Papa Francesco
Credere in Dio e odiare gli altri è ateismo pratico, quotidiano.

UDIENZA GENERALE 21/10/2020

Credere in Dio e odiare gli altri è ateismo pratico, quotidiano.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sull’argomento “La preghiera dei Salmi” (Lettura: Sal 36,2-4.6.8-9).

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi noi dovremmo cambiare un po’ il modo di portare avanti questa udienza per il motivo del coronavirus. Voi siete separati, anche con la protezione della mascherina e io sono qui un po’ distante e non posso fare quello che faccio sempre, avvicinarmi a voi, perché succede che ogni volta che io mi avvicino, voi venite tutti insieme e si perde la distanza e c’è il pericolo per voi del contagio. Mi dispiace fare questo ma è per la vostra sicurezza. Invece di venire vicino a voi e stringere le mani e salutare, ci salutiamo da lontano, ma sappiate che io sono vicino a voi con il cuore. Spero che voi capiate perché faccio questo. Poi, mentre leggevano i lettori il brano biblico, mi ha attirato l’attenzione quel bambino o bambina che piangeva. E io vedevo la mamma che coccolava e allattava il bambino e ho pensato: «così fa Dio con noi, come quella mamma». Con quanta tenerezza cercava di muovere il bambino, di allattare. Sono delle immagini bellissime. E quando in Chiesa succede questo, quando piange un bambino, si sa che lì c’è la tenerezza di una mamma, come oggi, c’è la tenerezza di una mamma che è il simbolo della tenerezza di Dio con noi. Mai far tacere un bambino che piange in Chiesa, mai, perché è la voce che attira la tenerezza di Dio. Grazie per la tua testimonianza.
Completiamo oggi la catechesi sulla preghiera dei Salmi. Anzitutto notiamo che nei Salmi compare spesso una figura negativa, quella dell’“empio”, cioè colui o colei che vive come se Dio non ci fosse. È la persona senza alcun riferimento al trascendente, senza alcun freno alla sua arroganza, che non teme giudizi su ciò che pensa e ciò che fa.
Per questa ragione il Salterio presenta la preghiera come la realtà fondamentale della vita. Il riferimento all’assoluto e al trascendente – che i maestri di ascetica chiamano il «sacro timore di Dio» – è ciò che ci rende pienamente umani, è il limite che ci salva da noi stessi, impedendo che ci avventiamo su questa vita in maniera predatoria e vorace. La preghiera è la salvezza dell’essere umano. Certo, esiste anche una preghiera fasulla, una preghiera fatta solo per essere ammirati dagli altri. Quello o quelli che vanno a Messa soltanto per far vedere che sono cattolici o per far vedere l’ultimo modello che hanno acquistato, o per fare buona figura sociale. Vanno a una preghiera fasulla. Gesù ha ammonito fortemente al riguardo (cfr Mt 6,5-6; Lc 9,14).
Ma quando il vero spirito della preghiera è accolto con sincerità e scende nel cuore, allora essa ci fa contemplare la realtà con gli occhi stessi di Dio. Quando si prega, ogni cosa acquista “spessore”. Questo è curioso nella preghiera, forse incominciamo in una cosa sottile ma nella preghiera quella cosa acquista spessore, acquista peso, come se Dio la prende in mano e la trasforma. Il peggior servizio che si possa rendere, a Dio e anche all’uomo, è di pregare stancamente, in maniera abitudinaria. Pregare come i pappagalli. No, si prega con il cuore. La preghiera è il centro della vita. Se c’è la preghiera, anche il fratello, la sorella, anche il nemico, diventa importante. Un antico detto dei primi monaci cristiani così recita: «Beato il monaco che, dopo Dio, considera tutti gli uomini come Dio» (Evagrio Pontico, Trattato sulla preghiera, n. 123). Chi adora Dio, ama i suoi figli. Chi rispetta Dio, rispetta gli esseri umani.
Per questo, la preghiera non è un calmante per attenuare le ansietà della vita; o, comunque, una preghiera di tal genere non è sicuramente cristiana. Piuttosto la preghiera responsabilizza ognuno di noi. Lo vediamo chiaramente nel “Padre nostro”, che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli.
Per imparare questo modo di pregare, il Salterio è una grande scuola. Abbiamo visto come i salmi non usino sempre parole raffinate e gentili, e spesso portino impresse le cicatrici dell’esistenza. Eppure, tutte queste preghiere sono state usate prima nel Tempio di Gerusalemme e poi nelle sinagoghe; anche quelle più intime e personali. Così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le espressioni multiformi della preghiera dei salmi nascono ad un tempo nella liturgia del Tempio e nel cuore dell’uomo» (n. 2588). E così la preghiera personale attinge e si alimenta da quella del popolo d’Israele, prima, e da quella del popolo della Chiesa, poi. Anche i salmi in prima persona singolare, che confidano i pensieri e i problemi più intimi di un individuo, sono patrimonio collettivo, fino ad essere pregati da tutti e per tutti. La preghiera dei cristiani ha questo “respiro”, questa “tensione” spirituale che tiene insieme il tempio e il mondo. La preghiera può iniziare nella penombra di una navata, ma poi termina la sua corsa per le strade della città. E viceversa, può germogliare durante le occupazioni quotidiane e trovare compimento nella liturgia. Le porte delle chiese non sono barriere, ma “membrane” permeabili, disponibili a raccogliere il grido di tutti.
Nella preghiera del Salterio il mondo è sempre presente. I salmi, ad esempio, danno voce alla promessa divina di salvezza dei più deboli: «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò – dice il Signore –; metterò in salvo chi è disprezzato» (12,6). Oppure ammoniscono sul pericolo delle ricchezze mondane, perché «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (48,21). O, ancora, aprono l’orizzonte allo sguardo di Dio sulla storia: «Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni» (33,10-11). Insomma, dove c’è Dio, ci dev’essere anche l’uomo. La Sacra Scrittura è categorica: Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Lui sempre va prima di noi. Lui ci aspetta sempre perché ci ama per primo, ci guarda per primo, ci capisce per primo. Lui ci aspetta sempre. Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Se tu preghi tanti rosari al giorno ma poi chiacchieri sugli altri, e poi hai rancore dentro, hai odio contro gli altri, questo è artificio puro, non è verità. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello ( 1 Gv 4,19-21). La Scrittura ammette il caso di una persona che, pur cercando Dio sinceramente, non riesce mai a incontrarlo; ma afferma anche che non si possono mai negare le lacrime dei poveri, pena il non incontrare Dio. Dio non sopporta l’«ateismo» di chi nega l’immagine divina che è impressa in ogni essere umano. Quell’ateismo di tutti i giorni: io credo in Dio ma con gli altri tengo la distanza e mi permetto di odiare gli altri. Questo è ateismo pratico. Non riconoscere la persona umana come immagine di Dio è un sacrilegio, è un abominio, è la peggior offesa che si può recare al tempio e all’altare. Cari fratelli e sorelle, la preghiera dei salmi ci aiuti a non cadere nella tentazione dell’«empietà», cioè di vivere, e forse anche di pregare, come se Dio non esistesse, e come se i poveri non esistessero.




GLI STRANIERI UTILI
Don Augusto Fontana

Gli stranieri utili.

Gli stranieri saranno pure un problema ma ci fanno anche guadagnare. Non solo sono indispensabili perché svolgono lavori umili e socialmente fondamentali, ma generano anche un beneficio netto di circa 500 milioni che costituiscono la differenza fra ciò che pagano in tasse e quanto incide sulla spesa pubblica la loro presenza. Lo dimostra la Fondazione Moressa, che ha presentato il Rapporto su ‘Dieci anni di economia dell’immigrazione’.
I quasi 2 milioni di lavoratori stranieri generano più benefici che costi: infatti tra Irpef, contributi previdenziali e altri tributi vari versano nelle casse pubbliche circa 26,6 miliardi, mentre lo Stato ne spende per loro 26,1: un surplus appunto di 500 milioni. E altri 360 milioni annui potrebbero derivare dalle regolarizzazioni di lavoratori avviate nel 2020.
Non regge la tesi dell’invasione: 10 anni fa infatti abbiamo regolarizzato quasi 600.000 cittadini extra Ue, oggi solo un terzo di quel numero. E la loro presenza resta assolutamente gestibile essendo passata nello stesso lasso di tempo dal 6,2% all’8,7% della popolazione. Un 8,7% che del resto genera il 9,5% del nostro Prodotto interno lordo (146,7 miliardi in cifra assoluta), grazie a due milioni e mezzo di occupati: il 44,5% dei quali lavora nei servizi. Ma tra gli stranieri si fanno avanti anche gli imprenditori che sono 722 mila (cinesi, rumeni, marocchini).
Qualche preoccupazione viene semmai dal fatto che gli stranieri sono in prevalenza giovani e svolgono lavori poco qualificati (solo il 12% è laureato) o in nero, il che nel lungo periodo potrebbe portare a un saldo negativo tra gettito fiscale prodotto e spesa per assistenza sanitaria o pensioni.

Allora ben vengano gli stimoli offerti dalla recente Enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” al n. 39 e 129: «in alcuni Paesi di arrivo, i fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici. Si diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se stessi»[1].I migranti vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono essere “protagonisti del proprio riscatto”[2]. Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno….Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse[1].  Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare>>.
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[1] Cfr Vescovi Cattolici del Messico e degli Stati Uniti, Lettera pastorale Strangers no longer: together on the journey of hope (Gennaio 2003).
[1] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 92
[2] Cfr Messaggio per la 106ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2020 (13 maggio 2020): L’Osservatore Romano, 16 maggio 2020, p. 8.




Negazionisti
Padre Alberto Maggi

Negazionisti nella Bibbia
P.Alberto Maggi (https://www.illibraio.it/)

Nun me piace!” è il conosciuto tormentone della commedia di Eduardo de Filippo “Natale in casa Cupiello”. L’anziano protagonista, amante delle tradizioni, in occasione del Natale, ha allestito “il più bel presepio di tutti gli altri anni”, e cerca il consenso del figlio Tommasino (Nennillo), un tontolone (“ha avuto la malattia… è nervoso!”), viziato dalla madre. Niente da fare: “Nun me piace!”, è la sua risposta. Inutilmente il padre tenta di fargli notare la bellezza degli angioletti, dei tre re magi, della stella cometa…“Nun me piace!”, è la sua risposta. Questo ragazzo tardo e pigro è la parodia del negazionista, colui che rifiuta di vedere il bello, il buono, e sa rispondere solo ripetendo la stessa solfa e lo stesso slogan: “Nun me piace!”. Non c’è motivo, semplicemente non gli piace. Il personaggio di Tommasino è la caricatura di quelle nullità, che per far notare la loro presenza hanno bisogno di gridare la loro tanto ostinata quanto ottusa contrarietà.
Ma il negazionismo ha radici antiche e già nelle prime pagine della Bibbia si trova il primo negazionista. Nel Libro della Genesi si legge che il Creatore aveva avvertito l’uomo e la donna, da lui creati, di non mangiare “dell’albero della conoscenza del bene e del male”, perché altrimenti sarebbero morti (Gen 2,17). Ed ecco spuntare il primo negazionista della storia, il serpente, che disse alla donna: “Non morirete affatto!” (Gen 3,5), e si sa come poi è andata a finire. E negazionisti spuntano anche al tempo di Noè, “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” (Gen 6,9). Avvertito da Dio dell’imminente disastro, pensa a mettersi in salvo costruendo un’arca di legno, ma gli altri no, “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito… e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti” (Mt 24,38).
C’è poi un altro tipo di negazionismo dalle conseguenze drammatiche, perché si fonde con il fanatismo religioso. È il negazionismo che, forte delle sue sacre convinzioni, rifiuta la realtà perché è inammissibile, scomoda o spiacevole, o semplicemente non può essere. Un esempio di questo negazionismo si trova negli scritti di Geremia, dove il profeta avverte il popolo dell’imminente pericolo, rappresentato dall’invasione dei Babilonesi guidati da Nabucodonosor, invitandolo ad abbandonare false certezze: “Non confidate in parole menzognere ripetendo: Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore” (Ger 7,4). Ma il grido d’allarme del profeta non fu ascoltato nonostante l’evidenza dell’approssimarsi della tremenda invasione. Gerusalemme era la città del Dio d’Israele e per questo non poteva essere conquistata. La tradizione religiosa, infatti, credeva che Gerusalemme fosse imprendibile in quanto Dio stesso avrebbe impedito la caduta del luogo che conteneva la sua presenza. Del resto anche il salmista esaltava l’imprendibilità di Gerusalemme, perché “Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba… Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 6.8), per poi dover amaramente constatare che “hanno ridotto Gerusalemme in macerie” (Sal 79,1), come già Geremia aveva vanamente profetizzato: “Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine” (Ger 26,18).  Ugualmente, secoli dopo, durante l’assedio di Gerusalemme da parte dei Romani, a causare la morte di molti durante l’attacco alla città santa, quando era evidente a tutti che era assurdo resistere alla soperchia forza distruttrice degli invasori, fu proprio “un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza” (Guerra, VI, 5,2 §285). E vi incontrarono la morte.
Nei vangeli i negazionisti sono i capi religiosi, i quali pur riconoscendo nelle opere di liberazione di Gesù “il dito di Dio” (Lc 11,29), non possono ammetterlo, per non perdere il loro potere e dominio sul popolo. Nel vangelo di Giovanni, nell’episodio della guarigione del cieco nato (Gv 9), i capi non possono ammettere che mediante la trasgressione del comandamento del sabato, ritenuto il più importante di tutti perché era quello che pure Dio osservava, Gesù possa aver restituito la vista al cieco nato  (“I Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista”, Gv 9,18). Le autorità religiose, non potendo ammettere alcuna contraddizione nella loro dottrina negano, con l’evidenza,  la verità del fatto.
Le radici del negazionismo vanno ricercate nella paura. Il negazionista è, infatti, un individuo che è vittima della sua stessa paura che non vuole riconoscere. Non sapendo come gestire la sua ansia, semplicemente la nega e, non sapendo affrontare un mondo che è in costante cambiamento, lo rifiuta. Tutto quel che è complesso, quel che richiede riflessione, un ragionamento articolato e fondato, esula dalle sue capacità e liquida il tutto con un secco NO. Forse l’immagine con cui si potrebbe raffigurare il negazionista è quella dello struzzo con la testa infilata per terra. Il pericolo c’è, ma lui si ostina a non vederlo, a ignorarlo, illudendosi così di eliminarlo dal suo orizzonte. Per farsi notare il negazionista deve andare contro l’evidenza, e contro la verità, e per questo suo delirio deve appoggiarsi su una visione della società vittima di ogni tipo di complotto, dal finanziario al religioso, con il continuo sospetto che si traduce in rifiuto di tutto quel che con le sue limitate capacità intellettuali non riesce a comprendere. Forse fregiare del termine negazionista certe persone è anche troppo, in altri tempi, prima del “politicamente corretto” e dei social, si sarebbero detto semplicemente che erano dei minchioni. Ma, di fatto, dal linguaggio comune è praticamente scomparso il verbo sminchionire, far cessare qualcuno di essere un minchione, ovvero di essere ridicolmente ingenuo e credulone. Probabilmente è sembrata un’impresa disperata far ragionare il crescente numero di negazionisti, terrapiattisti, cospirazionisti, seguaci di scie chimiche, no vax, no covid, no tutto. Ma non bisogna scoraggiarsi, del resto nella più sana tradizione cattolica vengono insegnate le sette opere di misericordia spirituali dove sono elencate anche  “insegnare agli ignoranti” e… “sopportare pazientemente le persone moleste”.




70a Giornata per le vittime del lavoro
830 morti da gennaio a oggi

La giornata delle vittime sul lavoro e un urgente impegno di svolta
PER TUTTI NOI E PER 830 MORTI CI RIGUARDANO E INTERPELLANO
Annamaria Furlan. Segretaria generale Cisl (Avvenire 11 ottobre 2020)

Caro direttore, tanti saranno oggi i messaggi e gli appelli in occasione della settantesima Giornata nazionale per le Vittime del Lavoro. Da gennaio ad agosto di quest’anno 830 tra uomini e donne hanno perso la vita uccisi sul lavoro. Una persona ogni otto ore. Centotrentotto in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, anche a causa delle morti ‘protocollate’ come effetto delle infezioni da Covid in ambito lavorativo, soprattutto tanti medici e infermieri. Ma dopo la fine del lockdown, la strage quotidiana è ripresa nell’indifferenza collettiva: si muore ogni giorno nelle fabbriche, nei cantieri edili non a norma, nelle campagne, nei servizi, nella logistica, negli anfratti dell’economia sommersa e in nero.
Parliamo di tante vite spezzate, giovani e anziani, persone che escono da casa per andare al lavoro e non tornano più, di tante famiglie distrutte dal dolore, che vedono stravolto il proprio futuro. La pandemia, che per certi versi avrebbe potuto rappresentare una occasione di interventi strutturali nella sicurezza sul lavoro, si è rivelata un paradossale alibi per le istituzioni e per le aziende che con l’arrivo dell’emergenza hanno ulteriormente frenato quel poco di investimenti e di programmi annunciati. Spesso la fredda logica del profitto prevale sulla tutela della vita umana. Che fine ha fatto la patente a punti da assegnare alle imprese in base al grado di impegni sul fronte della sicurezza? Che cosa ne è stato della promessa del Ministero del Lavoro e delle Regioni di rafforzare i corpi ispettivi e gli investimenti nella formazione? Purtroppo la vigilanza nei luoghi di lavoro è stato finora un ‘non tema’ nel dibattito pubblico e anche culturale del nostro Paese, nonostante i ripetuti appelli del presidente della Repubblica Mattarella. Se ne discute solo nelle formali note di cordoglio, dopo l’ennesima ‘morte bianca’. Poi si va avanti come prima, si aspetta il prossimo incidente, come se nulla fosse. Se ne parla troppo poco nelle aziende, nei territori, nelle scuole, nelle università, in tutti quei luoghi in cui invece si dovrebbe costruire una vera alleanza per imporre tra le priorità il rispetto della vita e del valore del lavoro.
È falso sostenere che non sia possibile uno sviluppo economico compatibile con la sicurezza, con la tutela dell’ambiente, con la messa in sicurezza del territorio. Anche la digitalizzazione e le nuove tecnologie possono essere usate al servizio della sicurezza, della prevenzione e di migliori condizioni nel mondo del lavoro. Ma bisogna investire di più sull’innovazione, sulla ricerca, sulla formazione delle nuove competenze che possono servire a creare anche condizioni di maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro. Ecco perché anche una parte delle risorse europee del Next Generation Eu (che in Italia chiamiamo Recovery Fund) potrebbero essere utilizzate per un grande piano straordinario sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, in modo da rafforzare i controlli, assumere e formare più personale qualificato, costruire una cultura della prevenzione, potenziare il ruolo e i risarcimenti dell’Inail. Questo serve urgentemente oggi. E il sindacato deve fare la sua parte, senza mai sottrarsi dal denunciare gli appalti al ribasso, l’eccesso di esternalizzazioni, pretendere il rispetto integrale di tutte le norme sulla sicurezza e dei protocolli che abbiamo siglato in questi mesi per combattere il Covid. Ma soprattutto c’è bisogno di un patto vero tra governo, sindacati e associazioni datoriali, per far rispettare da tutti gli accordi sulla prevenzione, discutere sui carichi eccessivi di lavoro e di straordinari, eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute. Dobbiamo farlo per tutte quelle famiglie che hanno perso un loro congiunto a causa di un incidente sul lavoro. Ma anche per tutti quei giovani che credono ancora nel valore unificante del lavoro e della dignità della persona.




GIUBILEO DEL CREATO. Settembre 2020
Messaggio di Papa Francesco

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO.
1° SETTEMBRE 2020.
«Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo» (Levitico 25,10)

CARI FRATELLI E SORELLE,
Ogni anno, particolarmente dalla pubblicazione della Lettera enciclica Laudato si’ (LS, 24 maggio 2015), il primo giorno di settembre segna per la famiglia cristiana la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, con la quale inizia il Tempo del Creato, che si conclude il 4 ottobre, nel ricordo di san Francesco di Assisi. In questo periodo, i cristiani rinnovano in tutto il mondo la fede nel Dio creatore e si uniscono in modo speciale nella preghiera e nell’azione per la salvaguardia della casa comune. Sono lieto che il tema scelto dalla famiglia ecumenica per la celebrazione del Tempo del Creato 2020 sia “Giubileo per la Terra”, proprio nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario del Giorno della Terra. Nella Sacra Scrittura, il Giubileo è un tempo sacro per ricordare, ritornare, riposare, riparare e rallegrarsi.

  1. UN TEMPO PER RICORDARE

Siamo invitati a ricordare soprattutto che il destino ultimo del creato è entrare nel “sabato eterno” di Dio. È un viaggio che ha luogo nel tempo, abbracciando il ritmo dei sette giorni della settimana, il ciclo dei sette anni e il grande Anno giubilare che giunge alla conclusione di sette anni sabbatici. Il Giubileo è anche un tempo di grazia per fare memoria della vocazione originaria della creato ad essere e prosperare come comunità d’amore. Esistiamo solo attraverso le relazioni: con Dio creatore, con i fratelli e le sorelle in quanto membri di una famiglia comune, e con tutte le creature che abitano la nostra stessa casa. «Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra» (LS, 92). Il Giubileo, pertanto, è un tempo per il ricordo, dove custodire la memoria del nostro esistere inter-relazionale. Abbiamo costantemente bisogno di ricordare che «tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (LS, 70).

  1. UN TEMPO PER RITORNARE

Il Giubileo è un tempo per tornare indietro e ravvedersi. Abbiamo spezzato i legami che ci univano al Creatore, agli altri esseri umani e al resto del creato. Abbiamo bisogno di risanare queste relazioni danneggiate, che sono essenziali per sostenere noi stessi e l’intero tessuto della vita. Il Giubileo è un tempo di ritorno a Dio, nostro amorevole creatore. Non si può vivere in armonia con il creato senza essere in pace col Creatore, fonte e origine di tutte le cose. Come ha osservato Papa Benedetto, «il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra» (Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008). Il Giubileo ci invita a pensare nuovamente agli altri, specialmente ai poveri e ai più vulnerabili. Siamo chiamati ad accogliere nuovamente il progetto originario e amorevole di Dio sul creato come un’eredità comune, un banchetto da condividere con tutti i fratelli e le sorelle in spirito di convivialità; non in una competizione scomposta, ma in una comunione gioiosa, dove ci si sostiene e ci si tutela a vicenda. Il Giubileo è un tempo per dare libertà agli oppressi e a tutti coloro che sono incatenati nei ceppi delle varie forme di schiavitù moderna, tra cui la tratta delle persone e il lavoro minorile. Abbiamo bisogno di ritornare, inoltre, ad ascoltare la terra, indicata nella Scrittura come adamah, luogo dal quale l’uomo, Adam, è stato tratto. Oggi la voce del creato ci esorta, allarmata, a ritornare al giusto posto nell’ordine naturale, a ricordare che siamo parte, non padroni, della rete interconnessa della vita. La disintegrazione della biodiversità, il vertiginoso aumento dei disastri climatici, il diseguale impatto della pandemia in atto sui più poveri e fragili sono campanelli d’allarme di fronte all’avidità sfrenata dei consumi. Particolarmente durante questo Tempo del Creato, ascoltiamo il battito della creazione. Essa, infatti, è stata data alla luce per manifestare e comunicare la gloria di Dio, per aiutarci a trovare nella sua bellezza il Signore di tutte le cose e ritornare a Lui (cfr San Bonaventura, In II Sent., I,2,2, q. 1, concl; Brevil., II,5.11). La terra dalla quale siamo stati tratti è dunque luogo di preghiera e di meditazione: «risvegliamo il senso estetico e contemplativo che Dio ha posto in noi» (Esort. ap. Querida Amazonia, 56). La capacità di meravigliarci e di contemplare è qualcosa che possiamo imparare specialmente dai fratelli e dalle sorelle indigeni, che vivono in armonia con la terra e con le sue molteplici forme di vita.

  1. UN TEMPO PER RIPOSARE

Nella sua sapienza, Dio ha riservato il giorno di sabato perché la terra e i suoi abitanti potessero riposare e rinfrancarsi. Oggi, tuttavia, i nostri stili di vita spingono il pianeta oltre i suoi limiti. La continua domanda di crescita e l’incessante ciclo della produzione e dei consumi stanno estenuando l’ambiente. Le foreste si dissolvono, il suolo è eroso, i campi spariscono, i deserti avanzano, i mari diventano acidi e le tempeste si intensificano: la creazione geme! Durante il Giubileo, il Popolo di Dio era invitato a riposare dai lavori consueti, a lasciare, grazie al calo dei consumi abituali, che la terra si rigenerasse e il mondo si risistemasse. Ci occorre oggi trovare stili equi e sostenibili di vita, che restituiscano alla Terra il riposo che le spetta, vie di sostentamento sufficienti per tutti, senza distruggere gli ecosistemi che ci mantengono. L’attuale pandemia ci ha portati in qualche modo a riscoprire stili di vita più semplici e sostenibili. La crisi, in un certo senso, ci ha dato la possibilità di sviluppare nuovi modi di vivere. È stato possibile constatare come la Terra riesca a recuperare se le permettiamo di riposare: l’aria è diventata più pulita, le acque più trasparenti, le specie animali sono ritornate in molti luoghi dai quali erano scomparse. La pandemia ci ha condotti a un bivio. Dobbiamo sfruttare questo momento decisivo per porre termine ad attività e finalità superflue e distruttive, e coltivare valori, legami e progetti generativi. Dobbiamo esaminare le nostre abitudini nell’uso dell’energia, nei consumi, nei trasporti e nell’alimentazione. Dobbiamo togliere dalle nostre economie aspetti non essenziali e nocivi, e dare vita a modalità fruttuose di commercio, produzione e trasporto dei beni.

  1. UN TEMPO PER RIPARARE

Il Giubileo è un tempo per riparare l’armonia originaria della creazione e per risanare rapporti umani compromessi. Esso invita a ristabilire relazioni sociali eque, restituendo a ciascuno la propria libertà e i propri beni, e condonando i debiti altrui. Non dovremmo perciò dimenticare la storia di sfruttamento del Sud del pianeta, che ha provocato un enorme debito ecologico, dovuto principalmente al depredamento delle risorse e all’uso eccessivo dello spazio ambientale comune per lo smaltimento dei rifiuti. È il tempo di una giustizia riparativa. A tale proposito, rinnovo il mio appello a cancellare il debito dei Paesi più fragili alla luce dei gravi impatti delle crisi sanitarie, sociali ed economiche che devono affrontare a seguito del Covid-19. Occorre pure assicurare che gli incentivi per la ripresa, in corso di elaborazione e di attuazione a livello mondiale, regionale e nazionale, siano effettivamente efficaci, con politiche, legislazioni e investimenti incentrati sul bene comune e con la garanzia che gli obiettivi sociali e ambientali globali vengano conseguiti. È altresì necessario riparare la terra. Il ripristino di un equilibrio climatico è di estrema importanza, dal momento che ci troviamo nel mezzo di un’emergenza. Stiamo per esaurire il tempo, come i nostri figli e i giovani ci ricordano. Occorre fare tutto il possibile per limitare la crescita della temperatura media globale sotto la soglia di 1,5 gradi centigradi, come sancito nell’Accordo di Parigi sul Clima: andare oltre si rivelerà catastrofico, soprattutto per le comunità più povere in tutto il mondo. In questo momento critico è necessario promuovere una solidarietà intra-generazionale e inter-generazionale. In preparazione all’importante Summit sul Clima di Glasgow, nel Regno Unito (COP 26), invito ciascun Paese ad adottare traguardi nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni. Il ripristino della biodiversità è altrettanto cruciale nel contesto di una scomparsa delle specie e di un degrado degli ecosistemi senza precedenti. È necessario sostenere l’appello delle Nazioni Unite a salvaguardare il 30% della Terra come habitat protetto entro il 2030, al fine di arginare l’allarmante tasso di perdita della biodiversità. Esorto la Comunità internazionale a collaborare per garantire che il Summit sulla Biodiversità (COP 15) di Kunming, in Cina, costituisca un punto di svolta verso il ristabilimento della Terra come casa dove la vita sia abbondante, secondo la volontà del Creatore. Siamo tenuti a riparare secondo giustizia, assicurando che quanti hanno abitato una terra per generazioni possano riacquistarne pienamente l’utilizzo. Occorre proteggere le comunità indigene da compagnie, in particolare multinazionali, che, attraverso la deleteria estrazione di combustibili fossili, minerali, legname e prodotti agroindustriali, «fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale» (LS, 51). Questa cattiva condotta aziendale rappresenta un «un nuovo tipo di colonialismo» (San Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001, cit. in Querida Amazonia, 14), che sfrutta vergognosamente comunità e Paesi più poveri alla disperata ricerca di uno sviluppo economico. È necessario consolidare le legislazioni nazionali e internazionali, affinché regolino le attività delle compagnie di estrazione e garantiscano l’accesso alla giustizia a quanti sono danneggiati.

  1. UN TEMPO PER RALLEGRARSI

Nella tradizione biblica, il Giubileo rappresenta un evento gioioso, inaugurato da un suono di tromba che risuona per tutta la terra. Sappiamo che il grido della Terra e dei poveri è divenuto, negli scorsi anni, persino più rumoroso. Al contempo, siamo testimoni di come lo Spirito Santo stia ispirando ovunque individui e comunità a unirsi per ricostruire la casa comune e difendere i più vulnerabili. Assistiamo al graduale emergere di una grande mobilitazione di persone, che dal basso e dalle periferie si stanno generosamente adoperando per la protezione della terra e dei poveri. Dà gioia vedere tanti giovani e comunità, in particolare indigene, in prima linea nel rispondere alla crisi ecologica. Stanno facendo appello per un Giubileo della Terra e per un nuovo inizio, nella consapevolezza che «le cose possono cambiare» (LS, 13). C’è pure da rallegrarsi nel constatare come l’Anno speciale di anniversario della Laudato si’ stia ispirando numerose iniziative a livello locale e globale per la cura della casa comune e dei poveri. Questo anno dovrebbe portare a piani operativi a lungo termine, per giungere a praticare un’ecologia integrale nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, negli Ordini religiosi, nelle scuole, nelle università, nell’assistenza sanitaria, nelle imprese, nelle aziende agricole e in molti altri ambiti. Ci rallegriamo anche che le comunità credenti stiano convergendo per dare vita a un mondo più giusto, pacifico e sostenibile. È motivo di particolare gioia che il Tempo del Creato stia diventando un’iniziativa davvero ecumenica. Continuiamo a crescere nella consapevolezza che tutti noi abitiamo una casa comune in quanto membri della stessa famiglia! Rallegriamoci perché, nel suo amore, il Creatore sostiene i nostri umili sforzi per la Terra. Essa è anche la casa di Dio, dove la sua Parola «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), il luogo che l’effusione dello Spirito Santo costantemente rinnova. 
“Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra” (cfr Sal 104,30).
Roma, San Giovanni in Laterano, 1° settembre 2020
FRANCESCO




IN NOME DEL DIO PROFITTO
Don Enrico Chiavacci

In nome del dio profitto.
don Enrico Chiavacci[1]
Jesus n°11.  Novembre 1999

Il Concilio, con la teologia della Gaudium et spes, ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e dal conseguente orientamento restrittivo dell’ecclesiologia e della teologia. Vi è una salvezza, un traguardo escatologico per la famiglia umana e la sua storia (Gaudium et spes, n. 45). Indirizzare e accompagnare la famiglia umana verso tale traguardo è preciso compito della Chiesa: compito non esclusivo (lo Spirito soffia dove vuole), ma ineludibile, in quanto continuazione dell’opera salvifica di Cristo. Non vi sono due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. “La storia è storia di salvezza”, è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in “famiglia di Dio” (Gaudium et spes, n. 40). E il traguardo è la pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV,28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi l’Assoluto della vita trinitaria. Come il Figlio dell’Uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «non può pienamente realizzarsi, se non attraverso un dono sincero di sé» (Gaudium et spes, n. 24).  Così il “sociale” – la complessa rete di strutture in cui si deve configurare la vita di relazione di ogni singolo – diviene campo di impegno e di primaria responsabilità morale per ogni cristiano (come per ogni uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (Gaudium et spes, n. 37) durerà quanto dura la storia, e in essa il cristiano è inevitabilmente inserito: «in questa lotta inserito» (ivi).  Così l’economia, e l’inserimento del cristiano nello studio e nell’attività economica divengono inevitabilmente riflessione teologica ed etica.
Per comprendere dunque la nostra chiamata occorre capire che cosa sia oggi “economia” su un doppio versante:

  • quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica (produzione, distribuzione, finanza) si svolge;
  • quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate o mantenute dalle dette strutture.

È chiaro che l’interesse teologico primario è per il secondo versante, ma quello che in esso avviene è determinato primariamente dal versante strutturale. Uno studio serio della situazione in cui versa la famiglia umana deve perciò partire dallo studio delle strutture fondamentali della vita economica sul pianeta Terra. Qui posso solo accennare ad alcuni elementi essenziali.
Nessuna forma di vita economica, anche primitiva, può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio sia di Stato sovrano. Ma oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana. Questa “globalizzazione” è per il cristiano qualcosa di auspicabile: ormai lo sguardo del cristiano si deve estendere alla famiglia umana considerata come un unico corpo sociale. La stessa idea tradizionale di “bene comune” deve intendersi come bene comune della famiglia umana.
Ma è dal tipo di strutture della globalizzazione che dipende il perseguimento di tale bene comune: la domanda è se le attuali strutture consentano il miglioramento della qualità della vita di ogni essere umano ovunque sulla terra (cfr. Gaudium et spes, n. 77), per l’oggi e anche per il domani della storia umana (è qui la gravità del problema ecologico).
Oggi le strutture tradizionali dell’economia –produzione e distribuzione (mercato)– sono irreversibilmente globali. Oggi si produce per componenti: sia le 4-5 parti di una videocassetta sia le 172.000 parti di un Airbus possono essere prodotte ciascuna in un luogo diverso della Terra, assemblate in un altro, commercializzate in un altro ancora. In molti casi si produce dove si ha il minor costo del lavoro (circa 30 dollari l’ora in Germania, 20 negli altri Paesi industrializzati, da 0,5 a 2 nei Paesi più poveri). In altri casi si produce dove esiste manodopera altamente specializzata. In altri casi ancora alcune componenti sono prodotte solo da pochissimi centri specializzati (una nuova molecola per le bioingegnerie o un motore per grandi aerei di linea solo General Electrics, Pritt & Whitney, Rolls Roice possono produrli).
Lo stesso avviene per il commercio e la distribuzione: si compra e si vende dove conviene. Qualsiasi operatore può comprare all’ingrosso a Hong Kong e vendere a Milano, per distribuire poi al dettaglio in Usa o in Thailandia. Nessun Governo, pur potente che sia, può realmente governare produzione e mercato, se non con pochi strumenti (dazi, incentivi o disincentivi) deboli e destinati a sparire.
Tutto ciò è oggi possibile per l’avvento di nuove tecnologie. Due in particolare:

  • la rivoluzione del silicio, e cioè elettronica e informatica, che consente trasmissione di dati, ordinativi, trasferimenti di denaro eccetera;
  • una radicale trasformazione dei sistemi di trasporto merci, con navi che possono contenere 8.000 containers e con treni merci per lunghe distanze (Usa, Australia, Sudafrica, Russia) che trasportano 10/20 mila tonnellate (in Europa il limite è di norma 2 mila). In tal modo l’incidenza del costo del trasporto per unità di prodotto è irrisoria.

Queste due realtà tecniche sono irreversibili, e sono molto recenti (non più di vent’anni), e così spiazzano tutte le teorie e le logiche economiche attualmente disponibili. Ma dopo la rivoluzione del silicio si hanno due fenomeni altrettanto nuovi.

  • Il primo fenomeno è l’inserimento massivo nella produzione del momento di ricerca e sviluppo (“R&D”: research and development). I nuovi treni veloci europei hanno richiesto 10-12 anni dalla prima ideazione alla produzione di serie; nuovi aerei militari sono già in progetto da anni e saranno pronti verso il 2010. Ciò richiede un enorme incremento del capitale necessario, e perciò una sempre maggiore concentrazione del capitale disponibile sulla faccia della Terra e della sua gestione, al di sopra delle teste di qualsiasi Governo o Stato.
  • Il secondo fenomeno: oggi non esiste più il capitalista-padrone. Tutto il denaro, comunque raccolto ovunque nel mondo, è gestito da società finanziarie, che a loro volta sono controllate da finanziarie di ordine superiore. In tal modo il mondo della finanza è completamente separato dal mondo della produzione. Una finanziaria trae profitto esclusivamente dal movimento del capitale (finanziario), e così il capitale si muove freneticamente da un capo all’altro della Terra, in tempo reale e non controllabile da nessun Governo, sempre e solo in cerca del massimo profitto finanziario. “Cosa, per chi e come” si produca non ha alcun interesse per i veri manovratori del capitale mondiale. Molte migliaia di miliardi di dollari si spostano ogni 24 ore, e sempre in cerca di massimizzazione del profitto privato, da cui è, per principio, esclusa ogni preoccupazione per il bene comune, per i reali bisogni dell’uomo.

Le condizioni di vita della famiglia umana.
In sintesi i Paesi ricchi hanno un Pnl[2] pro capite di 20/30 mila dollari.

In America latina il Pnl si colloca fra 1.000 e 4.000 dollari, e cioè a un decimo dei Paesi ricchi: ma l’America latina gode di un’iniqua distribuzione delle ricchezze che non ha eguali nel mondo.
In Brasile vi sono circa 30 milioni di ricchi e 130 milioni di poveri.
In Africa, escluso il Sudafrica, il Pnl oscilla fra 100 e 700 dollari, ma nell’Africa subsahariana difficilmente supera i 200: siamo perciò a un centesimo della ricchezza disponibile da noi.
In Asia, salvo le note eccezioni, il Pnl oscilla fra 260 dollari (Cambogia) e 500 dollari (Cina). India e Cina messe insieme – oltre un terzo dell’umanità – hanno una media di un dollaro e mezzo al giorno per abitante, ivi comprese le spese pubbliche di ogni genere.
Due importanti indicatori della qualità umana della vita sono l’attesa media di vita e la mortalità infantile: qui si rispecchia la disponibilità di cibo, di acqua potabile, di assistenza sanitaria, di educazione di base, e la presenza di violenze e drammi sociali inevitabilmente connessi alla miseria.

Per Paesi ricchi l’attesa media di vita è 75/80 anni; in America latina è di 55/65 anni (salvo Cuba che è su livelli europei); nell’Africa subsahariana raramente arriva a 50 anni; nell’immensa Asia povera è fra 55 e 70 anni. La mortalità infantile, calcolata sui morti nel primo anno di vita su mille nati vivi, nei Paesi ricchi è di circa il 6/7 per mille (media Unione europea 5,6, Usa 8). In America latina oscilla fra 20 e 65 (salvo Cuba che è a livelli europei e migliori di quelli Usa); nell’Africa subsahariana è generalmente sopra a 100; in Asia oscilla fra 35 e 100. Si tratta di un quadro spaventoso di una famiglia umana spaccata in due, in cui meno di un quinto assorbe più di quattro quinti delle risorse disponibili. Deve esser ben chiaro che ogni area di miseria ha caratteristiche diverse, e che ogni Governo ha una parte di responsabilità. Ma deve esser soprattutto ben chiaro che si tratta di una realtà strutturale, stabile, causata o mantenuta dalle strutture economiche globali che ho descritto. Ci siamo commossi vedendo i bambini nei campi di raccolta per un terremoto o per una guerra. Ma non riflettiamo che quelle condizioni miserabili derivano da fatti ben precisi, sono congiunturali e transitorie. E sono molto migliori delle condizioni di normalità in cui la maggior parte dei bambini del mondo vive e vivrà senza speranze e senza prospettive. Non esiste agenzia o progetto con sufficiente autorità per cambiare la tragedia che incombe sulla famiglia umana: chi potrebbe non ha nessun interesse a farlo, e chi vorrebbe non ha potere per farlo.  Dietro a tutto questo vi è la logica di massimizzazione del profitto finanziario privato che va perseguito a ogni costo, e naturalmente al costo della qualità della vita della grande maggioranza degli esseri umani. Non si investe per soddisfare bisogni essenziali dell’uomo: investire per i poveri della Terra non dà tanto profitto quanto investire per i non-bisogni dei ricchi. Grandi corporations medicali rifiutano di investire in ricerca per le urgenze sanitarie dei poveri (malaria, tubercolosi, Aids), dichiarando esplicitamente che la ricerca non darebbe sufficiente ritorno finanziario (The Economist 14.8.99: Helping the world’s poorest). Meglio investire in armi, droga, alte tecnologie. Non si investe per creare occupazione, ma disoccupazione: con nuove macchine si riducono i costi del lavoro. Di norma nelle grandi Borse la notizia dell’aumento dell’occupazione crea crolli di azioni. Ogni cautela ecologica incide inevitabilmente sui profitti, e non offre sufficiente rapporto costi/benefici in tempi brevi. La tragedia della famiglia umana si andrà sempre più approfondendo. Solo da pochi anni alcuni liberisti più illuminati insistono su sanità e educazione per i poveri, ma la maggior parte degli economisti e la totalità degli operatori economici non ci pensano neppure.

Gravi sono le colpe della teologia cristiana, cattolica e protestante (soprattutto riformata nordamericana).
Colpe della teologia sistematica, che si è occupata solo della salvezza delle singole anime dimenticando totalmente il cammino dell’umanità verso la pienezza del Regno.
Colpe della teologia morale che si è fermata, a partire dal Catechismo Romano dopo il Concilio di Trento, al tema del “non rubare”: il vero tema della morale economica nel Vangelo è invece quello del significato che i beni terreni hanno nell’orizzonte di fede del cristiano.
Invece si è annunciato che le ricchezze, una volta legittimamente acquistate, sono strumento di esercizio della libertà personale col solo limite di fare ogni tanto qualche elemosina. Ma per i Padri e per Tommaso D’Aquino chi non dà del suo al bisognoso commette ingiustizia: è tanto ladro chi non soccorre il povero quanto chi ruba i beni altrui. Ancora oggi vi sono scuole di pensiero cattolico che sostengono essere il liberismo capitalistico attuale la miglior forma di attuazione del Vangelo, in quanto garante del personalismo e della libertà. E anche documenti pontifici parlano di capitalismo selvaggio: è una visione vecchia, da “padrone delle ferriere”. Oggi, nella situazione sopra illustrata, il capitalismo è inesorabilmente “selvaggio”: nessuna idea di bene comunque può governarlo. La dottrina, anch’essa vecchia di oltre un secolo, della “mano invisibile” del libero mercato è solo un paravento morale che copre una iniquità sostanziale: il libero mercato di dimensioni planetarie fra aree povere e aree ricche serve solo a arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Se il povero vuole anche solo sopravvivere deve sottostare alle condizioni imposte dai ricchi: ed è appunto questa, fino ad oggi, la politica costante del Fondo monetario internazionale. Ma molti poveri, come nell’Africa subsahariana, hanno urgenti bisogni che non possono neppure “diventare domanda sul mercato”: semplicemente non hanno soldi per stare sul mercato.
Occorre dunque ripensare nelle sue radici l’annuncio morale cristiano sulla storia e sull’economia: il Concilio ha indicato con chiarezza la via, ma finora sembra che pochi se ne siano accorti o siano disposti a seguirla senza compromessi. La logica della massimizzazione del profitto, quali che siano i costi umani che essa esige, unita allo pseudo-dogma del liberismo economico, sta ormai prevalendo a tutti i livelli. Dal livello finanziario è entrata al livello aziendale, al livello di proposta di politica economica per i governi, a livello personale. Ormai “l’avere di più perché è di più”, e non come possibile strumento per soddisfare ragionevoli bisogni nostri e altrui, sta diventando la regola suprema dei comportamenti privati. Negli Usa è diventata una vera ossessione generalizzata: con l’avvento di Internet è ormai possibile per il privato operare direttamente e in tempo reale sul mercato finanziario, e molti passano le giornate a muovere denaro al computer per cercare di arricchirsi rapidamente. Non solo la ricchezza, ma l’arricchimento costante come fine a sé stesso è diventato il nuovo idolo, il nuovo ideale di vita nei Paesi ricchi.
La teologia morale cattolica dell’ultimo secolo non ha saputo, o voluto, dir niente al riguardo; quella protestante americana, legata all’idea dell’arricchimento come segno di predestinazione, ha favorito tale tendenza. Per molti americani Wasp (White, anglo saxon protestant) se uno è povero lo è per propria colpa: circa 40 milioni di cittadini statunitensi poveri non godono di alcun diritto all’assistenza sanitaria. Si mira a ridurre al minimo le tasse per la salute per poter aumentare quelle per armamenti.
In questo modo il liberismo economico sta divenendo liberismo sociale: nessuna preoccupazione per il bene comune della comunità “Stato” – per non parlare della comunità “famiglia umana” – è ormai proponibile; lo “Stato sociale” è ormai irriso da molta stampa Usa come «old style».
E molti cattolici si adeguano, col ridicolo pretesto della paura del comunismo. Ma nel Vangelo la ricchezza materiale “non è vera ricchezza, non è ricchezza” per noi seguaci del Signore (cfr. Luca 16). La ricchezza vera è Dio e l’avvento del suo Regno. Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia è cercare la crescita di una convivenza umana di fraternità, di condivisione, di pace. Se la teologia non saprà leggere l’economia come vero luogo teologico, luogo in cui dobbiamo cercare – studiando con passione, piangendo e pregando – quale sia il progetto e la chiamata di Dio per noi qui oggi, la Chiesa avrà tradito la sua missione.
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[1]  Don Enrico Chiavacci (1926-2013) è stato uno dei massimi teologi morali italiani del secondo Novecento, soprattutto nei temi dell’etica sessuale, della giustizia sociale e della pace.
[2] (Prodotto nazionale lordo: la somma di tutte le ricchezze comunque prodotte in un Paese, espressa in dollari e divisa per il numero degli abitanti, valore sommariamente indicativo della ricchezza disponibile; la sua distribuzione dipende in parte dai singoli governi, ma sempre entro il limite del Pnl)




REFERENDUM. TAGLIO DEI PARLAMENTARI
Franco Monaco

Taglio dei parlamentari, riforma controversa.
Franco Monaco
25 agosto 2020 (Settimana news)

Solo ora, a un mese dalla sua celebrazione, si accende la discussione sul referendum costituzionale con il quale i cittadini-elettori sono chiamati a confermare o respingere il taglio dei parlamentari approvato a larga maggioranza dalle Camere. Eppure si tratta di materia delicata e di grande rilievo. Una riforma con effetti sistemici sugli equilibri costituzionali non incastonata in una riforma di sistema. Non sorprende che essa divida costituzionalisti e politici, secondo una linea di frattura che non coincide con quella che si produsse nel 2016 sulla riforma Renzi-Boschi. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta e maestro del costituzionalismo classico, per descrivere il proprio orientamento, ha evocato la metafora dell’asino di Buridano, paralizzato dall’incertezza circa la mangiatoia cui nutrirsi. Lasciando intendere la sua intenzione di astenersi.

Ragioni per votare no
Chiaramente una extrema ratio, che tuttavia conferma la problematicità della questione. Vi sono buone ragioni per il no e buone ragioni per il sì. Le accenno soltanto.
Per il no:

1) appunto la circostanza che ci si chieda di avallare una riforma puntuale senza avere provveduto agli adeguamenti e ai correttivi da tutti giudicati necessari onde evitare un deficit di rappresentatività, un aggravio del malfunzionamento delle Camere, un’accentuazione del carattere già ora verticistico nella selezione dei parlamentari (una legge elettorale d’impianto proporzionale, l’equiparazione di elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, la riforma dei regolamenti parlamentari, una limatura della sovra-rappresentatività dei  consigli regionali che si produrrebbe nella elezione del Presidente della Repubblica). In particolare le forze di maggioranza si erano impegnate a incardinare una nuova legge elettorale (anche al fine di evitare che, con la legge vigente, si possa generare una “dittatura della maggioranza”: fu condizione posta dal PD per dare il proprio voto favorevole alla riforma nell’ultimo decisivo passaggio parlamentare coinciso con il varo del governo Conte-due, dopo il voto contrario nei tre precedenti passaggi). Ma non se n’è fatto nulla per l’opposizione di Italia Viva e non vi sono certezze al riguardo.

2) Il tratto antiparlamentarista e persino antipolitico con il quale è stato concepito e propagandato il cospicuo taglio di deputati e senatori soprattutto da parte del M5S. Sull’onda della polemica contro la casta e con l’argomento, francamente debole, della riduzione dei costi della politica. Fuor di ipocrisia, è noto che una parte larga della “maggioranza bulgara” che ha approvato la riforma nella sua ultima lettura (solo 14 dissensi alla Camera) lo ha fatto essenzialmente per non sfidare l’impopolarità, senza convinzione, con un cumulo di retropensieri.

3) Vi è infine chi appunta le sue obiezioni sul funzionamento e la operatività delle Camere e segnatamente del Senato con soli duecento membri, i quali, stante la persistenza del “bicameralismo perfetto” (esso sì un serio problema!), faticherebbero a ottemperare a tutti i loro compiti (tra aula, commissioni permanenti, commissioni speciali o di inchiesta, giunte, organismi parlamentari internazionali).

Ragioni per votare sì
Ma veniamo alle ragioni del sì:

1) tutti i progetti di riforma messi a punto da quarant’anni a oggi contemplavano una riduzione del numero dei parlamentari, sia per uniformarci agli standard di altri paesi, sia nella convinzione – opposta a quella su evocata – che semmai uno snellimento conferirebbe più qualità ed efficienza al parlamento.

2) Proprio il sistematico affossamento di quella riduzione a lungo perseguita suggerirebbe di non mancare questa occasione (se non ora quando più?). All’obiezione di chi eccepisce la mancanza dei correttivi sistemici si risponde che proprio il taglio suddetto costringerà a provvedervi ex post, anche se, certo, meglio sarebbe stato farlo prima o contestualmente, considerato che l’attuale parlamento non brilla nel suo concreto funzionamento.

3) Ancora vi è chi fa osservare che, pur con l’ambiguità e le riserve cui si è accennato, resta agli atti un voto plebiscitario del parlamento. Sconfessarlo sarebbe logicamente in contrasto con le motivazioni di natura parlamentarista di chi si oppone e, di riflesso, semmai, darebbe ulteriore fiato all’antipolitica e al qualunquismo.

4) Infine, taluni scommettono sulla circostanza che il minor numero possa giovare alla qualità della rappresentanza parlamentare, pur nella consapevolezza che ciò è affidato soprattutto a legge elettorale e responsabilità dei partiti nella selezione delle candidature.

Questioni politiche
Come si vede, vi sono buone ragioni su entrambi i fronti. Si deve tuttavia aggiungere che – piaccia o non piaccia, e non dovrebbe piacere – con le ragioni di merito centrate sulla materia costituzionale si intrecciano motivazioni politiche.
Non dovrebbe essere così e tuttavia è così. Esemplifico. Intanto un po’ in tutti i partiti, come si è detto e visto all’atto dell’approvazione in parlamento, domina la preoccupazione di non sfidare l’impopolarità. Nel M5S quella di portare a casa una sua riforma bandiera, a compensazione di elezioni regionali che prefigurano una generale sconfitta. Nel PD o quantomeno in chi oggi lo guida di non incrinare i rapporti dentro la maggioranza.
Per converso e non a caso, chi, dentro il PD, dissente dal consolidamento dell’asse politico con il M5S, si schiera per il no, pur dopo aver votato il taglio in parlamento. Più in piccolo, qualcosa di simile si riscontra tra i parlamentari di FI, ove il no, guarda caso, si rinviene tra coloro che mal sopportano la subalternità a Salvini e Meloni.
Dunque, la questione è complessa e non priva di implicazioni politiche più o meno dichiarate. Io, come l’asino, sperando di non morire nell’esitazione, ancora non so come mi regolerò. Seguirò il confronto e infine deciderò. L’esito altamente probabile è un sì a larga maggioranza, temo, sulla base di motivazioni non esattamente pregnanti.
E tuttavia questo almeno di sicuro non ci deve condizionare né in un senso né in un altro. Trattasi della Costituzione e comunque conta anche il risultato, la misura della partecipazione e il differenziale tra sì e no o viceversa.




In memoria del santo profeta Vescovo Casaldàliga.
di Frei Betto

Ho conosciuto un santo e un profeta. In memoria del Vescovo Pedro Casaldàliga
12 agosto 2020. http://www.settimananews.it/profili/conosciuto-un-santo-un-profeta/
di Frei Betto

Dom Pedro era solito celebrare il Giorno dei defunti nel cimitero più povero di São Félix do Araguaia (MT). In quel luogo giacciono i resti mortali di indigeni e di lavoratori attirati in Amazzonia dal sogno di una vita migliore. Molti di essi, oltre a vedere le loro aspettative frustrate, furono uccisi con armi da fuoco. Il vescovo disse alla gente e agli operatori pastorali della prelatura: «Ascoltatemi bene. Vi dico una cosa molto seria. È qui che desidero essere sepolto». «Per riposare, voglio solo questa croce di legno / come pioggia e sole; / la sepoltura e la risurrezione» (Poema Cemiterio do Sertão, di Dom Pedro).
Malato da alcuni anni del morbo di Parkinson, che chiamava “Fratello Parkinson”, Pedro, a 92 anni, ha avuto un peggioramento nel suo stato di salute la prima settimana di agosto. Le risorse a São Félix sono precarie e l’indigenza è aggravata dalla pandemia del nuovo coronavirus. La congregazione claretiana a cui Pedro apparteneva, decise di trasferirlo a Batatais (SP), dove sarebbe stato meglio accudito. Sabato, 8 agosto – festa di san Domenico, spagnolo come Pedro – spirò poco dopo le 9.00 del mattino. I suoi confratelli hanno esaudito il suo desiderio di riposare nel cimitero di Karajá.
Pedro era giunto in Brasile, come missionario, nel 1968, in piena dittatura militare. Era venuto per avviare i Cursillos di Cristianità. Ma, imbattendosi nello sfruttamento dei braccianti nelle fattorie dell’Amazzonia, fece un’opzione radicale per i poveri. Lavoratori disoccupati e senza istruzione si inoltravano nelle foreste in cerca di migliori condizioni di vita, attratti dall’espansione del latifondo nella regione amazzonica. Letteralmente ammassati nelle città, cadevano nella trappola del lavoro schiavizzato. Non avevano altra scelta che acquistare provviste e vestiario nei magazzini della fattoria a prezzi esorbitanti che li irretivano nelle maglie di debiti impagabili Se cercavano di fuggire, venivano inseguiti dai capisquadra, assassinati o ripresi, frustati, e molte volte mutilati, mozzati di un orecchio.
Pedro nominato vescovo
São Félix è un municipio amazzonico del Mato Grosso, situato di fronte all’isola del Bananal, in un’area di 36.643 kmq. Nel decennio del 1970, la dittatura militare (1964-1985) ampliò a ferro e fuoco le frontiere agrozootecniche del Brasile, devastando parte dell’Amazzonia e attirando fattorie latifondiste impegnate a disboscare per creare pascoli ai bovini.

Casaldáliga, pastore di un popolo sbandato e minacciato dal lavoro da schiavi ne prese la difesa scontrandosi con i grandi proprietari agricoli; con le imprese agrozootecniche, minerarie o del legname; con i politici che, in cambio del sostegno finanziario e di voti, coprivano il degrado dell’ambiente e legalizzavano l’espansione fondiaria senza alcun rispetto delle leggi del lavoro.
Il 13 maggio 1969, Paolo VI creò la prelatura di São Félix do Araguaia. L’amministrazione fu affidata alla congregazione dei claretiani e, dal 1970 al 1971, padre Pedro Casaldáliga fu il primo amministratore apostolico. Poco dopo fu nominato vescovo. Adottò come principi che avrebbero dovuto guidare in maniera ferrea la sua attività pastorale: «Niente possedere, niente imporre, niente chiedere, niente tacere e, soprattutto, niente uccidere». Al dito, come insegna episcopale, un anello di tucum (legno di una specie di palma dell’Amazzonia, ndtr.), che divenne simbolo della spiritualità dei seguaci della Teologia della liberazione.
Nella lettera pastorale del 1971, “Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale”, Pedro situò accanto ai più poveri la prelatura appena creata: «Noi – vescovo, sacerdoti, suore, laici impegnati – siamo qui, tra l’Araguaia e il Xingu, in questo mondo, reale e concreto, emarginato e accusatorio… O rendiamo possibile l’incarnazione salvifica di Cristo in questo ambiente, al quale siamo stati inviati, oppure neghiamo la nostra fede, ci vergogniamo del Vangelo e tradiamo i diritti e la speranza piena di angoscia di un popolo che è anch’esso popolo di Dio: gli abitanti delle zone interne, i posseiros (piccoli agricoltori), i braccianti, questo pezzo brasiliano dell’Amazzonia. Poiché siamo qui, è qui che dobbiamo impegnarci. Chiaramente. Fino alla fine».
Poeta e profeta
Cinque volte imputato nei processi di espulsione dal Brasile, Casaldáliga viveva in una semplice abitazione, senza alcun sistema di sicurezza se non quello che gli assicuravano tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Calzando dei semplici sandali infradito e indossando un vestito comune come quello dei braccianti che circolavano per la città, ampliò la sua irradiazione apostolica mediante un’intensa attività letteraria.

Poeta rinomato, portava l’anima a sintonizzarsi con le grandi conquiste popolari nella Grande Patria latino-americana. Levò la sua penna e la sua voce nelle proteste contro il Fondo Monetario Internazionale, l’ingerenza della Casa Bianca nei paesi del continente, la difesa della rivoluzione cubana, la solidarietà con la rivoluzione sandinista o per denunciare i crimini dei militari del Salvador e del Guatemala.
In un’occasione compì un lungo viaggio a cavallo per visitare la famiglia di un posseiro che era in prigione. Giunse senza preavviso. Davanti a un piatto di riso in bianco e ad un altro di banane, la figlia maggiore chiese scusa imbarazzata all’ora di pranzo: «Se avessimo saputo che veniva un vescovo, avremmo preparato un pranzo diverso». La piccola Eva reagì dicendo: «Ma il vescovo non è migliore di noi»: egli custodì nel cuore questa lezione, e la mise sempre in pratica, evitando privilegi e vantaggi.
Quando i karajá[1] andavano in città, provenendo dall’isola di Bananal, l’ancoraggio era sempre alla casa di Pedro. Là mangiavano, bevevano acqua, si riposavano dopo i giri compiuti a São Félix.
Fondatore della Commissione pastorale della Terra (CPT) e del Consiglio Indigenista Missionario (Cimi), Casaldáliga, affermava che la saggezza popolare era la sua grande maestra.
Pedro a Cuba
Nel settembre 1985 mi recai a Cuba con i fratelli e teologi Leonardo e Clodovis Boff. Abbiamo informato Fidel Castro che Dom Pedro si trovava a Managua per partecipare alla Giornata di preghiera per la pace. Il leader cubano insistette affinché lo conducessimo all’Avana. La stessa sera intervenne all’apertura di un congresso mondiale giovanile sul debito estero: «Non è solo immorale riscuotere il debito estero, è anche immorale pagarlo, perché inevitabilmente significherà indebitare progressivamente i nostri popoli».

Chomy Miyar, la segretaria di Fidel, quando si accorse che le scarpe del prelato erano in pessimo stato, gli offrì un paio nuovo di stivali. «Lascio le mie scarpe al Museo della Rivoluzione», disse scherzando Dom Pedro.
Ci recammo insieme in Nicaragua il 13 settembre 1985. Qui prese parte a numerose iniziative contro l’aggressione del governo degli Stati Uniti ad opera dei sandinisti e battezzò il quarto figlio di Daniel Ortega, Maurice Facundo.
Nel suo secondo viaggio a Cuba, nel febbraio 1999, Casaldáliga dichiarò pubblicamente, a Pinar del Río: «Il capitalismo è un peccato capitale. Il socialismo può essere una virtù cardinale: siamo fratelli e sorelle, la terra è di tutti e, come ripeteva Gesù di Nazaret, non si possono servire due padroni, e l’altro padrone è proprio il capitale. Quando il capitale è neoliberale, di lucro ad ogni costo, di mercato totale, di esclusione di immense maggioranze, allora il peccato è chiaramente mortale».
E sottolineò: «Non ci sarà pace sulla terra, non ci sarà democrazia che meriti questo nome profanato, se non ci sarà una socializzazione della terra in campagna e del suolo in città, della salute e dell’istruzione, della comunicazione e della scienza.
Conversando con Dom Pedro, in una circostanza mi disse: penso alla frase di Gesù: «Ci sarà ancora fede sulla terra quando tornerò?» Ci sarà, ma non nella sua parola. Fede nel mercato, il grande demiurgo. Basti pensare che dei tre economisti vincitori del Premio Nobel negli ultimi trent’anni del XX secolo, due provenivano dalla Scuola di Chicago… Perciò, l’Accademia svedese ha dato credito a dei modelli matematici creati per favorire la speculazione finanziaria e tesi a considerare l’umanità come la somma di individui motivati solo da interessi personali e coinvolti nella più litigiosa competizione con i loro simili.
Oggi, vanno in chiesa solo coloro che non hanno risorse per recarsi nelle cattedrali del consumo. Il nuovo luogo di culto è il centro commerciale, lo Shopping Center considerato la porta del Paradiso, perché lì non ci sono mendicanti, immondizia, bambini di strada, minacce; tutto rifulge di uno splendore paradisiaco. Siamo tutti fedeli seguaci del catechismo pubblicitario. Ci infonde la convinzione che la salvezza individuale passa attraverso il consumo. Escluso non è chi ha peccato, è chi non ha denaro. Eretico non è chi è in disaccordo con i dogmi della Chiesa, ma chi si oppone ai dogmi del capitalismo. Apostata non è chi abiura la fede cristiana, ma uno che professa un’altra fede convinto che fuori dal mercato non c’è salvezza».
Successione
Nel 2003, all’età di 75 anni, Casaldáliga presentò la sua domanda di rinuncia alla prelatura, come richiesto dal Vaticano a tutti i vescovi, eccetto a quello di Roma, il papa. Nel 2005 il Vaticano nominò il suo successore. Prima però gli fu inviato un vescovo che, in nome di Roma, gli chiedeva di allontanarsi dalla prelatura, in modo da non intralciare il nuovo prelato. Dom Pedro non gradì l’invito e, coerente con il suo sforzo di rendere più democratico e trasparente il processo della scelta dei vescovi, si rifiutò di ascoltarlo. Il nuovo vescovo, Leonardo Ulrich Steiner, mise fine all’impasse dichiarando che Dom Pedro era benvenuto a São Félix.

Minacce
Dom Pedro fu oggetto di varie minacce di morte. La più grave nel 1976, a Ribeirão Cascalheira, il 12 ottobre, festa della patrona del Brasile, Nossa Senhora Aparecida. Giungendo in quella località assieme al missionario gesuita e indigenista João Bosco Penido Burnier, seppero che nella stazione della polizia due donne venivano torturate. Andarono lì ed ebbero una animata discussione con la polizia militare. Quando padre Burnier minacciò di riferire alle autorità ciò che stava avvenendo, uno dei soldati lo schiaffeggiò, lo colpì col calcio della rivoltella e poi gli sparò alla testa. In poche ore Padre Burnier morì. Nove giorni dopo, la gente invase la stazione di polizia, liberò i prigionieri, infranse tutto, abbatté le pareti e appiccò il fuoco. Sul luogo oggi sorge una chiesa, l’unica al mondo dedicata ai martiri.

Per le sue posizioni evangeliche, Pedro era accusato di essere un «vescovo del partito dei lavoratori». Non si è mai preoccupato delle accuse di cui era oggetto. Sapeva che era il prezzo da pagare per non difendere i privilegi dei latifondisti. Nella campagna presidenziale del 2018, il giorno precedente il primo turno delle elezioni, una manifestazione pro-Bolsonaro sfilò per la città e lo strombazzare dei clacson si intensificò passando davanti alla modesta abitazione del vescovo.
Nessuno incarna e simboleggia tanto la Teologia della liberazione quanto Dom Pedro. Egli divenne un riferimento mondiale di questa teologia incentrata sui diritti dei poveri.
Militante dell’utopia
Pedro è nato in una povera famiglia di piccoli agricoltori in Catalogna. Nel 1940, all’età di 12 anni, condotto da suo padre, entrò in seminario per diventare missionario. Nel maggio 1952, a 24 anni, fu ordinato sacerdote. Nell’ultimo anno di formazione pastorale, in Galizia, mantenne contatti con lavoratori e migranti, molti operai nelle fabbriche di tessuti. Si guadagnò il soprannome di «prete dei furfanti» o «prete dei diseredati».

Dopo un passaggio per la città industriale, la tappa successiva fu Barcellona. A 32 anni, si recò in Guinea Equatoriale, allora colonia spagnola, per avviare i Cursillos di Cristianità. Lì si rese conto che il modello europeo di Chiesa non avrebbe dovuto essere esportato nelle nazioni periferiche.
Come vescovo in Brasile, Pedro non ha mai usato alcun distintivo che lo differenziasse dalle altre persone e lo identificasse come prelato.
«Mi chiameranno sovversivo. / E dirò loro: lo sono. / Per il mio popolo in lotta, io vivo. / Con il mio popolo in cammino, vado / Ho una fede da guerrigliero / E amore per la rivoluzione» (Canzone della falce e del covone).
Ora mi accorgo di aver conosciuto un santo e un profeta, Pedro Casaldáliga. Santo per la sua fedeltà radicale (in senso etimologico di andare alle radici) al Vangelo e profeta per i rischi di vita affrontati e le avversità sofferte.


[1] Antica etnia indigena




E-GREGI EVASORI FISCALI
Il vescovo Bettazzi scrive agli evasori fiscali

Egregi evasori fiscali,  (e-gregio vuol dire infatti “fuori, al di sopra del gregge”, della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo – ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer – invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.  La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto. Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.  Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi – o addirittura partecipi attivi – del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati. Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così “scontare” la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli… inferni fiscali. Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: “Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio“. E allora non ci saranno pretesti e coperture.  Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.  Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Luigi Bettazzi Vescovo emerito di Ivrea




IN BRASILE UN GENOCIDIO
Lettera di Frei Betto

“In Brasile si sta compiendo un genocidio”. Inizia così la lettera, che pubblichiamo sotto, scritta dal frate domenicano Frei Betto, noto scrittore e teologo della liberazione, che definisce un genocidio la morte di migliaia e migliaia di persone, sia per incuria, che per azione e/o omissione deliberata del governo Bolsonaro. Frei Betto è anche consulente della FAO ed è molto impegnato nei movimenti sociali. La sua vita è un’ attività di lotta intrapresa da anni a favore degli ultimi.

LETTERA AGLI AMICI E ALLE AMICHE ALL’ESTERO
In Brasile è in atto un genocidio! Nel momento in cui scrivo, 16/07, il Covid-19, apparso qui nel febbraio scorso, ha già ucciso 76 mila persone. I contagi sono quasi due milioni. Domenica prossima, 19/07 arriveremo a 80 mila vittime fatali. E probabile che ora mentre leggi questo appello drammatico, siano già 100 mila.
Quando ricordo che nei vent’anni di guerra del Vietnam, sono state sacrificate 58 mila vite di soldati americani, si fa chiara la gravità di quello che avviene nel mio paese. Questo orrore causa indignazione e turbamento. E tutti sappiamo che le misure di precauzione e restrizione adottate in tanti altri paesi, avrebbero potuto evitare una mortalità così grande.
Questo genocidio non risulta dall’indifferenza del governo Bolsonaro. È intenzionale. Bolsonaro si compiace della morte altrui. Nel 1999, in qualità di deputato federale, durante un’intervista televisiva dichiarò: “attraverso le elezioni, in questo paese, non si cambierà mai niente, niente, assolutamente niente! Potrà cambiare qualcosa soltanto, purtroppo, se un giorno cominceremo una guerra civile, per completare il lavoro che il regime militare non ha fatto: uccidere per lo meno 30 mila persone”.
Durante la votazione per impeachment della presidente Dilma Rousseff, dedicò il suo voto alle memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il colonnello Brilhante Ustra.
È talmente attratto dalla morte, che una delle sue principali politiche di governo è la liberalizzione del commercio di armi e munizioni. Quando, davanti al palazzo presidenziale, gli venne chiesto come si sentisse in relazione alle vittime della pandemia, rispose: “In questi dati io non ci credo” (27/03, 92 morti); “Tutti noi un giorno dobbiamo morire” (29/03, 136 morti); “E allora? cosa vuoi che faccia?” (28/04, 5017 morti).
Perché questa politica necrofila? Fin dall’inizio dichiarava che l’importante non era salvare vite umane, ma l’economia. Da ciò deriva il suo rifiuto di decretare il lockdown, osservare le indicazioni della OMS e importare respiratori e dispositivi di protezione individuale. É stato necessario che la Corte Suprema delegasse questa responsabilità ai governatori di ogni singolo stato e ai sindaci di ogni città.
Bolsonaro non ha rispettato neppure l’autorità dei suoi stessi ministri della salute. Dal febbraio scorso il Brasile di ministri ne ha avuti due, entrambi licenziati per rifiutarsi di adottare lo stesso atteggiamento del presidente. Ora a dirigere il ministero è il generale Pazuello, totalmente ignorante in questioni sanitarie; ha cercato di occultare i dati sulla evoluzione dei numeri delle vittime del coronavirus; si è circondato di 38 militari privi di ogni qualifica, assegnando loro importanti funzioni ministeriali; ha eliminato le conferenza stampa giornaliera attraverso la quala la popolazione avrebbe potuto ricevere importanti informazioni e consigli.
Sarebbe troppo lungo elencare in questa sede quante misure di elargizione di fondi per l’aiuto alle vittime e alle famiglie di bassa rendita (più di 100 mila brasiliani) sono state negate.
Le ragioni delle intenzioni criminali del governo Bolsonaro sono evidenti. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sui fondi della Previdenza Sociale. Lasciare morire i portatori di malattie pregresse, per risparmiare i fondi del SUS, il sistema nazionale di salute. Lasciare morire i poveri, per risparmiare i fondi del “Bolsa Família” e degli altri programmi sociali destinati a 52,5 milioni di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà, e ai 13,5 milioni che si trovano in situazione di miseria estrema (sono dati del governo federale).
E ancora insoddisfatto di queste misure mortali, nel progetto di legge del 3/07, il presidente ha vetato l’articolo che obbligava l’uso di mascherine negli stabilimenti commerciali, nei templi religiosi e nelle scuole. Ha vetato altresì l’imposizione di sanzioni e multe a chi non rispetti le regole; ha vietato l’obbligo del governo di distribuire mascherine alla popolazione più povera e vulnerabile, principale vittima del Covid-19, e ai carcerati (750 mila). Questo tipo di veto non annulla però le leggi locali che prevedono l’obbligatorietà dell’uso della mascherina.
Il giorno 8/07, Bolsonaro ha abrogato alcuni articoli di legge, già approvati al Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile, materiale di igiene e pulizia, installazione di internet e la distribuzione di ceste alimentari, sementi e utensili per la coltivazione della terra ai villaggi indigeni. Il veto presidenziale si è esteso anche ai fondi di emergenza destinati alla salute di quelle popolazioni, e parimenti alla facilitazione dell’accesso all’ausilio di emergenza di 600 reais (circa 100 euro) per tre mesi. Ha vietato inoltre l’obbligo del governo di garantire assistenza ospedaliera, l’uso dei macchinari di respirazione e di ossigenazione sanguigna ai popoli indigeni e agli abitanti delle comunità afro-brasiliane “Quilombos”.  Gli indigeni e gli abitanti dei “Quilombos” sono stati decimati dalla crescente devastazione socio-ambientale, soprattutto in Amazzonia.
Per favore, divulgate al massimo questo crimine contro l’umanità. È necessario che le denunce di quello che accade in Brasile arrivino ai mass-media dei vostri paesi, ai social, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, al Tribunale Internazionale dell’ Aia, così come alle banche e alle imprese che raggruppano gli investitori, tanto desiderati dal governo Bolsonaro.
Molto prima che The Economist lo facesse, nelle mie reti digitali chiamo il presidente con il soprannome di BolsoNero ( In portoghese “Nero” è il nome dell’imperatore Nerone, ndt ) che mentre Roma brucia suona la lira e fa pubblicità alla Clorochina, una medicina senza alcuna prova scientifica di efficacia contro il nuovo coronavirus.(1) Ma i suoi fabbricanti sono alleati politici del presidente…
Ringrazio il vostro solidale interesse nel divulgare questa lettera. Solamente la pressione proveniente dall’estero sarà capace di fermare il genocidio che martirizza il nostro “querido e maravilhoso” Brasil.
Fraternamente.
Frei Betto