70a Giornata per le vittime del lavoro
830 morti da gennaio a oggi

La giornata delle vittime sul lavoro e un urgente impegno di svolta
PER TUTTI NOI E PER 830 MORTI CI RIGUARDANO E INTERPELLANO
Annamaria Furlan. Segretaria generale Cisl (Avvenire 11 ottobre 2020)

Caro direttore, tanti saranno oggi i messaggi e gli appelli in occasione della settantesima Giornata nazionale per le Vittime del Lavoro. Da gennaio ad agosto di quest’anno 830 tra uomini e donne hanno perso la vita uccisi sul lavoro. Una persona ogni otto ore. Centotrentotto in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, anche a causa delle morti ‘protocollate’ come effetto delle infezioni da Covid in ambito lavorativo, soprattutto tanti medici e infermieri. Ma dopo la fine del lockdown, la strage quotidiana è ripresa nell’indifferenza collettiva: si muore ogni giorno nelle fabbriche, nei cantieri edili non a norma, nelle campagne, nei servizi, nella logistica, negli anfratti dell’economia sommersa e in nero.
Parliamo di tante vite spezzate, giovani e anziani, persone che escono da casa per andare al lavoro e non tornano più, di tante famiglie distrutte dal dolore, che vedono stravolto il proprio futuro. La pandemia, che per certi versi avrebbe potuto rappresentare una occasione di interventi strutturali nella sicurezza sul lavoro, si è rivelata un paradossale alibi per le istituzioni e per le aziende che con l’arrivo dell’emergenza hanno ulteriormente frenato quel poco di investimenti e di programmi annunciati. Spesso la fredda logica del profitto prevale sulla tutela della vita umana. Che fine ha fatto la patente a punti da assegnare alle imprese in base al grado di impegni sul fronte della sicurezza? Che cosa ne è stato della promessa del Ministero del Lavoro e delle Regioni di rafforzare i corpi ispettivi e gli investimenti nella formazione? Purtroppo la vigilanza nei luoghi di lavoro è stato finora un ‘non tema’ nel dibattito pubblico e anche culturale del nostro Paese, nonostante i ripetuti appelli del presidente della Repubblica Mattarella. Se ne discute solo nelle formali note di cordoglio, dopo l’ennesima ‘morte bianca’. Poi si va avanti come prima, si aspetta il prossimo incidente, come se nulla fosse. Se ne parla troppo poco nelle aziende, nei territori, nelle scuole, nelle università, in tutti quei luoghi in cui invece si dovrebbe costruire una vera alleanza per imporre tra le priorità il rispetto della vita e del valore del lavoro.
È falso sostenere che non sia possibile uno sviluppo economico compatibile con la sicurezza, con la tutela dell’ambiente, con la messa in sicurezza del territorio. Anche la digitalizzazione e le nuove tecnologie possono essere usate al servizio della sicurezza, della prevenzione e di migliori condizioni nel mondo del lavoro. Ma bisogna investire di più sull’innovazione, sulla ricerca, sulla formazione delle nuove competenze che possono servire a creare anche condizioni di maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro. Ecco perché anche una parte delle risorse europee del Next Generation Eu (che in Italia chiamiamo Recovery Fund) potrebbero essere utilizzate per un grande piano straordinario sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, in modo da rafforzare i controlli, assumere e formare più personale qualificato, costruire una cultura della prevenzione, potenziare il ruolo e i risarcimenti dell’Inail. Questo serve urgentemente oggi. E il sindacato deve fare la sua parte, senza mai sottrarsi dal denunciare gli appalti al ribasso, l’eccesso di esternalizzazioni, pretendere il rispetto integrale di tutte le norme sulla sicurezza e dei protocolli che abbiamo siglato in questi mesi per combattere il Covid. Ma soprattutto c’è bisogno di un patto vero tra governo, sindacati e associazioni datoriali, per far rispettare da tutti gli accordi sulla prevenzione, discutere sui carichi eccessivi di lavoro e di straordinari, eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute. Dobbiamo farlo per tutte quelle famiglie che hanno perso un loro congiunto a causa di un incidente sul lavoro. Ma anche per tutti quei giovani che credono ancora nel valore unificante del lavoro e della dignità della persona.




GIUBILEO DEL CREATO. Settembre 2020
Messaggio di Papa Francesco

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO.
1° SETTEMBRE 2020.
«Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo» (Levitico 25,10)

CARI FRATELLI E SORELLE,
Ogni anno, particolarmente dalla pubblicazione della Lettera enciclica Laudato si’ (LS, 24 maggio 2015), il primo giorno di settembre segna per la famiglia cristiana la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, con la quale inizia il Tempo del Creato, che si conclude il 4 ottobre, nel ricordo di san Francesco di Assisi. In questo periodo, i cristiani rinnovano in tutto il mondo la fede nel Dio creatore e si uniscono in modo speciale nella preghiera e nell’azione per la salvaguardia della casa comune. Sono lieto che il tema scelto dalla famiglia ecumenica per la celebrazione del Tempo del Creato 2020 sia “Giubileo per la Terra”, proprio nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario del Giorno della Terra. Nella Sacra Scrittura, il Giubileo è un tempo sacro per ricordare, ritornare, riposare, riparare e rallegrarsi.

  1. UN TEMPO PER RICORDARE

Siamo invitati a ricordare soprattutto che il destino ultimo del creato è entrare nel “sabato eterno” di Dio. È un viaggio che ha luogo nel tempo, abbracciando il ritmo dei sette giorni della settimana, il ciclo dei sette anni e il grande Anno giubilare che giunge alla conclusione di sette anni sabbatici. Il Giubileo è anche un tempo di grazia per fare memoria della vocazione originaria della creato ad essere e prosperare come comunità d’amore. Esistiamo solo attraverso le relazioni: con Dio creatore, con i fratelli e le sorelle in quanto membri di una famiglia comune, e con tutte le creature che abitano la nostra stessa casa. «Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra» (LS, 92). Il Giubileo, pertanto, è un tempo per il ricordo, dove custodire la memoria del nostro esistere inter-relazionale. Abbiamo costantemente bisogno di ricordare che «tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (LS, 70).

  1. UN TEMPO PER RITORNARE

Il Giubileo è un tempo per tornare indietro e ravvedersi. Abbiamo spezzato i legami che ci univano al Creatore, agli altri esseri umani e al resto del creato. Abbiamo bisogno di risanare queste relazioni danneggiate, che sono essenziali per sostenere noi stessi e l’intero tessuto della vita. Il Giubileo è un tempo di ritorno a Dio, nostro amorevole creatore. Non si può vivere in armonia con il creato senza essere in pace col Creatore, fonte e origine di tutte le cose. Come ha osservato Papa Benedetto, «il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra» (Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008). Il Giubileo ci invita a pensare nuovamente agli altri, specialmente ai poveri e ai più vulnerabili. Siamo chiamati ad accogliere nuovamente il progetto originario e amorevole di Dio sul creato come un’eredità comune, un banchetto da condividere con tutti i fratelli e le sorelle in spirito di convivialità; non in una competizione scomposta, ma in una comunione gioiosa, dove ci si sostiene e ci si tutela a vicenda. Il Giubileo è un tempo per dare libertà agli oppressi e a tutti coloro che sono incatenati nei ceppi delle varie forme di schiavitù moderna, tra cui la tratta delle persone e il lavoro minorile. Abbiamo bisogno di ritornare, inoltre, ad ascoltare la terra, indicata nella Scrittura come adamah, luogo dal quale l’uomo, Adam, è stato tratto. Oggi la voce del creato ci esorta, allarmata, a ritornare al giusto posto nell’ordine naturale, a ricordare che siamo parte, non padroni, della rete interconnessa della vita. La disintegrazione della biodiversità, il vertiginoso aumento dei disastri climatici, il diseguale impatto della pandemia in atto sui più poveri e fragili sono campanelli d’allarme di fronte all’avidità sfrenata dei consumi. Particolarmente durante questo Tempo del Creato, ascoltiamo il battito della creazione. Essa, infatti, è stata data alla luce per manifestare e comunicare la gloria di Dio, per aiutarci a trovare nella sua bellezza il Signore di tutte le cose e ritornare a Lui (cfr San Bonaventura, In II Sent., I,2,2, q. 1, concl; Brevil., II,5.11). La terra dalla quale siamo stati tratti è dunque luogo di preghiera e di meditazione: «risvegliamo il senso estetico e contemplativo che Dio ha posto in noi» (Esort. ap. Querida Amazonia, 56). La capacità di meravigliarci e di contemplare è qualcosa che possiamo imparare specialmente dai fratelli e dalle sorelle indigeni, che vivono in armonia con la terra e con le sue molteplici forme di vita.

  1. UN TEMPO PER RIPOSARE

Nella sua sapienza, Dio ha riservato il giorno di sabato perché la terra e i suoi abitanti potessero riposare e rinfrancarsi. Oggi, tuttavia, i nostri stili di vita spingono il pianeta oltre i suoi limiti. La continua domanda di crescita e l’incessante ciclo della produzione e dei consumi stanno estenuando l’ambiente. Le foreste si dissolvono, il suolo è eroso, i campi spariscono, i deserti avanzano, i mari diventano acidi e le tempeste si intensificano: la creazione geme! Durante il Giubileo, il Popolo di Dio era invitato a riposare dai lavori consueti, a lasciare, grazie al calo dei consumi abituali, che la terra si rigenerasse e il mondo si risistemasse. Ci occorre oggi trovare stili equi e sostenibili di vita, che restituiscano alla Terra il riposo che le spetta, vie di sostentamento sufficienti per tutti, senza distruggere gli ecosistemi che ci mantengono. L’attuale pandemia ci ha portati in qualche modo a riscoprire stili di vita più semplici e sostenibili. La crisi, in un certo senso, ci ha dato la possibilità di sviluppare nuovi modi di vivere. È stato possibile constatare come la Terra riesca a recuperare se le permettiamo di riposare: l’aria è diventata più pulita, le acque più trasparenti, le specie animali sono ritornate in molti luoghi dai quali erano scomparse. La pandemia ci ha condotti a un bivio. Dobbiamo sfruttare questo momento decisivo per porre termine ad attività e finalità superflue e distruttive, e coltivare valori, legami e progetti generativi. Dobbiamo esaminare le nostre abitudini nell’uso dell’energia, nei consumi, nei trasporti e nell’alimentazione. Dobbiamo togliere dalle nostre economie aspetti non essenziali e nocivi, e dare vita a modalità fruttuose di commercio, produzione e trasporto dei beni.

  1. UN TEMPO PER RIPARARE

Il Giubileo è un tempo per riparare l’armonia originaria della creazione e per risanare rapporti umani compromessi. Esso invita a ristabilire relazioni sociali eque, restituendo a ciascuno la propria libertà e i propri beni, e condonando i debiti altrui. Non dovremmo perciò dimenticare la storia di sfruttamento del Sud del pianeta, che ha provocato un enorme debito ecologico, dovuto principalmente al depredamento delle risorse e all’uso eccessivo dello spazio ambientale comune per lo smaltimento dei rifiuti. È il tempo di una giustizia riparativa. A tale proposito, rinnovo il mio appello a cancellare il debito dei Paesi più fragili alla luce dei gravi impatti delle crisi sanitarie, sociali ed economiche che devono affrontare a seguito del Covid-19. Occorre pure assicurare che gli incentivi per la ripresa, in corso di elaborazione e di attuazione a livello mondiale, regionale e nazionale, siano effettivamente efficaci, con politiche, legislazioni e investimenti incentrati sul bene comune e con la garanzia che gli obiettivi sociali e ambientali globali vengano conseguiti. È altresì necessario riparare la terra. Il ripristino di un equilibrio climatico è di estrema importanza, dal momento che ci troviamo nel mezzo di un’emergenza. Stiamo per esaurire il tempo, come i nostri figli e i giovani ci ricordano. Occorre fare tutto il possibile per limitare la crescita della temperatura media globale sotto la soglia di 1,5 gradi centigradi, come sancito nell’Accordo di Parigi sul Clima: andare oltre si rivelerà catastrofico, soprattutto per le comunità più povere in tutto il mondo. In questo momento critico è necessario promuovere una solidarietà intra-generazionale e inter-generazionale. In preparazione all’importante Summit sul Clima di Glasgow, nel Regno Unito (COP 26), invito ciascun Paese ad adottare traguardi nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni. Il ripristino della biodiversità è altrettanto cruciale nel contesto di una scomparsa delle specie e di un degrado degli ecosistemi senza precedenti. È necessario sostenere l’appello delle Nazioni Unite a salvaguardare il 30% della Terra come habitat protetto entro il 2030, al fine di arginare l’allarmante tasso di perdita della biodiversità. Esorto la Comunità internazionale a collaborare per garantire che il Summit sulla Biodiversità (COP 15) di Kunming, in Cina, costituisca un punto di svolta verso il ristabilimento della Terra come casa dove la vita sia abbondante, secondo la volontà del Creatore. Siamo tenuti a riparare secondo giustizia, assicurando che quanti hanno abitato una terra per generazioni possano riacquistarne pienamente l’utilizzo. Occorre proteggere le comunità indigene da compagnie, in particolare multinazionali, che, attraverso la deleteria estrazione di combustibili fossili, minerali, legname e prodotti agroindustriali, «fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale» (LS, 51). Questa cattiva condotta aziendale rappresenta un «un nuovo tipo di colonialismo» (San Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001, cit. in Querida Amazonia, 14), che sfrutta vergognosamente comunità e Paesi più poveri alla disperata ricerca di uno sviluppo economico. È necessario consolidare le legislazioni nazionali e internazionali, affinché regolino le attività delle compagnie di estrazione e garantiscano l’accesso alla giustizia a quanti sono danneggiati.

  1. UN TEMPO PER RALLEGRARSI

Nella tradizione biblica, il Giubileo rappresenta un evento gioioso, inaugurato da un suono di tromba che risuona per tutta la terra. Sappiamo che il grido della Terra e dei poveri è divenuto, negli scorsi anni, persino più rumoroso. Al contempo, siamo testimoni di come lo Spirito Santo stia ispirando ovunque individui e comunità a unirsi per ricostruire la casa comune e difendere i più vulnerabili. Assistiamo al graduale emergere di una grande mobilitazione di persone, che dal basso e dalle periferie si stanno generosamente adoperando per la protezione della terra e dei poveri. Dà gioia vedere tanti giovani e comunità, in particolare indigene, in prima linea nel rispondere alla crisi ecologica. Stanno facendo appello per un Giubileo della Terra e per un nuovo inizio, nella consapevolezza che «le cose possono cambiare» (LS, 13). C’è pure da rallegrarsi nel constatare come l’Anno speciale di anniversario della Laudato si’ stia ispirando numerose iniziative a livello locale e globale per la cura della casa comune e dei poveri. Questo anno dovrebbe portare a piani operativi a lungo termine, per giungere a praticare un’ecologia integrale nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, negli Ordini religiosi, nelle scuole, nelle università, nell’assistenza sanitaria, nelle imprese, nelle aziende agricole e in molti altri ambiti. Ci rallegriamo anche che le comunità credenti stiano convergendo per dare vita a un mondo più giusto, pacifico e sostenibile. È motivo di particolare gioia che il Tempo del Creato stia diventando un’iniziativa davvero ecumenica. Continuiamo a crescere nella consapevolezza che tutti noi abitiamo una casa comune in quanto membri della stessa famiglia! Rallegriamoci perché, nel suo amore, il Creatore sostiene i nostri umili sforzi per la Terra. Essa è anche la casa di Dio, dove la sua Parola «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), il luogo che l’effusione dello Spirito Santo costantemente rinnova. 
“Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra” (cfr Sal 104,30).
Roma, San Giovanni in Laterano, 1° settembre 2020
FRANCESCO




IN NOME DEL DIO PROFITTO
Don Enrico Chiavacci

In nome del dio profitto.
don Enrico Chiavacci[1]
Jesus n°11.  Novembre 1999

Il Concilio, con la teologia della Gaudium et spes, ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e dal conseguente orientamento restrittivo dell’ecclesiologia e della teologia. Vi è una salvezza, un traguardo escatologico per la famiglia umana e la sua storia (Gaudium et spes, n. 45). Indirizzare e accompagnare la famiglia umana verso tale traguardo è preciso compito della Chiesa: compito non esclusivo (lo Spirito soffia dove vuole), ma ineludibile, in quanto continuazione dell’opera salvifica di Cristo. Non vi sono due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. “La storia è storia di salvezza”, è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in “famiglia di Dio” (Gaudium et spes, n. 40). E il traguardo è la pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV,28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi l’Assoluto della vita trinitaria. Come il Figlio dell’Uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «non può pienamente realizzarsi, se non attraverso un dono sincero di sé» (Gaudium et spes, n. 24).  Così il “sociale” – la complessa rete di strutture in cui si deve configurare la vita di relazione di ogni singolo – diviene campo di impegno e di primaria responsabilità morale per ogni cristiano (come per ogni uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (Gaudium et spes, n. 37) durerà quanto dura la storia, e in essa il cristiano è inevitabilmente inserito: «in questa lotta inserito» (ivi).  Così l’economia, e l’inserimento del cristiano nello studio e nell’attività economica divengono inevitabilmente riflessione teologica ed etica.
Per comprendere dunque la nostra chiamata occorre capire che cosa sia oggi “economia” su un doppio versante:

  • quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica (produzione, distribuzione, finanza) si svolge;
  • quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate o mantenute dalle dette strutture.

È chiaro che l’interesse teologico primario è per il secondo versante, ma quello che in esso avviene è determinato primariamente dal versante strutturale. Uno studio serio della situazione in cui versa la famiglia umana deve perciò partire dallo studio delle strutture fondamentali della vita economica sul pianeta Terra. Qui posso solo accennare ad alcuni elementi essenziali.
Nessuna forma di vita economica, anche primitiva, può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio sia di Stato sovrano. Ma oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana. Questa “globalizzazione” è per il cristiano qualcosa di auspicabile: ormai lo sguardo del cristiano si deve estendere alla famiglia umana considerata come un unico corpo sociale. La stessa idea tradizionale di “bene comune” deve intendersi come bene comune della famiglia umana.
Ma è dal tipo di strutture della globalizzazione che dipende il perseguimento di tale bene comune: la domanda è se le attuali strutture consentano il miglioramento della qualità della vita di ogni essere umano ovunque sulla terra (cfr. Gaudium et spes, n. 77), per l’oggi e anche per il domani della storia umana (è qui la gravità del problema ecologico).
Oggi le strutture tradizionali dell’economia –produzione e distribuzione (mercato)– sono irreversibilmente globali. Oggi si produce per componenti: sia le 4-5 parti di una videocassetta sia le 172.000 parti di un Airbus possono essere prodotte ciascuna in un luogo diverso della Terra, assemblate in un altro, commercializzate in un altro ancora. In molti casi si produce dove si ha il minor costo del lavoro (circa 30 dollari l’ora in Germania, 20 negli altri Paesi industrializzati, da 0,5 a 2 nei Paesi più poveri). In altri casi si produce dove esiste manodopera altamente specializzata. In altri casi ancora alcune componenti sono prodotte solo da pochissimi centri specializzati (una nuova molecola per le bioingegnerie o un motore per grandi aerei di linea solo General Electrics, Pritt & Whitney, Rolls Roice possono produrli).
Lo stesso avviene per il commercio e la distribuzione: si compra e si vende dove conviene. Qualsiasi operatore può comprare all’ingrosso a Hong Kong e vendere a Milano, per distribuire poi al dettaglio in Usa o in Thailandia. Nessun Governo, pur potente che sia, può realmente governare produzione e mercato, se non con pochi strumenti (dazi, incentivi o disincentivi) deboli e destinati a sparire.
Tutto ciò è oggi possibile per l’avvento di nuove tecnologie. Due in particolare:

  • la rivoluzione del silicio, e cioè elettronica e informatica, che consente trasmissione di dati, ordinativi, trasferimenti di denaro eccetera;
  • una radicale trasformazione dei sistemi di trasporto merci, con navi che possono contenere 8.000 containers e con treni merci per lunghe distanze (Usa, Australia, Sudafrica, Russia) che trasportano 10/20 mila tonnellate (in Europa il limite è di norma 2 mila). In tal modo l’incidenza del costo del trasporto per unità di prodotto è irrisoria.

Queste due realtà tecniche sono irreversibili, e sono molto recenti (non più di vent’anni), e così spiazzano tutte le teorie e le logiche economiche attualmente disponibili. Ma dopo la rivoluzione del silicio si hanno due fenomeni altrettanto nuovi.

  • Il primo fenomeno è l’inserimento massivo nella produzione del momento di ricerca e sviluppo (“R&D”: research and development). I nuovi treni veloci europei hanno richiesto 10-12 anni dalla prima ideazione alla produzione di serie; nuovi aerei militari sono già in progetto da anni e saranno pronti verso il 2010. Ciò richiede un enorme incremento del capitale necessario, e perciò una sempre maggiore concentrazione del capitale disponibile sulla faccia della Terra e della sua gestione, al di sopra delle teste di qualsiasi Governo o Stato.
  • Il secondo fenomeno: oggi non esiste più il capitalista-padrone. Tutto il denaro, comunque raccolto ovunque nel mondo, è gestito da società finanziarie, che a loro volta sono controllate da finanziarie di ordine superiore. In tal modo il mondo della finanza è completamente separato dal mondo della produzione. Una finanziaria trae profitto esclusivamente dal movimento del capitale (finanziario), e così il capitale si muove freneticamente da un capo all’altro della Terra, in tempo reale e non controllabile da nessun Governo, sempre e solo in cerca del massimo profitto finanziario. “Cosa, per chi e come” si produca non ha alcun interesse per i veri manovratori del capitale mondiale. Molte migliaia di miliardi di dollari si spostano ogni 24 ore, e sempre in cerca di massimizzazione del profitto privato, da cui è, per principio, esclusa ogni preoccupazione per il bene comune, per i reali bisogni dell’uomo.

Le condizioni di vita della famiglia umana.
In sintesi i Paesi ricchi hanno un Pnl[2] pro capite di 20/30 mila dollari.

In America latina il Pnl si colloca fra 1.000 e 4.000 dollari, e cioè a un decimo dei Paesi ricchi: ma l’America latina gode di un’iniqua distribuzione delle ricchezze che non ha eguali nel mondo.
In Brasile vi sono circa 30 milioni di ricchi e 130 milioni di poveri.
In Africa, escluso il Sudafrica, il Pnl oscilla fra 100 e 700 dollari, ma nell’Africa subsahariana difficilmente supera i 200: siamo perciò a un centesimo della ricchezza disponibile da noi.
In Asia, salvo le note eccezioni, il Pnl oscilla fra 260 dollari (Cambogia) e 500 dollari (Cina). India e Cina messe insieme – oltre un terzo dell’umanità – hanno una media di un dollaro e mezzo al giorno per abitante, ivi comprese le spese pubbliche di ogni genere.
Due importanti indicatori della qualità umana della vita sono l’attesa media di vita e la mortalità infantile: qui si rispecchia la disponibilità di cibo, di acqua potabile, di assistenza sanitaria, di educazione di base, e la presenza di violenze e drammi sociali inevitabilmente connessi alla miseria.

Per Paesi ricchi l’attesa media di vita è 75/80 anni; in America latina è di 55/65 anni (salvo Cuba che è su livelli europei); nell’Africa subsahariana raramente arriva a 50 anni; nell’immensa Asia povera è fra 55 e 70 anni. La mortalità infantile, calcolata sui morti nel primo anno di vita su mille nati vivi, nei Paesi ricchi è di circa il 6/7 per mille (media Unione europea 5,6, Usa 8). In America latina oscilla fra 20 e 65 (salvo Cuba che è a livelli europei e migliori di quelli Usa); nell’Africa subsahariana è generalmente sopra a 100; in Asia oscilla fra 35 e 100. Si tratta di un quadro spaventoso di una famiglia umana spaccata in due, in cui meno di un quinto assorbe più di quattro quinti delle risorse disponibili. Deve esser ben chiaro che ogni area di miseria ha caratteristiche diverse, e che ogni Governo ha una parte di responsabilità. Ma deve esser soprattutto ben chiaro che si tratta di una realtà strutturale, stabile, causata o mantenuta dalle strutture economiche globali che ho descritto. Ci siamo commossi vedendo i bambini nei campi di raccolta per un terremoto o per una guerra. Ma non riflettiamo che quelle condizioni miserabili derivano da fatti ben precisi, sono congiunturali e transitorie. E sono molto migliori delle condizioni di normalità in cui la maggior parte dei bambini del mondo vive e vivrà senza speranze e senza prospettive. Non esiste agenzia o progetto con sufficiente autorità per cambiare la tragedia che incombe sulla famiglia umana: chi potrebbe non ha nessun interesse a farlo, e chi vorrebbe non ha potere per farlo.  Dietro a tutto questo vi è la logica di massimizzazione del profitto finanziario privato che va perseguito a ogni costo, e naturalmente al costo della qualità della vita della grande maggioranza degli esseri umani. Non si investe per soddisfare bisogni essenziali dell’uomo: investire per i poveri della Terra non dà tanto profitto quanto investire per i non-bisogni dei ricchi. Grandi corporations medicali rifiutano di investire in ricerca per le urgenze sanitarie dei poveri (malaria, tubercolosi, Aids), dichiarando esplicitamente che la ricerca non darebbe sufficiente ritorno finanziario (The Economist 14.8.99: Helping the world’s poorest). Meglio investire in armi, droga, alte tecnologie. Non si investe per creare occupazione, ma disoccupazione: con nuove macchine si riducono i costi del lavoro. Di norma nelle grandi Borse la notizia dell’aumento dell’occupazione crea crolli di azioni. Ogni cautela ecologica incide inevitabilmente sui profitti, e non offre sufficiente rapporto costi/benefici in tempi brevi. La tragedia della famiglia umana si andrà sempre più approfondendo. Solo da pochi anni alcuni liberisti più illuminati insistono su sanità e educazione per i poveri, ma la maggior parte degli economisti e la totalità degli operatori economici non ci pensano neppure.

Gravi sono le colpe della teologia cristiana, cattolica e protestante (soprattutto riformata nordamericana).
Colpe della teologia sistematica, che si è occupata solo della salvezza delle singole anime dimenticando totalmente il cammino dell’umanità verso la pienezza del Regno.
Colpe della teologia morale che si è fermata, a partire dal Catechismo Romano dopo il Concilio di Trento, al tema del “non rubare”: il vero tema della morale economica nel Vangelo è invece quello del significato che i beni terreni hanno nell’orizzonte di fede del cristiano.
Invece si è annunciato che le ricchezze, una volta legittimamente acquistate, sono strumento di esercizio della libertà personale col solo limite di fare ogni tanto qualche elemosina. Ma per i Padri e per Tommaso D’Aquino chi non dà del suo al bisognoso commette ingiustizia: è tanto ladro chi non soccorre il povero quanto chi ruba i beni altrui. Ancora oggi vi sono scuole di pensiero cattolico che sostengono essere il liberismo capitalistico attuale la miglior forma di attuazione del Vangelo, in quanto garante del personalismo e della libertà. E anche documenti pontifici parlano di capitalismo selvaggio: è una visione vecchia, da “padrone delle ferriere”. Oggi, nella situazione sopra illustrata, il capitalismo è inesorabilmente “selvaggio”: nessuna idea di bene comunque può governarlo. La dottrina, anch’essa vecchia di oltre un secolo, della “mano invisibile” del libero mercato è solo un paravento morale che copre una iniquità sostanziale: il libero mercato di dimensioni planetarie fra aree povere e aree ricche serve solo a arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Se il povero vuole anche solo sopravvivere deve sottostare alle condizioni imposte dai ricchi: ed è appunto questa, fino ad oggi, la politica costante del Fondo monetario internazionale. Ma molti poveri, come nell’Africa subsahariana, hanno urgenti bisogni che non possono neppure “diventare domanda sul mercato”: semplicemente non hanno soldi per stare sul mercato.
Occorre dunque ripensare nelle sue radici l’annuncio morale cristiano sulla storia e sull’economia: il Concilio ha indicato con chiarezza la via, ma finora sembra che pochi se ne siano accorti o siano disposti a seguirla senza compromessi. La logica della massimizzazione del profitto, quali che siano i costi umani che essa esige, unita allo pseudo-dogma del liberismo economico, sta ormai prevalendo a tutti i livelli. Dal livello finanziario è entrata al livello aziendale, al livello di proposta di politica economica per i governi, a livello personale. Ormai “l’avere di più perché è di più”, e non come possibile strumento per soddisfare ragionevoli bisogni nostri e altrui, sta diventando la regola suprema dei comportamenti privati. Negli Usa è diventata una vera ossessione generalizzata: con l’avvento di Internet è ormai possibile per il privato operare direttamente e in tempo reale sul mercato finanziario, e molti passano le giornate a muovere denaro al computer per cercare di arricchirsi rapidamente. Non solo la ricchezza, ma l’arricchimento costante come fine a sé stesso è diventato il nuovo idolo, il nuovo ideale di vita nei Paesi ricchi.
La teologia morale cattolica dell’ultimo secolo non ha saputo, o voluto, dir niente al riguardo; quella protestante americana, legata all’idea dell’arricchimento come segno di predestinazione, ha favorito tale tendenza. Per molti americani Wasp (White, anglo saxon protestant) se uno è povero lo è per propria colpa: circa 40 milioni di cittadini statunitensi poveri non godono di alcun diritto all’assistenza sanitaria. Si mira a ridurre al minimo le tasse per la salute per poter aumentare quelle per armamenti.
In questo modo il liberismo economico sta divenendo liberismo sociale: nessuna preoccupazione per il bene comune della comunità “Stato” – per non parlare della comunità “famiglia umana” – è ormai proponibile; lo “Stato sociale” è ormai irriso da molta stampa Usa come «old style».
E molti cattolici si adeguano, col ridicolo pretesto della paura del comunismo. Ma nel Vangelo la ricchezza materiale “non è vera ricchezza, non è ricchezza” per noi seguaci del Signore (cfr. Luca 16). La ricchezza vera è Dio e l’avvento del suo Regno. Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia è cercare la crescita di una convivenza umana di fraternità, di condivisione, di pace. Se la teologia non saprà leggere l’economia come vero luogo teologico, luogo in cui dobbiamo cercare – studiando con passione, piangendo e pregando – quale sia il progetto e la chiamata di Dio per noi qui oggi, la Chiesa avrà tradito la sua missione.
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[1]  Don Enrico Chiavacci (1926-2013) è stato uno dei massimi teologi morali italiani del secondo Novecento, soprattutto nei temi dell’etica sessuale, della giustizia sociale e della pace.
[2] (Prodotto nazionale lordo: la somma di tutte le ricchezze comunque prodotte in un Paese, espressa in dollari e divisa per il numero degli abitanti, valore sommariamente indicativo della ricchezza disponibile; la sua distribuzione dipende in parte dai singoli governi, ma sempre entro il limite del Pnl)




REFERENDUM. TAGLIO DEI PARLAMENTARI
Franco Monaco

Taglio dei parlamentari, riforma controversa.
Franco Monaco
25 agosto 2020 (Settimana news)

Solo ora, a un mese dalla sua celebrazione, si accende la discussione sul referendum costituzionale con il quale i cittadini-elettori sono chiamati a confermare o respingere il taglio dei parlamentari approvato a larga maggioranza dalle Camere. Eppure si tratta di materia delicata e di grande rilievo. Una riforma con effetti sistemici sugli equilibri costituzionali non incastonata in una riforma di sistema. Non sorprende che essa divida costituzionalisti e politici, secondo una linea di frattura che non coincide con quella che si produsse nel 2016 sulla riforma Renzi-Boschi. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta e maestro del costituzionalismo classico, per descrivere il proprio orientamento, ha evocato la metafora dell’asino di Buridano, paralizzato dall’incertezza circa la mangiatoia cui nutrirsi. Lasciando intendere la sua intenzione di astenersi.

Ragioni per votare no
Chiaramente una extrema ratio, che tuttavia conferma la problematicità della questione. Vi sono buone ragioni per il no e buone ragioni per il sì. Le accenno soltanto.
Per il no:

1) appunto la circostanza che ci si chieda di avallare una riforma puntuale senza avere provveduto agli adeguamenti e ai correttivi da tutti giudicati necessari onde evitare un deficit di rappresentatività, un aggravio del malfunzionamento delle Camere, un’accentuazione del carattere già ora verticistico nella selezione dei parlamentari (una legge elettorale d’impianto proporzionale, l’equiparazione di elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, la riforma dei regolamenti parlamentari, una limatura della sovra-rappresentatività dei  consigli regionali che si produrrebbe nella elezione del Presidente della Repubblica). In particolare le forze di maggioranza si erano impegnate a incardinare una nuova legge elettorale (anche al fine di evitare che, con la legge vigente, si possa generare una “dittatura della maggioranza”: fu condizione posta dal PD per dare il proprio voto favorevole alla riforma nell’ultimo decisivo passaggio parlamentare coinciso con il varo del governo Conte-due, dopo il voto contrario nei tre precedenti passaggi). Ma non se n’è fatto nulla per l’opposizione di Italia Viva e non vi sono certezze al riguardo.

2) Il tratto antiparlamentarista e persino antipolitico con il quale è stato concepito e propagandato il cospicuo taglio di deputati e senatori soprattutto da parte del M5S. Sull’onda della polemica contro la casta e con l’argomento, francamente debole, della riduzione dei costi della politica. Fuor di ipocrisia, è noto che una parte larga della “maggioranza bulgara” che ha approvato la riforma nella sua ultima lettura (solo 14 dissensi alla Camera) lo ha fatto essenzialmente per non sfidare l’impopolarità, senza convinzione, con un cumulo di retropensieri.

3) Vi è infine chi appunta le sue obiezioni sul funzionamento e la operatività delle Camere e segnatamente del Senato con soli duecento membri, i quali, stante la persistenza del “bicameralismo perfetto” (esso sì un serio problema!), faticherebbero a ottemperare a tutti i loro compiti (tra aula, commissioni permanenti, commissioni speciali o di inchiesta, giunte, organismi parlamentari internazionali).

Ragioni per votare sì
Ma veniamo alle ragioni del sì:

1) tutti i progetti di riforma messi a punto da quarant’anni a oggi contemplavano una riduzione del numero dei parlamentari, sia per uniformarci agli standard di altri paesi, sia nella convinzione – opposta a quella su evocata – che semmai uno snellimento conferirebbe più qualità ed efficienza al parlamento.

2) Proprio il sistematico affossamento di quella riduzione a lungo perseguita suggerirebbe di non mancare questa occasione (se non ora quando più?). All’obiezione di chi eccepisce la mancanza dei correttivi sistemici si risponde che proprio il taglio suddetto costringerà a provvedervi ex post, anche se, certo, meglio sarebbe stato farlo prima o contestualmente, considerato che l’attuale parlamento non brilla nel suo concreto funzionamento.

3) Ancora vi è chi fa osservare che, pur con l’ambiguità e le riserve cui si è accennato, resta agli atti un voto plebiscitario del parlamento. Sconfessarlo sarebbe logicamente in contrasto con le motivazioni di natura parlamentarista di chi si oppone e, di riflesso, semmai, darebbe ulteriore fiato all’antipolitica e al qualunquismo.

4) Infine, taluni scommettono sulla circostanza che il minor numero possa giovare alla qualità della rappresentanza parlamentare, pur nella consapevolezza che ciò è affidato soprattutto a legge elettorale e responsabilità dei partiti nella selezione delle candidature.

Questioni politiche
Come si vede, vi sono buone ragioni su entrambi i fronti. Si deve tuttavia aggiungere che – piaccia o non piaccia, e non dovrebbe piacere – con le ragioni di merito centrate sulla materia costituzionale si intrecciano motivazioni politiche.
Non dovrebbe essere così e tuttavia è così. Esemplifico. Intanto un po’ in tutti i partiti, come si è detto e visto all’atto dell’approvazione in parlamento, domina la preoccupazione di non sfidare l’impopolarità. Nel M5S quella di portare a casa una sua riforma bandiera, a compensazione di elezioni regionali che prefigurano una generale sconfitta. Nel PD o quantomeno in chi oggi lo guida di non incrinare i rapporti dentro la maggioranza.
Per converso e non a caso, chi, dentro il PD, dissente dal consolidamento dell’asse politico con il M5S, si schiera per il no, pur dopo aver votato il taglio in parlamento. Più in piccolo, qualcosa di simile si riscontra tra i parlamentari di FI, ove il no, guarda caso, si rinviene tra coloro che mal sopportano la subalternità a Salvini e Meloni.
Dunque, la questione è complessa e non priva di implicazioni politiche più o meno dichiarate. Io, come l’asino, sperando di non morire nell’esitazione, ancora non so come mi regolerò. Seguirò il confronto e infine deciderò. L’esito altamente probabile è un sì a larga maggioranza, temo, sulla base di motivazioni non esattamente pregnanti.
E tuttavia questo almeno di sicuro non ci deve condizionare né in un senso né in un altro. Trattasi della Costituzione e comunque conta anche il risultato, la misura della partecipazione e il differenziale tra sì e no o viceversa.




In memoria del santo profeta Vescovo Casaldàliga.
di Frei Betto

Ho conosciuto un santo e un profeta. In memoria del Vescovo Pedro Casaldàliga
12 agosto 2020. http://www.settimananews.it/profili/conosciuto-un-santo-un-profeta/
di Frei Betto

Dom Pedro era solito celebrare il Giorno dei defunti nel cimitero più povero di São Félix do Araguaia (MT). In quel luogo giacciono i resti mortali di indigeni e di lavoratori attirati in Amazzonia dal sogno di una vita migliore. Molti di essi, oltre a vedere le loro aspettative frustrate, furono uccisi con armi da fuoco. Il vescovo disse alla gente e agli operatori pastorali della prelatura: «Ascoltatemi bene. Vi dico una cosa molto seria. È qui che desidero essere sepolto». «Per riposare, voglio solo questa croce di legno / come pioggia e sole; / la sepoltura e la risurrezione» (Poema Cemiterio do Sertão, di Dom Pedro).
Malato da alcuni anni del morbo di Parkinson, che chiamava “Fratello Parkinson”, Pedro, a 92 anni, ha avuto un peggioramento nel suo stato di salute la prima settimana di agosto. Le risorse a São Félix sono precarie e l’indigenza è aggravata dalla pandemia del nuovo coronavirus. La congregazione claretiana a cui Pedro apparteneva, decise di trasferirlo a Batatais (SP), dove sarebbe stato meglio accudito. Sabato, 8 agosto – festa di san Domenico, spagnolo come Pedro – spirò poco dopo le 9.00 del mattino. I suoi confratelli hanno esaudito il suo desiderio di riposare nel cimitero di Karajá.
Pedro era giunto in Brasile, come missionario, nel 1968, in piena dittatura militare. Era venuto per avviare i Cursillos di Cristianità. Ma, imbattendosi nello sfruttamento dei braccianti nelle fattorie dell’Amazzonia, fece un’opzione radicale per i poveri. Lavoratori disoccupati e senza istruzione si inoltravano nelle foreste in cerca di migliori condizioni di vita, attratti dall’espansione del latifondo nella regione amazzonica. Letteralmente ammassati nelle città, cadevano nella trappola del lavoro schiavizzato. Non avevano altra scelta che acquistare provviste e vestiario nei magazzini della fattoria a prezzi esorbitanti che li irretivano nelle maglie di debiti impagabili Se cercavano di fuggire, venivano inseguiti dai capisquadra, assassinati o ripresi, frustati, e molte volte mutilati, mozzati di un orecchio.
Pedro nominato vescovo
São Félix è un municipio amazzonico del Mato Grosso, situato di fronte all’isola del Bananal, in un’area di 36.643 kmq. Nel decennio del 1970, la dittatura militare (1964-1985) ampliò a ferro e fuoco le frontiere agrozootecniche del Brasile, devastando parte dell’Amazzonia e attirando fattorie latifondiste impegnate a disboscare per creare pascoli ai bovini.

Casaldáliga, pastore di un popolo sbandato e minacciato dal lavoro da schiavi ne prese la difesa scontrandosi con i grandi proprietari agricoli; con le imprese agrozootecniche, minerarie o del legname; con i politici che, in cambio del sostegno finanziario e di voti, coprivano il degrado dell’ambiente e legalizzavano l’espansione fondiaria senza alcun rispetto delle leggi del lavoro.
Il 13 maggio 1969, Paolo VI creò la prelatura di São Félix do Araguaia. L’amministrazione fu affidata alla congregazione dei claretiani e, dal 1970 al 1971, padre Pedro Casaldáliga fu il primo amministratore apostolico. Poco dopo fu nominato vescovo. Adottò come principi che avrebbero dovuto guidare in maniera ferrea la sua attività pastorale: «Niente possedere, niente imporre, niente chiedere, niente tacere e, soprattutto, niente uccidere». Al dito, come insegna episcopale, un anello di tucum (legno di una specie di palma dell’Amazzonia, ndtr.), che divenne simbolo della spiritualità dei seguaci della Teologia della liberazione.
Nella lettera pastorale del 1971, “Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale”, Pedro situò accanto ai più poveri la prelatura appena creata: «Noi – vescovo, sacerdoti, suore, laici impegnati – siamo qui, tra l’Araguaia e il Xingu, in questo mondo, reale e concreto, emarginato e accusatorio… O rendiamo possibile l’incarnazione salvifica di Cristo in questo ambiente, al quale siamo stati inviati, oppure neghiamo la nostra fede, ci vergogniamo del Vangelo e tradiamo i diritti e la speranza piena di angoscia di un popolo che è anch’esso popolo di Dio: gli abitanti delle zone interne, i posseiros (piccoli agricoltori), i braccianti, questo pezzo brasiliano dell’Amazzonia. Poiché siamo qui, è qui che dobbiamo impegnarci. Chiaramente. Fino alla fine».
Poeta e profeta
Cinque volte imputato nei processi di espulsione dal Brasile, Casaldáliga viveva in una semplice abitazione, senza alcun sistema di sicurezza se non quello che gli assicuravano tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Calzando dei semplici sandali infradito e indossando un vestito comune come quello dei braccianti che circolavano per la città, ampliò la sua irradiazione apostolica mediante un’intensa attività letteraria.

Poeta rinomato, portava l’anima a sintonizzarsi con le grandi conquiste popolari nella Grande Patria latino-americana. Levò la sua penna e la sua voce nelle proteste contro il Fondo Monetario Internazionale, l’ingerenza della Casa Bianca nei paesi del continente, la difesa della rivoluzione cubana, la solidarietà con la rivoluzione sandinista o per denunciare i crimini dei militari del Salvador e del Guatemala.
In un’occasione compì un lungo viaggio a cavallo per visitare la famiglia di un posseiro che era in prigione. Giunse senza preavviso. Davanti a un piatto di riso in bianco e ad un altro di banane, la figlia maggiore chiese scusa imbarazzata all’ora di pranzo: «Se avessimo saputo che veniva un vescovo, avremmo preparato un pranzo diverso». La piccola Eva reagì dicendo: «Ma il vescovo non è migliore di noi»: egli custodì nel cuore questa lezione, e la mise sempre in pratica, evitando privilegi e vantaggi.
Quando i karajá[1] andavano in città, provenendo dall’isola di Bananal, l’ancoraggio era sempre alla casa di Pedro. Là mangiavano, bevevano acqua, si riposavano dopo i giri compiuti a São Félix.
Fondatore della Commissione pastorale della Terra (CPT) e del Consiglio Indigenista Missionario (Cimi), Casaldáliga, affermava che la saggezza popolare era la sua grande maestra.
Pedro a Cuba
Nel settembre 1985 mi recai a Cuba con i fratelli e teologi Leonardo e Clodovis Boff. Abbiamo informato Fidel Castro che Dom Pedro si trovava a Managua per partecipare alla Giornata di preghiera per la pace. Il leader cubano insistette affinché lo conducessimo all’Avana. La stessa sera intervenne all’apertura di un congresso mondiale giovanile sul debito estero: «Non è solo immorale riscuotere il debito estero, è anche immorale pagarlo, perché inevitabilmente significherà indebitare progressivamente i nostri popoli».

Chomy Miyar, la segretaria di Fidel, quando si accorse che le scarpe del prelato erano in pessimo stato, gli offrì un paio nuovo di stivali. «Lascio le mie scarpe al Museo della Rivoluzione», disse scherzando Dom Pedro.
Ci recammo insieme in Nicaragua il 13 settembre 1985. Qui prese parte a numerose iniziative contro l’aggressione del governo degli Stati Uniti ad opera dei sandinisti e battezzò il quarto figlio di Daniel Ortega, Maurice Facundo.
Nel suo secondo viaggio a Cuba, nel febbraio 1999, Casaldáliga dichiarò pubblicamente, a Pinar del Río: «Il capitalismo è un peccato capitale. Il socialismo può essere una virtù cardinale: siamo fratelli e sorelle, la terra è di tutti e, come ripeteva Gesù di Nazaret, non si possono servire due padroni, e l’altro padrone è proprio il capitale. Quando il capitale è neoliberale, di lucro ad ogni costo, di mercato totale, di esclusione di immense maggioranze, allora il peccato è chiaramente mortale».
E sottolineò: «Non ci sarà pace sulla terra, non ci sarà democrazia che meriti questo nome profanato, se non ci sarà una socializzazione della terra in campagna e del suolo in città, della salute e dell’istruzione, della comunicazione e della scienza.
Conversando con Dom Pedro, in una circostanza mi disse: penso alla frase di Gesù: «Ci sarà ancora fede sulla terra quando tornerò?» Ci sarà, ma non nella sua parola. Fede nel mercato, il grande demiurgo. Basti pensare che dei tre economisti vincitori del Premio Nobel negli ultimi trent’anni del XX secolo, due provenivano dalla Scuola di Chicago… Perciò, l’Accademia svedese ha dato credito a dei modelli matematici creati per favorire la speculazione finanziaria e tesi a considerare l’umanità come la somma di individui motivati solo da interessi personali e coinvolti nella più litigiosa competizione con i loro simili.
Oggi, vanno in chiesa solo coloro che non hanno risorse per recarsi nelle cattedrali del consumo. Il nuovo luogo di culto è il centro commerciale, lo Shopping Center considerato la porta del Paradiso, perché lì non ci sono mendicanti, immondizia, bambini di strada, minacce; tutto rifulge di uno splendore paradisiaco. Siamo tutti fedeli seguaci del catechismo pubblicitario. Ci infonde la convinzione che la salvezza individuale passa attraverso il consumo. Escluso non è chi ha peccato, è chi non ha denaro. Eretico non è chi è in disaccordo con i dogmi della Chiesa, ma chi si oppone ai dogmi del capitalismo. Apostata non è chi abiura la fede cristiana, ma uno che professa un’altra fede convinto che fuori dal mercato non c’è salvezza».
Successione
Nel 2003, all’età di 75 anni, Casaldáliga presentò la sua domanda di rinuncia alla prelatura, come richiesto dal Vaticano a tutti i vescovi, eccetto a quello di Roma, il papa. Nel 2005 il Vaticano nominò il suo successore. Prima però gli fu inviato un vescovo che, in nome di Roma, gli chiedeva di allontanarsi dalla prelatura, in modo da non intralciare il nuovo prelato. Dom Pedro non gradì l’invito e, coerente con il suo sforzo di rendere più democratico e trasparente il processo della scelta dei vescovi, si rifiutò di ascoltarlo. Il nuovo vescovo, Leonardo Ulrich Steiner, mise fine all’impasse dichiarando che Dom Pedro era benvenuto a São Félix.

Minacce
Dom Pedro fu oggetto di varie minacce di morte. La più grave nel 1976, a Ribeirão Cascalheira, il 12 ottobre, festa della patrona del Brasile, Nossa Senhora Aparecida. Giungendo in quella località assieme al missionario gesuita e indigenista João Bosco Penido Burnier, seppero che nella stazione della polizia due donne venivano torturate. Andarono lì ed ebbero una animata discussione con la polizia militare. Quando padre Burnier minacciò di riferire alle autorità ciò che stava avvenendo, uno dei soldati lo schiaffeggiò, lo colpì col calcio della rivoltella e poi gli sparò alla testa. In poche ore Padre Burnier morì. Nove giorni dopo, la gente invase la stazione di polizia, liberò i prigionieri, infranse tutto, abbatté le pareti e appiccò il fuoco. Sul luogo oggi sorge una chiesa, l’unica al mondo dedicata ai martiri.

Per le sue posizioni evangeliche, Pedro era accusato di essere un «vescovo del partito dei lavoratori». Non si è mai preoccupato delle accuse di cui era oggetto. Sapeva che era il prezzo da pagare per non difendere i privilegi dei latifondisti. Nella campagna presidenziale del 2018, il giorno precedente il primo turno delle elezioni, una manifestazione pro-Bolsonaro sfilò per la città e lo strombazzare dei clacson si intensificò passando davanti alla modesta abitazione del vescovo.
Nessuno incarna e simboleggia tanto la Teologia della liberazione quanto Dom Pedro. Egli divenne un riferimento mondiale di questa teologia incentrata sui diritti dei poveri.
Militante dell’utopia
Pedro è nato in una povera famiglia di piccoli agricoltori in Catalogna. Nel 1940, all’età di 12 anni, condotto da suo padre, entrò in seminario per diventare missionario. Nel maggio 1952, a 24 anni, fu ordinato sacerdote. Nell’ultimo anno di formazione pastorale, in Galizia, mantenne contatti con lavoratori e migranti, molti operai nelle fabbriche di tessuti. Si guadagnò il soprannome di «prete dei furfanti» o «prete dei diseredati».

Dopo un passaggio per la città industriale, la tappa successiva fu Barcellona. A 32 anni, si recò in Guinea Equatoriale, allora colonia spagnola, per avviare i Cursillos di Cristianità. Lì si rese conto che il modello europeo di Chiesa non avrebbe dovuto essere esportato nelle nazioni periferiche.
Come vescovo in Brasile, Pedro non ha mai usato alcun distintivo che lo differenziasse dalle altre persone e lo identificasse come prelato.
«Mi chiameranno sovversivo. / E dirò loro: lo sono. / Per il mio popolo in lotta, io vivo. / Con il mio popolo in cammino, vado / Ho una fede da guerrigliero / E amore per la rivoluzione» (Canzone della falce e del covone).
Ora mi accorgo di aver conosciuto un santo e un profeta, Pedro Casaldáliga. Santo per la sua fedeltà radicale (in senso etimologico di andare alle radici) al Vangelo e profeta per i rischi di vita affrontati e le avversità sofferte.


[1] Antica etnia indigena




E-GREGI EVASORI FISCALI
Il vescovo Bettazzi scrive agli evasori fiscali

Egregi evasori fiscali,  (e-gregio vuol dire infatti “fuori, al di sopra del gregge”, della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo – ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer – invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.  La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto. Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.  Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi – o addirittura partecipi attivi – del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati. Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così “scontare” la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli… inferni fiscali. Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: “Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio“. E allora non ci saranno pretesti e coperture.  Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.  Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Luigi Bettazzi Vescovo emerito di Ivrea




IN BRASILE UN GENOCIDIO
Lettera di Frei Betto

“In Brasile si sta compiendo un genocidio”. Inizia così la lettera, che pubblichiamo sotto, scritta dal frate domenicano Frei Betto, noto scrittore e teologo della liberazione, che definisce un genocidio la morte di migliaia e migliaia di persone, sia per incuria, che per azione e/o omissione deliberata del governo Bolsonaro. Frei Betto è anche consulente della FAO ed è molto impegnato nei movimenti sociali. La sua vita è un’ attività di lotta intrapresa da anni a favore degli ultimi.

LETTERA AGLI AMICI E ALLE AMICHE ALL’ESTERO
In Brasile è in atto un genocidio! Nel momento in cui scrivo, 16/07, il Covid-19, apparso qui nel febbraio scorso, ha già ucciso 76 mila persone. I contagi sono quasi due milioni. Domenica prossima, 19/07 arriveremo a 80 mila vittime fatali. E probabile che ora mentre leggi questo appello drammatico, siano già 100 mila.
Quando ricordo che nei vent’anni di guerra del Vietnam, sono state sacrificate 58 mila vite di soldati americani, si fa chiara la gravità di quello che avviene nel mio paese. Questo orrore causa indignazione e turbamento. E tutti sappiamo che le misure di precauzione e restrizione adottate in tanti altri paesi, avrebbero potuto evitare una mortalità così grande.
Questo genocidio non risulta dall’indifferenza del governo Bolsonaro. È intenzionale. Bolsonaro si compiace della morte altrui. Nel 1999, in qualità di deputato federale, durante un’intervista televisiva dichiarò: “attraverso le elezioni, in questo paese, non si cambierà mai niente, niente, assolutamente niente! Potrà cambiare qualcosa soltanto, purtroppo, se un giorno cominceremo una guerra civile, per completare il lavoro che il regime militare non ha fatto: uccidere per lo meno 30 mila persone”.
Durante la votazione per impeachment della presidente Dilma Rousseff, dedicò il suo voto alle memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il colonnello Brilhante Ustra.
È talmente attratto dalla morte, che una delle sue principali politiche di governo è la liberalizzione del commercio di armi e munizioni. Quando, davanti al palazzo presidenziale, gli venne chiesto come si sentisse in relazione alle vittime della pandemia, rispose: “In questi dati io non ci credo” (27/03, 92 morti); “Tutti noi un giorno dobbiamo morire” (29/03, 136 morti); “E allora? cosa vuoi che faccia?” (28/04, 5017 morti).
Perché questa politica necrofila? Fin dall’inizio dichiarava che l’importante non era salvare vite umane, ma l’economia. Da ciò deriva il suo rifiuto di decretare il lockdown, osservare le indicazioni della OMS e importare respiratori e dispositivi di protezione individuale. É stato necessario che la Corte Suprema delegasse questa responsabilità ai governatori di ogni singolo stato e ai sindaci di ogni città.
Bolsonaro non ha rispettato neppure l’autorità dei suoi stessi ministri della salute. Dal febbraio scorso il Brasile di ministri ne ha avuti due, entrambi licenziati per rifiutarsi di adottare lo stesso atteggiamento del presidente. Ora a dirigere il ministero è il generale Pazuello, totalmente ignorante in questioni sanitarie; ha cercato di occultare i dati sulla evoluzione dei numeri delle vittime del coronavirus; si è circondato di 38 militari privi di ogni qualifica, assegnando loro importanti funzioni ministeriali; ha eliminato le conferenza stampa giornaliera attraverso la quala la popolazione avrebbe potuto ricevere importanti informazioni e consigli.
Sarebbe troppo lungo elencare in questa sede quante misure di elargizione di fondi per l’aiuto alle vittime e alle famiglie di bassa rendita (più di 100 mila brasiliani) sono state negate.
Le ragioni delle intenzioni criminali del governo Bolsonaro sono evidenti. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sui fondi della Previdenza Sociale. Lasciare morire i portatori di malattie pregresse, per risparmiare i fondi del SUS, il sistema nazionale di salute. Lasciare morire i poveri, per risparmiare i fondi del “Bolsa Família” e degli altri programmi sociali destinati a 52,5 milioni di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà, e ai 13,5 milioni che si trovano in situazione di miseria estrema (sono dati del governo federale).
E ancora insoddisfatto di queste misure mortali, nel progetto di legge del 3/07, il presidente ha vetato l’articolo che obbligava l’uso di mascherine negli stabilimenti commerciali, nei templi religiosi e nelle scuole. Ha vetato altresì l’imposizione di sanzioni e multe a chi non rispetti le regole; ha vietato l’obbligo del governo di distribuire mascherine alla popolazione più povera e vulnerabile, principale vittima del Covid-19, e ai carcerati (750 mila). Questo tipo di veto non annulla però le leggi locali che prevedono l’obbligatorietà dell’uso della mascherina.
Il giorno 8/07, Bolsonaro ha abrogato alcuni articoli di legge, già approvati al Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile, materiale di igiene e pulizia, installazione di internet e la distribuzione di ceste alimentari, sementi e utensili per la coltivazione della terra ai villaggi indigeni. Il veto presidenziale si è esteso anche ai fondi di emergenza destinati alla salute di quelle popolazioni, e parimenti alla facilitazione dell’accesso all’ausilio di emergenza di 600 reais (circa 100 euro) per tre mesi. Ha vietato inoltre l’obbligo del governo di garantire assistenza ospedaliera, l’uso dei macchinari di respirazione e di ossigenazione sanguigna ai popoli indigeni e agli abitanti delle comunità afro-brasiliane “Quilombos”.  Gli indigeni e gli abitanti dei “Quilombos” sono stati decimati dalla crescente devastazione socio-ambientale, soprattutto in Amazzonia.
Per favore, divulgate al massimo questo crimine contro l’umanità. È necessario che le denunce di quello che accade in Brasile arrivino ai mass-media dei vostri paesi, ai social, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, al Tribunale Internazionale dell’ Aia, così come alle banche e alle imprese che raggruppano gli investitori, tanto desiderati dal governo Bolsonaro.
Molto prima che The Economist lo facesse, nelle mie reti digitali chiamo il presidente con il soprannome di BolsoNero ( In portoghese “Nero” è il nome dell’imperatore Nerone, ndt ) che mentre Roma brucia suona la lira e fa pubblicità alla Clorochina, una medicina senza alcuna prova scientifica di efficacia contro il nuovo coronavirus.(1) Ma i suoi fabbricanti sono alleati politici del presidente…
Ringrazio il vostro solidale interesse nel divulgare questa lettera. Solamente la pressione proveniente dall’estero sarà capace di fermare il genocidio che martirizza il nostro “querido e maravilhoso” Brasil.
Fraternamente.
Frei Betto




CENERE E GHIACCIO
Parabola

Cenere e ghiaccio (parabola)
(Silvio Zarattini, A piedi, Edizioni Messaggero, 2004)

In quel tempo l’Uomo disse al Sole: «Ormai posso fare a meno di te».
Domandò il Sole: «E chi ti darà il nutrimento?».
Rispose l’Uomo: «Le mie invenzioni».
Domandò il Sole: «E chi ti darà il calore?».
Rispose l’Uomo: «II carbone delle mie montagne e il petrolio dei miei pozzi».
Domandò il Sole: «E chi ti darà la luce e il movimen­to?»
Rispose l’Uomo: «L’elettricità».
Disse il Sole: «Sia fatto secondo la tua volontà». E tramontò.
Ora avvenne che il mattino seguente il Sole non spuntò; e a mezzogiorno brillavano ancora le stelle nel cielo nero. L’Uomo non ne fece caso. Ma dopo ventiquattro ore di buio sentì freddo.
Allora disse: «Domani aumenterò il carbone nelle mie stufe e le lampadine nelle mie vie».
E così fece.
Il secondo giorno tutto il grano intristì e tutti gli albe­ri scoppiarono per il gelo.
Disse l’Uomo: «Centupliche­rò il rendimento dei miei laboratori».
E così fece.
Il quarto giorno tutta l’acqua gelò. L’oceano divenne come una tavola, impietrirono i fiumi, impietrirono i la­ghi. Fermate le centrali elettriche, la città piombò nel buio e il movimento cessò.
Disse l’Uomo: «Manderò i miei alternatori con il car­bone e con il petrolio».
E così fece.
Ma al quinto giorno il petrolio finì.
Allora l’Uomo bruciò tutti gli alberi delle foreste, tutte le barche del mare, tutti gli attrezzi delle campagne, tutti i mobili delle case … Ma la luce non venne, il movimento non ripre­se e il freddo aumentò.
Allora l’Uomo gettò nei bracieri tutti gli oggetti dei musei, tutti i quadri delle pinacoteche, tutti i libri e i co­dici delle biblioteche, salvandone soltanto tre. E cercò un po’ di calore alla fiamma di quel rogo dove bruciava tutta la civiltà. E non lo trovò.
Allora gettò nel fuoco anche Omero, Virgilio, Dante.
La breve fiamma diede un guizzo e si spense. Quando il fuoco fu spento l’Uomo si gettò a terra e pianse. Il fred­do gli incancrenì prima i piedi, poi le gambe, le brac­cia … e gli strinse il cuore.
Prima di chiudere gli occhi, l’Uomo li fissò nel cielo stellato e disse: «Fui stolto!».

Allora il Sole brillò di nuovo nell’alto del firmamen­to; e sulla Terra, ridotta a una crosta di cenere e di ghiac­cio, ricominciò a versare nutrimento e calore; riprese a piovere luce su un mondo da rifare.




Franco Ferrari
FRANCESCO IL PAPA DELLA RIFORMA

FRANCESCO IL PAPA DELLA RIFORMA.
Franco Ferrari
(Ed. Paoline, Milano, 2020, pagg. 250, €17,00)

Franco Ferrari scrive una biografia che ha la scioltezza narrativa di un romanzo con dentro l’anima di un testo di teologia ed ecclesiologia. L’autore ci conduce a visitare luoghi, eventi, personaggi, supporters plaudenti e critici barbogi e lo fa con rigore investigativo di chi si attiene ai fatti e non a supposizioni e commenti. E lascia al lettore di decidere se, alla fine, Francesco, “figura complessa e sorprendente” sia un parroco di campagna buono e sempliciotto, un papa eretico, comunista e idolatra (pagg. 202-228) o un credente teologo benchè “di strada” con le sue “poliedriche radici culturali” (pagg.182-201). E lascia a te la libertà di decidere se il sapore che si è sorseggiato in lettura sia dolce o amaro. Come già accadde al veggente dell’Apocalisse (10,10) «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza». Sì. Perché anche questo libro non solletica una dolciastra papolatria da atei-devoti, ma sfida a “non lasciare le cose come stanno”, ad una conversione personale ed ecclesiale.
Oltre che un libro sulla vita di Francesco, vescovo di Roma, è una storia di vita primaverile della chiesa; non solo nel frammento dei 7 anni del suo pontificato ma anche negli antefatti temporali e nello spazio universale ecumenico e umano.
L’autore, nell’introduzione, dichiara di essere cosciente che il suo sforzo narrativo entra in una già affollata pletora di biografie di Papa Francesco con il rischio di rimanere un pacato e ragionato sussurro fra tante grida. Eppure decide di mettersi in gioco per tenere in gioco Francesco e il suo disegno riformatore “attraverso un racconto documentato che consenta di cogliere la logica e l’organicità del suo magistero teso ad accompagnare la Chiesa del terzo millennio, tentando di farle superare, se mai sia possibile, quei duecento anni di ritardo denunciati da un padre della Chiesa del XX secolo, Carlo Maria Martini”.
IL PAPA DELLA RIFORMA. Affascinante il titolo, ma anche i capitoli sono appetitosi non per curiosità da curia o da bar, ma per il nutrimento di idee che ti vengono impiattate davanti. Mi verrebbe l’istinto di stravolgere il titolo in “La riforma di Papa Francesco” perché è vero che al centro c’è il Vescovo della chiesa universale, ma la narrazione punta sui suoi messaggi ed encicliche ed anche sui gesti che l’autore definisce “Enciclica dei gesti” e ci regala, in appendice, un’utile sintesi nella “Cronologia dei documenti e dei fatti di rilievo del pontificato di Papa Francesco” dal 2013 al dicembre 2019. Ma è soprattutto l’ultimo capitolo (Una Chiesa in cammino e una riforma eccedente) che ci offre una sintesi condensata non solo di tutto il libro ma soprattutto dei pilastri della Riforma di Francesco. Il condensato rinvia, certo, ad alcune ferite non ancora completamente rimarginate (abusi sessuali, finanza del Vaticano, Curia romana) ma più complessivamente alle cause infettanti e alle terapie previste.
L’autore ci offre, nella sua introduzione, uno sguardo panoramico e un assaggio delle principali coordinate della Riforma di Francesco: «un diverso modo di inter­pretare il ruolo del papato (cap. 2); la riforma della curia e la conversione dei suoi uomini (cap. 3); la sinodalità come caratteristica di una Chiesa capace di raccogliere le sfide del terzo millennio (cap. 4); il recupero dell’indicazione conci­liare di una Chiesa pensata come popolo di Dio, nella qua­le acquistano un ruolo centrale i laici (cap. 5); le implica­zioni sociali dell’annuncio del Vangelo che caratterizzano la conversione missionaria (capp. 6 e 7); la misericordia e la coscienza al centro della conversione pastorale (cap. 8); la forte ripresa del cammino ecumenico e i percorsi del dialo­go interreligioso tesi a disinnescare la violenza dei fonda­mentalismi e costruire l’arca della fratellanza umana (cap. 11); per giungere, infine, alle caratteristiche e alle radici culturali ed ecclesiali della riforma (cap. 12)».
L’autore chiude il suo saggio con un opportuno e preoccupato sguardo al futuro:
– Più delle opposizioni il nemico della riforma è la maggioranza silenziosa. “Non basta l’azione del Papa per riformare la chiesa”.
– Alcuni processi avviati potrebbero interrompersi sia a causa delle forti opposizioni o perché sono ancora nella fase iniziale e quindi non ben consolidati.
Molte questioni restano in lista di attesa: la figura del presbitero, la posizione della donna, gli organi di partecipazione, la parrocchia, l’inculturazione del Vangelo e della Chiesa, il rapporto tra dottrina e pastorale.

Eppure possiamo accogliere l’invito finale dell’autore a “Non perdere il gusto di sognare”, coscienti però che, come dice Francesco, “il Vangelo non si annuncia da seduti, ma in cammino”.

Don Augusto Fontana




Università Lateranense
CORSO DI TEOLOGIA INTERCONFESSIONALE

All’Università Lateranense un percorso di «teologia interconfessionale»

La teologia può essere interconfessionale? Nella Facoltà teologica della Pontificia Università Lateranense ne sono talmente convinti da lanciare – a partire dall’anno accademico 2020-21– un percorso biennale di licenza (equivalente alla laurea magistrale) in ‘Teologia interconfessionale’, la cui programmazione è stata messa a punto da un comitato scientifico, coordinato da monsignor Giuseppe Lorizio (che alla Lateranense è ordinario di teologia fondamentale) e formato da rappresentanti delle diverse confessioni cristiane. Un’iniziativa che nello scorso ottobre ha ricevuto la piena approvazione anche da Francesco: «Cercare ed esplorare ogni opportunità per dialogare non è solo un modo per vivere o coesistere, ma piuttosto un criterio educativo».
Il lavoro di preparazione ha richiesto un anno di incontri seminariali, nei quali i promotori hanno individuato sei moduli, entro i quali situare i diversi corsi: storico-patristico, biblico-fondamentale, dottrinale-dogmatico, etico-morale, liturgico, cultuale e missionario.
L’itinerario sarà interconfessionale e interdisciplinare nell’orizzonte della Veritatis Gaudium di papa Francesco. Inoltre il cammino scientifico verrà accompagnato da momenti di preghiera comune, per esempio in occasione della Settimana dell’unità dei cristiani, del Natale, della Pasqua e di altre occasioni, con il coinvolgimento della cappellania universitaria.
Secondo i promotori del percorso di teologia interconfessionale, «non si tratta tanto di fornire competenze, ma soprattutto di educare a una forma mentis teologica, che faccia leva sulla necessità di abituarsi ad una teologia cristiana, che fonda e costituisce l’orizzonte delle diverse Chiese». In sostanza il biennio intende preparare persone che, tornando nelle loro comunità di origine, sappiano animarle e servirle nello spirito della ‘cultura dell’incontro’, cara a papa Francesco.
Per questo ciascun corso sarà tenuto da tre docenti, uno cattolico, uno evangelico e uno ortodosso. Fulvio Ferrario, decano della Facoltà teologica valdese, è tra questi e si occuperà di escatologia. «È un’iniziativa nuova che continua la tradizione di collaborazione con la Lateranense, rafforzatasi anche in occasione del cinquecentenario della Riforma. I tradizionali dialoghi rimangono, ma parlare di teologia in prospettiva ecumenica significherà cercare insieme in un campo in cui, finora, non c’era un dialogo strutturato come questo, anche se le nostre convinzioni non sono conflittuali…Abbiamo bisogno di allargare gli orizzonti, non ponendo steccati…Ciò significa uscire da schemi precostituiti e arrivare a un rapporto ‘spregiudicato’ con la teologia cattolica, per gli evangelici. Mentre per la Chiesa cattolica significa prendere atto che esiste una riflessione teologica esterna alla sua tradizione». E di tensione verso l’unità parla anche il reverendo Francisco Alberca, vicario della Chiesa episcopale americana di Roma: «La specializzazione in teologia interconfessionale è una meravigliosa idea ecumenica, che può dare nuovo impulso al cammino verso l’unità».