Carceri, idee e progetti ci sono
G.Giostra (Avvenire)

LA PRIVAZIONE DELLA DIGNITÀ
Glauco Giostra (AVVENIRE 18 agosto 2023)
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Carceri, idee e progetti ci sono.
Questo articolo uscirà probabilmente fuori tempo massimo. La permanenza dell’attenzione mediatica, politica e sociale sulla questione penitenziaria è generalmente di un paio di giorni per ogni suicidio in carcere (arriva ad una settimana per ogni evasione, solo perché è fatto che ingenera allarme sociale). Poi, con inconfessabile sollievo, tutto torna nel buco nero della rimozione collettiva, senza scrupoli eccessivi, perché rispetto alle vittime di altri drammi umanitari i detenuti pagano per loro colpe. Si potrebbe far osservare che la pena per la commissione di reati consiste nella privazione della libertà, non della dignità e della speranza: ma alle persone civili la precisazione suonerebbe giustamente come un’ovvietà; alle altre, come un buonismo insopportabile.
Il più grande desiderio sarebbe che le successive righe non recuperino mai attualità; l’angosciante certezza è che la ritroveranno presto, e per molto tempo ancora. Basta lasciar parlare i fatti: i fatti sono argomenti testardi.
A dieci anni di distanza dalla sentenza (Torreggiani contro Italia) con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per aver violato l’art. 3 della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti), la situazione nelle nostre carceri è raccontata da questi dati.
Nel 2022, è stato toccato il numero più alto di suicidi, 85. Nei primi otto mesi dell’anno già è stata raggiunta la cifra di 47, e non sempre in questo raccapricciante computo sono compresi coloro che si sono lasciati morire di fame e di sete nel disinteresse generale. Centinaia i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. Un quinto della popolazione carceraria si è abbandona a gesti di autolesionismo, quasi la metà fa uso di psicofarmaci; solo nello scorso anno, in più di 4.500 casi la magistratura ha riconosciuto che i detenuti hanno subito un trattamento inumano e degradante. Fuori dal carcere poi, ci sono più di 90.000 cosiddetti liberi
sospesi, cioè condannati che attendono per anni di sapere se dovranno scontare la pena in carcere.
Una situazione drammatica, ad eziologia complessa. Alcune tra le principali cause: magistratura di sorveglianza e polizia penitenziaria sotto organico; personale psicopedagogico praticamente assente; strutture spesso fatiscenti, sempre inadeguate; limiti normativi alla funzione risocializzativa della pena; ipercriminalizzazione e risposta carcerocentrica al reato; soprattutto, grave carenza di opportunità formative e lavorative. A quest’ultimo proposito, merita di essere segnalato, in termini di sicurezza sociale, come secondo recenti dati forniti dal Cnel, in Italia il tasso di recidiva medio è del 68,7%; ma scende al 2% per i detenuti che hanno un contratto di lavoro.

Si può dunque dissentire sui fattori patogeni o sul loro coefficiente di incidenza, non sulla diagnosi: una diagnosi di drammatica gravità che era già contenuta nella autorevoli parole del Presidente Mattarella in occasione del suo secondo insediamento: « Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza». Implicito, ma inequivoco il referto: lo stato delle nostre carceri è quello di un Paese senza dignità.
Le responsabilità non sono certo – se non per i dieci mesi di inerzia – di questo Governo, ma le prospettive ci sembrano sconsolanti. Probabilmente è colpa nostra se non riusciamo a farci coinvolgere dall’ottimismo del vicepresidente del Senato, onorevole Gasparri, secondo cui: « Basta applicare le leggi che ci sono. Nordio, ci vuole un minuto per avviare questo percorso. Non bisogna nemmeno fare norme nuove».
Il ministro della Giustizia ritiene, invece, che ci voglia più di un minuto e da tempo ormai allude alla necessità di interventi diversificati, ma sono intenzioni ancora di una vaghezza disarmante, a parte l’idea di utilizzare come carceri le caserme dismesse. Idea che, a tacer d’altro, sembra ridurre il dramma carcerario a un problema di capienza architettonica. Così però non è, se si pensa che al tempo della sentenza Torreggiani con un tasso di sovraffollamento che raggiungeva quasi il 150% i suicidi erano 69 all’anno, mentre nel 2022, con un tasso pari all’incirca al 120%, sono saliti a 85.
Restiamo, ancora una volta, ai fatti. Chiusi nei cassetti ministeriali ci sono la miniera di analisi, di progetti, di soluzioni operative lasciata dagli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno visto coinvolte ideologie, professionalità ed esperienze diverse; la riforma penitenziaria elaborata dalla Commissione nominata dall’allora Guardasigilli Orlando; le indicazioni fornite dal Gruppo di lavoro istituito dall’ex ministra Cartabia per l’innovazione del sistema penitenziario. Possibile che in questa copiosissima riserva di proposte già normativamente elaborate non vi sia nulla da recuperare per una nuova iniziativa legislativa?
Gli unici disegni di legge in materia sono quelli volti a ridimensionare la funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione e ad abolire il reato di tortura.




La lunga estate nelle carceri italiane.
AVVENIRE

Dietro le sbarre
La lunga estate nelle carceri italiane. Il lavoro? Resta ancora un miraggio
Fulvio Fulvi (AVVENIRE 6 agosto 2023)
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Continuano, dietro le sbarre, i suicidi, le aggressioni agli agenti, le rivolte, gli scioperi della fame. Le carceri sovraffollate, insalubri e quindi “insicure” per chi ci abita, sono un’emergenza nel nostro Paese. E lo diventano ancora di più nel mese di agosto, quando nelle celle si scoppia dal caldo, il personale di sorveglianza si riduce a causa delle ferie estive e vengono sospese le attività ludiche e formative che nel resto dell’anno aiutano i reclusi ad allontanarsi dall’inedia e dalla solitudine, potenziali malattie mortali.
Sovraffollamento e organici insufficienti: due questioni che si trascinano da anni ma che rimangono inevase nonostante gli allarmi e le continue denunce di chi è impegnato nella tutela dei diritti delle persone private della libertà e dei lavoratori del settore. Perché il carcere, in Italia, è un “pianeta dimenticato”. Eppure i numeri parlano chiaro: alla data del 31 luglio, nei 189 istituti di pena per adulti presenti sul territorio nazionale, i detenuti erano 57.749 (2.510 donne e 18.044 stranieri), cioè oltre 10mila in più rispetto alla capienza regolamentare, con un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. E fa riflettere anche che tra quelli costretti a vivere “dentro”, solo 42.918 devono scontare una pena definitiva mentre il resto è in attesa di un primo giudizio (7.946), di una sentenza di appello o dell’esito di un ricorso (5.897). Risulta largamente insufficiente, poi, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà) che invece consentirebbero uno sfoltimento delle presenze all’interno delle strutture. Vite inafferrabili, quelle dei detenuti, per i quali il tempo diventa, nella maggior parte dei casi, non un’occasione di redenzione umana e di reinserimento sociale come dovrebbe essere in base all’art. 27 della Costituzione, ma un pesante macigno che ne schiaccia l’anima e qualche volta anche il corpo: i suicidi, che nel 2022 sono stati 85 – un tragico primato – e 42 dal 1° gennaio di quest’anno a oggi, sono la conseguenza di una condizione esistenziale divenuta impossibile.
Se le morti per mano propria aumentano (e si verificano soprattutto nei primi sei mesi di detenzione e durante l’estate) è anche perché chi è rinchiuso in una cella trascorre le giornate solo in attesa dell’ora d’aria e dei pasti, guarda la tv o fuma una sigaretta e non è impegnato in altre attività. Solo il 31,6% dei carcerati, infatti, è iscritto a un corso scolastico mentre il 35,2% lavora, dentro oppure in regime di semilibertà, per l’Amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di un’impresa esterna. È invece quasi del tutto assente la formazione professionale, che riguarda il 4 %. «Il tempo sprecato dietro le sbarre distrugge, perde di significato, perché sono altri a decidere per te, quando devi mangiare, fare la doccia, uscire in cortile, telefonare ai parenti» spiega Carla Lunghi, docente di Sociologia dei processi culturali all’università Cattolica di Milano la quale, oltre a studiare il “fenomeno carcere”, insegna italiano come volontaria nella Casa circondariale di San Vittore. «Il rischio è che queste persone, quando escono, siano peggiori di prima, larve umane, incattivite e incapaci di decidere anche le minime cose quotidiane, come comprare il biglietto del tram o pagare le tasse. Figuriamoci trovare un lavoro…» commenta Lunghi. «È necessario invece che il carcere come istituzione si assuma la responsabilità di educare – conclude – e di creare nuovi cittadini anche attraverso esperienze di lavoro che abbiano spazi di operatività e una retribuzione soddisfacente per favorire l’autostima o un’idea positiva di sé». «D’estate, i ritardi e le emergenze, presenti in un carcere anche quando tutto funziona, rischiano di diventare esplosivi perché fanno crescere l’insofferenza di chi vi è rinchiuso, le ristrettezze quotidiane diventano più pesanti – avverte Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – e aumenta l’incapacità di gestire il tempo vuoto, con effetti psicologici spesso devastanti». «Inoltre, a dominare quasi sempre nelle decisioni di chi gestisce le strutture – spiega Palma – è l’applicazione pedissequa della “norma neutra” rispetto, per esempio, all’esigenza di una vicinanza accogliente, di un incontro in più in parlatorio o di una telefonata». Nascono anche da qui gli atti di autolesionismo e i suicidi.
E non va dimenticata, poi, “l’altra parte della “barricata”, anche se così non dovrebbe essere: gli agenti di polizia penitenziaria. Quelli in servizio a tutt’oggi nelle carceri italiane sono 32.260. Quasi un agente ogni due detenuti. E con un’età media alta. «Ne servirebbero almeno 4.364 in più per far fronte alle esigenze di sicurezza interna e all’organizzazione delle attività quotidiane dei reclusi previste dal regolamento» sostiene Massimo Vespia, segretario generale della Fns-Cisl. E molto spesso i sorveglianti vengono aggrediti e minacciati, anche con violenza da detenuti scalmanati o con gravi problemi psichici. «Ci sono colleghi che ogni giorno entrano da soli in sezioni con cento detenuti, spesso con tutte le celle aperte» spiega Giovan Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo della categoria. Cosa fare, allora? «Ministero della Giustizia e Dap devono provvedere senza più rinvii alla carenza degli organici – chiede Vespia –, a rinnovare e ammodernare gli istituti penitenziari vecchi e inadeguati (alcuni risalgono all’epoca borbonica), a creare spazi per il personale e ausili tecnologici per migliorarne il servizio».

LA STORIA

A Locri, dove si riparano vite. Coi saponi.  Dall’olio esausto lavorato dai detenuti è nata la linea di prodotti “Bergoglio”, benedetta dal Papa. Il progetto voluto da Caritas, Tribunale e Casa circondariale. E chi vi partecipa, una volta uscito, trova occupazione.

Antonio Maria Mira (AVVENIRE 6 agosto 2023)

Gli scarti delle produzioni che vengono lavorati dagli scarti della società. Accade nel carcere di Locri, tra profumi di bergamotto e ulivo. Profumi di impegno e cambiamento. È il progetto “Profeti di speranza, mendicanti di riconciliazione” della Caritas della diocesi di Locri-Gerace in collaborazione col Tribunale e la Casa circondariale di Locri, l’Uepe e la cooperativa “Felici da matti”. Un’iniziativa per dare lavoro a detenuti e ex detenuti, ma anche di più, come ci spiega la direttrice della Caritas diocesana, Carmen Bagalà. Un progetto fortemente voluto e sostenuto dal vescovo Francesco Oliva che più volte è stato in carcere per incontrare i detenuti. Un carcere strapieno.
La capienza sarebbe per 60 persone, ma attualmente ne ospita 120, metà stranieri. Con questi numeri le attività lavorative diventano difficili anche se ancor più necessarie. Ecco il motivo del progetto della Caritas, finanziato coi fondi dell’8xmille, che per ora coinvolge 4 detenuti tra i 30 e i 40 anni, due italiani e due stranieri. Non hanno diritto al lavoro esterno, così il lavoro è entrato in carcere grazie alla Caritas. Lavoro che diventa poi fondamentale per chi esce dal carcere dopo aver scontato la pena. Così 3 ex detenuti, che avevano già cominciato a lavorare durante la pena, una volta usciti hanno trovato occupazione, uno per la Diocesi, due per il Santuario della Madonna di Polsi, occupandosi della manutenzione e dei terreni agricoli. «È giustizia riparativa» commenta con soddisfazione Carmen. Come tutto il progetto. E allora torniamo in carcere. Qui in un laboratorio i 4 detenuti confezionano i saponi prodotti dalla cooperativa “Felici da matti” utilizzando oli esausti da frittura e l’essenza del bergamotto, il profumatissimo agrume tipico calabrese e in particolare della Locride. I detenuti non possono produrre i saponi perché in carcere è vietato far entrare sostanze chimiche come la soda necessarie per la realizzazione. Così si limitano a confezionarli in belle scatolette che portano scritto “Naturali Terre di Calabria”. Inoltre nella falegnameria del carcere realizzano portasapone in legno di ulivo riciclato, materiale di scarto regalato da agricoltori e falegnami. Ancora una volta lo scarto che ha una nuova vita.
Come la storia della cooperativa nata nel 2003 a Roccella Jonica, quando vescovo era padre Giancarlo Bregantini, come gesto concreto del Progetto Policoro della Cei per l’imprenditoria giovanile al Sud. «Nasce da un’esperienza di fede e volontariato, dall’associazione che gestiva la mensa e lo sportello per i poveri» ricorda la presidente Teresa Nesci. Poi si passa alla raccolta di abiti usati trasformati in stracci per le pulizie che vengono acquistati anche da Trenitalia e Medcenter. «Il nostro obiettivo è il recupero di quello che per altri è uno scarto, sia ambientale che sociale». Così la cooperativa lavora coi disabili, soggetti fragili e detenuti. Produce saponi e anche una serie di detersivi e detergenti per la casa che portano sull’etichetta il nome “Bergolio”, bergamotto e olio. «Abbiamo scritto a Papa Francesco per chiedergli se era dispiaciuto per l’uso di questo nome che ricorda il suo. Ci ha risposto che era molto contento e ci ha benedetto ». La loro è vera economia circolare, dalle 60 tonnellate di olio esausto raccolto ogni anno, all’utilizzo di materie prime naturali e legate al territorio come il latte di capra, il fico d’India, la menta, gli agrumi. Ora il progetto in carcere. I quattro detenuti sono regolarmente pagati grazie a tirocini formativi finanziati dalla Caritas della durata di sei mesi prorogabili, inoltre la cooperativa acquista i portasapone. Per queste attività sono seguiti da due tutor, anche questi pagati dalla Caritas. Un sostegno economico importante perché questi detenuti hanno famiglie che devono essere aiutate. E non ci si ferma qui. Il progetto vuole unire l’attività lavorativa al miglioramento delle condizioni personali dei detenuti. Così si sta realizzando un emporio solidale presso il quale potranno reperire vestiario e prodotti per la pulizia. Coinvolte le parrocchie del territorio chiedendo però abiti nuovi, «perché non è giusto dare i nostri scarti a chi è già scartato». Il percorso di ricostruzione personale viene completato da uno di spiritualità grazie al cappellano don Crescenzo De Nizio e alla squadra educativa Caritas, e che prevede momenti indicati con le tre “P” di Presenza, Preghiera e Parola, ed è indirizzato a detenuti di tutte le religioni. Inoltre sarà attivato proprio presso la Cappellania un laboratorio artigianale per la realizzazione retribuita di braccialetti e Corone del Santo Rosario della Pace. Un vero lavoro di squadra, col sostegno determinante e convinto del presidente del tribunale di Locri, Fulvio Accurso, che ha portato addirittura alcuni detenuti a lavorare per la ristrutturazione del Palazzo di giustizia.




Cipputi resiste, produce tanto e sciopera poco
Gloria Riva

Cipputi resiste, produce tanto e sciopera poco
Gloria Riva (L’Espresso 30 aprile 2023)

 Niente più catene di montaggio e tute blu. Oggi l’operaio metalmeccanico in camice bianco lavora al computer. Rappresenta una buona fetta di Pil. Ma la coscienza di classe è scomparsa.

 Giuseppe Scudiero aveva vent’anni quando fu arruolato alla catena di montaggio di Pomi­gliano d’Arco. Era il ’95, all’epoca si assem­blava l’Alfa 147. Ancora se la ricorda la schiena rotta a fine turno, «perché la linea era a 40 centimetri da terra e bisognava chinarsi per vestire la scocca di fili elettrici, sedili, plancia e così via». Lo chiamavano lo sta­bilimento riottoso, visto che nove auto su dieci usciva­no da lì con almeno un difetto. Si diceva che le tute blu lo facessero per sfregio. Le cose migliorarono quando l’al­lora amministratore delegato, Sergio Mar­chionne, fece alzare di un metro la linea per far camminare l’auto ad altezza d’uomo e portò la tecnologia alla catena di montag­gio: «Ora se qualcuno dimentica di instal­lare i freni sulla Panda, il computer blocca tutta la linea. È stata una rivoluzione», l’ulti­ma grande rivoluzione, perché «con Stellan­tis stiamo facendo passi indietro», dice Giu­seppe, che oggi di anni ne ha 38 e fa parte di una nuova generazione di tute blu, legata alla fabbrica che dà lavoro: «Da queste par­ti 1.700 euro al mese sono una rarità». I tem­pi delle grandi lotte sindacali sono lontani, forse perché si è rimasti in pochi: «A Pomi­gliano non si assume più», anzi, nell’ultimo anno se ne sono andati in 200 e i dipenden­ti sono 4.200: «Poi c’è un grosso gruppo en­trato nell’89», che scruta la pensione all’oriz­zonte e battaglia per inserire il lavoro di linea fra i mestieri usuranti per potersene andare prima, quasi uno sconto di pena. Vista da quaggiù, la classe operaia sembra un animale in via d’estinzione, ma allargando lo sguardo alla miriade di piccole e medie imprese italiane è chiaro che il lavoro operaio va tutelato in tutti i modi: la metalmecca­nica dà lavoro a 1,6 milioni di persone – è il settore che occupa più operai in assoluto -, produce 110 miliardi di euro di ricchezza (8 per cento del Pil), esporta beni per 200 mi­liardi (ovvero la metà dell’export italiano) e così facendo controbilancia la strutturale dipendenza estera energetica e agroalimen­tare. Detto altrimenti, senza Cipputi l’Italia potrebbe benissimo alzare bandiera bianca. Ed è quindi giusto ricordarlo ora, a ridosso del Primo Maggio, la festa dei lavoratori, che però in piazza non vanno più.
«È colpa della frammentazione del lavo­ro», spiega il sindacalista della Fiom di Padova, Loris Scarpa, che ci risponde al telefono mentre con la sua auto si sposta da un’assemblea all’altra: «Una volta alle riu­nioni sindacali partecipavano in mille, ades­so per interfacciarmi con cento persone inanello sei, sette assemblee». Loris descri­ve un nuovo homo metalmeccanicus iden­tificabile con l’informatico «che grazie allo smartworking si è liberato dall’intollerabile giogo del capo azienda», con gli addetti alla posa della fibra ottica «che mal digeriscono il sempre più stretto controllo da remoto», con l’operaio specializzato che governa una macchina, un tornio, una fresa, dando ordini a un computer e, a fine turno, esce dall’offici­na senza macchie di grasso, con il fisico in­tegro. Il risultato, però, è una parcellizzazio­ne della classe operaia e una fatica immane per il sindacalista moderno, lasciato solo a menare fendenti al vento, come un Don Chi­sciotte 4.0: «Siamo passati da una moltitu­dine unita, che votava a sinistra e scioperava in massa, a una platea operaia disomogenea, che stenta a riconoscersi in una rivendica­zione comune e non va più neanche a votare, perché ha capito che da destra a sinistra il lavoro non è più all’ordine del giorno». Ma qualcuno ci sarà pur andato alle urne: «E al­lora ha votato Meloni. Ma il punto è un al­tro», continua Scarpa: «Oggi è diventato dif­ficile lottare anche quando a rischio ci sono i posti di lavoro. Non per altro, ma perché manca proprio l’avversario». Scarpa si riferisce alla scomparsa degli imprenditori – altra specie in via d’estinzione – sostituiti dai fondi d’investimento che hanno conquistato l’a­zionariato e se ne fregano della restituzione sociale. Loro, i fondi, a fine anno guardano al risultato finanziario: «E se i conti non tornano chiudono e se ne vanno». Ma anche dove il padrone c’è, non è faci­le battagliare e vincere: «Negli ultimi tre anni la velocità di crescita dei profitti è cinque vol­te superiore a quella del costo del lavoro. Le contrattazioni aziendali sono in salita e otte­niamo aumenti salariali con il contagocce», racconta Simone Vecchi della Fiom di Reg­gio Emilia. Per di più l’inflazione ha causato una perdita del sette per cen­to dei salari.
Le rivendicazioni dei moder­ni metalmeccanici vanno an­che al di là dei quattrini. A Bo­logna, ad esempio, anche le tute blu vogliono la settimana cor­ta di quattro giorni. Lo racconta Simone Selmi, della Fiom, che smonta il mito dell’assenza di giovani nel­le officine: «Laddove il lavoro è qualificato e la paga buona, l’età media è sotto i 40 anni e questa generazione rivendica il diritto ad avere più tempo per sé. Alcune imprese sono sufficientemente tecnologizzate e struttura­te per garantire riduzioni di orario a parità di paga, ma per le altre serve un ragionamen­to complessivo con il governo, con i ministe­ri competenti, con le-imprese per ridisegna­re l’intero sistema produttivo e industriale».
La tecnologia sta dando una mano a ri­durre i carichi di fatica, ma in alcuni casi crea distorsioni: prendiamo il caso di Ima, Coesia e Marchesini, i leader mondiali di produzione di macchine per il packaging. In queste tre fabbriche emiliane gli operai pro­ducono i macchinari per confezionare cibi, farmaci, tabacchi e così via. Se prima della pandemia una grossa fetta del lavoro si svol­geva in trasferta – si prendeva un aereo e si andava dal cliente per montare i macchina­ri e poi ci si imbarcava nuovamente per ag­giornare o aggiustare gli stessi -, con sem­pre maggiore frequenza gli operai riescono a fare una buona parte dello stesso lavoro da remoto, indossando anche dispositivi di re­altà aumentata. Il rovescio della medaglia è che la trasferta fisica frutta stipendi oltre i quattromila euro al mese, mentre quella da remoto quasi nulla: «È un tema di cui discu­tere», risponde Simone Selmi.
La tecnologia, puntualizza Ferdinando Uliano della Fim, è servita ad aumentare l’intensità del lavoro: «L’iniezione di robotica, automazione indu­striale e digitalizzazione dei sistemi ha incre­mentato la produttività dei metalmeccanici di 15 punti negli ultimi dieci anni, un’eccezione nel panorama nazionale di produtti­vità bloccata. Questo scarto positivo deriva anche da un massiccio ricorso al lavoro su turni, praticato con sempre maggiore fre­quenza». Quindi il lavoro si è fatto più avan­zato, tecnologico, ma anche più serrato, tan­to che una delle maggiori criticità lamentate dagli stessi operai è lo stress e il ritmo trop­po intenso. Questo anche perché le tute blu sono troppo poche per stare al passo con la costante espansione del settore manifattu­riero. Secondo l’ultima indagine Excelsior Unioncamere le imprese metalmeccaniche sarebbero pronte ad assumere entro giugno 200mila operai specializzati, per lo più fon­ditori, saldatori, montatori di carpenteria metallica, manutentori di macchine e attrez­zature elettriche ed elettroniche. «Il proble­ma è che il 71 per cento delle nostre aziende non trova quel personale», risponde Ste­fano Franchi, direttore generale di Feder­meccanica, che continua: «Nell’immagina­rio collettivo il lavoro dell’operaio è rimasto quello di cinquant’anni fa, un mestiere fati­coso, sporco, pericoloso, poco entusiasman­te, scarsamente remunerato. In realtà l’ope­raio d’oggi non è più mano-d’opera, bensì “mente-d’opera”, con uno ridotto impe­gno fisico e un maggior compito mentale. Si chiedono competenze informatiche, digitali, tecniche. È necessario un diploma, serve una formazione costante, c’è bisogno di capaci­tà relazionali, problem solving, competenze trasversali. Noi stessi, come federazione, ci siamo attrezzati per creare i corsi di forma­zione (che dovrebbero stare in capo alle poli­tiche attive) per riqualificare persone disoc­cupate e inoccupate. E sempre noi lavoriamo con i giovani, e soprattutto con le giova­ni, per convincerli a diplomarsi nelle scuole professionali e negli istituti tecnici, spiegan­do loro che il lavoro dell’operaio specializza­to è di qualità». E la busta paga? «Negli anni ’80 il 35 per cento dei dipendenti della me­talmeccanica era inquadrato al terzo livello (il meno qualificato), oggi ci sta solo 1’11 per cento. Questo dimostra che l’evoluzione c’è stata e continua a esserci».
Veniamo alle cifre: i metalmeccani­ci meno qualificati hanno una retribuzione lorda annua di 25mila euro, mentre la stra­grande maggioranza guadagna 32mila euro. Nel 96 per cento dei casi ha un contratto a tempo indeterminato, solo il cinque per cen­to è part-time, sette su dieci sono uomini, il 60 per cento ha meno di 50 anni (un quarto è under 34), il 72 per cento ha almeno il diplo­ma, solo il 30 per cento fa un lavoro manua­le, nel 73 per cento dei casi risiede al Nord. E allora perché i giovani sono così sciocchi da non sognare un futuro da tuta blu? Forse perché ancora troppo spesso il qualificato lavoro operaio viene svilito da una classe po­litica che ignora cosa sia il lavoro tout courte da una classe dirigente altrettanto inconsa­pevole. Un esempio? A marzo, Lucia Morselli, amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva, ha inserito una sdraio e un sole nel logo della comuni­cazione ufficiale di proroga della cassa inte­grazione straordinaria, come a dire che l’en­nesimo rinnovo dell’ammortizzatore sociale, che decurta il salario del 40 per cento, è da incassare come una bella vacanza. «Non vo­gliamo andare al mare. Vogliamo lavorare», ha risposto l’Rsu della Uilm, Gennaro Oli­va che, con il suo diploma di perito elettro­tecnico, da giovanissimo è stato messo su un piano di colata continua dell’Ilva per riparare l’impianto difetto­so. All’epoca si era domandato si è domandato: «Possibile che esi­stano luoghi così?». Eppure ha sistemato l’impianto e ha continuato a farlo, finché 12 anni fa l’azienda è finita in crisi, ed è sta­ta dimenticata da otto governi e altrettanti ministri dello Sviluppo del Lavo­ro. Basta un caso negativo come Ilva per fare ombra a storie d’eccellenza come la LFoun­dry di Avezzano, dove 1500 metalmeccanici in camice bianco – costantemente formati e altamente qualificati – creano i semicondut­tori per i sensori delle automobili e i sistemi automatizzati montati ovunque. «Si lavora a ciclo continuo, in camera bianca, più simile a una sala operatoria che a un’officina. È fisicamente stancante», dice la metalmeccanica Alessandra Malandra, che continua: «Ma è entusiasmante, perché c’è la percezione di essere dalla parte giusta della storia, di fare un mestiere che ha un futuro ed è utile alla crescita del Paese».




CEI. 1° Seminario nazionale pretioperai

Bologna. 19 giugno 2023.

Save the date.

Evento da ricordare; anzi: da tenere vivo. Dopo quasi 40 anni di ostilità o sopportazione o indifferenza, riprendono i contatti ufficiali della presidenza della CEI con i pretioperai. L’hanno chiamato “1° SEMINARIO NAZIONALE DEI PRETI OPERAI IN ITALIA”, convocato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale sociale e del lavoro della CEI e dal Card. Zuppi. È il primo seminario che la CEI convoca da quando esistono i PO in Italia. Qualche dialogo era stato tentato negli anni tra vescovi e Segreteria dei pretioperai, ma furono dialoghi aspri tra sordi. Ho il sospetto che questo incontro sia stato innescato dalla consultazione sinodale in atto che vorrebbe ascoltare anche i reprobi, i lontani, gli allontanati, gli uomini e donne della soglia. Ci ha accarezzato la prima Lettura dell’Eucarestia del giorno concelebrata da tutti e presieduta da Zuppi: « 4in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce…. 8nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9come sconosciuti, eppure notissimi; come moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; 10come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6,4-10). Noi siamo stati al gioco volentieri anche perché, essendo il “Primo” Seminario, nutriamo la speranza di una continuità nel futuro, anche quando noi, della prima ora, saremo estinti e forse (forse!) sarà sorta una nuova generazione di vescovi e presbiteri che vivranno una nuova “prossimità” con la gente fino ad essere “Come loro. Nel cuore delle masse”, come scrisse René Voillaume, Piccolo Fratello di Gesù, e come ha scritto don Luisito Bianchi preteoperaio e scrittore, citato ampiamente dalla relazione introduttiva di don Bignami: «Il problema è se possiamo ancora accontentarci di essere “vicini” al popolo e non uno del popolo. Essere “vicini” non fa che accentuare la separazione: è una forma di paternalismo illuminato, più pericoloso di ogni distanza chiara e non camuffata» (L. BIANCHI, I miei amici. Diari).

Circa 150 i pretioperai censiti viventi, 50 quelli presenti, ormai pensionati. Al Seminario era presente anche il Vescovo Bregantini, lavoratore in fabbrica durante il periodo di formazione al presbiterato. Oggi quelli ancora al lavoro non risultano più di 5. Vista nell’ottica dei numeri, e della stasi culturale di ampi settori della Chiesa cattolica, la nostra storia può sembrare un’esperienza senza futuro. Ma la storia può diventare, per scelta dei protagonisti, memoria generativa e profetica. Il card. Matteo Zuppi, presidente della CEI e don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale di pastorale del lavoro, «hanno ripreso un filo spezzato al Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, quando – come ha ricordato Don Roberto Fiorini di Mantova –  la Commissione della Cei decise di chiudere il dialogo con noi. Da allora sono trascorsi 38 anni». Il cardinale ha precisato più volte che l’incontro di Bologna non doveva essere interpretato come un raduno di “combattenti e reduci”. In effetti l’eredità che abbiamo lasciato ha fatto affiorare lieviti di futuro: l’assetto di un ministero presbiterale non clericale, la valorizzazione dei preti che sono approdati ad una scelta matrimoniale, la formazione dei preti e il ruolo dei seminari, la testimonianza e la presenza di credenti nel cuore della vita sociale e politica accanto ai poveri e agli ultimi, il senso di una prassi sacramentale non devozionale ma che intrecci la vita degli uomini e delle donne.

E così sono risuonate, come lievito dal fondo di storie di vita, alcune domande: Come essere Chiesa incarnata nella storia, non solo vicina alle persone, ma Chiesa di popolo? Come essere Chiesa che annuncia l’amore di Dio gratuito nella gratuità? I preti operai hanno mostrato questa dimensione della vita cristiana, ben presente in san Paolo che ha lavorato per mantenersi… Come testimoniare una Chiesa libera dalle logiche del potere e che non vive di mezzi esclusivamente umani? L’esperienza dei preti operai è ancora utile? Ha ancora un senso che possiamo condividere e rilanciare? Come può questa esperienza evangelizzare una Chiesa clericale?

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium al n. 183 scrive: «nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. Sebbene il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica, la Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia».

Don Augusto Fontana.




L’ateo devoto che credeva solo nel suo IO
Vito Mancuso

La parabola dell’ateo devoto che credeva solo nel suo Io.
Vito Mancuso. La Stampa 16 giugno 2023

Insegna l’antico proverbio: “De mortuis nihil nisi bonum“, vale a dire: “Di chi è appena morto, o si tace o si parla bene“. Di Silvio Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo per parte mia molto di buono da riconoscergli, laddove “buono” lo intendo nel senso radicale del termine che rimanda al Bene in quanto sommo valore che coincide con la Giustizia e la Verità (concetti che scrivo al maiuscolo per indicare la loro superiorità rispetto al mero interesse privato). Se però, ciononostante, ne scrivo, è per cercare di mettere a fuoco la frase del cantautore Gian Piero Alloisio, talora attribuita a Giorgio Gaber (cito a memoria): «Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che è in me». Non parlerò quindi di Berlusconi in sé, bensì del Berlusconi in noi, convinto come sono che quanto dichiarato da Benigni valga per milioni di italiani, forse per tutti noi, che portiamo al nostro interno, qualcuno con gioia, qualcun altro con fastidio o addirittura con vergogna, quella infezione che è, a mio avviso, il “berlusconismo”.
Cosa infetta precisamente il berlusconismo? Risponderò presto, prima però voglio ricordare questa frase di Hegel: «La filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri». Io penso che quello che vale per la filosofia, valga, a maggior ragione, per l’economia e la politica: il loro successo dipende strettamente dalla capacità di saper cogliere e soddisfare il desiderio del proprio tempo. Berlusconi è stato molto abile in questo. Con le sue antenne personali (al lavoro ben prima che installasse a Cologno Monzese le antenne delle sue tv) egli seppe cogliere il desiderio profondo del nostro tempo, ne riconobbe l’anima leggera e se ne mise alla caccia esercitando tutte le arti della sua sorridente e persistente seduzione. Si trasformò in questo modo in una specie di sommo sacerdote della nuova religione che ormai da tempo aveva preso il posto dell’antica, essendo la religione del nostro tempo non più liturgia di Dio ma culto ossessivo e ossessionante dell’Io. Il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io. E il nostro tempo se ne sentì interpretato in sommo grado, assegnando al fondatore i più grandi onori e costituendolo tra gli uomini più ricchi e più potenti non solo d’Italia.
Ho parlato del berlusconismo come di un’infezione, ma cosa infetta precisamente? Non è difficile rispondere: la coscienza morale. Il berlusconismo rappresenta la fine plateale del primato dell’etica e il trionfo del primato del successo. Successo attestato mediante la certificazione dell’applauso e del conseguente inarrestabile guadagno.
Vedete, Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa di più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio. Fin dai primordi dell’umanità il concetto di Dio rappresentò esattamente l’emozione vitale secondo cui esiste qualcosa di più importante del mio Io, del mio potere, del mio piacere (a prescindere se questo “qualcosa” sia il Dio unico, o gli Dei, o l’Urbe, la Polis, lo Stato, la Scienza, l’Arte o altro ancora). Ecco, il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla di più importante di Me. Non è certo un caso che il partito-azienda del berlusconismo non ha mai avuto un successore, e ora, morto il fondatore, è probabile che non faccia una bella fine. Naturalmente questa religione dell’Io suppone quale condizione imprescindibile ciò che consente all’Io di affermare il suo primato di fronte al mondo, vale a dire il denaro. Il denaro era per il berlusconismo ciò che la Bibbia è per il cristianesimo, il Corano per l’islam, la Torah per l’ebraismo: il vero e proprio libro sacro, l’unico Verbo su cui giurare e in cui credere. Il berlusconismo è stato una religione neopagana secondo cui tutto si compra, perché tutto è in vendita: aziende, ville, politici, magistrati, uomini, donne, calciatori, cardinali, corpi, parole, anime. Tutti hanno un prezzo, e bastano fiuto e denaro per pagare e ottenere i migliori per sé. Chi (secondo la dottrina del berlusconismo) non desidera essere comprato? Il berlusconismo ha rappresentato un tale abbassamento del livello di indignazione etica della nostra nazione da coincidere con la morte stessa dell’etica nelle coscienze degli italiani. La quale infatti ai nostri giorni è in coma, soprattutto nei palazzi del potere politico. Ma cosa significa la morte dell’etica? Significa lo spadroneggiare della volgarità, termine da intendersi non tanto come uso di linguaggio sconveniente, quanto nel senso etimologico che rimanda a volgo, plebe, plebaglia, ovvero al populismo in quanto procedimento che misura tutto in base agli applausi, in quanto applausometro permanente che trasforma i cittadini da esseri pensanti in spettatori che battono le mani. Ovvero: non è giusto ciò che è giusto, ma quanto riceve più applausi. Ecco la morte dell’etica, ecco il trionfo di ciò che politicamente si chiama populismo e che rappresenta la degenerazione della democrazia in oclocrazia (in greco antico “demos” significa popolo, “oclos” significa plebaglia).
Tutto questo ha avuto e continuerà ad avere delle conseguenze devastanti. In primo luogo penso all’immagine dell’Italia all’estero, che neppure dieci Mario Draghi avrebbero potuto ripulire dal fango e dalla sporcizia del cosiddetto Bunga-Bunga. Ma ancora più grave è lo stato della coscienza morale dei nostri concittadini: eravamo già un paese corrotto e di evasori, ora siamo ai vertici europei; eravamo già tra gli ultimi come indice di lettura, ora siamo in fondo alla classifica.
Ricordo che una volta mi trovavo con un imprenditore all’autodromo di Monza per una convention aziendale e, forse per la vicinanza di Arcore, forse chissà per quale altro motivo, egli prese a parlarmi di Berlusconi. Mi disse che molti anni prima gli aveva indicato una massa di gente lì accanto e poi gli si era rivolto così: «Secondo lei, quanti sono gli intelligenti là dentro? Il 10 percento? Ecco, io mi occupo del restante 90 percento». Questa è stata la politica editoriale delle sue tv che hanno portato alla ribalta personaggi fatui ed equivoci e hanno fatto strazio della vera cultura.
Il berlusconismo ha di fatto affossato nella mente della gran parte degli italiani il valore della cultura, riducendo tutto a spettacolo, a divertimento, a simpatia falsa e spudoratamente superficiale, a seduzione. Seduzione da intendere nel senso etimologico di sé-duzione, cioè riconduzione a sé di ogni cosa, secondo quella religione dell’Io che è stato il vero credo di Silvio Berlusconi e da cui non sarà facile liberare e purificare la nostra “povera patria” (come la designava, proprio pensando al berlusconismo, Franco Battiato).




Confcooperative. Assemblea nazionale
Manca personale qualificato

Confcooperative: la cura per il Paese è garantire un lavoro dignitoso a tutti.
Maurizio Carucci (AVVENIRE 16 giugno 2023)

Il presidente Gardini: 3,8 milioni di persone sottopagate, il 12% degli italiani rinuncia alle cure mediche La mancanza di personale qualificato costa 21 miliardi.

Lavoro e inclusione sociale sono il filo conduttore dell’azione delle cooperative che non delocalizzano, creano lavoro e pagano le tasse in Italia. I lavori della 41esima assemblea di Confcooperative dal titolo Abbiamo cura del Paese si aprono con l’intervento di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari Europei, le Politiche di coesione e il Pnrr. Il ministro ha un nuovo incontro con i tecnici della Ue e prima di lasciare il Parco della musica riceve un vaso di ceramica proveniente dalle zone alluvionate dell’Emilia Romagna, consegnatogli dal presidente di Confcooperative Maurizio Gardini. Subito dopo l’Inno nazionale seguito da La cura di Franco Battiato e da Bella ciao interpretati da Tosca. « La scelta di una canzone non è mai casuale, è un messaggio che viene affidato a parole e musica e arriva dritto al cuore e all’intelligenza emotiva delle persone e ci aiuta a mettere a fuoco in maniera semplice quelle che sono situazioni complesse », spiega Gardini, parlando in particolare de La cura come scelta meditata per riassumere «il compito che le cooperative ogni giorno si pongono, il tema di costruire e dare vita a un’economia sociale».
Uno dei problemi principali è la mancanza di personale qualificato. « Il mismatch – sottolinea il presidente di Confcooperative – mina la competitività delle imprese, costa 1,2% di Pil e 21 miliardi di euro. Riguarda le imprese grandi, piccole e micro: una nostra cooperativa su due non trova le figure di cui necessita. Le nostre imprese occupano 540mila persone, ne potrebbero assumere altre 30mila, ma non trovano professionalità, dal socio sanitario all’area tecnico scientifica, dall’agroalimentare al trasporto e ai servizi turisti e culturali».
Nonostante il Paese cresca e il Pil anche, aumentano le diseguaglianze. Insieme al disagio economico di lavoratori e famiglie, crescono infatti la povertà sanitaria, educativa e abitativa. «Abbiamo 3,8 milioni di lavoratori poveri che ricevono una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6mila euro e oltre tre milioni di lavoratori irregolari o in nero – continua Gardini –. Investiamo sulle imprese virtuose che generano lavoro dignitoso, riducendo, ulteriormente, il cuneo fiscale che pesa circa il 10% in più della media Ocse. Libererebbe nuove risorse per le imprese e lascerebbe più soldi in tasca ai lavoratori con un effetto positivo sui consumi interni depressi dall’inflazione». Il presidente di Confcooperative ricorda che «le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni, erano 800mila nel 2005: parliamo di 5,6 milioni di persone. La povertà relativa riguarda invece 2,9 milioni di famiglie e 8,8 milioni di persone». Preoccupa anche la povertà educativa: «500mila giovani, più di 11 giovani su 100, nella fascia 18-24 anni, abbandonano i percorsi di formazione senza aver conseguito un titolo di studio». Mentre è «drammatica la situazione del 12% di italiani che nel 2022 hanno scelto di non curarsi per mancanza di disponibilità economica pur avendone bisogno per risorse economiche scarse». Inoltre «circa 3 milioni di famiglie vivono nel sovraffollamento e lo indicano come il principale fattore di tensione e di criticità per la propria condizione personale. Il fenomeno riguarda 1,8 milioni di famiglie che vivono in affitto, il 35,6% del totale e 1 milione di famiglie proprietarie, circa il 15,2% del totale».
Insomma, pur nelle difficoltà, le cooperative rispondono ai bisogni delle comunità. Realizzano il 25% dell’agroalimentare, rappresentano il 30% della distribuzione al consumo e al dettaglio, il 19,6% degli sportelli bancari e portano servizi di welfare a sette milioni di italiani.




Riders in Europa. Si cambia?
Avvenire

Più regole sui contratti dei rider: c’è l’intesa tra i governi dell’Ue.

Giovanni Maria Del Re (AVVENIRE 13/06/2023)

 Il punto essenziale dell’accordo è la giusta classificazione dei lavoratori in base a criteri comuni. Al momento 5,5 milioni sono inquadrati come “autonomi”, anche se in molti sono trattati a tutti gli effetti come dipendenti

Accordo fatto tra gli Stati membri per regolare il settore dei cosiddetti “rider”, i lavoratori delle piattaforme digitali, la “Gig Economy”, da Deliveroo a Uber, da MyMenu a Glovo. Un accordo arrivato ieri a Lussemburgo, nel quadro del Consiglio dei ministri Ue per gli Affari sociali, che giunge dopo quello raggiunto a febbraio dal Parlamento Europeo, l’altra istituzione legiferante. Nel dicembre 2022 era fallito un precedente tentativo di accordo tra i Ventisette. Ieri i ministri hanno superato le divergenze – in realtà non del tutto, visto che se si sono astenuti cinque Stati membri (Germania, Spagna, Grecia, Estonia e Lettonia), visti i perduranti dubbi di un impatto troppo pesante sulle società del settore –, ora potrà iniziare il negoziato interistituzionale (trilogo) per l’approvazione definitiva. La base è il testo presentato dalla Commissione Europea il 9 dicembre 2021, con l’idea di porre fine al far west che vige in un settore che genera introiti schizzati dai 3 miliardi di euro del 2016 ai 14 miliardi del 2020, per un totale previsto di addetti di 48 milioni di addetti nel 2025. « La Gig Economy – ha dichiarato, per la presidenza di turno Ue, la ministra svedese per la Parità dei sessi e la vita lavorativa Paulina Brandberg – ha portato molti benefici alle nostre vite, ma questo non deve andare a spese dei diritti dei lavoratori». L’accordo, ha aggiunto, «trova un buon equilibrio tra la protezione dei lavoratori e la certezza giuridica per le piattaforme che danno loro lavoro». Il punto essenziale è anzitutto la giusta classificazione dei lavoratori. Secondo la Commissione, al momento 5,5 milioni di lavoratori del settore sono classificati come “autonomi” con partita Iva. Moltissimi di loro, però, in realtà sono trattati a tutti gli effetti come dipendenti, in quanto, sottolinea una nota del Consiglio dei ministri Ue, «devono rispettare le stesse regole dei lavoratori dipendenti». Questo, si legge ancora, «indica che vi è di fatto una relazione di lavoro dipendente, e dunque devono godere degli stessi diritti e della stessa protezione sociale concessa ai dipendenti nel quadro della normativa nazionale e Ue», ad esempio ferie pagate, contrattazione collettiva, salario minimo o una liquidazione. Per dare certezza giuridica, la Commissione aveva indicato cinque criteri di cui due dovevano esser soddisfatti per affermare che in realtà vi è un rapporto di lavoro dipendente. Gli Stati membri hanno aumentato i criteri a sette, con un minimo di tre per stabilire il rapporto di dipendenza. Tra questi, un tetto massimo agli introiti che può ricevere un rider, restrizioni sulle possibilità di rifiutare un incarico, regole sull’abbigliamento e un codice di condotta. L’accordo degli Stati membri ha confermato una novità che aveva già introdotto il testo del Parlamento Europeo: il ribaltamento dell’onere della prova. E cioè, si legge nel comunicato del Consiglio Ue, «nel caso si applichi la presunzione di rapporto dipendente, starà alla piattaforma digitale dimostrare che invece tale rapporto non sussiste». Una norma che ha suscitato critiche da varie aziende del comparto. Sul testo del Parlamento Europeo, per la cronaca, si erano spaccati i partiti di governo: FdI e Lega a favore, mentre Forza Italia aveva votato contro. Tra gli altri punti, da segnalare la richiesta di maggiore trasparenza nell’uso degli algoritmi utilizzati per la gestione delle risorse umane. Al momento, afferma il Consiglio Ue, «i lavoratori delle piattaforme si trovano confrontati con mancanza di trasparenza su come vengono prese le decisioni e come sono utilizzati i dati personali». L’Ue, invece, si legge nella nota, « vuole assicurare che i lavoratori siano informati sull’utilizzo del monitoraggio automatico e dei sistemi decisionali». Nel testo si richiede che «tali sistemi siano monitorati da personale qualificato, che gode di una protezione speciale da trattamenti ostili. La supervisione umana è richiesta anche per alcune decisioni significative come le sospensioni degli account ».




EQUILIBRIO LAVORO-VITA
Avvenire

Dopo il Covid. Meno smart working, ma orari flessibili: così sta cambiando il lavoro
Luca Mazza (AVVENIRE on line sabato 10 giugno 2023)

A distanza di tre anni dal boom obbligato dalla pandemia il lavoro a distanza non è decollato Nel 2022 sono state coinvolte 3,6 milioni di persone (circa 500mila in meno rispetto al 2021).

Imprescindibile per centinaia di professioni nei mesi più bui del Covid, utile nella lenta fase di uscita dalla pandemia anche con l’obiettivo di raggiungere un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro, fortemente ridimensionato adesso che l’emergenza sanitaria è ufficialmente terminata: lo smart working è in frenata in Italia. A tre anni di distanza dal boom “obbligato”, il lavoro da remoto non è decollato. Anche se il governo ha prorogato al 31 dicembre lo smart working in scadenza a fine giugno per i lavoratori fragili e i genitori con figli under 14 nel privato (mentre per la Pubblica amministrazione il nodo è ancora da sciogliere), molte aziende in realtà già nei mesi scorsi si sono mosse per “ripopolare” sedi e uffici. Contemporaneamente al ridimensionamento dello smart working, inoltre, sta cambiando l’organizzazione del lavoro. L’attenzione del mercato occupazionale, infatti, adesso sembra molto concentrata sulla rimodulazione degli orari, con le prime esperienze di settimana corta (4 giorni di lavoro invece di 5) che state avviate anche in Italia. Partendo dal rallentamento del lavoro agile, la tendenza è confermata dai principali osservatori e centri di ricerca che monitorano il fenomeno. Un trend dovuto soprattutto ai passi indietro che sono stati compiuti (o comunque preannunciati) dalle Pmi e da alcuni enti pubblici. «Già l’anno scorso siamo scesi a un livello molto lontano dai picchi della primavera del 2020, quando con il lookdown duro si era arrivati a 6,5 milioni di lavoratori operativi da remoto – racconta Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano –. Nel 2022 abbiamo contato 3 milioni e 570mila persone che almeno per parte tempo hanno lavorato in smart working, ovvero circa 500mila in meno dell’anno precedente». Entrando nel dettaglio della rilevazione, Crespi spiega che «a fronte di una leggera ma costante crescita del lavoro a distanza nelle grandi aziende, anche se è calata l’intensità (al massimo due o tre giorni a settimana) perché lo smart working “estremo” è quasi sparito, si è registrata invece una marcia indietro per quanto riguarda in particolare le piccole e medie imprese (pmi) e le pubbliche amministrazioni». Le stime calcolate alla fine dello scorso anno dall’Osservatorio del Politecnico indicavano una sostanziale stabilità del numero di “smart workers” per il 2023 (3 milioni e 630mila persone). Ma sono rilevazioni effettuate quando anche a livello politico-istituzionale sembrava esserci un sentiment più favorevole al lavoro a distanza. Per cui, la spinta degli ultimi mesi sul ritorno in presenza probabilmente porterà ad aggiornare al ribasso le previsioni per il 2023.  Tra le ragioni che hanno portato tante realtà di dimensioni ridotte a diminuire le ore lavorare a distanza, ci sono ostacoli culturali, logistici e tecnologici. «Nelle piccole e medie imprese il calo è dovuto sicuramente a una cultura organizzativa che, soprattutto in alcuni comparti, si focalizza sul controllo della presenza, mentre bisognerebbe imparare a valutare di più il lavoro sugli obiettivi, che non devono essere per forza annuali ma anche mensili o settimanali», afferma Crespi. Inoltre, il lento processo di digitalizzazione di tante realtà aziendali di certo non facilita una diffusione del lavoro da remoto per tanti dipendenti. Quanto al settore pubblico, secondo Crespi, l’indirizzo politico è un fattore determinante per la diffusione dello smart working. E il vento sembra essere cambiato rispetto agli anni scorsi. Da uno studio diffuso recentemente dall’Inapp in Italia solo il 14,9% degli occupati opera a distanza, con un potenziale pari a circa il 40%. L’opportunità dello smart working, insomma, non viene “sfruttata” quanto si potrebbe. E il bacino potenziale riguarda soprattutto i laureati, il personale delle grandi imprese, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. «In generale nel pubblico si paga una maggior pigrizia nell’innovazione rispetto al privato – sottolinea il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda –. Se non si riprogettano i processi, i servizi e le procedure in modo innovativo non si potrà mai diffondere lo smart working in modo efficace nella Pubblica amministrazione». Secondo Fadda molte prestazioni per il pubblico potrebbero essere svolte prevalentemente in via digitale, invece spesso è necessaria la presenza fisica agli sportelli: «Senza un’innovazione tecnologica avanzata (che non significa solo l’uso del computer e una connessione a Internet, ma deve comprendere l’intelligenza artificiale, il cloud e la realtà aumentata) la Pubblica amministrazione non riuscirà a dotarsi di una nuova organizzazione del lavoro “ibrida”, con una combinazione efficace tra attività svolte in presenza e da remoto». Un altro investimento indispensabile, per Fadda, è quello formativo: «C’è una grave carenza di competenze digitali nel management della pubblica amministrazione che andrebbe colmata mettendo in campo un’ampia offerta formativa». Al di là del ricorso più o meno diffuso allo smart working, in molte realtà aziendali è in atto una revisione dei processi e dell’organizzazione del lavoro. Alcune aziende, per esempio, negli ultimi mesi hanno iniziato a sperimentare la settimana lavorativa di 4 giorni. Intesa Sanpaolo, per esempio, da inizio anno ha avviato un nuovo modello organizzativo del lavoro (a fine maggio è stato firmato anche l’accordo con i sindacati) che permette di integrare tra loro più strumenti: il lavoro agile, la flessibilità di orario e, appunto, la settimana corta. Tra le principali novità ci sono 120 giorni di smart working all’anno, flessibilità di orario all’ingresso tra le 7 e le 10 e la possibilità di usufruire della settimana corta (9 ore di lavoro al giorno per 4 giorni alla settimana). Si tratta di strumenti disponibili su base volontaria e a parità di retribuzione, che permettono di organizzare il tempo nel modo più congeniale senza diminuire la produttività per l’azienda. «L’elemento fondamentale per il successo di questo modello è la diffusione di una cultura orientata agli obiettivi e al senso di responsabilità, e su questo stiamo molto investendo – commenta Paola Angeletti, Chief Operating Officer Intesa Sanpaolo –. Siamo convinti che promuovere il benessere delle persone e valorizzare i talenti di tutti sia indispensabile per costruire la banca del futuro, in grado di affrontare le prossime sfide in mercati in continua trasformazione, grazie a un modello sempre più agile e dinamico». L’esperimento di Intesa Sp per ora sembra funzionare: dal 1° gennaio, quando le nuove misure sono state avviate, hanno aderito al nuovo lavoro flessibile 40.000 persone (circa il 70% di chi poteva essere abilitato) e alla settimana corta circa 17.000 dipendenti, pari al 60% del personale full time delle strutture di governance e di 12 grandi filiali. Sicuramente agire sulla leva oraria, finora poco utilizzata, è un modo per dare più flessibilità alle persone e autonomia nella gestione del lavoro», evidenzia Fiorella Crespi. «Ma concentrare il lavoro in 4 giorni anziché in 5 non è detto che porti automaticamente vantaggi e benefici per i tutti i dipendenti e per tutte le aziende – avverte la direttrice dell’Osservatorio smart working del Politecnico milanese –. Oltre a valutare possibili ripercussioni sui livelli dei servizi per i clienti, infatti, non si può escludere che, in particolare per i dirigenti di un’azienda, dal lunedì al giovedì ci sia un tale aumento delle difficoltà organizzative, dei carichi di lavoro e dello stress che rischia di essere superiore al giovamento di avere un giorno libero in più a settimana».




Sanità pubblica? Sempre meno
Pandolfi (ROCCA)

DIRITTO ALLA SALUTE. In Italia abbiamo un problema
Luigi Pandolfi (ROCCA 1 maggio 2023)

Lo scorso 1 ° aprile, a Milano, si è svolta una manifestazione in Piaz­za Duomo per «per la salvezza del Sistema Sanitario Nazionale e per il diritto alla salute». L’evento, promosso da 60 organizzazioni, tra associazioni e sindacati, ha visto la parte­cipazione di oltre 5mila persone. Sotto il palco, una scritta molto eloquente: «La sa­lute non è una merce». Esiste un «proble­ma sanità» nel nostro Paese? Evidentemen­te, sì. La pandemia ha fatto letteralmente deflagrare le criticità del sistema, da anni sottoposto a duri picconamenti da parte dei governi, sia centrali che regionali, in nome di una falsa equazione tra efficienza e mer­cato, ovvero tra innalzamento della qualità dei servizi e privatizzazione degli stessi. «Al centro dell’iniziativa – ha dichiarato Vittorio Agnoletto dell’Osservatorio salute – ci sono tutte le rivendicazioni che abbia­mo elaborato in questi anni cruciali, in cui sono esplose in maniera drammatica le gra­vi inefficienze del servizio sanitario pub­blico, depauperato e mortificato da 30 anni di scelte dissennate. Le istituzioni, le re­gioni e i privati ci trattano come clienti, che si aggirano indecisi tra le bancarelle, clienti da ‘pescare’, da sfruttare, non per­sone da curare e riportare in salute. Con questa logica la prevenzione scompare per­ché non produce profitto. Non possiamo consentire che questo accada: la preven­zione, la cura e la riabilitazione sono tutte funzioni alla base del servizio sanitario pubblico e l’accesso universalistico è l’uni­co che garantisce che la salute sia un bene collettivo». Ecco: depotenziamento della sanità pubblica a vantaggio di quella priva­ta, insufficienza se non mancanza assoluta di politiche di prevenzione, inadeguatezza della rete sanitaria di prossimità. Un qua­dro preoccupante, nel quale solo chi ha i soldi ormai può curarsi adeguatamente.
Sempre più privato, malati ridotti a consumatori.
Ne sono prova tangibile le prestazioni ero­gate dai medici ospdalieri al di fuori del normale orario di lavoro. La cosiddetta «at­tività intra-moenia»: strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale utilizzate pri­vatamente, e per prestazioni a pagamento, dai medici che vi operano. Hai bisogno di una visita specialistica? Mesi o addirittura anni di attesa per la prestazione in regime di servizio pubblico, che si riducono a po­chissimi giorni, addirittura al giorno dopo, se si accetta di aprire – potendolo fare – il portafoglio. E sappiamo quanto sia impor­tante il fattore tempo per prevenire malat­tie gravi o scongiurare che le stesse abbia­no un decorso infausto o fatale. Ma non è tutto. Il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), per gli indigenti, offre ancora una certa gamma di servizi gratuiti (per altri è prevista una sorta di compartecipa­zione). Ci sono aree, nondimeno, dove vige una sorta di monopolio del privato. Si pen­si all’assistenza odontoiatrica. Qui i soldi sono tutto. Senza, non c’è di fatto accessi­bilità alle cure. Cosa significa tutto questo in un Paese dove il 25% della popolazione è a rischio di povertà o di esclusione socia­le e dove i poveri assoluti conclamati sono ormai poco meno di 6 milioni? Un tradi­mento della Costituzione. E, manco a dir­lo, uno stravolgimento dei principi che stan­no alla base della legge 833 del 1978, quella che ha istituito il Sistema sanitario nazio­nale. Di che principi parliamo? Universali­tà, uguaglianza ed equità. «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicuri­no l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio», si legge all’art. 1 di detta leg­ge. Tutto ciò che negli ultimi trent’anni, sull’onda della (contro) rivoluzione neoli­berale, è stato ridotto a mero simulacro. Prima il profitto, poi la persona. E il mala­to che viene ricondotto alla categoria ge­nerale e uniformante di consumatore. Co­s’è il consumatore nella teoria economica dominante, detta anche «neoclassica»? Colui che deve massimizzare la soddisfa­zione dei suoi bisogni, tenuto conto del vin­colo rappresentato dal proprio reddito. La risposta al perché tanti italiani, oggi, sono costretti a scegliere tra curarsi e mangiare o pagare le bollette. La salute messa allo stesso livello di altre merci.
Questione di paradigma, nel quale è insita l’idea secondo cui anche nella sanità lo Sta­to deve risparmiare, ridurre il suo inter­vento finanziario. Stando a uno studio re­cente della Fondazione Gimbe, dal 2010 al 2019 il definanziamento della sanità pub­blica italiana è stato di 37 miliardi. Vi han­no concorso governi di centrodestra e cen­trosinistra, oltre a quelli «tecnici». Tra le altre cose, ciò ha significato ancora più ta­gli ai posti letto per pazienti acuti, che, dal 1980 ad oggi, si sono ridotti complessiva­mente di quasi un terzo (da più di 500mila a meno di 200mila). Tagli alle strutture pubbliche, drenaggio di risorse da parte delle cliniche private, che hanno privile­giato, ovviamente, i settori a più alta red­ditività. Diagnostica, alta chirurgia, riabi­litazione, a scapito delle emergenze-urgen­ze, delle terapie intensive, degli interventi di primo soccorso, della medicina territo­riale, della rete del 118. La politica dei ta­gli, unita alla follia del numero chiuso ap­plicato alle facoltà di medicina, ha deter­minato inevitabilmente una scarsità ende­mica di medici e infermieri. Le ultime sti­me parlano di una carenza di 40mila medi­ci e di 100mila infermieri nel nostro Paese. Un dato che si spiega anche con la fuga dei nostri operatori sanitari verso altre nazio­ni europee: 180 mila in vent’anni. Un dato enorme, che ha una semplice spiegazione: ricerca, da parte dei giovani, di maggiore stabilità lavorativa e di remunerazioni mi­gliori di quelle offerte in Italia. Non tutti i medici, nel nostro Paese, godono dei privi­legi del sistema. Ci sono differenze tra un territorio e un altro, ma soprattutto tra vec­chie e nuove generazioni. Ancora oggi, il 70% dei medici e dei ricercatori, italiani e di origine straniera, che operano nelle no­stre strutture pubbliche o nelle cliniche private, è da considerarsi precario.
Il Pnrr e la spada di Damocle dell’autonomia differenziata.
Nemmeno la pandemia ha smosso più di tanto le acque. E il Pnrr, come si evince dalla cronaca di questi giorni, anche su questo versante non sta producendo i ri­sultati sperati. Si faranno la Case e gli Ospe­dali di Comunità? Sarà realizzata la cosid­detta Rete di prossimità, col supporto del­la telemedicina? E l’innovazione, la ricer­ca, la digitalizzazione del Ssn? Staremo a vedere. Per adesso il dibattito politico è concentrato sul rischio che i soldi del Reco­very fund vadano addirittura persi. Non c’è discussione adeguata nei territori su que­sto argomento. Sindaci e presidenti di re­gione sembrano incapaci di comprendere la posta in gioco, mentre anche con la loro complicità, ovvero grazie alla loro inerzia o per via della loro resistenza blanda, sta facendo passi in avanti lo scellerato dise­gno leghista della cosiddetta «autonomia differenziata». Già adesso esistono «diffe­renze» marcate tra i diversi sistemi sanita­ri regionali. La sanità calabrese non è quel­la veneta o emiliana. Per quanto i processi di privatizzazione abbiano colpito trasver­salmente il diritto alla salute da un capo all’altro del Paese, non c’è dubbio che nelle regioni meridionali lo stesso sia spesso del tutto negato. In tutto il Paese, pertanto, servirebbe un ritorno alla sanità pubblica universale, con un ruolo predominante dello Stato, ma nel Mezzogiorno anche maggiori investimenti per recuperare il gap attuale con le regioni più ricche del nord. Si parla invece di «Livelli essenziali di assistenza» (Lea). Che significa? Una base minima per tutti, poi chi ha più risorse fa meglio degli altri. D’altro canto, benché adesso per op­portunità politica non se ne parli, al fondo del disegno leghista c’è sempre l’idea se­condo cui le tasse che si pagano in un dato territorio devono rimanere, in tutto o in parte, nel territorio stesso. Un’idea balor­da, ma che tornerà prepotentemente un minuto dopo che il lombardo-veneto avrà attenuto la competenza esclusiva sulle materie per le quali è stato possibile chie­derla. A cominciare dalla sanità, dove la polpa è decisamente più spessa.




1 maggio 2023. Messaggio dei Vescovi
Giovani e lavoro

Giovani e lavoro per nutrire la speranza.
Messaggio dei Vescovi italiani per la Festa dei lavoratori
(1° maggio 2023)
I dati sull’occupazione in Italia mettono in luce un fatto assai preoccupante: circa un quarto della popolazione giovanile del nostro Paese non trova lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. Il quadro ci deve interrogare su quanto la nostra società, le nostre istituzioni, le nostre comunità investono per dare prospettive di presente e di futuro ai giovani.
Essi pagano anche il conto di un modello culturale che:
– non promuove a sufficienza la formazione,
– fatica ad accompagnarli nei passi decisivi della vita
– e non riesce a offrire motivi di speranza.
Come sottolinea papa Francesco nell’esortazione apostolica Christus vivit: «Il mondo del lavoro è un ambito in cui i giovani sperimentano forme di esclusione ed emarginazione. La prima e più grave è la disoccupazione giovanile, che in alcuni Paesi raggiunge livelli esorbitanti. Oltre a renderli poveri, la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e di sperare e li priva della possibilità di dare un contributo allo sviluppo della società» (n. 270).
Conosciamo molto bene l’impatto sulla vita ordinaria di tale situazione:
– vengono rimandate le scelte di vita
– e si rimuove dall’orizzonte futuro la generazione di figli.
La crisi demografica in corso nel nostro Paese aggrava la situazione.
I giovani diventano sempre più marginali. Le giovani donne conoscono un ulteriore peggioramento delle opportunità lavorative e sociali.
Preoccupa anche il numero elevato di giovani che lasciano il Sud, le Isole e le aree interne per cercare fortuna nelle aree metropolitane del Nord Italia o che addirittura abbandonano per sempre la terra di origine.
Un’attenzione particolare merita la situazione di precarietà lavorativa che vivono molti giovani: dove scarseggia la domanda di lavoro i giovani sono sottopagati, vedono frustrate le loro capacità e competenze e perciò interpellano la coscienza dei credenti in tutti gli ambiti lavorativi e professionali.
Si avverte la fatica di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, per cui molte professionalità non trovano accoglienza nei giovani.
Desta preoccupazione anche il tasso dei giovani che non studiano né lavorano (NEET), quelli che finiscono nelle reti della criminalità, del gioco d’azzardo, del lavoro nero e sfruttato, del mondo della droga e dell’alcolismo.
Papa Francesco, in relazione al tema dei giovani, ha più volte parlato di un’«unzione», di un dono di grazia, manifestazione dell’intrinseca dignità della persona, fonte e strumento di gratuità.  Senza il lavoro non viene infatti a mancare solamente una fonte di reddito – peraltro importantissima – ma i giovani disoccupati «crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro che è quello che dà la dignità» (Visita pastorale a Genova, Incontro con il mondo del lavoro, 27 maggio 2017).
Per porre rimedio a questa crisi epocale, nello spirito del Cammino sinodale, desideriamo condividere percorsi di vera dignità con tutti.
Vorremmo che le comunità cristiane fossero sempre più luoghi di incontro e di ascolto, soprattutto dei giovani e delle loro aspirazioni, dei loro sogni, come anche delle difficoltà che essi si trovano ad affrontare.
Ci impegniamo a condividere la bellezza e la fatica del lavoro, la gioia di poterci prendere davvero cura gli uni degli altri, la fatica dei momenti in cui gli ostacoli rischiano di far perdere la speranza, i legami profondi di chi collabora al bene in uno sforzo comune.
Sollecitiamo la politica nazionale e territoriale a favorire l’occupazione giovanile e facciamo sì che il rapporto scuola-lavoro, garantito nella sua sicurezza, aiuti a frenare l’esodo e lo spopolamento, soprattutto nei territori con maggiore tasso di disoccupazione.
Su questo cammino ci mettiamo in dialogo e in ascolto di quelle esperienze cariche di novità e di speranza, come Economy of Francesco, il Progetto Policoro, le cooperative sociali, le Fondazioni di Comunità, le buone pratiche in campo economico, lavorativo e di microcredito, che sono state censite anche in occasione dell’ultima Settimana Sociale di Taranto.
Ascoltare questi giovani ci aiuta ad incontrarli, assieme a tanti altri che hanno sicuramente molto da dire, ai quali ci offriamo come compagni di viaggio.
Vogliamo trovare il modo ed il tempo per sognare il loro stesso sogno di:
un’economia di pace e non di guerra;
un’economia che si prende cura del creato, a servizio della persona, della famiglia e della vita;
un’economia che sa prendersi cura di tutti e non lascia indietro nessuno.
Desideriamo un’economia custode delle culture e delle tradizioni dei popoli, di tutte le specie viventi e delle risorse naturali della Terra, «un’economia che combatte la miseria in tutte le sue forme, riduce le diseguaglianze e sa dire, con Gesù e con Francesco, “beati i poveri”» (Patto tra il Papa e i giovani di Economy of Francesco, Assisi 24 settembre 2022).
Oggi siamo chiamati a condividere passi e contributi di tanti, perché questa «economia di Vangelo» non rimanga solamente un sogno.
Prendiamo sul serio le aspirazioni dei giovani, le loro critiche all’esistente ed i loro progetti di futuro.
Portiamo il nostro contributo ovunque si disegnino e si realizzino le politiche del lavoro, le contrattazioni collettive ed aziendali, le molteplici forme dell’imprenditorialità e della finanza.
Una nuova visione dell’economia attenta al grido dei poveri e della Terra, dei giovani che rischiano di essere «impoveriti» del loro futuro, trovi spazio nel mondo culturale ed accademico, e alimenti le prospettive della politica a tutti i livelli.
Valorizziamo anche i beni della Chiesa con lo scopo di favorire opportunità lavorative per i giovani nella logica dell’ecologia integrale di Laudato si’.
Scommettiamo sulla capacità di futuro dei giovani. Abbiamo bisogno dell’alleanza tra l’economia, la finanza, la politica, la cultura per costruire reti di accompagnamento per i giovani.
Questi germogli saranno i segni sicuri di una nuova primavera fatta di relazioni buone tra le persone, di famiglie capaci di aprirsi alla vita con coraggiosa speranza, di una società della solidarietà e della cura reciproca. Siamo certi che l’azione dello Spirito sta suscitando nel mondo germogli di novità grazie anche alle future generazioni. Si sta già realizzando sotto i nostri occhi la profezia di Gioele: «Diventeranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3,1).

Roma, 20 marzo 2023

La Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace