MESSAGGIO PER IL 1° MAGGIO
CEI e Diocesi Parma

DIOCESI DI PARMA.
Ufficio Pastorale sociale e del lavoro – Ufficio Pastorale Sanitaria – Caritas

 Messaggio per la Festa del 1° maggio 2020
Leggi il Documento integrale della CEI: https://comunicazionisociali.chiesacattolica.it/messaggio-dei-vescovi-per-la-festa-del-1-maggio-2020/

Il lavoro nella crisi sanitaria
L’attuale emergenza sanitaria ci ha fatto comprendere quanto sia importante la solidarietà, l’interdipendenza e la capacità di fare squadra; valori che auspichiamo anche nella nuova emergenza economica.
Nulla sarà come prima per le famiglie che hanno subito perdite umane.
Nulla sarà come prima per chi è stremato dai sacrifici in quanto operatore sanitario.
Nulla sarà come prima per i nostri territori, per le nostre comunità, così duramente colpite.
Nulla sarà come prima anche per il mondo del lavoro. Tutto sarà più pesante per chi lavora in modo precario e saltuario. Già si contano danni importanti, soprattutto per gli imprenditori che in questi anni hanno investito per creare lavoro e si trovano ora sulle spalle ingenti debiti e grandi punti interrogativi circa il futuro della loro azienda e di molti lavoratori e lavoratrici.
Nulla sarà come prima per tutte le Cooperative del Terzo settore. Non avendo finalità di lucro, le loro attività si svolgono con margini di sicurezza economica molto ridotti. Il loro stesso futuro rischia di essere pregiudicato.

È con queste preoccupazioni che la nostra Diocesi di Parma, unendosi al Messaggio dei Vescovi italiani per il 1° maggio, si appresta a celebrare la Festa del 1° maggio di quest’anno.

 Lavoro sostenibile.
«Nessuno deve perdere lavoro per il coronavirus»: è fondamentale che questo appello abbia accoglienza. Sono auspicabili misure di aiuto a famiglie ed imprese che sappiano fare attenzione a proteggere tutti, soprattutto le categorie solitamente più fragili e meno tutelate. Il problema per i lavoratori più esposti non è solo quello della perdita del salario o dell’occupazione, ma anche quello delle condizioni sul luogo di lavoro. L’orizzonte è quello dell’ecologia integrale della Laudato si’. Abbiamo bisogno di un sistema socio-economico-ambientale che metta al centro la persona, la dignità del lavoratore e sappia mettersi in sintonia con l’ambiente naturale senza violentarlo, nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Un’urgenza non più procrastinabile in cui si gioca anche la fedeltà al progetto di Dio sull’umanità. E per questo, per ridare forza e dignità al lavoro dobbiamo:

  1. Curare la ferita dei profondi divari territoriali. Non esiste una sola Italia del lavoro, ma «diverse Italie», con regioni dove il problema diventa quello di umanizzare il lavoro e regioni dove il lavoro manca e costringe molti a migrare.
  2. avere il coraggio di guardare ai nostri fratelli migranti non più come forma quasi unica di manovalanza sfruttata, sottoposti a ingiuste condizioni di lavoro che portano a vite non dignitose.
  3. trasformare le reti di protezione contro la povertà in strumenti stabili di politiche per il lavoro che aiutino persone, famiglie e imprese a contribuire alla crescita e al benessere del Paese.
  4. chiedere a politici e amministratori una attenta scelta di priorità negli investimenti e nelle spese, orientate al bene comune, ridimensionando e riconvertendo, per esempio, le spese per gli armamenti.
  5. Premiare, con le nostre scelte, prodotti e imprese che danno più dignità al lavoro.

Diocesi e lavoro.
Accanto alle iniziative delle istituzioni, doverose e importanti, anche la Diocesi ha aperto un Fondo di Solidarietà alimentato da singoli e da diversi soggetti. Di tale fondo usufruiranno anche le persone svantaggiate che lavorano nella cooperazione sociale.
Intestatario: CARITAS DIOCESANA PARMENSE EMERGENZE
Iban: IT88G0623012700000037249796
Banca: Crédit Agricole Italia – Sede di Parma
CAUSALE DEL VERSAMENTO: aiuto cooperative sociali

Nel cammino che la Chiesa italiana sta facendo verso la 49ª Settimana Sociale di Taranto (4-7 febbraio 2021) siamo chiamati a coniugare lavoro e sostenibilità, economia ed emergenza sanitaria. L’opera umana sappia cogliere la sfida di rendere il mondo una casa comune. I credenti possono diventare segno di speranza anche per il mondo del lavoro.

Ufficio Pastorale sociale e del lavoro
Ufficio Pastorale Sanitaria
Caritas diocesana

Parma 24/04/2020




MESSAGGIO PASQUALE DI PAPA FRANCESCO AI MOVIMENTI POPOLARI

Messaggio di Papa Francesco ai fratelli e alle sorelle dei movimenti e delle organizzazioni popolari

Cari amici,
Ricordo spesso i nostri incontri: due in Vaticano e uno a Santa Cruz de la Sierra, e confesso che questa “memoria” mi fa bene, mi avvicina a voi, mi fa ripensare ai tanti dialoghi avvenuti durante quegli incontri, ai tanti sogni che lì sono nati e cresciuti, molti dei quali sono poi diventati realtà. Ora, in mezzo a questa pandemia, vi ricordo nuovamente in modo speciale e desidero starvi vicino.
In questi giorni, pieni di difficoltà e di angoscia profonda, molti hanno fatto riferimento alla pandemia da cui siamo colpiti ricorrendo a metafore belliche. Se la lotta contro la COVID19 è una guerra, allora voi siete un vero esercito invisibile che combatte nelle trincee più pericolose. Un esercito che non ha altre armi se non la solidarietà, la speranza e il senso di comunità che rifioriscono in questi giorni in cui nessuno si salva da solo. Come vi ho detto nei nostri incontri, voi siete per me dei veri “poeti sociali”, che dalle periferie dimenticate creano soluzioni dignitose per i problemi più scottanti degli esclusi.
So che molte volte non ricevete il riconoscimento che meritate perché per il sistema vigente siete veramente invisibili. Le soluzioni propugnate dal mercato non raggiungono le periferie, dove è scarsa anche l’azione di protezione dello Stato. E voi non avete le risorse per svolgere la sua funzione. Siete guardati con diffidenza perché andate al di là della mera filantropia mediante l’organizzazione comunitaria o perché rivendicate i vostri diritti invece di rassegnarvi ad aspettare di raccogliere qualche briciola caduta dalla tavola di chi detiene il potere economico. Spesso provate rabbia e impotenza di fronte al persistere delle disuguaglianze persino quando vengono meno tutte le scuse per mantenere i privilegi. Tuttavia, non vi autocommiserate, ma vi rimboccate le maniche e continuate a lavorare per le vostre famiglie, per i vostri quartieri, per il bene comune.
Questo vostro atteggiamento mi aiuta, mi mette in questione ed è di grande insegnamento per me. Penso alle persone, soprattutto alle donne, che moltiplicano il cibo nelle mense popolari cucinando con due cipolle e un pacchetto di riso un delizioso stufato per centinaia di bambini, penso ai malati e agli anziani. Non compaiono mai nei mass media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o speculare sui bisogni vitali della gente. Vorrei che sapeste che il nostro Padre celeste vi guarda, vi apprezza, vi riconosce e vi sostiene nella vostra scelta.
Quanto è difficile rimanere a casa per chi vive in una piccola abitazione precaria o per chi addirittura un tetto non ce l’ha. Quanto è difficile per i migranti, per le persone private della libertà o per coloro che si stanno liberando di una dipendenza. Voi siete lì, presenti fisicamente accanto a loro, per rendere le cose meno difficili e meno dolorose. Me ne congratulo e vi ringrazio di cuore. Spero che i governi comprendano che i paradigmi tecnocratici (che mettano al centro lo Stato o il mercato) non sono sufficienti per affrontare questa crisi o gli altri grandi problemi dell’umanità. Ora più che mai, sono le persone, le comunità e i popoli che devono essere al centro, uniti per guarire, per curare e per condividere.
So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze, eppure siete costretti a subirne i danni. I mali che affliggono tutti vi colpiscono doppiamente. Molti di voi vivono giorno per giorno senza alcuna garanzia legale che li protegga: venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali. Voi, lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento… e la quarantena vi risulta insopportabile. Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti.
Vorrei inoltre invitarvi a pensare al “dopo”, perché questa tempesta finirà e le sue gravi conseguenze si stanno già facendo sentire. Voi non siete dilettanti allo sbaraglio, avete una cultura, una metodologia, ma soprattutto quella saggezza che cresce grazie a un lievito particolare, la capacità di sentire come proprio il dolore dell’altro. Voglio che pensiamo al progetto di sviluppo umano integrale a cui aneliamo, che si fonda sul protagonismo dei popoli in tutta la loro diversità, e sull’accesso universale a quelle tre T per cui lottate: “tierra, techo y trabajo” (terra – compresi i suoi frutti, cioè il cibo –, casa e lavoro). Spero che questo momento di pericolo ci faccia riprendere il controllo della nostra vita, scuota le nostre coscienze addormentate e produca una conversione umana ed ecologica che ponga fine all’idolatria del denaro e metta al centro la dignità e la vita. La nostra civiltà, così competitiva e individualista, con i suoi frenetici ritmi di produzione e di consumo, i suoi lussi eccessivi e gli smisurati profitti per pochi, ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione. Voi siete i costruttori indispensabili di questo cambiamento ormai improrogabile; ma soprattutto voi disponete di una voce autorevole per testimoniare che questo è possibile. Conoscete infatti le crisi e le privazioni che con pudore, dignità, impegno, sforzo e solidarietà riuscite a trasformare in promessa di vita per le vostre famiglie e comunità.
Continuate a lottare e a prendervi cura l’uno dell’altro come fratelli. Prego per voi, prego con voi e chiedo a Dio nostro Padre di benedirvi, di colmarvi del suo amore, e di proteggervi lungo il cammino, dandovi quella forza che ci permette di non cadere e che non delude: la speranza. Per favore, anche a voi pregate per me, che ne ho bisogno.
Fraternamente
Città del Vaticano, 12 aprile 2020, Domenica di Pasqua




ABITANTI DELLA STESSA TERRA PER UN NUOVO UMANESIMO
Danilo Amadei-Parma

ABITANTI DELLA STESSA TERRA PER UN NUOVO UMANESIMO
Dopo il coronavirus occorre un nuovo spirito costituente.
Danilo Amadei – Parma (Avvenire – 29/03/2020)

Questo periodo ci aiuta a leggere i segni dei tempi soprattutto nel dolore. Ma ben sappiamo che se anche il male è il contrario del bene può aiutarci a riscoprire la nostra vera dimensione di umanità redenta.
Il primo insegnamento che impariamo da questa terribile pandemia è che siamo davvero tutti abitanti della stessa Terra. Avremmo dovuto già capirlo con i cambiamenti climatici, causati dal nostro sviluppo che ammala la nostra Madre comune, ma il coronavirus ce lo fa capire meglio perché coinvolge ognuno di noi, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nei nostri corpi. Quanto la nostra Costituzione vuole per la pace consentendo “le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, favorendo le organizzazioni internazionali rivolte allo scopo”, dovrà valere anche per la salute e il rispetto della natura, per l’ecologia integrale, così come delineata da papa Francesco nella Laudato si’. Avremo bisogno di maggiore mondialità e di cooperazione internazionale per raggiungere questi obiettivi, regolando in modo più equo a questo scopo la globalizzazione delle merci e della finanza che ha imposto le sue leggi in questi ultimi decenni. Così come la cultura non conosce confini, la scienza dovrà recuperare totalmente il suo umanesimo per guardare oltre i confini nazionali per l’obiettivo comune di prevedere e   prevenire le emergenze umanitarie che non abbiamo voluto riconoscere, per affrontarle insieme.
Il secondo insegnamento riguarda le priorità del vivere comune. Per troppo tempo abbiamo accettato slogan e false politiche conseguenti che vedevano nella formazione, nella scuola, nella ricerca, nella salute, nei servizi sociali, nel welfare nel suo insieme dei “costi improduttivi”, insostenibili dai bilanci pubblici che dovevano supportare solo “l’economia produttiva”. Ognuno vede oggi quanto miopi siano stati quei tagli scellerati che ci hanno resi più fragili e incapaci di prevenire e affrontare tempestivamente il male e a gestirlo per tutti nel suo deflagrare. Così come dovrebbe essere finalmente accantonato quello slogan “meno Stato più mercato” che ha tolto, insieme ai servizi universali, la consapevolezza che solo insieme, uniti, garantendo a tutti gli stessi diritti, ci saremmo sentiti comunità, orgogliosamente nazionale e consapevolmente europea e mondiale. E’ triste vedere in queste settimane quanta rincorsa alle lodi per chi lavora in ambiti, che sono finalmente riconosciuti prioritari nella nostra vita, dove fino a qualche settimana fa lo stesso lavoro veniva svalutato o considerato subordinato ad altre priorità. E così per l’enorme lavoro svolto dal Terzo settore nel suo insieme e dalle mille esperienze disperse in tante famiglie di lavoratrici (in gran parte straniere) indispensabili nelle nostre case con persone sole o fragili e nei lavori “ad alto contatto”. Ecco sarebbe bene che questa fame di solidarietà rimanesse nelle scelte future per dare nuova concretezza alla richiesta di “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Così’ come venissero riconosciuti diritti e giuste rappresentanze decisionali a chi opera in questi ambiti, che è sempre più chiaro dover essere non in modo supplente ma sussidiario ai doveri dello Stato.
Un terzo insegnamento è nascosto sotto tanta apprezzabile generosità nelle donazioni di questi giorni. Occorrerà che questa consapevolezza individuale diventi esercizio costante delle virtù civili come cittadini, che devono “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, secondo criteri di progressività. Non è solo la speranza in una vera riduzione consistente della enorme evasione fiscale, ma la certezza che i gravi problemi che dovremo affrontare dopo questa pandemia possano essere sostenuti in modo equo tra i cittadini, riducendo quelle diseguaglianze che anche in questa crisi stanno penalizzando chi è meno garantito, è più fragile, addirittura “scartato”.  E’ certo che da questo periodo tante persone che già erano precarie nel lavoro, nel reddito, nella condizione personale, ne usciranno ancora più fragili. E’ necessario che a loro siano garantiti come priorità i diritti primari, evitando di ritornare a quel “capitalismo compassionevole”, in realtà “predatorio” com’è chiamato da papa Francesco, che tante ingiustizie e sofferenze ha creato nel nostro tempo. Quanto stiamo vivendo ci rende ancora più evidente il dramma di chi vive quotidianamente, da generazioni, privazioni e sofferenze dovute a malattie ben più conosciute del “nostro” virus, che si chiamano malaria, malattie infettive, fame, mancanza di acqua potabile e di cure mediche di base. Guai se, ancora una volta, quanto ci coinvolge come umanità ci fa togliere lo sguardo da una parte di noi che vive in altri continenti.
Dovremo sempre più ragionare, come la nostra Costituzione ci richiama in continuazione, come un “tutti” che non conosce divisioni, e ancora più come “fratelli” come indica l’articolo primo dei diritti dell’uomo. Per questo serve un nuovo spirito costituente, dove quanto ci unisce prevalga sulle nostre differenze.  In modo sempre più insistente si dice che “siamo in guerra”. Io credo che in realtà queste settimane ci stiano mostrando che cosa sia una “difesa civile nonviolenta”. La lotta infatti non è per distruggere un altro popolo, ma per salvare la vita di ogni persona, Le stesse forze armate intervengono in questa lotta in modo disarmato. Tutti siamo coinvolti, di qualsiasi generazione e condizione sociale e a tutti è richiesto il proprio contributo personale per il bene comune, non contro qualcuno. La responsabilità personale come presupposto per il raggiungimento del bene comune. La ricerca costante è quella della verità e del bene per tutti, oltre ogni confine, riconoscendoci tutti una stessa famiglia umana. Questo periodo può aiutarci anche a riconvertire le enormi spese per le armi, le guerre (che proseguono anche in questi giorni) e le minacce di guerre future verso obiettivi di pace e di ritrovata umanità, capendo finalmente che cosa si debba davvero difendere tutti insieme. Che questo lungo sabato santo ci possa trovare forti nella fede, testimoni di questa speranza e costanti nella pratica incessante del sacramento della carità, già evidente nei luoghi di cura e da vivere con relazioni costanti in ogni luogo di solitudine.




Il virus, il dolore e il silenzio di Dio
don Francesco Cosentino

Il virus, il dolore e il silenzio di Dio. Quando la preghiera diventa “grido”.
(da Avvenire del 31/03/2020)
don FRANCESCO COSENTINO,
teologo Pontificia Università Gregoriana

Perché è capitato a noi? Perché Dio non interviene a salvarci? L’antico grido, che da sempre abita il cuore dell’uomo dinanzi al mistero della sofferenza, è oggi l’unica preghiera possibile. Siamo come Giobbe, che maledice il giorno della sua nascita mentre le piaghe gli lacerano la carne; siamo come gli apostoli che, sballottati da una tempesta di vento e di onde, urlano la loro protesta a un Gesù che dorme tranquillo: possibile che non ti accorgi di noi? Svegliati, perché dormi?
È in questi momenti che raggiungiamo l’essenza profonda della nostra fede, quando siamo chiamati a lodare e servire Dio non dentro le consolazioni di una vita tutto sommato agiata e nella cornice di una tranquilla e pacifica religione borghese, ma quando siamo gettati nell’arsura del deserto e nella notte oscura dell’angoscia, della paura, del dolore e della non comprensione. Proprio in questi momenti, quando riusciamo a vedere semi di grano che crescono laddove tutto parla di rami secchi, a cogliere piccole luci nella notte, a vedere come Geremia il piccolo ramo di mandorlo nel cuore dell’inverno, sperimentiamo ciò che propriamente si chiama “fede”. A patto però che la forma di questa speranza non abbia nulla a che fare con l’ingenuità di una religiosità puerile, con l’atteggiamento miracolistico di chi, in preda alla fatica di reggere l’impatto del dolore, si aggrappa a eventi straordinari o, ancora, con il sentimento della fuga per non affrontare l’aspro duello con il male. La speranza cristiana, invece, sta nel sapersi e sentirsi accompagnati, dal di dentro del dolore, da un Dio umano e compassionevole, che si fa vicino alle nostre ferite, non lascia vacillare il nostro piede e rimane anche oggi il Dio che osserva la miseria del suo popolo e scende per liberarlo ( Es3,7– 8). Dinanzi al non senso, la preghiera può farsi grido, che inquieta l’infinito silenzio del cielo. Una preghiera di Giobbe, che abbraccia il dolore di tutti i crocifissi della storia e assume la postura pienamente umana di Gesù, il quale non “salta” l’ora della prova, ma vi entra dentro con angoscia e paura, percorrendo la drammatica domanda che raccoglie, in questo momento, anche tutte le nostre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai dimenticato?» (Gv 20,17).
Mentre il nemico invisibile moltiplica i contagiati, mentre medici e infermieri sono allo stremo e mentre a Bergamo sfila una drammatica marcia di militari che accompagnano le salme, la preghiera deve farsi domanda: è possibile parlare di Dio in un reparto di terapia intensiva per coronavirus? Quale Dio nominare in questa Auschwitz di oggi? Quale Dio pregare quando ho perduto un genitore al quale non ho potuto dare una carezza finale?
Sperimentiamo qui l’assenza di Dio. Giorni di deserto e di spoliazione, notte oscura della fede simile a quella notte in cui la sposa del Cantico esce per cercare l’amato e non lo trova: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato ma non l’ho trovato» (Ct 3,1). Ed è in questa esperienza che scopriamo una paradossale vicinanza con l’ateo: «C’è in noi un ateo potenziale – scriveva il cardinal Martini – che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere».
Quando nel maggio del 2006 papa Benedetto si recò ad Auschwitz fece risuonare il dramma di questa preghiera nella notte: «Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile; ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?».
Eppure, questa preghiera concepita nel dolore non rimane inascoltata. Mentre esprime il grido della nostra paura, anzitutto essa ci purifica dall’immagine di un Dio che ci risponde a comando, che ci evita le lacrime, che interviene dall’alto per risolvere i nostri problemi. Così, usciamo dall’interpretazione superstiziosa e magica della religione e impariamo – come affermava il teologo tedesco Metz – che Dio non è il tappabuchi delle nostre delusioni, ma la ragione del nostro sperare. Questa preghiera concepita nel dolore ci fa anche diventare più umani e, quindi, più compassionevoli e solidali verso gli altri. Il dolore ci scava dentro. Nella difficoltà e nelle oscurità facciamo l’esperienza della nostra fragilità, cosicché abbandoniamo le maschere fabbricate ad arte per nasconderla e o i surrogati della nostra società del consumo per esorcizzarla. Siamo fragili e impariamo a benedire ciò che siamo, svestendo i panni dell’onnipotenza: abbiamo bisogno dell’altro, da soli non possiamo farcela e il suo dolore è anche e sempre il mio. Ma la preghiera nel dolore ci avvicina soprattutto in modo unico all’esperienza di Gesù e alla sua preghiera: «La mia anima è triste fino alla morte» ( Mc 14,34). Si avvicina per lui l’ora della notte.
Ma la notte del Cristo è a suo modo unico: in quel Getsemani sono raccolte anche tutte le nostre notti, le oscurità della storia, le ingiustizie del mondo, le ferite dei poveri, le paure che spesso ci abitano. È in quella notte che noi possiamo vedere Dio proprio quando pensavamo di averlo perduto; entrando nella notte, infatti, Gesù ci rivela chi è Dio: non uno che fa teorie sul dolore o ne stabilisce le colpe, ma il Dio che entra nella notte, la soffre con te, accompagna la tua paura, si lascia toccare e ferire. E si lascia inchiodare sulla Croce perché quella notte si apra alla luce di una nuova vita.
Questa luce arriva inattesa, come l’alba del mattino di Pasqua. Può significare la fine di quella sofferenza o semplicemente l’aver ricevuto la grazia di guardare alla vita in modo nuovo. Certo è, che un miracolo succede e ha bisogno di occhi di fede. Forse sta già avvenendo, se in mezzo all’indescrivibile sofferenza per tanti nostri fratelli ammalati o già morti, sta cambiano il nostro sguardo sulle persone care e sulle cose, sugli abbracci mancati e sul delirio di onnipotenza di questo nostro Occidente arrivato ormai al capolinea. «Comprendete l’ora della tempesta e del naufragio – afferma il teologo protestante Bonhoeffer – è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza…Questo ci vuole mostrare: quando tu lasci andare tutto, quando perdi e abbandoni ogni tua sicurezza, ecco, allora sei libero per Dio e totalmente sicuro in Lui». Nell’ora della notte e della prova, allora, pur dentro una preghiera sofferta, cerchiamolo ancora. «Alziamoci, facciamo il giro della città, andiamo per le strade e per le piazze a cercare l’amato del nostro cuore» ( Cantico 3,1–2). E leviamo il capo, perché la nostra liberazione è vicina.




PREGHIERA PERSONALE
domenica 5 aprile

DOMENICA DI PASSIONE.
(da tenda della parola- Parma)

Ecco, si aprono le porte.
Arriva l’Inviato per noi, per il mondo, arriva oggi, per la nostra città.
Non ha armi, né armatura, arriva a cavallo di un’asina
come segno di gloria.
Si vestirà da servo per tutti.
Gettate i vostri mantelli per strada scuotete le vostre palme al Re della gloria.

Sei giorni prima della solenne celebrazione della Pasqua, quando il Signore entrò in Gerusalemme, gli andava incontro numerosissima folla. Portavano in mano rami di palma, stendevano i loro mantelli sulla strada e acclamavano a gran voce: “Osanna nell’alto dei cieli! Gloria a te che vieni, pieno di bontà e di misericordia!” (Antifona del Messale).

Accogliamo con amore il racconto desiderato e invocato dalla comunità cristiana.       

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo 26
30Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.  36Allora Gesù andò con [i discepoli] in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». 37E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. 38E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». 39Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». 40Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati 45e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. 46Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Viene l’ora ed è questa!
47Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. 48Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». 49Subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò.
Viene l’ora ed è questa!
57Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani.
Viene l’ora ed è questa!
27,1Venuto il mattino, 2lo misero in catene, lo condussero via e lo consegnarono al governatore Pilato, 11[che] lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». 12E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla.
Viene l’ora ed è questa!
15A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. 16In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba.  21Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». 22Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». 23Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!». 26Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. 27Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. 28Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, 29intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: «Salve, re dei Giudei!».
Sono io che parlo con te!
30Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo.
Sono io che parlo con te!
31Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo.
Ero cieco e ora ti vedo!
33Giunti al luogo detto Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», 34gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere.
Ero cieco e ora ti vedo!
35Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte.
Ero cieco e ora ti vedo!
36Poi, seduti, gli facevano la guardia.
Ero cieco e ora ti vedo!
37Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei».
Sono io che parlo con te!
38Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
39Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: 40«Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso,
Sono io!
se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce.
Sono io!
45A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio.
Viene l’ora ed è questa!
46Verso le tre, Gesù gridò a gran voce:
Viene l’ora ed è questa!
«Elì, Elì, lemà sabactàni?»,
Viene l’ora ed è questa!
che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Viene l’ora ed è questa!
47Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». 48E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. 49Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!».
Se tu conoscessi il dono di Dio!
50Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.
Se tu conoscessi il dono di Dio!
51Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo,
Se tu conoscessi il dono di Dio!
la terra tremò,
Se tu conoscessi il dono di Dio!
le rocce si spezzarono.
Se tu conoscessi il dono di Dio!
54Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».
Tu sei veramente il salvatore del mondo!
(
silenzio)
T
u sei veramente il salvatore del mondo!
(silenzio)
Tu sei veramente il salvatore del mondo!

UN SENTIERO.
Siamo giunti al luogo dove inizia ogni nostra celebrazione. Un cammino ci hai donato di compiere, perché sia vero il segno compiuto su di noi il giorno del battesimo. Sei tu che hai segnato il nostro corpo nel profondo, e noi solo all’esterno lo ripetiamo. Sì, con la tua vita donata sulla croce, gesto d’amore infinito: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma ora è necessario che da questo silenzio sorga dal profondo il gesto nato qui, davanti a te. Una forza interiore guidi, con tenerezza e irresistibile forza, la nostra mano. 

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

INTERCESSIONE.
Ricordati di noi, Signore, quando verrai nel tuo Regno.
Cristo Gesù, noi contempliamo il tuo corpo in croce,
il corpo dei martiri per l’amore e la giustizia,
il corpo esausto dell’innocente torturato,
il corpo inaridito degli uomini e delle donne affamati.
Ricordati di noi, Signore, quando verrai nel tuo Regno.
Noi contempliamo il tuo cuore trafitto
e possiamo riconoscere i cuori induriti dall’odio,
i cuori assetati di bontà e tenerezza,
i cuori affamati di compassione.
Ricordati di noi, Signore, quando verrai nel tuo Regno.
Ma noi volgiamo lo sguardo già al sepolcro
da dove sgorga la vita per sempre,
e ricordiamo coloro che faticano a sperare,
coloro da cui la morte ci ha separato in questo tempo.
Ricordati di noi, Signore, quando verrai nel tuo Regno.
E noi benediciamo il tuo corpo, Signore Gesù,
il tuo corpo seme del corpo che è la Chiesa,
il tuo corpo di cui noi siamo chiamati ad essere parte.
Per il tuo corpo e per il tuo sangue, tu sei benedetto, nostro unico Signore!
Ricordati di noi, Signore, quando verrai nel tuo Regno.

MEMORIA
È giunta l’ora di lasciare i miei amici, l’angoscia mi assale…
Ecco la Pasqua, il tempo è vicino!
Tristezza mortale che stringe il cuore senza tregua.
È giunta l’ora di lottare nella notte, un povero ha gridato…
Ecco la Pasqua, il tempo è vicino!
Troppo pesante il silenzio per l’uomo nel giardino dell’agonia.
È giunta l’ora di consegnare la mia vita, il seme germoglierà…
Ecco la Pasqua, il tempo è vicino!
Fatica dell’amore fedele che acconsente alla morte.
È giunta l’ora di donare il mio Spirito, perché viva la gioia…
Ecco la Pasqua, il tempo è vicino!
Un mondo salvato si risveglia alla gloria per sempre.

BENEDIZIONE
Su coloro che sono nuove creature e su tutto l’Israele di Dio siano pace e misericordia. Amen.




DIGIUNO EUCARISTICO SENZA SURROGATI
Enzo Bianchi, monaco

LA CARITA’ CRISTIANA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Enzo Bianchi (da “La Stampa” di Torino, 20 marzo 2020)

L’alternativa tra chiese aperte e chiuse, partecipazione alla Messa o digiuno eucaristico. Il caso serio dell’eucaristia. In ogni caso una carità compassionevole e creativa. L’accesso ai sacramenti.

In questo tempo di coronavirus si è aperto un acceso dibattito fra pastori, teologi e fedeli sull’alternativa tra chiese aperte o chiese chiuse, partecipazione alla Messa o digiuno eucaristico. Non manca qualche intervento polemico, intollerante verso il parere degli altri e addirittura sarcastico, ma meglio non tenerne conto e lasciar cadere. In particolare, ciò è avvenuto dopo che papa Francesco ha richiamato tutta la chiesa a non disertare ma a esercitare una carità compassionevole e creativa verso i malati, i morenti e verso le persone anziane, sole e fragili. Il papa ha avuto anche l’audacia di dire ad alta voce che “le misure drastiche non sempre sono buone”. Non per mancare della virtù della prudenza, ma per risvegliare l’intelligenza della carità e per indicare ai cristiani che, soprattutto in ore cattive come queste dell’epidemia, occorre vivere il comandamento dell’amore del prossimo. Quanto alla celebrazione della liturgia eucaristica, della Messa, nessuna posizione miracolistica né di arrogante certezza e tantomeno di intransigentismo cattolico. Non siamo più in epoche nelle quali la peste era sentita come un giusto castigo di Dio per le infedeltà degli umani, né pensiamo che vi siano recinti o realtà sacre esenti dall’essere portatrici di contagio, e non siamo neanche inclini ad affermare il legalismo del precetto. Dunque, si devono certamente evitare celebrazioni liturgiche con assembramenti di gente e, al riguardo, occorre rispettare le precauzioni prescritte dall’autorità civile. I miei dubbi non riguardano queste dovute osservanze ma piuttosto l’istintiva, frettolosa e poco meditate modalità con cui si offrono surrogati come le messe private, quelle solitarie, quelle trasmesse attraverso le più svariate forme che il web offre. Per la chiesa cattolica, infatti, il sacramento non è mai virtuale, ma va vissuto nella sua realtà, e l’eucaristia va vissuta come cena del Signore celebrata da una comunità. L’eucaristia è un evento in cui insieme si mangia e si beve, cioè si assimila, il corpo del Signore, dopo aver insieme ascoltato la Parola, diventando così il corpo ecclesiale di Cristo. Se è vero che non c’è chiesa senza eucaristia è altrettanto vero che non c’è eucaristia senza chiesa. Come ha detto con semplicità ma acutezza il vescovo di Milano, “altro è mangiare il pane, altro è guardarlo in una fotografia”. I malati e i morenti hanno bisogno del corpo di Cristo, devono poter lasciare questa terra nella speranza della vita eterna e con i segni di una carità che non viene meno. I fedeli hanno il diritto di essere nutriti dai sacramenti e di poter morire con quei conforti che la chiesa ha sempre loro proposto come salvifici. Se si sta per un certo tempo senza eucaristia, occorre avere consapevolezza di questa privazione, di un digiuno che non può essere alleviato da surrogati. C’è sempre la preghiera, in particolare c’è la lettura della Scrittura che contiene la parola di Dio, ma la mancata partecipazione all’eucaristia deve essere sentita dai cristiani come una prova che li pone in attesa di poterla celebrare di nuovo, quale viatico necessario nel cammino verso il Regno. Certo, un monaco lo sa bene, S. Benedetto come tanti eremiti del deserto, visse per anni senza eucaristia e senza celebrare la Pasqua, ma i bisogni della fede dei credenti sono diversi, appunto “secondo il grado della fede di ciascuno”, direbbe l’apostolo Paolo.
È significativo che questa urgenza da me invocata fin dall’inizio della crisi sia stata manifestata da un vescovo come Mariano Crociata, da presbiteri come p. Bartolomeo Sorge e don Massimo Naro, da un teologo come Giuseppe Ruggieri, da laici come Andrea Riccardi, Piero Stefani, Alberto Melloni, Massimo Faggioli, dallo storico Franco Cardini e da tanti altri, vescovi, presbiteri e semplici fedeli, non classificabili all’interno di nessun schieramento. Più che mai in questi giorni emerge la testimonianza di pastori che amano la loro comunità e per essa svolgono il loro servizio con abnegazione e con la gratuità del Vangelo. Ed è significativo che tra i morti vi siano anche tanti presbiteri, come nella diocesi di Bergamo: pastori in mezzo al loro gregge! «In casi di malattia grave, la presenza del sacerdote diventa un balsamo importante» ha scritto in questi giorni il vescovo di Gozo. In questa direzione si orientano anche gli opportuni suggerimenti per la celebrazione dei sacramenti in tempo di emergenza Covid-19 indicati dalla Segreteria generale della CEI, suggerimenti veramente ispirati dal Vangelo e da una intelligente sollecitudine pastorale. Ne chiese chiuse, ne assembramenti ecclesiali o liturgici, ma un operare sempre secondo i sentimenti di Cristo Gesù, senza che nell’economia sacramentale, siano privilegiati alcuni ed esclusi altri. L’appello di Papa Francesco è stato dunque un mettere in guardia tutta la chiesa dalla sonnolenza spirituale, dall’appiattimento della sua disciplina su quella dell’autorità politica e, a mio parere, da una debolezza della fede che diventa tentazione per tutti noi quando la strada si fa difficile, oscura, nel deserto della sofferenza e della prova. Tenere le chiese aperte significa non chiudere le porte a chi, osservando le precauzioni, vuole entrare in esse a pregare, a trovare conforto nella fede, ma significa anche invitare a intercedere davanti a Dio e a stare vicini a tutti quelli che sono vittime dell’epidemia in modi diversi. Il ministero della compassione, della cura e della consolazione va esercitato in modo più che mai creativo. E così la fede della chiesa aiuterà la fiducia degli uomini e delle donne nella vita, nel futuro, nella comunità.

In sintesi, in una situazione temporanea di grave emergenza e pericolo di vita la comunità cristiana si trova nelle condizioni di non potersi riunire per celebrare l’eucaristia. I credenti, da soli o in famiglia, nutrono la loro fede pregando la liturgia delle ore, nell’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture e nella lectio divina, in una forma di digiuno eucaristico. Tuttavia, come indicano le normative pubblicate dalla CEI, in condizioni di necessità e infermità non possono essere negati a nessuno i sacramenti.




QUARESIMA E QUARANTENA
Matteo Ferrari – monaco di Camaldoli

Quarantina e quarantena
http://www.settimananews.it/spiritualita/quarantina-e-quarantena/
17 marzo 2020
Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

La coincidenza tra quaresima e coronavirus può aiutare a vivere i tre impegni tipici di questo tempo: ascolto/preghiera, digiuno e carità. Indubbiamente, ciò che è male rimane male e ciò che è emergenza rimane emergenza. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi lo viviamo, scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo alla luce della Parola di Dio. Allora anche il tempo del Covid-19 può diventare un’occasione per riscoprire alcuni aspetti della nostra fede, mentre la quaresima che stiamo vivendo può insegnarci ad attraversare il difficile deserto del coronavirus. La quarantina ha qualche cosa da dire alla quarantena.
La ricetta della quaresima
Questo travaglio mondiale e nazionale cade proprio nel tempo di quaresima. La Chiesa, nella sua storia bimillenaria, per questo tempo liturgico ha sempre indicato dei “rimedi”, delle “medicine” per attraversare il deserto quaresimale e giungere, rinnovati e “guariti” dalle nostre ferite, a celebrare la vittoria pasquale: l’ascolto della Parola e la preghiera, il digiuno, la carità. Non potrebbero essere anche queste “medicine” quaresimali ad indicarci come vivere questo tempo così difficile anche per la fede? Invece di protestare per la ragionevole e doverosa sospensione delle celebrazioni pubbliche, per il bene nostro e degli altri, non si potrebbe “rispolverare” alcune pratiche che ci vengono dalla sapiente tradizione cristiana? Forse allora anche la quarantena potrebbe dire qualche cosa alla nostra quarantina e “costringerci”, come spesso accade quando si è necessariamente ridotti all’essenziale, a riscopre alcuni elementi fondamentali della fede.

L’ascolto e la preghiera
Innanzitutto l’ascolto e la preghiera. Perché insistere così tanto anche sulla messa trasmessa per televisione? Può certo essere una cosa buona per persone sole o anziane; può essere utile per ascoltare le letture e l’omelia. Tuttavia non ci sono altri modi per ascoltare la Parola di Dio e per pregare? Non potrebbe essere questo tempo forzato per riscoprire che, secondo il dettato del Vaticano II, la Bibbia deve diventare il nutrimento di tutti? Le famiglie potrebbero trovarsi insieme quotidianamente, prendere le letture del giorno, leggerle, stare un po’ in silenzio e concludere con un momento di intercessione e di preghiera. La quaresima allora direbbe alla quarantena che è necessario ricordarsi di Dio e che un credente non può vivere questi momenti nella disperazione e ripiegandosi unicamente su sé stesso. La quarantena dice alla quarantina che l’uomo «non vive solo di pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3). La quarantena del Covid-19 ricorda invece al credente nel tempo di quaresima di riscoprire che “preghiera” non è solo Messa, ma che proprio perché la celebrazione eucaristica sia feconda, occorre un ascolto personale delle Scritture e una preghiera non solo comunitaria. Può essere anche il tempo della riscoperta della preghiera in famiglia.

Il digiuno
Il secondo elemento che la tradizione ecclesiale suggerisce per attraversare il tempo di quaresima è il digiuno. Certo non quel digiuno un po’ “ipocrita” che consiste nel rinunciare a qualche piccolo “lusso” o mangiare pesci costosi il venerdì al posto della carne. Si tratta del digiuno vero, quello spazio vuoto che indica un’apertura a Dio e agli altri. In questo caso, la quaresima potrebbe dire alla quarantena che questo tempo di “digiuno”, non scelto ma forzato, da tante cose che consideriamo fondamentali nella nostra vita può diventare un tempo per fare spazio alle cose veramente essenziali. Innanzitutto, per un credente, uno spazio per Dio. La necessità di abbandonare tante cose superflue ci fa toccare, forse anche con sofferenza, la fragilità della nostra esistenza e ci guida a riscoprire la possibilità di vivere in un modo differente per fare spazio a Dio. Nello stesso tempo, la quarantena può dire alla nostra quaresima che ci può essere anche un “digiuno eucaristico” che può alimentare l’attesa e la fame di partecipare alla celebrazione eucaristica nell’assemblea liturgica radunata intorno all’altare Signore. Non potrebbe essere questo “digiuno eucaristico” di oggi, non sconosciuto alla tradizione cristiana, un’occasione per vivere in un modo differente la celebrazione eucaristica domani?

La carità
Infine, l’ultima medicina quaresimale è la carità. La Chiesa ai catecumeni e ai penitenti suggeriva la carità fraterna come medicina dell’anima per guarire e trasformare il cuore. La quaresima potrebbe insegnare alla quarantena per il Covid-19 che ciò che ci viene chiesto in questi giorni – rimanere in casa, rinunciare a quello che, anche di buono e di bello, potremmo fare – è un atto di carità verso noi stessi e verso il prossimo. Soprattutto verso i più deboli e i più esposti. La quaresima dice alla quarantena che la responsabilità in questo momento non è solo un fatto di legalità e di civiltà, ma anche di fede. Un cristiano vive tutto questo come esercizio della carità, seguendo le orme di Gesù che non è venuto per essere servito, ma per servire; non è venuto per i sani ma per i malati; non ha vissuto per sé stesso, ma per gli altri.

D’altra parte, la quarantena può dire alla quaresima di riscoprire una carità concreta che si fa carne nelle scelte concrete di ogni giorno. Se oggi questa carità ha il volto ben preciso dello “stare a casa”, un domani questa medesima carità vorrà dire vivere le scelte della nostra vita non solo dalla prospettiva del “buon cittadino”, ma anche da quella del “buon cristiano”, che non estromette la fede da alcun ambito della propria vita.
Il vaccino quaresimale
Ecco il vaccino che la fede ci dona e che non ha bisogno di nessuna sperimentazione. È già stato sperimentato per secoli: l’ascolto-preghiera, il digiuno, la carità. Se, come credenti, vivremo con fede questo tempo di “prova”, potremo scoprire domani che la quarantena ci ha insegnato qualche cosa, che magari avevamo perduto, sulla quarantina, mentre la quaresima ci sosterrà nel cammino in questo deserto della quarantena.

Se sapremo ascoltare sia la quarantina, sia la quarantena, potremo giungere, rinnovati, a celebrare la Pasqua del Signore. E sarà veramente una Pasqua di risurrezione! Allora anche le nostre assemblee vivranno la festa del sentirsi nuovamente convocate, magari avendo prima dovuto attraversare il tempo in cui sperimentare un ascolto diverso, un digiuno non scelto ma accolto, una carità autentica.




CARCERI VIOLENTE?

I VIOLENTI
Mattia Feltri (LA STAMPA 12 marzo 2020)

Signor ministro Bonafede,
ieri mi sono stupito di condividere una sua riflessione, a proposito della rivolta nelle carceri, e sulla violenza che non porta a nulla di buono.
E’ vero e lei del resto ne sta vedendo i risultati.
Infatti destinare sei metri quadri per ogni detenuto è violenza.
Lasciare che le prigioni si sovrappopolino riducendo quei sei metri quadri è violenza.
Trascurare che trentaquattro detenuti su cento sono in attesa di giudizio, dunque innocenti fino a prova contraria, quando la media europea è del ventidue, e in Gran Bretagna sono il dieci, è violenza.
Ignorare che un detenuto su tre è tale per reati connessi alla droga, e i più sono ragazzi, e insistere imperterriti a incarcerarli, è violenza.
Girarsi dall’altra parte quando si denuncia ripetutamente che tre persone al giorno, oltre mille all’anno, finiscono in carcere da innocenti (e si conteggiano solo gli innocenti che hanno ottenuto un risarcimento, degli altri non si sa) è violenza.
Continuare ad aumentare le pene e a codificare nuovi reati in esclusiva e ottusa risposta a pretese emergenze, che equivale all’impotenza dei genitori incapaci di altro che riempire di schiaffi i figli insubordinati, e col dettaglio che lo Stato non ci è né padre né madre, è violenza.
Assistere alla crescita del numero dei detenuti, anno dopo anno, da anni, mentre i reati commessi diminuiscono da anni, anno dopo anno, è una violenza intollerabile.
Ed è per di più la violenza pusillanime di chi si nasconde dietro la forza irresistibile della legge e dell’autorìtà.
Tutta questa violenza non porterà niente di buono, neanche a voi.




Veglia dei lavoratori “Persone disabili e lavoro”
Convegno “TUTTO CONNESSO-Il lavoro che cambia”

Convegno e veglia sul lavoro a Parma




Elezioni regionali 2020
Nota della Conferenza episcopale Emilia Romagna

Elezioni Emilia Romagna 2020

“La Regione, laboratorio di democrazia”
Nota della Conferenza episcopale regionale in preparazione all’appuntamento elettorale

La Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna si è riunita oggi in assemblea a Bologna, a Villa San Giacomo, e durante i lavori presieduti da S.E. il card. Matteo Zuppi, presidente della Ceer e arcivescovo di Bologna, ha anche elaborato una nota in vista delle prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna del 26 gennaio, di cui si trasmette il testo che segue.

La Regione, laboratorio di democrazia.
Le elezioni regionali, oltre alle contingenze storiche che attribuiscono ad esse loro significati politici nazionali, hanno un impatto importante per le nostre comunità cristiane, perché riguardano una porzione di Paese di cui viviamo le dinamiche economiche, sociali, amministrative. La nostra Regione Emilia-Romagna incrocia, inoltre, il territorio e la vita delle parrocchie di 14 Diocesi, da Piacenza-Bobbio a Rimini. Questa vicinanza tra vita ecclesiale e vita civile, nella distinzione, ma anche nella collaborazione per il bene comune, per la legalità, per la giustizia, per la cura della nostra terra e per la tutela dei più deboli, motiva questo appello in occasione delle prossime elezioni regionali. Mentre invitiamo a esercitare il diritto di voto, primo gesto importante di responsabilità in ogni tornata elettorale, come Pastori delle Chiese dell’Emilia-Romagna vogliamo richiamare alcuni aspetti utili per un discernimento sociale e per una scelta coerente.
L’Europa è casa nostra
In fedeltà all’art. 117 della Costituzione, le Regioni sono chiamate “nelle materie di loro competenza” a partecipare “alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea”. La cura dell’Europa significa cura della nostra terra, delle possibilità di valorizzare un patrimonio umano, culturale, ambientale, religioso e lo studio e l’esperienza dei nostri giovani universitari e lavoratori. Pensare di tutelare la Regione contro l’Europa è una tragica ingenuità e fonte di povertà. Al tempo stesso, non possiamo dimenticare lo spirito sorgivo dal quale è scaturito il desiderio di unità tra le diverse nazioni d’Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale. Uomini come De Gasperi, Adenauer, Schuman profusero tutto il loro impegno nella costruzione di una “comunità di popoli liberi ed uguali” (Adenauer a Bad Ems, 14/9/1951), nella quale le specificità nazionali potessero armonizzarsi offrendo ciascuna il proprio peculiare contributo alla bellezza dell’insieme.
Attenzione ai poveri e pari opportunità
L’art. 117 della Costituzione ricorda che “le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Ogni forma di corporativismo, di esclusione sociale e dalla partecipazione attiva alla vita delle nostre città, ogni discriminazione di uomini e donne, italiani o immigrati, persone o famiglie, indebolisce il cammino e lo sviluppo regionale. La preoccupazione principale, anche nelle politiche regionali, non può che essere per le situazioni di povertà, disagio ed emarginazione, segnatamente per quanto riguarda la mancanza e la precarietà del lavoro, continuando un impegno politico che in questi anni ha portato anche buoni frutti. Una particolare cura meritano i giovani, in un grave momento di disorientamento pure per le loro famiglie.
Sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza
A orientare le funzioni amministrative regionali sono i principi della sussidiarietà, della differenziazione e della adeguatezza. Anche l’autonomia regionale non può dimenticare questi tre principi che valorizzano e “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”, cioè l’azione della famiglia,
di altre comunità e delle realtà del Terzo settore in una programmazione territoriale. Ogni forma di omologazione culturale che non risponde all’adeguatezza dei servizi e al rispetto delle realtà familiari e sociali rischia di essere una sovrastruttura che non serve al bene comune. A questo proposito la sinergia delle attività regionali con le istituzioni ecclesiali (oratori, scuole paritarie, attività estive, consultori, centri di ascolto … ), la concreta e costante valorizzazione dei corpi intermedi potranno aiutare ad affrontare “l’emergenza educativa”.
Sviluppo, coesione e solidarietà: persona e comunità
Con le proprie risorse la Regione opera per “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona” (Art. 119 della Costituzione Italiana). La cura degli aspetti economici deve essere accompagnata, soprattutto oggi, da una attenzione ai percorsi di integrazione, inclusione di famiglie e persone in difficoltà, mentre i nostri paesi dalla collina alla costa e le nostre città cambiano continuamente. Ma sono necessarie anche una legislazione e una regolamentazione che non penalizzino alcune categorie di persone nell’accesso alla casa, alla scuola, al lavoro, alla salute. La tutela della vita dal suo concepimento alla morte naturale, nella salute e nella malattia, nella stanzialità e nella mobilità, non può che trovare le istituzioni regionali capaci di rinnovate scelte, non riconducibili alle sole esigenze/componenti economiche e storico-sociali.
I beni culturali e ambientali
Le conseguenze del terremoto del 2012 che ha segnato profondamente il patrimonio culturale e religioso di alcune Diocesi e Province, ma anche la ricchezza di oasi naturali e di colline, di fiumi e coste, esigono un’attenzione particolare ai beni culturali e ambientali, con una collaborazione stretta tra Stato e Regioni (art. 119 della Costituzione) senza la quale i tempi lunghi del restauro, gli abbandoni della terra, delle colline dell’Appennino e della biodiversità, la mancata cura dell’ambiente – di fronte al riscaldamento e all’innalzamento delle acque del nostro mar Adriatico – e l’inquinamento, possono segnare irrimediabilmente una delle ricchezze regionali più importanti. Il patrimonio ambientale e culturale, accompagnato dallo stile di accoglienza e ospitalità riconosciuto alla nostra terra, sarà una risorsa decisiva per lo sviluppo del turismo, fondamentale per lo sviluppo e il futuro della nostra Regione.

Le prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna sono un’occasione importante perché la Democrazia nel nostro Paese, che si realizza nei cammini e nelle scelte anche regionali, non venga umiliata e disattesa e i principi costituzionali ritrovino nelle nostre terre forme rinnovate di espressione e persone, delle diverse appartenenze politiche, impegnate a salvaguardarli, sempre. Un impegno che deve essere accompagnato nella campagna elettorale da un linguaggio, libero da offese e falsità, concreto nelle proposte, rispettoso delle persone e delle diverse idee politiche. A questo riguardo, come Pastori delle Chiese dell’Emilia-Romagna desideriamo offrire quale criterio e chiave di lettura, per i fedeli e per tutti gli uomini di buona volontà, la ricchezza e fecondità della Dottrina Sociale della Chiesa. Ancorata sulla salda ed immutabile roccia del Vangelo, essa è al tempo stesso capace di un confronto fecondo con ogni realtà umana nel suo sviluppo, proprio in virtù dell’inesauribile profondità della Parola di Dio, un tesoro dal quale è continuamente possibile “trarre cose antiche e cose nuove” (cfr. Mt 13, 52).

Conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna
Bologna 13 gennaio 2020

Fonte: https://www.chiesadibologna.it/la-regione-laboratorio-di-democrazia/