazioni dei lavoratori, dai movimenti di solidarietà degliuomini del lavoro e con gli uomini del lavoro che, perseguendo il fine della salvaguardia dei diritti di tutti, devono contribuire all’inclusione di ciascuno, a partire dai più fragili, soprattutto nelle aziende.
  • Le Chiese in Italia, impegnate nel Cammino sinodale, continuano nell’ascolto dei lavoratori e nel discernimento sulle questioni sociali più urgenti: ogni comunità è chiamata a manifestare vicinanza e attenzione verso le lavoratrici e i lavoratori il cui contributo al bene comune non è adeguatamente riconosciuto, come anche a tenere vivo il senso della partecipazione. In questa prospettiva, gli Uffici diocesani di pastorale sociale e gli operatori, quali i cappellani del lavoro, promuovano e mettano a disposizione adeguati strumenti formativi. Ciascuno deve essere segno di speranza, soprattutto nei territori che rischiano di essere abbandonati e lasciati senza prospettive di lavoro in futuro, oltre che mettersi in ascolto di quei fratelli e sorelle che chiedono inclusione nella vita democratica del nostro Paese.

 Roma, 24 gennaio 2024
La Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace