Condonare il debito
Sogno, ma anche proposte.

Riparte la campagna per tagliare il debito.
Luca Liverano (Avvenire 10 gennaio 2025)

La campagna è promossa da: Acli, Agesci, Aimc, Azione Cattolica, Caritas, Comunità Papa Giovanni XXIII, CVX Comunità di Vita Cristiana, Earth Day Italia, Focsiv ETS, Fondazione Banca Etica, MCL, Meic, Missio, Movimento dei Focolari, Pax Christi, Salesiani per il sociale, Sermig. Media partner della campagna sono: Agenzia SIR, Avvenire, Radio Vaticana, Vatican News, Famiglia Cristiana.

     Come noi li rimettiamo ai nostri debitori. L’associazionismo cattolico – e non solo – si mobilita sulle parole del Papa che ha intitolato il messaggio per la 58ª Giornata Mondiale della Pace del 1º gennaio “Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace”. E all’inizio del Giubileo della speranza lancia la campagna “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”, collegata alla campagna globale Turn debt into hope, promossa da Caritas Internationalis. Occasione per rilanciare il messaggio del Papa e mobilitarsi è l’incontro, organizzato all’Università Lateranense, dall’Istituto di Diritto Internazionale della Pace Giuseppe Toniolo con Azione Cattolica, Pontificia Università Lateranense, Forum Internazionale di Azione Cattolica e Caritas Italiana. Ad aprire l’incontro il professor Giulio Alfano, delegato del Ciclo di studi in Scienze della pace e Cooperazione internazionale dell’Università Lateranense.
Il Messaggio di Papa Francesco spiegano i promotori – invita a riflettere sull’urgenza di condonare i debiti e di promuovere modelli economici basati sulla giustizia e la solidarietà. E la remissione del debito si inserisce alla perfezione nell’anno Santo appena aperto, perché ispirata alla tradizione giubilare del popolo ebreo. È il passo essenziale per liberare i popoli oppressi da legami economici iniqui – dicono i promotori – che soffocano il presente e ipotecano il futuro.
Strettissimo poi il legame tra debito economico e debito ecologico, cioè quello che paesi ricchi del Nord – dopo aver sfruttato le risorse del sud provocando degrado climatico e sociale – hanno nei confronti del paesi in via di sviluppo, molto più esposti agli eventi climatici estremi, nonostante abbiano meno responsabilità nel riscaldamento globale e poche risorse per affrontarlo.
La campagna globale di Caritas Internationalis sensibilizza sull’urgenza di ristrutturare – meglio ancora, condonare – i debiti dei Paesi poveri. E trasformare un’architettura finanziaria internazionale intrinsecamente iniqua, che alimenta modelli di produzione e consumo alla base del riscaldamento climatico.
Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale di Azione cattolica, sottolinea come «la speranza non è semplice ottimismo, ma si concretizza nei gesti e segni che siamo capaci di compiere. È la capacità di cambiamento che siamo in grado di attivare. Per fare di questo tempo giubilare un’occasione per ripensare il nostro modo di abitare la casa comune. Guerre, cambiamento climatico, disuguaglianze: davvero occorre cambiare rotta. Questo è il momento perfetto, il kairòs, per costruire percorsi di cambiamento».
In collegamento video da Bangkok, Thailandia, Sandro Calvani, presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto G. Toniolo, afferma che «Dio ci affidato la custodia della sua creazione. E il primo passo per far ripartire relazioni di pace è il perdono, spinta iniziale e volano per far ripartire il motore».
Don Paolo Asolan, teologo e docente alla Pontificia Università Lateranense, colloca la remissione dei peccati e la cancellazione dei debiti in una prospettiva giubilare.
Interviene anche l’economista Riccardo Moro. Presidente del Civil 7 e docente di politiche dello sviluppo alla Statale di Milano, è l’esperto che coordinò per la Cei nel 2000 l’azione di cancellazione del debito di diversi paesi africani: «Avevano concluso 25 anni fa dicendo che avevamo vinto, siamo di nuovo qui. Cosa abbiamo sbagliato? Va detto che nel 2000, per la prima volta, la comunità internazionale accettò l’idea della cancellazione del debito, che è condanna alla povertà. Ma le regole di allora non sono state rispettate da tutti. Alcuni operatori hanno operato in modo spregiudicato. La Cina, che si affacciava allora sulla scena, per approvvigionarsi di materie prime erogò prestiti facili al Sud. Poi la crisi economica del 2008 e la pandemia hanno spinto all’indebitamento tanti stati per far fronte alle emergenze. Alcuni paesi oggi hanno un debito che supera il valore del loro pil». Cosa fare? «Creare alle Nazioni Unite un forum per definire i criteri di sostenibilità del debito e sistemi per gestire le crisi. Rispetto al 2000 abbiamo una visione complessiva più ampia, che comprende anche la questione climatica. Il Papa non a caso mette insieme debito finanziario e debito climatico».
Chiara Mariotti, dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, ricorda che «il debito è un ostacolo che rende impossibile qualsiasi progresso verso la giustizia sociale e i diritti. Il livello del debito estero dei paesi in via di sviluppo nel 2023 ha raggiunto gli 8 mila miliardi di dollari. Più di 3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per gli interessi sul debito che in spesa pubblica. Se non affrontiamo il debito non raggiungeremo gli obiettivi di sviluppo e non contrasteremo il riscaldamento globale ». In Paesi africani che perdono il 5% del pil a causa del cambiamento climatico e fino al 10% per la gestione delle catastrofi.
Il tema del debito dei paesi in via di sviluppo era stata già affrontata nel Giubileo del 2000 da Giovanni Paolo II. La mobilitazione della società civile portò alla campagna “Jubilee2000”, che chiese a paesi ricchi, Fondo monetario, Banca mondiale di cancellare i debiti ingiusti. Fino al 2005, col G7 di Gleenagles, che cancellò 40 miliardi di dollari. Negli anni a seguire si arrivò a 130. Ma sistemi finanziari e di mercato eticamente ingiusti, autentiche «strutture di peccato», hanno riprodotto situazioni l’indebitamento, aggravato da pandemia e riscaldamento globale.
La campagna lancia ora un appello in quattro punti, presentato da Massimo Pallottino di Caritas italiana:

  1. Uno: cancellazione e ristrutturazione dei debiti ingiusti e insostenibili, affrontando anche il debito da creditori privati.
  2. Due: creazione di un “meccanismo di gestione delle crisi di sovraindebitamento”, con la costruzione di un sistema presso le Nazioni Unite.
  3. Tre: riforma finanziaria globale che metta al centro persone e pianeta, creando un sistema equo, sostenibile e libero da pratiche predatorie.
  4. Quarta e ultima richiesta, il rilancio della finanza climatica per sostenere la mitigazione e l’adattamento climatico nel Sud globale. Disinvestendo dal fossile, dall’economia speculativa, dalle industrie belliche.

 

 




Giubileo. Riti e pellegrinaggi
MA NON SOLO

Gli eventi giubilari
Una certezza è invece il calendario degli eventi giubilari. A partire da gennaio sono già oltre trenta quelli in programma e per i quali è già possibile prenotarsi sul portale web dedicato. Ad aprire la sequenza sarà il Giubileo della comunicazione dal 24 al 26 gennaio, durante il quale sono previsti diversi momenti di confronto e di spiritualità, e la partecipazione alla Messa celebrata da Papa Francesco. Momenti e celebrazioni che caratterizzeranno tutti gli appuntamenti in programma nel corso dell’Anno Santo.
A febbraio si terrà il Giubileo delle Forze armate (8 e 9), quello degli artisti (dal 15 al 18), e, a fine mese, quello dei diaconi (dal 21 al 23). Nel mese di marzo in calendario un appuntamento per il mondo del volontariato (8 e 9) e il Giubileo dei missionari della misericordia (dal 28 al 30). Proprio il 28 marzo ci sarà anche il tradizionale appuntamento con le 24 ore per il Signore. A seguire, ad aprile, l’Anno Santo per i malati e il mondo della sanità (5 e 6), il Giubileo degli adolescenti (dal 25 al 27), e il Giubileo delle persone con disabilità (28 e 29).
Dal 1°al 4 maggio è in programma il Giubileo dei lavoratori, mentre il 5 e 6 quello degli imprenditori.
Il 10 e l’11 maggio l’incontro con le bande musicali. Dal 12 al 14 maggio il Giubileo delle Chiese orientali; dal 16 al 18 maggio il Giubileo delle confraternite. L’appuntamento conclusivo di maggio è quello con le famiglie, i bambini e i nonni (30 maggio-1 giugno).
A giugno è in programma il Giubileo dei movimenti, delle associazioni e delle nuove comunità (7 e 8). In calendario anche il Giubileo della Santa Sede (9 giugno) e quello dello sport (14-15 giugno). Dal 20 al 22 giugno si terrà il Giubileo dei governanti; il 23 e 24 giugno il Giubileo dei seminaristi; il 25 giugno ci sarà il Giubileo dei vescovi; e a seguire quello dei sacerdoti (dal 25 al 27).
Nel corso dell’Anno Santo non mancherà un appuntamento, a luglio, per i missionari digitali e influencer cattolici (il 28 e 29); mentre dal 28 luglio al 3 agosto si ritroveranno a Roma i giovani per quello che potrebbe diventare, come Tor Vergata nel 2000 il più grande evento giubilare, almeno a livello di partecipazione numerica.
Dopo la pausa agostana, gli appuntamenti riprenderanno a settembre.
Il 15 in calendario il Giubileo della consolazione, per tutti coloro che stanno vivendo un tempo di dolore e afflizione, per malattie, lutti, violenze e abusi subiti.; il 20 settembre il Giubileo degli operatori di giustizia; dal 26 al 28 l’incontro con i catechisti. Nel mese di ottobre è previsto il Giubileo del mondo missionario e dei migranti (4 e 5); a seguire l’incontro per il Giubileo della vita consacrata (8 e 9) e quello della spiritualità mariana (11 e 12). Poi, dal 31 ottobre al 2 novembre è in programma il Giubileo del mondo educativo.
A novembre, inoltre, è in calendario il Giubileo dei poveri (il 16 novembre) e il Giubileo dei cori e delle corali (22 e 23 novembre). L’ultimo appuntamento in calendario è, al momento, quello con i detenuti che saranno a San Pietro il 14 dicembre.

La Chiesa in Italia
Anche le diocesi italiane, ovviamente, vivranno i grandi eventi del Giubileo, oltre che i pellegrinaggi in loco verso le chiese e i santuari designati dai singoli vescovi. A livello nazionale, comunque, il cammino giubilare sarà affiancato da quello del Sinodo. La seconda Assemblea sinodale delle Chiese in Italia si terrà a Roma dal 31 marzo al 3 aprile. E c’è attesa per un evento che si preannuncia sia riassuntivo delle precedenti fasi, sia proiettato verso il futuro. Sarà un momento particolare di impegno di partecipazione, per la Chiesa in Italia anche il Giubileo dei giovani, di cui già si è detto. La pastorale giovanile nelle diocesi della Penisola è sempre molto attiva e ha assicurato partecipazioni numericamente consistenti a tutte le Giornate mondiali della gioventù finora celebrate. Raggiungere Roma, dunque, non sarà un problema per i giovani italiani.
Sempre in clima giubilare va poi ricordato il percorso di valorizzazione, recentemente inaugurato tramite una webapp, delle antiche strade di pellegrinaggio che conducono a Roma, per riscoprire anche il pellegrinaggio a piedi.
Infine è da sottolineare che nell’anno giubilare si svolgerà a Roma, in ottobre, anche l’Incontro internazionale per la pace del 2025, il 39° organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio nello “spirito di Assisi”, sulla linea della preghiera interreligiosa voluta da Giovanni Paolo II nel 1986 nella città del Poverello.

 




1 gennaio 2025
Manifestazione per la pace a Parma




Papa Francesco
58a GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

58a GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2025
Papa Francesco

 

In ascolto del grido dell’umanità minacciata.

All’alba di questo nuovo anno donatoci dal Padre celeste, tempo Giubilare dedicato alla speranza, rivolgo il mio più sincero augurio di pace ad ogni donna e uomo, in particolare a chi si sente prostrato dalla propria condizione esistenziale, condannato dai propri errori, schiacciato dal giudizio altrui e non riesce a scorgere più alcuna prospettiva per la propria vita. A tutti voi speranza e pace, perché questo è un Anno di Grazia, che proviene dal Cuore del Redentore!
Nel 2025 la Chiesa Cattolica celebra il Giubileo, evento che riempie i cuori di speranza. Il “giubileo” risale a un’antica tradizione giudaica, quando il suono di un corno di ariete (in ebraico yobel) ogni quarantanove anni ne annunciava uno di clemenza e liberazione per tutto il popolo (cfr Lv 25,10). Questo solenne appello doveva idealmente riecheggiare per tutto il mondo (cfr Lv 25,9), per ristabilire la giustizia di Dio in diversi ambiti della vita: nell’uso della terra, nel possesso dei beni, nella relazione con il prossimo, soprattutto nei confronti dei più poveri e di chi era caduto in disgrazia. Il suono del corno ricordava a tutto il popolo, a chi era ricco e a chi si era impoverito, che nessuna persona viene al mondo per essere oppressa: siamo fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre, nati per essere liberi secondo la volontà del Signore (cfr Lv 25,17.25.43.46.55).
Anche oggi, il Giubileo è un evento che ci spinge a ricercare la giustizia liberante di Dio su tutta la terra. Al posto del corno, all’inizio di quest’Anno di Grazia, noi vorremmo metterci in ascolto del «grido disperato di aiuto» che, come la voce del sangue di Abele il giusto, si leva da più parti della terra (cfr Gen 4,10) e che Dio non smette mai di ascoltare. A nostra volta ci sentiamo chiamati a farci voce di tante situazioni di sfruttamento della terra e di oppressione del prossimo. Tali ingiustizie assumono a volte l’aspetto di quelle che S. Giovanni Paolo II definì «strutture di peccato», poiché non sono dovute soltanto all’iniquità di alcuni, ma si sono per così dire consolidate e si reggono su una complicità estesa.
Ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune, a partire da quelle azioni che, anche solo indirettamente, alimentano i conflitti che stanno flagellando l’umanità. Si fomentano e si intrecciano, così, sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità. All’inizio di quest’anno, pertanto, vogliamo metterci in ascolto di questo grido dell’umanità per sentirci chiamati, tutti, insieme e personalmente, a rompere le catene dell’ingiustizia per proclamare la giustizia di Dio. Non potrà bastare qualche episodico atto di filantropia. Occorrono, invece, cambiamenti culturali e strutturali, perché avvenga anche un cambiamento duraturo.

Un cambiamento culturale: siamo tutti debitori
L’evento giubilare ci invita a intraprendere diversi cambiamenti, per affrontare l’attuale condizione di ingiustizia e diseguaglianza, ricordandoci che i beni della terra sono destinati non solo ad alcuni privilegiati, ma a tutti. Può essere utile ricordare quanto scriveva S. Basilio di Cesarea: «Ma quali cose, dimmi, sono tue? Da dove le hai prese per inserirle nella tua vita? […] Non sei uscito totalmente nudo dal ventre di tua madre? Non ritornerai, di nuovo, nudo nella terra? Da dove ti proviene quello che hai adesso? Se tu dicessi che ti deriva dal caso, negheresti Dio, non riconoscendo il Creatore e non saresti riconoscente al Donatore». Quando la gratitudine viene meno, l’uomo non riconosce più i doni di Dio. Nella sua misericordia infinita, però, il Signore non abbandona gli uomini che peccano contro di Lui: conferma piuttosto il dono della vita con il perdono della salvezza, offerto a tutti mediante Gesù Cristo. Perciò, insegnandoci il “Padre nostro”, Gesù ci invita a chiedere: «Rimetti a noi i nostri debiti» ( Mt 6,12).
Quando una persona ignora il proprio legame con il Padre, incomincia a covare il pensiero che le relazioni con gli altri possano essere governate da una logica di sfruttamento, dove il più forte pretende di avere il diritto di prevaricare sul più debole. Come le élites ai tempi di Gesù, che approfittavano delle sofferenze dei più poveri, così oggi nel villaggio globale interconnesso, il sistema internazionale, se non è alimentato da logiche di solidarietà e di interdipendenza, genera ingiustizie, esacerbate dalla corruzione, che intrappolano i Paesi poveri. La logica dello sfruttamento del debitore descrive sinteticamente anche l’attuale “crisi del debito”, che affligge diversi Paesi, soprattutto del Sud del mondo.
Non mi stanco di ripetere che il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei Paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati. A ciò si aggiunga che diverse popolazioni, già gravate dal debito internazionale, si trovano costrette a portare anche il peso del debito ecologico dei Paesi più sviluppati. Il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia, di questa logica di sfruttamento, che culmina nella crisi del debito. Prendendo spunto da quest’anno giubilare, invito la comunità internazionale a intraprendere azioni di condono del debito estero, riconoscendo l’esistenza di un debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo. È un appello alla solidarietà, ma soprattutto alla giustizia.
Il cambiamento culturale e strutturale per superare questa crisi avverrà quando ci riconosceremo finalmente tutti figli del Padre e, davanti a Lui, ci confesseremo tutti debitori, ma anche tutti necessari l’uno all’altro, secondo una logica di responsabilità condivisa e diversificata. Potremo scoprire «una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri».

III. Un cammino di speranza: tre azioni possibili
Se ci lasciamo toccare il cuore da questi cambiamenti necessari, l’Anno di Grazia del Giubileo potrà riaprire la via della speranza per ciascuno di noi. La speranza nasce dall’esperienza della misericordia di Dio, che è sempre illimitata.
Dio, che non deve nulla a nessuno, continua a elargire senza sosta grazia e misericordia a tutti gli uomini. Isacco di Ninive, un Padre della Chiesa orientale del VII secolo, scriveva: «Il tuo amore è più grande dei miei debiti. Poca cosa sono le onde del mare rispetto al numero dei miei peccati, ma se pesiamo i miei peccati, in confronto al tuo amore, svaniscono come un nulla». Dio non calcola il male commesso dall’uomo, ma è immensamente «ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» ( Ef 2,4). Al tempo stesso, ascolta il grido dei poveri e della terra. Basterebbe fermarsi un attimo, all’inizio di quest’anno, e pensare alla grazia con cui ogni volta perdona i nostri peccati e condona ogni nostro debito, perché il nostro cuore sia inondato dalla speranza e dalla pace.
Gesù, per questo, nella preghiera del “Padre nostro”, pone l’affermazione molto esigente «come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» dopo che abbiamo chiesto al Padre la remissione dei nostri debiti (cfr Mt 6,12). Per rimettere un debito agli altri e dare loro speranza occorre, infatti, che la propria vita sia piena di quella stessa speranza che giunge dalla misericordia di Dio. La speranza è sovrabbondante nella generosità, priva di calcoli, non fa i conti in tasca ai debitori, non si preoccupa del proprio guadagno, ma ha di mira solo uno scopo: rialzare chi è caduto, fasciare i cuori spezzati, liberare da ogni forma di schiavitù.
Vorrei, pertanto, all’inizio di quest’Anno di Grazia, suggerire tre azioni che possano ridare dignità alla vita di intere popolazioni e rimetterle in cammino sulla via della speranza, affinché si superi la crisi del debito e tutti possano ritornare a riconoscersi debitori perdonati.
Anzitutto, riprendo l’appello lanciato da S. Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo dell’anno 2000, di pensare a una «consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni». Riconoscendo il debito ecologico, i Paesi più benestanti si sentano chiamati a far di tutto per condonare i debiti di quei Paesi che non sono nella condizione di ripagare quanto devono. Certamente, perché non si tratti di un atto isolato di beneficenza, che rischia poi di innescare nuovamente un circolo vizioso di finanziamento-debito, occorre, nello stesso tempo, lo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, che porti alla creazione di una Carta finanziaria globale, fondata sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli.
Inoltre, chiedo un impegno fermo a promuovere il rispetto della dignità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale, perché ogni persona possa amare la propria vita e guardare con speranza al futuro, desiderando lo sviluppo e la felicità per sé e per i propri figli. Senza speranza nella vita, infatti, è difficile che sorga nel cuore dei più giovani il desiderio di generare altre vite. Qui, in particolare, vorrei ancora una volta invitare a un gesto concreto che possa favorire la cultura della vita. Mi riferisco all’eliminazione della pena di morte in tutte le Nazioni. Questo provvedimento, infatti, oltre a compromettere l’inviolabilità della vita, annienta ogni speranza umana di perdono e di rinnovamento.
Oso anche rilanciare un altro appello, richiamandomi a S. Paolo VI e a Benedetto XVI, per le giovani generazioni, in questo tempo segnato dalle guerre: utilizziamo almeno una percentuale fissa del denaro impiegato negli armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico. Dovremmo cercare di eliminare ogni pretesto che possa spingere i giovani a immaginare il proprio futuro senza speranza, oppure come attesa di vendicare il sangue dei propri cari. Il futuro è un dono per andare oltre gli errori del passato, per costruire nuovi cammini di pace.
La meta della pace
Coloro che intraprenderanno, attraverso i gesti suggeriti, il cammino della speranza potranno vedere sempre più vicina la tanto agognata meta della pace. Il Salmista ci conferma in questa promessa: quando «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» ( Sal 85,11). Quando mi spoglio dell’arma del credito e ridono la via della speranza a una sorella o a un fratello, contribuisco al ristabilimento della giustizia di Dio su questa terra e mi incammino con quella persona verso la meta della pace. Come diceva S. Giovanni XXIII, la vera pace potrà nascere solo da un cuore disarmato dall’ansia e dalla paura della guerra.
Che il 2025 sia un anno in cui cresca la pace! Quella pace vera e duratura, che non si ferma ai cavilli dei contratti o ai tavoli dei compromessi umani. Cerchiamo la pace vera, che viene donata da Dio a un cuore disarmato: un cuore che non si impunta a calcolare ciò che è mio e ciò che è tuo; un cuore che scioglie l’egoismo nella prontezza ad andare incontro agli altri; un cuore che non esita a riconoscersi debitore nei confronti di Dio e per questo è pronto a rimettere i debiti che opprimono il prossimo; un cuore che supera lo sconforto per il futuro con la speranza che ogni persona è una risorsa per questo mondo.
Il disarmo del cuore è un gesto che coinvolge tutti, dai primi agli ultimi, dai piccoli ai grandi, dai ricchi ai poveri. A volte, basta qualcosa di semplice come «un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito». Con questi piccoli- grandi gesti, ci avviciniamo alla meta della pace e vi arriveremo più in fretta, quanto più, lungo il cammino accanto ai fratelli e sorelle ritrovati, ci scopriremo già cambiati rispetto a come eravamo partiti. Infatti, la pace non giunge solo con la fine della guerra, ma con l’inizio di un nuovo mondo, un mondo in cui ci scopriamo diversi, più uniti e più fratelli rispetto a quanto avremmo immaginato.
Concedici, la tua pace, Signore! È questa la preghiera che elevo a Dio, mentre rivolgo gli auguri per il nuovo anno ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leader delle diverse religioni, ad ogni persona di buona volontà.
Rimetti a noi i nostri debiti, Signore, come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e in questo circolo di perdono concedici la tua pace,
quella pace che solo Tu puoi donare a chi si lascia disarmare il cuore,
a chi con speranza vuole rimettere i debiti ai propri fratelli,
a chi senza timore confessa di essere tuo debitore,
a chi non resta sordo al grido dei più poveri.




Festival ECONOMIA E SPIRITUALITA’

AL VIA A PRATO IL «FESTIVAL DI ECONOMIA E SPIRITUALITÀ»
Il capitalismo è una nuova religione popolare. Come svincolarsi?
Avvenire 23/11/24

PROGRAMMA IN: Festival economia e spiritualita

Il “Black friday” come festoso rito di consumo prenatalizio, la spesa al supermercato la domenica mattina, i pellegrinaggi verso gli outlet o quei templi votati allo shopping infinito che sono i centri commerciali… Nelle singole azioni quotidiane possiamo non rendercene conto, ma con uno sguardo più ampio è difficile non vedere nel capitalismo, come nella sua trasposizione giornaliera che è il consumismo, una nuova religione popolare. Un culto che ci accompagna nel passaggio da una dimensione all’altra della vita, si tratti della casa che abitiamo, del luogo di lavoro con le sue dinamiche aziendali, delle attività nel tempo libero. Come svincolarsi? Come attraversare il mondo contemporaneo con un passo adeguato alla natura più autentica dell’essere umano? Parlandone, innanzitutto. Riflettendo e discutendo insieme. È l’obiettivo del Festival di Economia e Spiritualità che si tiene da sabato 23 novembre a domenica 1° dicembre in alcune città toscane e il cui tema per questa nona edizione è, appunto, “Capitalismo come religione”. «L’argomento scelto è frutto dell’intuizione dell’economista Luigino Bruni – spiega padre Guidalberto Bormolini, antropologo e ideatore del Festival insieme a un altro economista, Francesco Poggi -. Le ricerche dicono che più del settanta per cento delle persone ha un bisogno inespresso di spiritualità. Questo vuoto è però occupato da capitalismo e consumismo, capaci di offrire solo cliché religiosi e surrogati dei riti autentici». Gli esempi non mancano, come ricorda padre Bormolini, dalle promesse di paradisi delle agenzie di viaggio all’illusione che il desiderio di infinito possa essere appagato da consumi infiniti, abbandonando tuttavia gli esseri umani a un’insoddisfazione permanente. Lo spiega bene Bruni: «Il capitalismo, sul crepuscolo degli dèi tradizionali, è di fatto diventato la sola vera religione popolare del XXI secolo. La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere un’esperienza globale, un culto, una cultura onnicomprensiva e avvolgente. Per superare la religione/ idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze. Non basta scrivere libri o articoli, non è sufficiente costruire teorie, perché anche la nuova cultura economica, che in tanti vogliamo più umana, più inclusiva, circolare, nascerà dalla prassi e dal pane quotidiano». È con questa ambizione, di incidere nel concreto, che l’edizione 2024 del Festival di Economia e spiritualità porterà testimonianze ed esperienze nelle città ospitanti – Prato, Capannori, Lucca, Scandicci, Vaglia, Pistoia e Pisa. Tra i molti ospiti il sociologo Mauro Magatti, gli economisti Stefano Zamagni e Leonardo Becchetti, madre Noemi Scarpa, il poeta Davide Rondoni, il teologo Massimo Faggioli, il cantautore David Riondino, vari esponenti religiosi (il programma è sul sito festivaleconomiaespiritualita. it). «Abbiamo voluto mettere insieme l’economia, che è al centro delle grandi scelte politico culturali contemporanee, alla spiritualità, per un modello in cui l’homo oeconomicus lasci spazio all’homo integralis, cioè a una visione dell’essere umano in equilibrio nelle componenti di corpo, psiche e spirito – spiega padre Bormolini -. Oggi il mercato pretende di soddisfare anche la sete di spiritualità, nel momento in cui l’invito è principalmente a “stare bene con sé stessi”, mentre il diritto alla felicità si declina insieme, nella dimensione della comunità, ovvero della relazione, della cura, dell’amore». (M.Ca.)




Dalla cella alla recidiva zero: così il lavoro salva
F.Fulvi (Avvenire 22/11/24)

Dalla cella alla recidiva zero: così il lavoro salva.

Fulvio Fulvi (Avvenire 22/11/24)

 Il caso delle 30 persone rinate dall’esperienza detentiva. Il cappellano don David Maria Riboldi: uno solo ha commesso nuovi reati. Decisivo l’incontro con imprenditori avveduti. La It’s Right: paghiamo i detenuti quanto gli altri dipendenti

Anche dal carcere si può ripartire per una nuova vita a “recidiva zero”. Con il lavoro è possibile. Lo dimostrano le 30 persone rinate dalla dura esperienza detentiva in istituti di pena lombardi, grazie a progetti di inclusione promossi, in quattro anni di attività, dalla Cooperativa La Valle di Ezechiele di Fagnano Olona, nel Varesotto. «Uno solo di questi ha commesso nuovi reati una volta uscito, ma gli altri conducono una vita da onesti cittadini », racconta il cappellano della Casa circondariale di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, tra i fondatori della società non profit che dal 23 novembre del 2020, stabilendosi in un capannone dell’ex cotonificio Candiani, è impegnata sul fronte del recupero umano e sociale dei detenuti. Un esempio tra tutti è quello di E. L., 46 anni, recluso di origini albanesi che, da lunedì scorso, è stato autorizzato a uscire dall’istituto penale di Bollate perché ammesso all’articolo 21, che consente di lavorare all’esterno: tutte le mattine parte, va in ufficio e la sera ritorna in cella. L’uomo, ricordano i volontari della cooperativa, è stato sempre un gran lavoratore, anche quando stava dentro 24 ore al giorno: ha fatto il falegname nel laboratorio del carcere, poi lo “spesino”, cioè il detenuto che raccoglie le richieste dei compagni per la spesa nello spaccio del penitenziario e, ultimamente, il manutentore della macchinetta per i caffè. Si è dato sempre da fare per gli altri. Adesso è stato assunto con regolare contratto dalla “It’s Right” di Milano che si occupa dei diritti musicali per musicisti e cantanti: a lui spetta il compito di inserire nel computer, e organizzare in un apposito sistema, i dati sugli artisti che deve trattare l’azienda. A fianco a lui, per svolgere lo stesso lavoro, c’è un suo compagno di detenzione, P. D., un coreano, con il quale, negli otto anni trascorsi insieme dietro le sbarre, è diventato molto amico. Finalmente, con uno stipendio dignitoso, il detenuto albanese può aiutare la moglie e i figli a mantenersi. «Ringrazio soprattutto don David che sin dall’inizio ha creduto in me», commenta. La fiducia, infatti, è il primo ingrediente necessario se si vuole intraprendere un serio cammino di riscatto. Ma non è mai scontata. Bisogna meritarsela. «Servono impegno, volontà da parte di tutti e tanto sostegno della Provvidenza», precisa don David. I progetti di recupero sociale della cooperativa Valle di Ezechiele sono sempre individuali, ritagliati su misura per chi è nelle condizioni, umane e giudiziarie, di poterli sostenere. Ma è necessario trovare la disponibilità di imprenditori del territorio che hanno la mente aperta e comprendono l’utilità di questa “forza lavoro”. Sono vite che possono essere salvate. C’è la “legge Smuraglia” che favorisce l’assunzione di detenuti all’interno delle carceri, con sgravi di tipo contributivo e previdenziale ma, nel caso della Valle di Ezechiele, che opera in provincia di Varese, essenziale è stato l’apporto del prefetto Pasquale Salvatoriello, che ha reso possibile la stipula di protocolli specifici con la locale Camera di Commercio e le associazioni di categoria. Le 30 persone prese in carico finora dalla coop presieduta da Anna Bonanomi (che dopo 26 anni di lavoro in banca con ruoli di responsabilità, si è licenziata per poter svolgere questo impegno sociale a tempo pieno), hanno avuto opportunità in ristoranti, pizzerie, in un birrificio e una ditta importante che produce sacchetti per alimenti, panetterie e pasticcerie. Insomma, la ruota gira nel verso giusto. Il progetto che fa capo alla It’s Right, che ha sede in piazza Fontana a Milano, è partito da sei mesi e potrà essere sviluppato per altri cinque anni, anche per altri detenuti. « La nostra è una società benefit che gestisce, in Italia e all’estero, i compensi per i diritti connessi, dovuti per la pubblica diffusione di musica registrata ad artisti e produttori – spiega il titolare, Gianluigi Chiodaroli –; ad oggi rappresentiamo più di 280.000 artisti e oltre 6.600 produttori discografici italiani e internazionali. Abbiamo costituito un’unità di lavoro nella sede della Valle di Ezechiele, per offrire loro una formazione base legata all’attività lavorativa d’ufficio per l’acquisizione di competenze nella gestione di grandi banche dati. Il nostro obiettivo – conclude Chiodaroli – è arrivare a creare una organizzazione integrata tra i nostri dipendenti e i detenuti che sono retribuiti con uno stipendio parificato a quello applicato ai nostri dipendenti ». Inoltre, per questi progetti, l’impresa di servizi non ha usufruito di alcuna agevolazione statale. «Lo facciamo perché crediamo nella funzione sociale che un’azienda come la nostra può svolgere».




Confcooperative. PER CAMBIARE MODELLO DI SVILUPPO
Avvenire 5 OTTOBRE 2024

Festival dell’Economia civile a Firenze

IL MESSAGGIO DI CONFCOOPERATIVE  PER CAMBIARE IL MODELLO DI SVILUPPO
Un nuovo umanesimo dell’economia mettendo al centro le persone e i territori
Maurizio Gardini, presidente Confcooperative.  (AVVENIRE 5 ottobre 2024)

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L’economia civile per un nuovo umanesimo dell’economia. Per mettere al centro del modello di sviluppo le persone e i territori perché alla crescita del Pil deve far seguito la crescita del BES. È questo il messaggio che Confcooperative porta alla VI edizione del Festival dell’Economia Civile di Firenze la città simbolo dell’umanesimo dove lanciamo forte il messaggio dell’economia civile. Vanno rivisti i modelli di crescita e di sviluppo. Abbiamo molti, troppi esempi che ci dicono che quando l’economia risponde innanzitutto alla remunerazione del capitale accentua le diseguaglianze. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni, erano 800.000 nel 2005. Il 12% di italiani hanno scelto, secondo il Censis, di non curarsi per mancanza di disponibilità economica pur avendone bisogno. Nella fascia 18-35 anni abbiamo 2 milioni di Neet. A questi ragazzi prima che un lavoro dobbiamo dare una speranza, un orizzonte. Anche la Commissione Europea ha rivisto i modelli economici a taglia unica. Il ruolo delle cooperative è crescente ed è sempre più riconosciuto dall’Unione Europea. Nelle recenti norme sulle comunità energetiche, sulle piattaforme digitali e gestione dei big data, così come nella programmazione dell’assistenza sociosanitaria, per finire al piano d’azione di crescita che poggi su un ecosistema imprenditoriale plurale.  L’impresa cooperativa, con 176.000 imprese e 4,7 milioni di persone occupate è uno dei motori dell’economia sociale e civile che conta in Europa una platea più estesa composta da 2,8 milioni di imprese che danno lavoro a oltre 13,6 milioni di persone e rappresentano l’8% del Prodotto interno lordo europeo. E lo siamo anche in Italia dove rappresentiamo l’8% del Pil, diamo lavoro a 1,3 milioni di persone e rappresentiamo 12 milioni di soci. Un’occupazione di qualità, un’occupazione controcorrente che premia le donne che rappresentano il 61% dei nostri occupati, in un Paese in cui 1 donna su 4 lascia il lavoro per assistere un anziano o un minore. Le cooperative nascono per questo rispondere a bisogni, dare lavoro alle persone e generare sviluppo sul territorio e sono presenti e attive nella vita di tutti i giorni più di quanto si possa pensare. Dalle cooperative arriva il 25% dell’agroalimentare made in Italy (7 bicchieri di latte ogni 10 prodotti in Italia, 6 bicchieri di vino ogni 10; servizi di welfare a 7 milioni di persone (minori, anziani e persone svantaggiate); oltre il 30% della distribuzione organizzata. Il 23% del credito bancario concesso in Italia arriva dalle BBC (Banche Credito Cooperativo) che sono le uniche banche in oltre 700 Comuni in controtendenza rispetto alla desertificazione degli istituti bancari. La cooperazione di abitazione ha dato casa a 1 milione di famiglie in 70 anni.  Ai settori tradizionali si aggiungono le nuove frontiere del mutualismo dalle cooperative di comunità, ai workers buyout (ovvero le realtà salvate dal fallimento dai soci che le rilevano) alle comunità energetiche. Sulle cooperative di comunità attendiamo ancora la legge quadro nazionale che armonizzi le normative regionali. È un fenomeno che esalta l’autoimprenditorialità, la cittadinanza attiva delle persone. Una leva fondamentale per ridare vita a 5.500 comuni italiani, il 67% della superficie del paese, dove lo stato arretra e il privato speculativo non progetta investimenti, ma dove le persone hanno bisogno di servizi, di lavoro, di restare sul territorio per contrastare il dissesto idrogeologico, per valorizzare le tradizioni eno-turistico-gastronomiche. I workers buyout che rigenerano le imprese in fallimento dove i lavoratori diventano imprenditori di se stessi. Le comunità energetiche, il nuovo modello di produzione di energia elettrica pulita che fa bene ai conti delle famiglie, delle imprese e soprattutto all’ambiente.  Uno «strumento efficace per promuovere e tutelare anche le fasce più vulnerabili della popolazione, orientando l’economia verso il benessere collettivo e concorrendo a promuovere le condizioni che rendono effettivo il godimento dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione». Per sintetizzarla come ha scritto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in uno dei passaggi del suo messaggio consegnato alla nostra assemblea.  C’è ancora tanto da fare. Noi ci siamo, per un modello di crescita che, nell’alveo dell’economia sociale italiana ed europea, veda il protagonismo dell’autoimprenditorialità cooperativa che valorizzi persone e territori in un contesto di crescita e di sviluppo ambientale, sociale ed economico sostenibile. 




Per una chiesa in uscita
Giorgio La Pira

Bisogna lasciare – pur restandovi attaccato col fondo dell’anima – l’orto chiuso dell’orazione; bisogna scendere in campo; affinare i propri strumenti di lavoro: riflessione, cultura, parola, lavoro, ecc., altrettanti aratri per arare il campo della nuova fatica, altrettante armi per combattere la nostra battaglia di trasformazione e di amore. Trasfor­mare le strutture errate della città umana; riparare la casa dell’uomo che rovina! Ecco la missione che Dio ci affida! Tu mi dirai: ma è proprio questo il nostro compito? Non potremmo puntare più a fondo sull’orazione? È proprio necessario occuparci di tutto questo vasto complesso di problemi che distraggono l’anima dall’unico necessario? La risposta è precisa: l’orazione non basta; non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei ca­nali esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo. Bisogna trasformarla, la società!

Giorgio La Pira in “ La nostra vocazione sociale”, Ave, Roma 2004, pag 43




IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA
Avvenire 3 ottobre 2024

IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA.

Lucia Letizia Finetti (Avvenire 3 ottobre 2024)

 Pubblichiamo la testimonianza di Lucia Letizia Finetti, detenuta in un carcere del Nord Italia. Ha iniziato a raccontarsi qualche anno fa, nell’ambito di un laboratorio di scrittura.

In questo periodo si parla tanto di carcere ma nessuno di quelli che ne discutono sa in realtà il carcere che cos’è: né i garanti dei detenuti, né i volontari né il personale o la penitenziaria che dentro le mura ci vivono. I garanti lavorano su dati e testimonianze ma fra le mura di certo non hanno mai passato le notti, i natali, i ferragosti, e guardato negli angoli oscuri, perché in carcere come non si è liberi di uscire non si è liberi di entrare e andare dove si vuole, sono altri che ti ci portano e mostrano ciò che si vuole mostrare; i volontari non vedono i reparti, le celle, le docce, stanno negli spazi ufficiali. Gli agenti penitenziari sono l’altro lato della barricata, per loro i detenuti sono solo lavoro o, se stressati da anni di reparto, solo “scarti umani” che li inchiodano a un lavoro che non sopportano e che spesso hanno scelto solo per avere uno stipendio fisso e scappare dalla disoccupazione del nostro Meridione.
Quando giungi in carcere dalla vita civile hai l’impressione di trovarti all’inferno e più passano i giorni e più quell’impressione diventa realtà, non parlo di delinquenti abituali morti di fame che qui trovano vitto e alloggio che non hanno fuori, e non pagheranno, perché nullatenenti, il mantenimento perché, quasi nessuno lo sa, ma per stare in carcere si paga: 120 euro al mese che ti vengono sottratti dallo stipendio, se lavori, o ti arrivano da pagare fuori. La giustizia nel nostro Paese è una balena spiaggiata e morente e il carcere ne è la dimostrazione, un sistema punitivo e inutile perché non possiamo pensare di rieducare le persone tenendole chiuse quasi 24 ore su 24 in celle fatiscenti e sovraffollate (io stessa per mesi sono stata in una cella con la muffa alle pareti e dove ci pioveva dentro). Gli psicofarmaci sono la cosa più consumata in galera, molte li usano per passare la carcerazione incoscienti e dormendo, molte sono costrette ad usarli perché il carcere non è solo privazione della libertà (che paradossalmente è la cosa che ti pesa di meno), ma è trovarsi costrette a condividere giorno e notte la cella, spesso piccolissima, con 2 – 3 – 4 – 5 altre persone con cui non hai niente in comune e a volte sono disturbate psichicamente al punto da non poterci dormire la notte, spesso dentro per aggressioni e omicidi, e non sai cosa potrebbero farti mentre dormi; o sono psichicamente non violente ma non si lavano, pisciano nel letto e hanno altre orride abitudini, per non parlare di quelle che rubano oggetti o vestiti, ti diluiscono i detersivi con l’acqua o si fregano la tua spesa. In carcere urla, litigi, crisi sono all’ordine del giorno.
Il carcere è un mondo dove la normalità sparisce; per questo è così destabilizzante per chi ha sempre condotto una vita regolare: l’urbanità non c’è, la civiltà neanche, l’ignoranza e la convinzione che l’unica cosa che conta è la forza e i soldi radono al suolo qualsiasi comunicazione; è un luogo dove tutti fumano come turchi e venderebbero la propria madre per una sigaretta, quando ormai fuori è out da decenni; dove ottieni di più se fai peggio, dove sei costretto a fare la doccia in ciabatte per non beccarti malattie in docce che condividi con 30, 40, 50 persone; dove non vedi per anni una pianta ma solo cemento; dove mangi con piatti di plastica le stesse identiche cose di un vitto monotono, non potendo più mangiare una serie di cibi e bevande che ricordi e vedi solo in TV. Il carcere è alienante, dopo un po’ che ci sei dentro cominci a perdere pezzi di te stessa, dopo aver perso il nome di battesimo all’entrata, qui ci sono solo cognomi. Per prima se ne va la memoria, che risente del clima di insicurezza, precarietà, del rumore e dello stress continuo senza pause; poi cominci a perdere ogni interesse per il mondo esterno, a ciò che accade in quel fuori che non ti appartiene più; se hai qualcuno all’esterno ti struggi nella nostalgia e nella preoccupazione dei tuoi cari, ma pian piano l’esterno si perde e ti sembra di esser nato e cresciuto qui dentro, all’inferno, e che la vita al di fuori sia stata solo un sogno, un sogno perduto che non potrai più coltivare, e tutto ciò che eri, i tuoi interessi e le tue passioni, te stesso, non sia più importante perché è finito qui dentro, in questa cloaca da cui, forse, un giorno potrai uscire, ma che non uscirà più da dentro te stesso e allora è più facile mettersi un sacchetto di plastica in testa, aprire il gas del fornelletto da campeggio della cella e dormire per sempre: ecco che cosa è passato nella testa almeno una volta di chi è stato scagliato nella gehenna. Vi è da stupirsi che ogni giorno qualcuno cerchi di evadere con la morte al proprio assassinio?




Misure alternative al carcere. Si può, si deve, è meglio
A.M.Mira (Avvenire)

Carcere, così le misure alternative prevengono devianze e nuovi reati

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Il ricorso a pene alternative sta diventando sempre più frequente nel nostro Paese. Sono in forte aumento i beneficiari di progetti portati avanti fuori dalle celle, ben 84mila, a fronte di 61mila detenuti. L’ammissione della messa alla prova riguarda in buona misura giovani, italiani, imputati per reati di lieve entità

Antonio Maria Mira (Avvenire 24 agosto 2024)

A fronte di 61mila detenuti in carcere, molti di più, quasi 84mila beneficiano di misure alternative. Un numero in fortissimo aumento. Nel 2012 erano, infatti, solo 25.500 e quindi in dodici anni c’è stato un incremento del 228 per cento. Con risultati sicuramente positivi. Ad esempio, per la misura della sospensione del procedimento con messa alla prova, il numero dei casi è passato da 34.931 del 2020 a 55.534 del 2023, registrando un incremento del 59% (+76% al Sud, +65% al Centro, +48% al Nord). Mentre le revoche della misura sono arrivate appena all’1,8% del totale. Lo scrive il ministero della Giustizia nella Relazione inviata al Parlamento “sull’attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova e di pene sostitutive delle pene detentive, nonché sullo stato generale dell’esecuzione penale esterna”.

Ma chi beneficia di queste misure alternative al carcere? Si tratta di soggetti di giovane età (il 25% degli imputati ha un’età compresa fra i 18 e i 29 anni, il 23% fra i 30 e i 39, il 22% tra 40 e 49 anni, ma c’è anche un 11% di ultrasessantenni), di sesso maschile (85%), di cittadinanza italiana (82%), imputati coinvolti in attività lavorativa non retribuita di tipo socioassistenziale e sociosanitaria (64%). Qui il ministero fa un’importante affermazione: « Dall’analisi dei dati emerge che l’imputato ammesso all’istituto, nella maggior parte dei casi, non è ancora avviato al processo deviante; pertanto, l’ammissione alla messa alla prova, e la conseguente presa in carico da parte degli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna, ndr), può effettivamente svolgere una funzione di prevenzione della devianza, prevalentemente nei confronti di persone italiane di giovane età, con un’occupazione stabile e imputate per un reato di lieve entità, frequentemente legato alla violazione del codice della strada». Insomma, non si tratta di criminali ma di persone che il carcere potrebbe far peggiorare. E le misure alternative non sono dunque solo degli “svuota carcere” ma dei provvedimenti per salvare le persone, per recuperarle, come prevede la nostra Costituzione. Particolarmente importanti, proprio in questo senso sono i lavori di pubblica utilità. Attualmente il ministero ha in corso 13 convenzioni nazionali con enti, associazioni e istituzioni che rendono disponibili 2.496 posti. Sono poi stati firmati 18 protocolli nazionali tesi a pervenire localmente alla stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei tribunali. Ad oggi le convenzioni stipulate sono ben 11.827, distribuite uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’attività riguarda la tutela del patrimonio ambientale, quella del patrimonio culturale, storico e artistico, la promozione della sicurezza stradale, i servizi di supporto in attività socio assistenziali e socio-sanitarie, la Protezione civile, i servizi inerenti a specifiche competenze o professionalità, la manutenzione degli immobili e i servizi pubblici. Con la riforma Cartabia, per la sua applicazione nel 2023 sono stati siglati 38 protocolli operativi. « Il lavoro di pubblica utilità previsto quale pena sostitutiva in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni – si legge nella Relazione – sta dando sicuramente buona prova di sé, con un totale di 2.244 condannati che, al 31 marzo 2024, risultavano in carico agli Uepe, registrando un incremento del 50% rispetto al dato riferito al 31 dicembre 2023 (1.503)». A questi vanno poi aggiunti i quasi 9.500 lavori di pubblica utilità per violazioni del Codice della strada (guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti) e quasi 900 per violazioni della legge sugli stupefacenti. Ma i buoni risultati raggiunti non bastano. Così, per il Ministero, «appare di fondamentale importanza proseguire con un rigoroso lavoro sul territorio, mediante la costruzione di accordi e la sottoscrizione di protocolli per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale esterna, oltre a fortificare l’attività di collaborazione al trattamento penitenziario, al fine di implementare il numero dei detenuti che accedono alle misure alternative». Le soluzioni dunque ci sono, bisogna insistere. È l’invito al Parlamento degli esperti del Ministero.