Carcere, mai così tanti detenuti
L’appello di Papa Francesco

Carcere, mai così tanti detenuti. L’appello di Papa Francesco
Lucia Capuzzi (Avvenire 22 dicembre 2022)

 Viaggio nei centri di detenzione di tutto il mondo, dopo la richiesta di clemenza per Natale che il Papa ha rivolto ai Capi di Stato. Sovraffollamento ed emergenze igienico-sanitarie. E il dramma di chi si toglie la vita in completa solitudine dietro le sbarre. La miseria in molti Paesi é considerata un delitto: in 42 Paesi africani chi è senza reddito è punibile. Noury (Amnesty International): il ricorso alla reclusione continua ad essere considerato come il solo strumento per garantire la sicurezza. Un recluso su tre è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu che prevede che tale quota non oltrepassi il 16,3%.

 «Un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura». È questa la richiesta che papa Francesco rivolge, in occasione del Natale, a tutti i capi di Stato del pianeta. Un appello di scottante attualità perché – come rivela l’ultimo studio di Penal reform International – mai prima d’ora il numero di detenuti era stato tanto alto: 11,5 milioni di persone, il 24 per cento in più rispetto al 2000, anno in cui Giovanni Paolo II fece un’analoga petizione. A crescere con particolare rapidità è stata soprattutto la percentuale di donne – + 33 per cento -, i minori dietro le sbarre sono oltre 261mila. Sono gli Stati Uniti ad avere il maggior numero di prigionieri – due milioni -, seguiti da Cina (1,69 milioni) e Brasile (811mila).
Un recluso su tre, inoltre, è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu 2030 che, per garantire un equo accesso alla giustizia, prevede che la tale quota non oltrepassi il 16,3 per cento. La questione riguarda tutti i Paesi, in Africa e in Asia raggiunge, tuttavia, livelli macroscopici. In Nigeria, quanti aspettano il processo in carcere sono addirittura 50mila. Nella gran parte dei casi, come nel resto del Continente, si tratta di persone accusate di reati minori e con pochi mezzi per pagare la cauzione. Nel Sud del mondo spesso è la miseria stessa ad essere considerata un delitto: in 42 Paesi africani è punibile con il carcere il fatto di non avere un reddito. Mendicare è vietato in varie parti della regione.
La tendenza alle “manette facili” non solo resta in voga ma dovrebbe aumentare ulteriormente nel futuro imminente. L’anno scorso, almeno ventiquattro nazioni hanno annunciato progetti di espansione dei penitenziari, per un totale di 437mila strutture. Quasi la metà in Turchia, un quinto in Sri Lanka, i due Paesi con i maggiori complessi carcerari.
Il boom di nuove costruzioni non riesce comunque a risolvere il nodo cronico del sovraffollamento, dato l’incremento del ritmo degli arresti. In 121 Stati, le prigioni operano ben oltre la propria capacità massima, in 13 addirittura le persone “in eccesso” sono più del 250 per cento. «Sovraffollamento e mancato rispetto degli standard minimi igienico-sanitari sono i due drammi che maggiormente rendono difficile la vita dei detenuti», afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nel pieno della pandemia, l’Ong aveva chiesto ai governi di ridurre la concentrazione dei reclusi per arginare il contagio, attraverso il ricorso alle misure alternative. Qualche Paese – come Ecuador, Sudafrica, Indonesia, India, Cina, Regno Unito, Cile, Bulgaria, Congo, Turchia, Egitto, Iran, Nepal e la stessa Italia – si è mosso, pur con estrema lentezza, in tale direzione, con provvedimenti, tuttavia, frammentari e temporanei. Appena usciti dalla fase acuta della tempesta Covid, ovunque, si è assistito a un ritorno al vecchio sistema di incarcerazione di massa. «Purtroppo – aggiunge Noury -, il ricorso alla reclusione continua ad essere considerato come il solo strumento per garantire la sicurezza. Il che determina una congestione delle strutture e questo espone i detenuti a rischi per la salute fisica e mentale, spesso letali». Non a caso, il tasso di mortalità dietro le sbarre è più alto del 50 per cento rispetto al fuori. «Alle condizioni indegne, poi, si aggiungono abusi e torture, sistematici in alcuni Paesi», aggiunge il portavoce di Amnesty che sottolinea, in particolare, tre casi preoccupanti: El Salvador, Egitto e Iran. Da quando, lo scorso marzo, il presidente Nayib Bukele ha proclamato lo stato di emergenza, 57mila persone sospettate di avere relazioni con le “maras”, le feroci bande locali, sono finite in cella, il 2 per cento degli adulti. Ormai, il tasso di incarcerazioni in rapporto alla popolazione ha battuto gli Usa per diventare il più alto del mondo.
« In Egitto, si contano almeno 7mila detenuti per ragioni di coscienza. L’Iran ha attuato tra i 16 e i 18 nuovi arresti dall’inizio delle proteste. Scelte che hanno incrementato ulteriormente il sovraffollamento». In questi tre Paesi le morti in carcere per mancanza di cure sono all’ordine del giorno. «Purtroppo, si sta affermando una narrativa riguardo ai diritti umani estremamente pericolosa. Questi ultimi non sono considerati innati bensì “si meritano”. Quelli dei detenuti, per definizione poco meritevoli in base agli standard tradizionali, possono essere ridotti o violati – conclude Noury –. Per questo, le parole di papa Francesco sono tanto importanti».




LAVORO FRAGILE, ASSENTE, RIFIUTATO
Costantino Corbari (ROCCA n.24)

Lavoro fragile, assente, rifiutato

Costantino Corbari[1] (ROCCA n.24, 15 dicembre 2022)

Il lavoro resta alla base della nostra vita, tuttavia è sempre meno centra­le nell’agenda del Paese. Evidente la sua progressiva perdita di rilievo nel dibattito politico. Guerra in Ucraina, energia, inflazione: queste al momen­to le emergenze per partiti e istituzioni. Inoltre, processi innovativi, robotica e in­telligenza artificiale rendono la presenza dell’uomo sempre meno indispensabile negli ambiti produttivi oltre che in quelli creativi. Ancora, il lavoro sembra non ve­nire considerato prioritario neanche dai molti giovani che lo vivono con sentimen­to di distacco, come obbligo utile per la sopravvivenza. La vita è altrove. «Il lavoro è un dato originario interno che concorre a definire il significato stesso dell’esistenza» ha scritto Francesco Nova­ra, tra i fondatori della psicologia del la­voro. Ma quanti di coloro che abbandonano il posto fisso per altre strade, o non si pre­sentano sul mercato del lavoro o vivono di precarietà e insicurezza, condividono le sue parole? Oppure si sentono parte del cammino che indica il costituzionalista Filippo Pizzolato: «Il lavoro è il contributo che ogni cittadino è chiamato a dare alla costituzione cooperativa della conviven­za»? Sono interrogativi che si sono poste le Acli lombarde nell’avviare una riflessione sul tema del lavoro, di come stia cambiando e di come questo incida sull’atteggiamento oltre che sulla vita delle persone. Parten­do dalla convinzione che il lavoro, nono­stante la sua apparente marginalità, sia ancora uno spazio di crescita personale oltre che fonte di riconoscimento sociale. Il ciclo dei dialoghi ha preso avvio da un approfondimento sul lavoro «fragile, as­sente, rifiutato». Tre aggettivi che ben descrivono la realtà del lato debole del la­voro. Una condizione che coinvolge milio­ni di persone che faticano a trovare una soddisfacente collocazione nel mercato del lavoro. Si tratta di un’area estesa di disoccupati cronici, di sottoccupati, di precari, di working poor, di lavoratori in nero, di si­tuazioni di caporalato, ma anche di giova­ni in costante ricerca di un lavoro decen­te e di lavoratori che puntano ad una oc­cupazione che assicuri un migliore equili­brio tra vita privata e impegno lavorativo. Ma di cosa parliamo concretamente quan­do usiamo le parole: fragilità, assenza e rifiuto a proposito del lavoro?
Lavoro fragile.
Fragile è il lavoro precario, temporaneo. Sono precari coloro che vivono una gene­rale condizione di incertezza che si pro­trae per molto tempo. In Italia, secondo le rilevazioni Istat, sono oltre tre milioni. Fragile è il lavoro povero, sottopagato. Un recente studio Ocse ci dice che negli ulti­mi 30 anni i salari medi reali degli italiani sono diminuiti del 3,6%. Un dato che te­stimonia il diffondersi di una condizione di povertà lavorativa, cioè di chi vive in una situazione di povertà nonostante sia occupato.
Fragile è il lavoro nero. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare solo al Sud e alla raccolta dei pomodori. Modalità di intermediazione illecita di manodopera sono presenti in tutt’Italia e in ogni cam­po lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristora­zione, servizi a domicilio, pesca, cantieri­stica navale. Lavoro nero vuol dire anche caporalato. Fenomeno che riguarda parti­colarmente i soggetti più vulnerabili quali i migranti, le donne e i minori.
Fragile è il lavoro insicuro. Sebbene non ci sia una correlazione lineare, è evidente che dove c’è più lavoro precario il rischio che accadano degli incidenti è più eleva­to. Quasi mezzo milione le denunce per infortuni sul lavoro presentate all’Inail nei primi otto mesi del 2022. Tre al giorno i morti da gennaio a fine agosto.
Lavoro assente.
Per molti il lavoro non c’è. Il tasso di disoccupazione è al 7,8% a fine agosto (6,7% uomini, 9,3% donne). Nel Sud e nelle isole si arriva al 14,2%.I giovani tra 15 e 24 anni senza un lavoro sono il 21,2%. Nei prossi­mi mesi è atteso un peggioramento dell’oc­cupazione per la crisi causata dal costo dell’energia e dalla guerra in Ucraina.
I tassi in questo momento sono in calo an­che grazie alla crescita del numero di per­sone che hanno smesso di cercare un lavo­ro. I giovani che non studiano, non lavora­no e non frequentano corsi di formazione – i famosi neet, tra i 15 e i 29 anni – sono circa tre milioni, con una leggera preva­lenza femminile. Una massa di persone che rischiano la marginalizzazione cronica, ca­ratterizzata non solo da povertà materiale e carenza di prospettive, ma anche da de­pressione psicologica e disagio emotivo. Una perdita grave, individuale e sociale.
Lavoro rifiutato.
Fenomeno recente quello delle numerose dimissioni volontarie, la Great Resigna­tion, assai cresciute in epoca Covid. Nei primi sette mesi del 2022 sono state più di un milione le persone con contratto di la­voro a tempo indeterminato che hanno lasciato un posto sicuro, il valore più ele­vato dell’ultimo decennio. Parliamo di per­sone, per lo più giovani, che rinunciano all’impiego nella speranza, o illusione, di una migliore qualità della vita privata. Il posto fisso è importante ma non può mor­tificare la vita, le relazioni, le speranze di una condizione umana piena.
La forte crescita dell’occupazione, che ha caratterizzato la prima parte dell’anno, e la difficoltà delle imprese a trovare le fi­gure professionali cercate, rafforzano la capacità contrattuale di coloro che cerca­no un’occupazione adeguata alle loro aspettative e questo favorisce un così am­pio numero di dimissioni.
Sono tante infatti le imprese che cercano gente da impiegare in officina, in cantie­re o in ufficio, poche le persone disposte a farsi assumere. Un fenomeno che evi­denzia inoltre la realtà di un disallinea­mento tra le competenze necessarie e quelle disponibili con un importante pro­blema di formazione.
C’è infine da considerare che ogni anno decine di migliaia di giovani lasciano l’Ita­lia alla ricerca di un posto di lavoro più soddisfacente, di una migliore retribuzio­ne oltre che di nuove esperienze. Possiamo oggi immaginare un cambio di rotta e la correzione di una realtà sempre più distorta?
La politica pensa ad altro. Giorgia Meloni nel suo primo discorso, quello alla Camera dei deputati, non ha mai citato né la parola lavoro, né la parola sindacati. La sinistra è avvitata su se stessa, litigiosa e distante dai problemi concreti delle persone.
I sindacati confederali, purtroppo sempre più deboli, spesso divisi tra loro, eviden­ziano una ridotta capacità di incidere sul­le scelte. L’azione contrattuale non è bloc­cata e molti contratti di lavoro vengono rinnovati, sia nazionali di categoria che di singole imprese. Occorre però tenere presente che l’occupazione nell’industria – dove Cgil, Cisl e Uil sono più forti – pesa per poco meno del 20% del totale mentre quella nei servizi – dove il sindacato è più debole e dove regna la precarietà – rap­presenta circa il 72% del totale. Confindustria, dal canto suo, in concomitan­za con l’insediamento del nuovo governo ha pensato bene di sottoscrivere un accordo per gli artigiani con la sola U gl, sindacato notoriamente vicino alla destra politica, con condizioni peggiorative rispetto a quelle in essere con le imprese aderenti alle associa­zioni artigiane. Immediata la reazione delle organizzazioni sindacali maggiori che han­no protestato per la violazione del «Patto per la fabbrica» e l’incentivo ai contratti pirata. Un semplice caso? Un segnale alla Meloni? Lo capiremo presto.
Papa Francesco, in occasione dell’incon­tro con gli aclisti per il 70° dell’associazio­ne, ebbe a dire queste parole: «Davanti a questa cultura dello scarto, vi invito a realizzare un sogno che vola più in alto. Dob­biamo far sì che, attraverso il lavoro – il ‘lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale‘ – l’essere umano esprima ed ac­cresca la dignità della propria vita». Un sogno che molti non riescono neppure ad immaginare.


[1] Giornalista, docu­mentarista Tv, Uf­ficio Studi Acli Lombardia




Poveri: superare l’assistenzialismo

Poveri: superare l’assistenzialismo
settimananews.it/societa/poveri-superare-assistenzialismo/
di: Antonio Cecconi[1]

La giornata mondiale dei poveri, (13 novembre 2022), dovrebbe indurre a una riflessione collettiva su un problema che non è di un giorno ma di tutti i giorni. Ne stanno parlando a più voci il mondo civile ed ecclesiale, evidenziando la cronica difficoltà di affrontare e arginare il crescente fenomeno della povertà.

Non siamo usciti dall’assistenzialismo.
Apprezzando decisamente la necessità di dare adeguata informazione dei problematici andamenti in atto nella società italiana, mi permetto di aggiungere alcune personalissime osservazioni e considerazioni, precisando che il movente iniziale di questi pensieri è stato il resoconto dell’ottimo Paolo Lambruschi (su Avvenire del 18 ottobre u.s.) della presentazione del rapporto sulla povertà della Caritas L’anello debole e, nello specifico, una mia personale reazione all’uso dei termini “assistiti” e “beneficiari”, usati per i destinatari dei servizi di cui molte Caritas sono attive protagoniste.
Non voglio fare del nominalismo, ma in termini come questi ravviso il sapore pietistico di una filantropia e beneficienza ottocentesche, che l’azione pedagogica di oltre cinquant’anni di Caritas dovrebbe ormai aver espulso dal vocabolario ecclesiale. E anche da quello sociale.
Forse sta succedendo che il ritorno delle vecchie povertà, accanto alle nuove, e le prospettive di crescente impoverimento della società italiana siano fenomeni complessivi che suscitano in molti il desiderio di fare qualcosa, e che le più immediate risposte appaiano l’assistenza e la beneficienza.
Il rischio è fermarsi lì o ritornare lì, a gesti che soccorrono nell’immediato ma mantengono la distanza o addirittura potrebbero essere funzionali ad andamenti socioeconomici che lasciano immutati e insuperabili i privilegi, gli arricchimenti e le differenze. Giudico della stessa natura e di analogo effetto – al di là della buona fede di chi vi aderisce – i numerosi appelli di sottoscrivere contributi di pochi euro per varie iniziative contro la fame e le malattie che ricorrono nelle reti tv.

Il ruolo della Caritas.
Mentre ciò avviene sul versante sociale, sul versante ecclesiale potremmo correre il rischio di dimenticare quello che un documento della CEI scriveva all’inizio degli anni ’90:«La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 39). Vado ancora più indietro, al discorso con cui Paolo VI tenne a battesimo le nascenti Caritas (italiana e diocesane) il 27 settembre 1972: «… la vostra azione non può esaurirei suoi compiti nella pura distribuzione di aiuto ai fratelli bisognosi… Al di sopra di questo aspetto puramente materiale della vostra attività emerge la sua prevalente funzione pedagogica, il suo aspetto spirituale che non si misura con cifre e bilanci, ma con la capacità che essa ha di sensibilizzare le Chiese locali e i singoli fedeli al senso e al dovere della carità in forme consone ai bisogni e ai tempi».
Agire su due livelli.
Tra le risposte ai bisogni di questi tempi possono esserci certamente e assolutamente, nell’immediato, il pacco spesa e l’aiuto per pagare le bollette della luce o del gas. Ma non possiamo fermarci lì! Oltre a organizzare queste e ad altre forme necessarie di soccorso concreto, ritengo si possa e si debba agire su due livelli:

1) far crescere la coscienza ecclesiale verso il dovere di una carità fattiva che si traduca in impegni creativi e costanti di accoglienza, ospitalità, accompagnamento, prossimità e condivisione, da proporre a parrocchie, famiglie, associazioni; non ci si può accontentare di gestire nelle parrocchie – o livelli più ampi: vicariali o diocesani – l’erogazione di alcuni servizi a cui rinviare “i poveri”! Una Caritas parrocchiale che soltanto distribuisce ma anche non educa, anima e provoca l’intera comunità, compromette la sua stessa natura;

2) agire sulla politica e sull’economia per intaccare i perversi andamenti di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e di scivolamento verso la povertà di fasce sempre più ampie di popolazione.

Purtroppo – è esperienza recentissima – la lotta alla povertà ha avuto ben poco spazio nei programmi elettorali dei partiti e nelle propagande dei candidati; sta di fatto che moltissimi esponenti politici e pubblici amministratori elogiano il volontariato perché interviene a tappare le falle di uno stato sempre meno sociale, ma si dimostrano incapaci di progettare – col concorso del volontariato e delle stesse Caritas – adeguate contro misure nei confronti del crescente disagio sociale. Siamo ben lontani dai tempi in cui si auspicava che quello che oggi viene donato per carità cristiana o solidarietà umana, domani sarà dato per giustizia. Allora si teorizzava un passaggio dalla beneficienza ai diritti rispetto al quale si sta tornando indietro, e il vocabolario assistenzialista ne è la spia!
E in ambito ecclesiale?
In ambito ecclesiale, urge un serio esame di coscienza – il cammino sinodale può fornirne l’occasione – per diventare prima di tutto una Chiesa “dalla carità” e di conseguenza Chiesa “della carità”. Questo vuol dire attingere alla profondità della carità trinitaria e cristologica, magari scomodando i teologi come è sempre stato costume della Caritas, per crescere nell’autocoscienza ecclesiale oblativa di tutto il popolo di Dio, e partendo da qui sostenere le dimensioni operative, sempre curando la “pedagogia dei fatti”: educare al dono facendo, facendo fare, accompagnando il fare con il riflettere. E magari anche con il pregare. Chiediamoci se non stiamo correndo il rischio di diventare una Chiesa e una Caritas tutte assorbite dal fare per i poveri senza trovare tempo e modo per riflettere sulle cause delle povertà e senza compiere verso l’intera comunità – ecclesiale e civile – un’opera di educazione, stimolo e direi conversione nella prospettiva della condivisione, rivolgendoci con parresia a tutti coloro che vivono in condizioni agiate o quanto meno dignitose; e senza coscientizzare i poveri (delle varie forme di povertà, disagio, emarginazione…) sui loro diritti, senza avviare per/con loro cammini di inclusione, dignità, autonomia, responsabilità… senza almeno provarci!  A mo’ di esempio: affiancare la distribuzione di aiuti alimentari (consegna pacchi spesa, gestione di empori della solidarietà ecc.) con spazi educativi in cui i percettori di aiuti ricevono anche indicazioni e proposte di corretta alimentazione, risparmio energetico, sobrietà…Inoltre, nella prospettiva dell’uscita dalla povertà attraverso l’esercizio dei diritti/doveri, va percorsa – con consapevolezza e continuità più forti di quanto attualmente non avvenga– la strada del diritto al lavoro, a partire dal coinvolgimento in attività di pubblica utilità delle persone destinatarie di aiuti; per poi estenderla, con le collaborazioni e gli agganci giusti, a percorsi formativi orientati all’inserimento lavorativo.
Sedersi ai tavoli della programmazione.
Un ulteriore aspetto importante e forse decisivo, per un diverso modo di contrastare la povertà e l’emarginazione, è la disponibilità delle Caritas – ma anche del volontariato e dell’intera galassia del terzo settore – a sedere ai tavoli in cui si programmano e si attuano le politiche sociali, a partire dal concreto dei territori e fino all’interlocuzione col Governo e il Parlamento. In alcuni casi si tratterà di chiedere di essere ammessi dimostrando di averne titolo e competenza, in altre realtà addirittura di promuovere, evitando lo spezzettamento di risposte e favorendo invece l’approccio partecipato e la convergenza di tutte le forze della solidarietà. Per svolgere queste azioni, ci sarà bisogno, oltre che di presentare le situazioni di povertà come già avviene attraverso i rapporti che la Caritas produce sia a livello nazionale che territoriale, di promuovere studi e ricerche al fine di acquisire competenze e proporre sperimentazioni in materia di politiche sociali (la dimensione dello studio e della ricerca è esplicitamente presente nei compiti statutari di Caritas italiana fin dalle sue origini). Complementare all’aspetto ecclesiale c’è la dimensione civile, e quindi le motivazioni, la consapevolezza e la qualità di chi, nella pubblica amministrazione, è chiamato a responsabilità di governo ai vari livelli, dal piccolo comune fino ai vertici della repubblica. La comunità ecclesiale dovrebbe fare un serio esame di coscienza sul proprio contributo all’educazione civica di base, per verificare quanto il cristiano medio abbia consapevolezza circa quei «doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» enunciati nell’art. 2 della Costituzione (non a caso per la formulazione di quel testo fu determinate l’apporto di un cattolico del calibro di Giorgio La Pira!). Chiediamoci se e quanto la disaffezione verso la “cosa pubblica” – dall’assenteismo elettorale all’evasione fiscale – non si sia diffusa anche trai buoni cristiani, nel popolo delle parrocchie e nel vasto mondo delle aggregazioni cattoliche… Per poi riflettere sul rarefarsi di presenze cattoliche significative e credibili tra gli eletti nelle diverse sedi di partecipazione democratica, e constatare la palese assenza di coraggiose traduzioni dell’insegnamento sociale della Chiesa. C’è qualcuno, da qualche parte, che si stia chiedendo se qualcosa della Laudato si’ e della Fratelli tutti sia applicabile alla vita di un Comune, di una Regione, dello Stato?
Un’ultima cosa: molte case canoniche e conventi si stanno svuotando per mancanza di personale ecclesiastico che le abiti, in conseguenza dell’evidente crisi delle vocazioni alla vita consacrata. Nel frattempo, una delle forme di povertà registrate da molti centri di ascolto delle Caritas (come pure dagli assessorati alle politiche sociali) è l’emergenza abitativa: famiglie non in grado di sostenere il costo degli affitti, accoglienza di profughi emigranti… La Chiesa potrebbe decisamente fare qualcosa di più di quanto non stia facendo adesso, soprattutto promuovendo coraggiose e lungimiranti sinergie con gli enti locali e il terzo settore.


[1] Direttore Caritas Pisa




ALBERI IN CITTA’ PER COMBATTERE LO SMOG
Carlo Timio (ROCCA n. 19)

Alberi in città per combattere lo smog

Carlo Timio[1] (ROCCA 1 ottobre 2022)

Complice la pandemia da Covid-19 che ha spinto la gran parte della popolazione mondiale a un forzato e prolungato periodo di lockdown – sperimentando quanto sia fon­damentale avere un’area verde vicino a casa per il proprio benessere fisi­co e mentale -, il tema della presenza de­gli alberi nelle città è tornato prepotente­mente alla ribalta. Ma da dove deriva que­sta rinnovata sfida a rendere i centri ur­bani sempre più verdi? Una nuova moda, inediti interessi, oppure questo confronto cela significati ben più profondi? Faccia­mo un po’ di ordine. Va da sé che la pian­tumazione di alberi genera numerosi ef­fetti positivi tra cui un miglioramento del­lo stile di vita e della salute pubblica gra­zie alla capacità di ridurre l’inquinamen­to sia ambientale che acustico. Il verde pubblico produce una riqualificazione estetica dei paesaggi urbani e mitiga il fe­nomeno delle isole di calore urbano – che in climatologia rappresentano delle aree più calde all’interno della città che coinci­dono con le zone maggiormente antropiz­zate rispetto alle circostanti aree periferi­che – dovuto a una diffusa cementifica­zione, alle superficie asfaltate, alle emis­sioni di Co2 di autoveicoli, impianti di ri­scaldamento e raffreddamento. Ed è così che la forestazione urbana, secondo nu­merosi studi scientifici, viene considerata la soluzione più efficace ed economica per mitigare l’inquinamento atmosferico, in quanto gli alberi sono eccezionali purifi­catori d’aria. Infatti, grazie al processo della fotosintesi clorofilliana, assorbono tramite le foglie, il tronco e le ramifica­zioni, una grande quantità di particolato atmosferico e gas inquinanti, producendo in cambio ossigeno. Tenuto conto che con ogni probabilità è proprio nelle città che si gioca la partita più decisiva per il futu­ro, è nei settori quali la rigenerazione ur­bana, consumo del suolo, mobilità, acces­sibilità, qualità dell’aria e dei servizi che si dovranno concentrare maggiori energie e finanze. Il tutto per garantire più benes­sere per le città e i suoi abitanti. C’è chi pensa perfino che gli alberi dovrebbero essere ritenuti come un’infrastruttura di salute pubblica. Del resto, mentre da un lato sono sotto gli occhi di tutti i benefici che il verde genera nelle città, dall’altro va considerato che ogni anno, tra i tre e i quattro milioni di persone in tutto il mon­do muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico (asma, malattie cardiache, ictus, ecc.). E allora cosa aspettare? Se­condo uno studio dell’organizzazione americana Nature Consevancy si è dimo­strato che con otto dollari a persona all’an­no si potrebbe prevenire la perdita di al­beri, documentando anche che oggi le cit­tà investono di meno nella cura del verde urbano rispetto agli anni passati. È stato anche evidenziato che la carenza o scarsa presenza di alberi è spesso connessa con il reddito medio dei quartieri, creando di­suguaglianze rispetto alla salute delle per­sone. Negli Stati Uniti la differenza nelle aspettative di vita tra quartieri vicini può arrivare a variare addirittura di un decen­nio. Il verde urbano è ormai diventato un’esigenza imprescindibile, un elemento che fa da sfondo alla ricerca di qualità della vita in città: che sia un parco o un singolo albero, l’importante è che si individui, nella fase di progettazione urbana, la giu­sta collocazione per il verde. Una buona soluzione potrebbe essere quella di inco­raggiare politiche che inducono i privati cittadini a piantare alberi, educandoli sui benefici della salute pubblica così come sull’impatto economico delle zone verdi. Lo sostiene anche Ban Ki Moon, ex Segre­tario Generale dell’Onu, quando afferma che «le città sono il luogo in cui la batta­glia per lo sviluppo sostenibile sarà vinta, o persa». Anche nella dichiarazione finale del vertice G20, tenutosi a Roma il 31 ot­tobre 2021, si riconosce «l’urgenza di com­battere il degrado del suolo e creare nuo­ve vasche di assorbimento del carbonio, condividendo l’obiettivo ambizioso di pian­tare collettivamente mille miliardi di al­beri entro il 2030». Un impegno che per l’Ue si è tradotto nella «Strategia europea per la biodiversità al 2030» che mira a piantare almeno tre miliardi di alberi sup­plementari entro la fine del decennio. Anche nel Pnrr si parla della necessità di una riforestazione urbana. Ma ciò non basterà a creare degli ecosistemi sosteni­bili finché gli alberi verranno considerati un arredo urbano – l’ultimo tassello da aggiungere alla fine di una pianificazione urbana – e non piuttosto elementi indispen­sabili in una visione ecosistemica del ver­de urbano attorno a cui sviluppare una progettazione urbanistica. Gli alberi, in­fatti, fanno bene alla città. Questa affer­mazione dovrebbe rappresentare un man­tra cui gli amministratori locali non devo­no sottrarsi. Ma in Italia, cosa si sta fa­cendo su questo fronte? Secondo Asvis, l’Al­leanza italiana per lo sviluppo sostenibile, sono otto su centonove (il sette per cento) i Comuni capoluogo di provincia che di­chiarano di aver elaborato un Piano del verde. Tuttavia, ad oggi sono diverse le città che si stanno dando da fare. A Mila­no, con il progetto Forestami si cerca di creare ecosistemi urbani innovativi e so­stenibili in cui natura vegetale e città agi­scono come un unico organismo, con l’obiettivo di piantare tre milioni di alberi entro il 2030. A Torino il portale aperTo raccoglie open data in cui si riportano le alberate del territorio comunale. A Pado­va è partito il progetto «diecimila nuovi alberi» con una pianificazione di lungo termine. Il Cnr di Bologna ha stilato una lista per identificare le piante migliori da utilizzare, mentre la Regione Toscana ha emanato le linee guida da seguire per la qualità dell’aria in merito ad alberi e alla loro messa a dimora nei centri urbani. E ancora, la piattaforma Forest City per il crowdfunding a Prato, un progetto di fo­restazione urbana che coinvolge anche i cittadini, e i piani di Parma, Rimini e Man­tova aprono sempre di più a una diffusio­ne di nuove giungle urbane. Ad ogni modo, se questa è l’attuale situazione italiana, allora c’è ancora molto da fare. Forse è bene ricordare quali sono i numerosi be­nefici degli alberi. Gli alberi producono ossigeno, nello specifico, in una sola sta­gione, un albero adulto genera la quantità di ossigeno necessaria a dieci persone; puliscono l’aria, fungendo da barriere con­tro l’inquinamento e filtro per l’aria in quanto un albero adulto in ambiente ur­bano può incorporare una quantità di carbonio pari a 10-20kg di Co2 ogni anno; contribuiscono al controllo delle acque grazie alle chiome che intercettano fino al quindici per cento delle precipitazio­ni; riducono il caldo grazie alla loro tra­spirazione che fa diminuire la tempera­tura dell’aria da due a otto gradi; miglio­rano la salute mentale e il benessere per­ché la natura è terapeutica e aiuta a recuperare il senso del tempo biologico; contribuiscono a incrementare l’apparte­nenza alla comunità, riducendo isolamen­to e emarginazione, promuovendo nuovi stili di vita; proteggono il suolo, renden­do più stabili i terreni; difendono dai ru­mori grazie alle fronde che attutiscono una buona parte del caos delle città me­tropolitane; valorizzano gli immobili com­plice la loro bellezza che rende i palazzi di maggiore valore; stimolano lo sviluppo dei bambini, contribuendo alla loro crea­tività e aumentando la loro capacità di resistere alle avversità; rappresentano una memoria storica, divenendo parte integrante del paesaggio circostante. Con questi innumerevoli benefici sia pubblici che privati, e anche in un’ottica di com­battere seriamente il riscaldamento glo­bale, per riprendere le parole del botani­co Stefano Mancuso: «Occorrerebbe pian­tare mille miliardi di alberi». Il quale poi continua: «Negli ultimi due secoli l’uomo ha tagliato due mila miliardi di alberi. Gran parte di ciò che sta accadendo al pianeta è dovuto anche all’alterazione conseguente a questa enorme riduzione della superficie arborea. Gli alberi sono l’unica cosa che assorbe l’anidride carbo­nica. In Italia se ne potrebbero piantare sei miliardi soltanto usando le terre agri­cole abbandonate dagli anni Ottanta ad oggi». E allora, se con ogni probabilità, uno dei modi più semplici ed economici per migliorare la salute delle persone è piantare alberi – che oltre ad essere belli e a rendere più gradevoli i centri abitati, regalano anche una preziosa aria pulita -, perché la piantumazione di al­beri non viene inclusa nei finanziamenti per la salute pubblica?


[1] Laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Perugia, Master in Relazioni Internazionali presso la London Metropolitan University e in Comunicazione Digitale e Web Marketing presso il Sole 24 Ore. Ha lavorato come Addetto Stampa presso il Ministero dell’Interno e come consulente per le relazioni internazionali presso l’Università per Stranieri di Perugia, con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e con l’Unesco. Redattore del “Corriere dell’Umbria”. Collaboratore del quindicinale ROCCA.




Lavoro: il fenomeno del quiet quitting

Lavoro: il fenomeno del quiet quitting, stacanovismo vs benessere

https://www.tgcom24.mediaset.it/donne

 Tanti lavoratori rinunciano alla super-performance e all’attivismo professionale a favore di una vita più rilassata.

Sempre connessi, lavorando oltre l’orario e assumendosi responsabilità superiori a quelle previste dalla propria funzione? No grazie.
Sono sempre di più i lavoratori che optano per il cosiddetto quiet quitting, ovvero si attengono a quanto scritto nel loro contratto, quanto a impegno e a orari, senza spingersi oltre a scapito della propria vita personale.  In questo modo lo stress è molto inferiore e anche la qualità della vita ci guadagna, con più tempo libero, un approccio più rilassato agli impegni professionali e minore rischio di burnout. Il fenomeno è presente da molto tempo, ma è diventato più evidente dopo la pandemia, occasione in cui molte persone hanno ripensato il proprio rapporto con il lavoro, con le proprie aspettative e con i propri simili.
CHE COS’È IL QUIET QUITTING
L’espressione, tradotta alla lettera, potrebbe suonare come “abbandono silenzioso”.  In pratica consiste nell’attenersi strettamente alle proprie mansioni e solo a quelle, come previste nel contratto di lavoro e per le quali si percepisce un certo stipendio.  Niente straordinari, dunque, niente responsabilità in prima persona oltre i limiti della propria funzione, coinvolgimento personale ridotto all’osso. Detto così, assomiglia molto al fare il minimo indispensabile per non essere licenziati, tipico di chi è attaccato al proprio “posto fisso” raccontato anche da Checco Zalone nel film “Quo Vado?”. In realtà, occorre leggere il fenomeno, nato negli Stati Uniti, come contrapposizione a un altro approccio alla vita professionale, tipico della società americana: la “hustle culture”, secondo la quale tutta la vita è dominata da un’attività febbrile, in cui il lavoro dilaga in modo incondizionato e fagocita l’intera giornata: potremmo chiamarla iperlavoro o stacanovismo. Quando il modello dominante è di questo genere, il fatto di rallentare per tornare a ritmi più normali è ben diverso dall’essere lavativi.
COME È NATO
 Il termine “quiet quitting” ha fatto la sua comparsa nel 2009, in occasione di un simposio di economia, ed è stato coniato dall’economista Mark Boldger. Da qualche tempo il fenomeno dilaga sui social network, in cui numeri crescenti di persone si dichiarano intenzionate ad un approccio più rilassato al mondo professionale, rifiutando la cultura che ci vuole sempre connessi e sempre sul pezzo. La filosofia del quiet quitting punta a mettere un confine tra sé e la propria vita lavorativa, per godere anche di altri aspetti dell’esistenza, tra cui la famiglia, la vita e gli interessi personali, la soddisfazione di certe curiosità.  Il fenomeno sembra più diffuso tra i giovani, per i quali l’attività professionale non è più al vertice delle aspettative di autorealizzazione. Insomma, il lavoro comincia a non essere più l’unica realtà in grado di definirci.
BURNOUT VS. PIGRIZIA
Anche per questo fenomeno, come spesso accade, ci possono essere diverse chiavi di lettura. Da un lato, il fatto di attenersi allo stretto indispensabile e di lavorare quel tanto che basta per non essere licenziati è ben diverso dal rifiutarsi di essere travolti dai compiti e dalle responsabilità, con straordinari non pagati e con mansioni molto superiori a quelle previste dal contratto e non adeguatamente retribuite. Il primo caso è naturalmente deprecabile, mentre è difficile non essere d’accordo con chi appartiene al secondo gruppo. Il datore di lavoro, da parte sua, spesso sfrutta proprio il demansionamento o addirittura il mobbing, per invogliare il dipendente a licenziarsi. In questo modo, però, il lavoratore è sempre più portato a disaffezionarsi al proprio lavoro e a dedicarvisi con il minimo impegno la minor fatica possibile.
IL GIUSTO MEZZO
Lavorare con passione rende l’impegno professionale molto più gratificante che trascinare le giornate stancamente, aspettando solo l’orario in cui andarsene a casa. Il fatto però di non lasciarsi trascinare oltre i limiti di quello che la propria posizione prevede è un atteggiamento sano che, tra l’altro, è a salvaguardia della salute. Il burnout, ossia l’esaurimento completo delle risorse psicofisiche, è una condizione di estremo malessere, ma è controproducente anche per il datore di lavoro perché il dipendente in queste condizioni è meno efficiente e più soggetto a commettere errori. Il 2021 è stato, negli Stati Uniti, un anno in cui si sono verificate dimissioni di massa da parte di persone impiegate soprattutto nell’ambito dei servizi: secondo un sondaggio realizzato negli Stati Uniti dal Pew Research Center, i lavoratori dipendenti hanno iniziato a pensare in modo del tutto diverso alle proprie ambizioni professionali, allo stipendio e alle possibilità di carriera, attribuendo sempre maggiore considerazione al modo in cui sono trattati in azienda e alle eventuali opportunità di progresso.
Sono stati proprio questi due aspetti, insieme alla bassa retribuzione e alla sensazione di non essere rispettati, i motivi principali per cui hanno deciso di licenziarsi. Ma soprattutto è stata messa in discussione la filosofia per cui il lavoro viene al primo posto nella vita sempre e comunque, tanto è vero che numeri crescenti di americani hanno scelto di rinunciare al lavoro per inseguire sogni, passioni, stili di vita più sostenibili. Il quiet quitting si propone questi stessi obiettivi, anche se in forma meno estrema rispetto alle dimissioni vere e proprie. Non si tratta più di smettere di lavorare (dati i tempi che corrono, chi può permetterselo?),  ma di lavorare meglio, senza lasciarsi stritolare dal sistema e, soprattutto, con la possibilità di lasciare in ufficio, a orario scaduto, preoccupazioni e ansie legate al lavoro.




Da Bollate a Torino un carcere utile è possibile
F. Gianfrotta (ROCCA 15/09/22)

Da Bollate a Torino un carcere utile è possibile.

Francesco Gianfrotta[1] (ROCCA 15 settembre 2022)

C ‘è un destino che accompagna il carcere: la scarsa visibilità, salvi i casi di emergenze. Lo ribadisce la neo-direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero, nel li­bro Senza sbarre, scritto con la giornalista Serena Uccello: «Dei molti luoghi che determinano la nostra condizione di cit­tadini abbiamo esperienza diretta. Della scuo­la, degli ospedali, degli uffici pubblici. Il car­cere, invece, è un luogo che non ha apparte­nenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione». Si obietterà che la spiegazione è semplice: si tratta di un luogo destinato ai disonesti o pre­sunti tali, tenuti lontani – per legge – dal re­sto della società. Eppure la letteratura sul carcere, davvero abbondante, ci racconta di una complessità che nessun autore nascon­de o ridimensiona e che, perciò, dovrebbe indurci, in quanto cittadini, a saperne di più, senza rimozioni: operate invece da chi non vuole fare i conti con questioni difficili, che chiamano in causa le idee che ciascuno di noi ha sulla giustizia penale, sulla sicurezza, sugli obiettivi che l’intero sistema penale do­vrebbe realizzare: non in un invisibile futu­ro, di là da venire, ma qui e ora. Per fermarci a Torino, nuova sede operativa della dotto­ressa Buccoliero, ad esempio, si tratta di ri­generare ( come – stando alle cronache re­centi – si è già iniziato a fare per il lavoro dei detenuti) un insieme degradato, a lungo di­stintosi per merito dei suoi operatori, risul­tati capaci, a partire dall’allora direttore Pie­tro Buffa, di costruire realtà (di studio, di lavoro, di formazione) coerenti con l’obietti­vo della funzione rieducativa della pena, e non permeate da quella disperazione che spesso induce il detenuto a gesti autolesivi anche estremi ( questi ultimi non a caso a lun­go non verificatisi a Torino). Una ragione di più per tornare sull’argomento, non limitan­dosi a ragionare sul caso Torino, ma guardan­do a tutti gli istituti di pena.
L’opportunità di ripensarsi.
Leggendo Senza sbarre rinasce la speranza. Nel curriculum di Cosima Buccoliero spicca la direzione del carcere di Bollate, dal 2000 modello di istituto, destinato a dete­nuti non classificati in una delle varie cate­gorie di pericolosità, e organizzato per as­sicurare a chi vi è ristretto occasioni per ripensare alle proprie scelte di vita e modi­ficarle nel futuro. Un Ministro avrebbe voluto utilizzarlo come serbatoio per lo sfol­lamento del carcere milanese di San Vitto­re. Per fortuna prevalsero altre opzioni: quella visione che fa pensare alla direttrice che il cambio di direzione non nuocerà al progetto che aveva ispirato le esperienze realizzate e che «Bollate … ha i tratti del1′ esempio che può essere replicato». È un punto centrale, questo: che non rileva solo per il carcere di Torino, ma potrà incidere sul futuro dell’intero sistema penitenzia­rio. Il carcere di Bollate sorge in un terri­torio (l’area milanese) nel quale è sempre stato radicato lo spirito di solidarietà nei confronti dei soggetti svantaggiati, mani­festato non solo dal volontariato e dalla Chiesa, ma anche dal circuito istituziona­le e dal mondo imprenditoriale. Torino e altre città, però, non sono (mai state) da meno. Campanilismi e graduatorie, in ogni caso, sarebbero fuori luogo. C’entra l’espe­rienza – che parla da sola – di un passato tutt’altro che remoto e neppure breve; ac­compagnata dall’amara constatazione che occorre tanta fatica per realizzare cose che dimostrano che un altro carcere è possibi­le, ma in poco tempo la disattenzione (a dir poco) può far crollare molte parti del­l’edificio.
Il carcere è parte del territorio.
Torino, di nuovo, insegna. Il carcere è una porzione del territorio. Lo si affermava, anche nei documenti ufficiali, all’inizio del millennio: da parte sia di chi ne era convinto e agiva di conseguenza, con ruoli di responsabilità nell’amministrazione penitenziaria; che di quanti si accodavano al refrain senza crederci molto, preferendo pensare al carcere soprattutto come a un insieme di cancelli e sbarre. Lo si ripete, dopo più di venti anni, a riprova del fatto che è necessario ribadirlo e spiegarlo. In car­cere finiscono coloro che – come dice Cosi­ma Buccoliero -ad un certo punto della vita hanno iniziato a deragliare. Non v’è dubbio che anche per causa loro in un certo terri­torio si diffonde l’insicurezza. Ma è proprio in quel territorio che essi torneranno, al ter­mine della detenzione: per questo il rappor­to tra carcere e territorio non può essere nega­to. Prescinderne, quando ci si occupa di fun­zione della pena detentiva, è un errore stra­tegico, all’origine di altri, parimenti gravi e rilevanti su piani diversi: vite detentive che si trascinano nell’ozio; tensioni e conflitti negli istituti e, a volte, prevalenza – nel rap­porto con loro – di modalità di intervento inaccettabili per un paese civile, oltre che pacificamente illegali. E verosimile che vi sia un nesso tra fatti accaduti in luoghi di­versi, nonostante la vigenza di leggi e rego­lamenti di segno opposto, e un carcere chiu­so, nel quale pochi studiano, lavorano o im­parano un mestiere utile per il loro futuro e forti sono le tensioni. Con un ulteriore in­conveniente: che il confronto sui diversi modelli detentivi possibili assume troppo spesso i caratteri di uno scontro ideologico[2]. Da una parte, i cosiddetti buonisti, ac­cusati di scarso realismo, allorché fanno ri­ferimento all’art. 27 della Costituzione, che individua nella rieducazione la finalità del­la pena (anche di quella non detentiva); dal­l’altra, i cosiddetti realisti, accusati di esse­re appiattiti sulla esigenza della punizione dell’illecito, quale risposta dello Stato al re­ato, anche in funzione di prevenzione della diffusione dell’illegalità e della insicurezza. Può servire sparigliare le carte di una di­scussione, che continua ad essere blocca­ta. Trattamentalisti contro securitari: due orribili parole; già solo questo dovrebbe indurre a ragionare in un modo diverso. E, comunque, ad auspicare che si affermi una idea di pena sostenuta dal più largo consenso possibile.
Trasformare il costo in investimento
Un carcere nel quale ci si limiti ad aprire e chiudere porte e cancelli è un puro costo. Per la collettività, che si appaga del risultato minimo (l’esemplarità della punizione), alla prova dei fatti nemmeno scontato, e così ri­nuncia, a priori, ad orientare la spesa dell’ esecuzione penale a finalità diverse ed ul­teriori rispetto a quella della punizione e, al più, della deterrenza. Ma anche per il dete­nuto: il cui pensiero dominante, nell’ozio, come tutti gli addetti ai lavori ben sanno, fa­cilmente diventa quello di non ripetere gli errori che, in passato, gli sono costati la de­tenzione. A chi non è sensibile al tema della finalità rieducativa della pena si potrebbe far presente che si può provare a trasformare un costo in un investimento; se ci si riesce (dopo aver fatto entrare in carcere scuola, univer­sità, imprese e formatori), la collettività avrà avuto, dalla spesa sostenuta per tenere in piedi il sistema dell’esecuzione penale, un’uti­lità di rilievo: la restituzione alla comunità di persone cambiate. L’abbattimento del tasso di recidiva è un obiettivo che il sistema paese (quindi, non solo chi se ne occupa per me­stiere) dovrebbe perseguire con convinzione, operando scelte razionali. Si potrebbe, così, recuperare quella ricchezza generale che nuo­ve braccia e intelligenze, se orientate al ri­spetto dei valori della legalità, possono assi­curare ad un certo territorio. La nostra Co­stituzione, al riguardo, non si limita a fissare la rieducazione quale finalità delle pene (tut­te, non solo quella detentiva). L’art. 4 della Carta dà indicazioni che bisogna saper leg­gere: «Ogni cittadino ha il dovere di svolge­re, ( …), un’attività o una funzione che con­corra al progresso materiale o spirituale del­la società». Verrebbe da aggiungere: sempre, dunque anche se ex-detenuto. Le statistiche ufficiali ci dicono che dove si è investito, con competenza e senza buonismi, nell’offerta di studio, lavoro e formazione e nelle sanzioni alternative al carcere, i risultati sono stati in­coraggianti: la pena è risultata utile. Il futuro della neo-direttrice di Torino, quindi, è scrit­to: il suo impegno in quel carcere – per rilan­ciare situazioni deterioratesi negli ultimi anni – dovrà essere sostenuto da quel territorio, come è già accaduto in passato. Ma altret­tanto varrà per altri istituti di pena. Si do­vranno, di certo, fare i conti con difficoltà strutturali (l’inadeguatezza degli ambienti detentivi alla mission del carcere riguarda molte situazioni). E ci sono altri problemi generali dei quali le autrici di Senza sbarre si mostrano consapevoli, al pari di altri esperti, pronunciatisi sugli stessi temi: il ripensamen­to dei compiti dei diversi operatori, a partire dalla Polizia penitenziaria; la dubbia utilità delle pene detentive brevi. Ancora una vol­ta: non sono le idee giuste a mancare. E però occorre ben altro, come è noto, perché esse diventino realtà effettiva. Ma non è impossi­bile.


[1] Ex magistrato.
[2] Un filosofo dell’800 da molti dimenticato, Car­lo Marx, sosteneva che l’ideologia è riflesso dei rapporti sociali esistenti e perciò «rappresentazio­ne capovolta della realtà» (cfr. Ideologia, sul sito internet Treccani). Da scartare, perciò, ideologie securitarie e buoniste. Buone ragioni per adottare un diverso metodo di discussione e analisi.




IL CARCERE CAMBIA SE C’È UNA SOCIETÀ CIVILE SVEGLIA

IL CARCERE CAMBIA SE C’È UNA SOCIETÀ CIVILE SVEGLIA
Valter Vecellio (Avvenire 25 giugno 2022) 

Il pensiero del card. Zuppi e possibili azioni comuni di laici e cattolici

Attenzioni e preoccupazioni in questi tempi sono massimamente (e giustamente), dedicate alla guerra che si combatte in Ucraina, alle sue terrificanti conseguenze. La metafora di John Donne, i rintocchi della famosa campana che suonano per tutti e ciascuno, assume il suo valore più pieno e pregnante. Non bastasse, altre tragedie meno eclatanti dal punto di vista mediatico, ma egualmente dolorose, ‘fabbriche’ di sofferenza, si consumano nel silenzio e spesso, purtroppo, tra l’indifferenza di tanti. Sono echi che trovo nella ‘Lettera a chi lavora nelle Istituzioni‘ del cardinale Matteo Zuppi, pubblicata il 2 giugno scorso su ‘Avvenire’. Lettera (e lettura) preziosa per tutti, in particolare per il ripetuto e costante richiamo alla Costituzione e ai suoi valori.
Tra il tanto che «non si vede» (e che non è sufficientemente illuminato), c’è quello che accade nei bracci delle carceri: i detenuti, ma non solo loro. La più generale comunità penitenziaria è nel concreto reclusa al pari dei condannati. E proprio Zuppi, recentemente, ha cercato di scuoterci dall’indifferenza e dall’apatia verso questi ‘ultimi’. Lo ha fatto in occasione della presentazione del libro sulla figura di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere napoletano di Poggioreale un eroe ‘oscuro’. Bisogna fare un salto indietro di 42 anni: nel 1980 Salvia si scontra con il capo della Nco (Nuova camorra organizzata), Raffaele Cutolo: al rientro da un’udienza in un processo, il boss di Ottaviano non vuole essere perquisito, come da regolamento. Gli agenti penitenziari non osano, temono vendette. Il vicedirettore perquisisce personalmente Cutolo che reagisce cercando di prenderlo a schiaffi. La vendetta arriva il 14 aprile 1981: Salvia viene ucciso in un agguato sulla tangenziale di Napoli.
Per Zuppi è stata l’occasione per sviluppare una riflessione sul carcere e la sua funzione: «Umanità e carcere possono e devono andare d’accordo senza alcun compromesso. Anzi l’una aiuta l’altro in modo vicendevole». Da queste parole si comprende quale orientamento pastorale continueranno a guidare pensiero e azione del presidente della Cei per quel che riguarda il mondo penitenziario: «Le carceri dove non c’è niente, ma solo reclusione e contenimento, fanno uscire le persone peggiori di come ne sono entrate». E se è vero che devono cambiare le persone, è altrettanto vero che devono cambiare i penitenziari: «Le carceri cambiano se intorno a essi c’è una società civile sveglia. E tanto spesso è il mondo intorno che permette al carcere di migliorare».
Volontariato e lavoro rappresentano cardini fondamentali sui cui si deve innestare un processo di cambiamento. Come i lettori di questo giornale sanno bene, non mancano esempi virtuosi di aziende che all’interno delle carceri danno lavoro ai detenuti, creano manufatti artigianali, prodotti dolciari e quant’altro: realtà che devono moltiplicarsi e possono scandire un altro ritmo alla vita quotidiana di chi è recluso. Poi, i volontari: ascoltano drammi e speranze di chi ha commesso errori, lo sostengono nei momenti difficili, senza giudicare. Zuppi denuncia indifferenza e insensibilità ‘giustizialista’ per questo mondo marginale che interessa a pochi: «Si butta via la chiave, pensando di risolvere così i problemi della sicurezza. E questo è pericoloso per tutti perché così dal carcere si esce peggiori». Ci si deve piuttosto interrogare sulla trasformazione delle logiche e dei metodi delle mafie; comprendere i tratti delle connivenze, e così individuare gli strumenti per combatterli. Giustizia riparativa, funzione rieducativa della pena, trattamento più umano per tutti, nessuno escluso, sono le domande aperte su cui il presidente della Cei e la Chiesa si interrogano e interrogano.
Credo che questo indichi una strada, un percorso, per credenti di ogni credenza e per inossidabili laici. Un terreno di comune impegno, che dovrebbe realizzarsi in una concreta unione-comunione di intenti. In passato mondo radicale e mondo cattolico l’hanno trovata contro lo sterminio per fame nel mondo: Giovanni Paolo II e Marco Pannella si trovarono a parlare su questo uno stesso linguaggio. Perché quel miracolo non si dovrebbe e potrebbe ripetere, per quel che riguarda le carceri? Sono certo la porta del cardinale Zuppi è già spalancata.




Carcere: senza alternative?
Elisabetta Laganà

Carcere: senza alternative?

Elisabetta Laganà (psicologa e psicoterapeuta, ex presidente del coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziario (SEAC) e della Conferenza nazionale volontariato giustizia).

http://www.settimananews.it/lettere-interventi/carcere-senza-alternative/

Il monito del presidente Sergio Mattarella sul tema del carcere espresso nel suo discorso di insediamento – «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza» – richiama con vigore la politica, la società, gli Enti Locali e il volontariato a operare sinergie atte a realizzare la costituzionalità della pena nella sua interezza e articolazione, quindi anche nella parte che prevede il reinserimento sociale della persona carcerata.
Pena non significa (solo) carcere
Anche il Garante nazionale Mauro Palma, ospite autorevole dell’ultimo Convegno dei cappellani delle carceri (Assisi, 2-4 maggio), ha chiesto che chi ne ha la competenza e responsabilità istituzionale si attivi per fare in modo che per coloro che dovrebbero stare in carcere per poco tempo si possano trovare nuove forme di detenzione.
Il nuovo aumento dei ristretti, ha dichiarato, è un segnale che dovrebbe far riflettere magistrati, politici e amministrazione penitenziaria «affinché vi siano volontà, rapidità nelle procedure e risorse che permettano di affrontare con modalità alternative – e certamente socialmente più utili – pene di così lieve entità».
Del resto, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo ripete spesso: pena non significa necessariamente carcere. In merito, i dati riportati dalla relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale indicano che, nel 2021, erano in carcere persone:

  • 212 per pene di 1 anno
  • 149 per pene di 2 anni
  • 757 per pene entro i 3 anni
  • 177 per pene dai 3 ai 5 anni

Sappiamo che vi sono dei casi, indicati dall’art. 656 co. 5 c.p.p., in cui il pubblico ministero può disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, notificando al condannato e al suo difensore sia l’ordine di esecuzione sia il decreto di sospensione dell’ordine. Con questa notifica, il pubblico ministero avvisa che entro trenta giorni il condannato può presentare un’istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione, in particolare l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 l. ord. pen.), la detenzione domiciliare (art. 47-ter l. ord. pen.), la semilibertà (art. 50 co. 1 l. ord. pen.).
Recidiva e sovraffollamento
Da quanto detto consegue che, se vi fossero le condizioni strutturali di accoglienza, alcune migliaia di persone potrebbero beneficiare di pene alternative.Le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva nel reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16% contro il 70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero spingere la realizzazione di opportunità di accoglienza atte a favorire la concessione di misure alternative, soprattutto per coloro che non hanno la possibilità di poterne fruire per mancanza di risorse, pur essendo nei termini. Questo numero potrebbe deflettere le cifre preoccupanti del sovraffollamento carcerario, tornato progressivamente ad aumentare, garantendo quindi maggiore sicurezza, dato che solo nello 0,63% dei casi sono stati revocati perché, una volta all’esterno della cella, i detenuti hanno commesso reati. A questi possiamo aggiungere lo 0,45% (quindi 247 casi) di persone non rientrate in prigione quando dovevano rientrarvi. Risultato finale: nell′1,08% dei casi qualcosa è andato male, nel 98,92% è andato tutto bene.
Il cambio di rotta dell’Italia a seguito della condanna della CEDU ha potenziato le norme per incrementare le misure alternative; ma a fronte di questi cambiamenti, nulla di progettualmente organico è stato fatto, a livello nazionale e regionale, per il potenziamento sul territorio di un sistema dei servizi in grado di accogliere persone con pene brevi.
Certamente il lavoro è un passaggio importante per l’integrazione sociale dei detenuti, ma non può essere disgiunto dall’alloggio, specialmente per i detenuti che non ne dispongono.
A fine marzo 2022 i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. È evidente quindi come un piano di potenziamento di strutture di accoglienza provocherebbe una deflazione dei numeri del carcere, tornato ad essere sovraffollato di alcune migliaia di unità con conseguente peggioramento della qualità della vita delle persone ristrette.
Contro la centralità del carcere
Pertanto, proprio nell’ottica costituzionale della pena, riteniamo sia giunto il momento di progettare interventi nell’ottica di un modello di governance che neghi la centralità del carcere e affermi l’importanza dello sviluppo delle misure alternative al fine di realizzare un modello stabile e organico sul piano nazionale.
A questo proposito la Conferenza Stato-Regioni, su impulso ed indicazioni delle articolazioni del Ministero della Giustizia (PRAP), potrebbe svolgere un ruolo determinante nella progettazione di luoghi destinati all’accoglienza e inserimento lavorativo, comprese anche attività di giustizia riparativa, di persone che non hanno la possibilità di domicili alternativi, attraverso rilevazioni dei bisogni dei territori; progetti che andrebbero finanziati con fondi ministeriali, perché possano garantire stabilità nel tempo; la buona volontà dei privati, risposta straordinaria offerta in questi anni dal volontariato e dai religiosi, non può costituire l’unica soluzione, tanto meno esaustiva, per un piano organico e stabile  nel tempo per le misure alternative.
Le riforme, per essere realmente democratiche e fruibili da chiunque – e non divenire privilegi – non possono essere realizzate a costo zero. Evidentemente un progetto nazionale come quello descritto richiede un investimento economico. Tale investimento andrebbe a beneficio di quelle fasce di popolazione più esposte ai rischi di recidiva in mancanza di un opportuno reinserimento; quindi, in realtà, costituirebbe non solo un risparmio, stante il costo elevatissimo (non solo economico) della recidiva, ma anche la ratifica della riduzione discriminatoria tra chi, per status, ha la possibilità di poter disporre delle condizioni di accesso alla pena territoriale e chi invece non le ha.

 




GRATI A CHI LAVORA
Lettera del Card. Zuppi (Avvenire)

Grati a chi lavora nelle istituzioni. Un servizio per il bene di tutti.
Card. Matteo Zuppi (Avvenire 2 giugno 2022 pag.3)
https://avvenire-ita.newsmemory.com/?token=86a1fde5f22b3d21f833603031dedd9b_62987787_5eca5
La lettera dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei in occasione della Festa della Repubblica.

Carissima, carissimo, la vedo operare negli uffici, nelle aule di università o delle scuole, in quelle di un tribunale o nelle stanze dove si difende la sicurezza delle persone, nelle corsie dove si cura o nel front office di uno sportello, nei laboratori o lungo le strade per renderle belle e proprie, nei ministeri o in qualche ufficio isolato dove non la nota nessuno, nei cortili delle caserme o nei bracci delle carceri. In realtà tanta parte del suo lavoro non si vede, ma questa lettera è per lei. Non ci conosciamo, ma il suo servizio è vicino alla mia vita e a quella dei miei amici, delle persone che mi sono care, di tanti, di tutti, miei e nostri compagni di viaggio e per questo ho pensato di scriverle. Istintivamente le darei del tu, ma preferisco cominciare dal Lei per il grande rispetto che nutro. Una mistica francese di nome Madeleine Delbrêl, una donna molto religiosa e molto impegnata nel sociale, una donna pienamente evangelica, a proposito delle persone come lei diceva che sono il filo che tiene insieme il vestito: la capacità del sarto è proprio quella di non farlo vedere, ma il filo è necessario perché i pezzi di stoffa si reggano insieme. Così è il suo lavoro, prezioso per le istituzioni della nostra casa comune, e ogni pezzo è importante. Davvero. La qualità della mia vita dipende anche da lei: per questo per prima cosa la ringrazio, perché il suo lavoro, tante volte ignorato, contiene e richiede generosità e competenza. Non si capisce mai abbastanza, infatti, quanto impegno richiedono “le cose di tutti”. Purtroppo i problemi, i ritardi, le disfunzioni e anche alcune persone che non compiono il proprio dovere, finiscono per non fare apprezzare la generosità, la competenza, lo zelo che lei e tanti mettono nel loro lavoro. D’ora in avanti mi piacerebbe chiamare il suo impegno non “lavoro” ma “servizio”. E che anche lei lo pensasse così. Sì, lo so che è lavoro e a volte anche duro, sottovalutato. Eppure proprio grazie alla passione e alle lotte di tante persone, anche di chi ci ha preceduto, oggi godiamo di molte protezioni e garanzie che costituiscono quello che chiamiamo welfare, che poi è il modo in cui la vita quotidiana diventa bella e non antipatica, troppo dura da vivere. Non possiamo più accettare, eppure succede ancora spesso, che il luogo di lavoro, che è per la vita, diventi invece un luogo di morte. Penso a chi non è più tornato a casa e alle mogli e ai figli che hanno aspettato invano i propri cari: questo mi addolora, mi commuove e non smetto di chiedere condizioni di lavoro sicure per tutti. Vorrei un lavoro sempre meno a tempo determinato e più stabile, perché deve contenere il futuro: per sé, per la propria famiglia, per i figli, sì, per i figli. Senza figli per chi si lavora? Vorrei, poi, che il lavoro fosse lavoro buono e non solo lavoro: che i lavoratori fossero sempre messi in regola e che nessuno sia più sfruttato. Possibile che oggi c’è ancora chi non mette le persone in regola? Il suo lavoro è un servizio per il bene della comunità, composta da tante persone. Così tante che non possiamo sapere chi siano, eppure sono la mia e la nostra comunità. Sì, perché siamo una comunità, dobbiamo tornare a esserlo. So che la sua vita personale è da un’altra parte e che saggiamente distingue l’ambito privato da quello pubblico, ma è anche vero che quello che fa per tutti, con il suo lavoro, è una parte importante della sua vita, le dà soddisfazioni e preoccupazioni, la coinvolge umanamente. Questo non è sbagliato. Anzi. È più faticoso e difficile tenere distinti questi ambiti, come tanti sollecitano a fare, perché la vita è una ed è bene che sia unita. È bello aiutare la nostra casa comune specie quando, come in questi mesi, capiamo quanto è importante, decisiva ma anche fragile, colpita da pandemie, da rischi terribili nei quali come sempre i più penalizzati sono i più deboli. Ogni lavoro è un servizio alla casa comune ed è importante. Spesso sono proprio quelli meno considerati e giudicati “umili” che servono di più. Tutti servono! Ogni lavoro deve essere fatto con umiltà per poter essere contenti, perché serva agli altri e non alla nostra affermazione personale. Gli umili non si stancano, non diventano presuntuosi e intrattabili, non agiscono per interesse ma perché quello che svolgono è un servizio e lo fanno anche quando non conviene, ma conviene a chi lo ha chiesto. Si adoperano pure quando nessuno si ricorderà della scelta, solo perché è giusto farlo. E questo resta, aiuta, risponde, protegge. Quando il lavoro (che resta lavoro) lo viviamo anche come impegno di servizio – nello spirito dell’art. 4 della nostra Costituzione repubblicana, che chiede a tutti di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società – ne sappiamo comprendere l’importanza non per quello che rende o per il successo che porta, ma per il valore che ha in se stesso. Più fa bene agli altri, il lavoro, più fa bene a noi. Anche quando non si vede. Il contrario crea un clima faticoso, competizioni inutili, sensi di rivalsa. Se facciamo bene o male qualcosa, nel tempo richiesto o no, questo ha sempre delle conseguenze. I diritti sono cose importanti. I nostri e quelli degli altri. Se è un diritto deve essere garantito sempre e non come concessione o un piacere. Non vanno create scorciatoie. Troppi pensano che per ottenere quello che è di diritto bisogna avere un “santo in paradiso” a cui raccomandarsi, magari irridendo il merito di ciascuno, i tempi, le precedenze, l’onestà insomma. Si può vincere una volta e si è sconfitti tutte le altre. Crescono così la disillusione, il malcontento, la convinzione che nessuno si occupa di me e che ognuno si deve arrangiare da solo. Se è un diritto, è fondamentale garantirlo e questo fa sentire sicuri tutti. Ma dipende da ognuno. È davvero importante sapere di poter contare sulle istituzioni, e quindi su di lei, sulla sua competenza, sulla sua onestà, sulla sicurezza che ci sarà una risposta e che sarà la migliore. Lei sa bene quante persone sono sole e come da soli ci si sente perduti, incompresi, arrabbiati e a volte si finisce per prendersela con il primo davanti, magari il povero malcapitato che fa una domanda allo sportello.
Il nostro è il tempo in cui realizzare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il cosiddetto PNRR, e mi sembra possa essere un’occasione davvero decisiva dopo tanta sofferenza. Durante la pandemia abbiamo capito quanto le fragilità, le contraddizioni, le ingiustizie siano anche conseguenze dei rimandi, dei ritardi, delle furbizie, delle cose che bisognava fare e che non sono state fatte, degli interessi privati che hanno condizionato le scelte politiche. Le cause di tante sofferenze sono a volte così lontane che non le sappiamo più riconoscere. Quello che vorrei dirle è che abbiamo un grande motivo per dare oggi tutti il massimo, ed è per questo che ho pensato di scriverle! Vorrei che anche nessuno di noi perdesse questa opportunità. Sappiamo che c’è bisogno di istituzioni che funzionino bene, anzi meglio, ed è per questo che dobbiamo cercare la qualità. A questo proposito Dietrich Bonhoeffer, un credente che si poneva domande profonde sul valore di ogni persona e dello stare insieme, morto martire per mano dei nazisti, uno di quelli che ci hanno lasciato in eredità l’Europa, ha scritto che bisogna passare «dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dallo snobismo alla modestia, dall’esagerazione alla misura». Potremmo aggiungere: dal dilettantismo alla competenza, da una felicità individualistica al sacrificio per stare bene tutti, dall’apparenza alla sostanza, dal successo rapido e a tutti i costi alla costruzione paziente di quello che dura, dal fare le cose per il consenso, per il potere, per la considerazione e il ruolo sociale, a farle solo perché sono giuste, insieme e non da soli, anche se lì per lì sembra convenire meno. Ho visto grandi energie che si sono perse cercando a tutti i costi il proprio tornaconto, e il grande spreco di ogni giorno per burocrazie senza volto, perché non è mai responsabilità di qualcuno. Gli uomini e le donne che hanno scritto la Costituzione avevano davvero sofferto molto, toccato con mano quanto l’umanità può restare sfigurata dalla violenza, ma avevano visto anche come uomini e donne sanno resistere e persino agire da eroi quando è necessario per aiutare qualcuno che soffre. Hanno perciò voluto lasciarci, nella Costituzione, un progetto per costruire e mantenere una società più umana e umanizzante, per riuscire a evitare le sofferenze da loro vissute. E tutto comincia dal sapere fare unità. Mi sento chiamato a questo come cristiano, credo si possa realizzare prima di tutto con l’aiuto di Cristo, e ritengo che tutti, senza distinzioni, possiamo impegnarci a fare unità seguendo il progetto indicato dalla Costituzione.
Ogni generazione è chiamata a riappropriarsi dei valori e delle virtù costituzionali. Per questo dobbiamo tutti ritrovare il senso dei limiti. È un concetto che nella Costituzione, proprio perché preoccupata di rendere concreti i diritti, ricorre ben diciassette volte, a cominciare ad esempio dall’art. 1, dove lo si ricorda a ciascun cittadino, come membro del popolo sovrano, ma anche nell’art. 42 quando, nel riconoscere e garantire la nostra proprietà privata, si preoccupa di aggiungere che possono servire limiti per assicurarne la funzione sociale. E poi in molte altre occasioni in cui si affermano diritti indicando, però, dei limiti per il rispetto dei doveri verso gli altri e la società. Perché solo così i diritti di ciascuno possono divenire reali e concreti.
Al centro della Costituzione c’è la persona, cioè, sempre, un “noi”. Non c’è l’individuo. E’ una concezione evangelica che è stata fatta propria da tutti i padri costituenti, di ogni credo e sensibilità politica. Non dimentichiamo che siamo chiamati a portare insieme i pesi della vita, tanto che l’art. 2 ci ricorda che la solidarietà è addirittura un dovere inderogabile. Dobbiamo riuscire a valorizzare l’impegno, che non è reale senza la necessaria continuità e serietà (nello spirito dell’art. 4). La Costituzione si preoccupa non solo di garantire le nostre “libertà da” possibili abusi degli altri e dei potenti e la “libertà di” agire per fare tutto ciò che ci sembra giusto, ma si sforza di indicare il senso di tutto ciò, sottolineando la bellezza di usare delle “libertà per” uno scopo sociale. Si tratta di costruire un mondo di relazioni personali. Per questo la Costituzione evidenzia – già nell’art. 2, ma poi in molti altri – che è nei gruppi sociali (la famiglia, le associazioni di tutti i generi e tipi, le comunità religiose, i sindacati, le organizzazioni politiche democraticamente organizzate, il lavoro, i corpi intermedi) che si sviluppa la nostra personalità, e non invece con una vita sterilmente individualistica ed egocentrica.
Il bene comune deve essere il nostro orizzonte. Lo ricorda anche la Dottrina sociale della Chiesa. Dobbiamo rendere migliore il mondo con il progresso materiale e spirituale della società (art. 4, ma anche, per esempio, art. 41 dove si parla di indirizzare la libertà di impresa a fini sociali). Penso che tutti dobbiamo fare il meglio che possiamo con responsabilità. È proprio vero: non ci si può salvare da soli! Gli uomini e le donne hanno aspetti di incredibile grandezza perché, tra l’altro, riescono a organizzarsi tutti insieme e affrontare le difficoltà della vita più efficacemente. Ecco, è per tutto questo che vorrei che le nostre istituzioni funzionassero bene e fossero sempre di più connesse all’Europa, pensandosi per il mondo intero. Siamo tutti legati. Non serve pensare qualcosa a breve termine, dobbiamo guardare il futuro per uscire davvero dalle pandemie imparando la lezione, scegliendo di essere migliori, non uguali, perché significherebbe essere peggiori. Non ci serve solo un bonus, ma ci occorre il bonum, il bene per tutti! Abbiamo sempre pensato che le risorse non ci sarebbero mancate e così abbiamo sciupato tanto, pensiamo a come facciamo con l’acqua… Purtroppo, ci accorgiamo dell’importanza delle cose e delle conseguenze dei nostri atteggiamenti solo quando queste vengono a mancare. Oggi più che mai urge essere davvero seri perché dobbiamo lasciare qualcosa a chi verrà dopo, soprattutto l’esempio, la speranza, il gusto di fare bene il proprio lavoro e di farlo per il bene di tutti. Le nostre istituzioni ora si trovano ad affrontare, in poco tempo, tanti progetti. Ma quella che chiamiamo istituzione è fatta di persone ed è proprio lei, e quanti si impegnano in mille modi per rendere umana e bella la nostra casa comune. Concludo col dirle che scrivo a lei ma scrivo in fondo a me stesso e a tutti noi cittadini, piccoli e grandi, e soprattutto a chi ha responsabilità perché abbiamo bisogno di tutti. La guerra attuale ci ha ricordato che la pace non è mai scontata e che bisogna lavorare tanto perché la nostra casa accolga tutti, insegni a stare insieme tra diversi, lotti contro ogni ingiustizia, difenda i diritti di ciascuno e non metta mai in discussione la persona. Anche per questo non dobbiamo avere paura di accogliere, di dare fiducia, la possibilità di mettersi alla prova, di ascoltare con l’orecchio del cuore. Aggiustiamo quello che non funziona. Ogni persona è preziosa se è amata e difesa, come ogni persona è insignificante quando questo sguardo manca. È necessario che tutti coloro che lavorano nelle e per le istituzioni ritrovino un vero spirito di servizio e nel contempo che tutti i cittadini sappiano ritrovare e ricostruire la loro fiducia verso le istituzioni. Mi piace pensare che in un momento così importante tutti ce la mettiamo davvero tutta, senza distinzione. Don Primo Mazzolari, che amava Dio e le persone, la Chiesa e la città concreta degli uomini e delle donne, scrisse: «Ci impegniamo noi e non gli altri … né chi sta in alto, né chi sta in basso, senza pretendere che gli altri si impegnino … senza giudicare chi non si impegna … il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura … la primavera comincia con il primo fiore, la notte con la prima stella, il fiume con la prima goccia d’acqua, l’amore col primo impegno …». Rinnoviamo allora il patto sancito dalla nostra Costituzione, compartecipiamo a questo impegno accanto a tutti gli altri, e per me che sono cristiano aggiungo un motivo in più: chi cerca il cielo incontra la terra, chi fa le cose per Dio le fa per tutti e senza interessi. Il mio auspicio è che siamo tutti compagni di viaggio in questa bellissima strada che è la vita, e che le pandemie, le vicende tristi della nostra storia contemporanea, possano diventare motivo per realizzare quello che ognuno in realtà cerca: un mondo unito dove siamo Fratelli tutti. Grazie di tutto.




Lavoro welfare pace contro precarietà riarmo guerra
Luigi Pandolfi (Rocca 1 maggio 2022)

Lavoro welfare pace contro precarietà riarmo guerra
Luigi Pandolfi[1] (Rocca 1 maggio 2022)

Qual è la «situazione del lavoro» oggi in Italia? Rispondere a que­sta domanda significa innanzi­tutto fare i conti con i grandi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro negli ultimi trent’anni. Molto in sintesi, si può dire che innovazione tecnologica e instabilità/fram­mentazione del lavoro sono cresciuti di pari passo in questo periodo. Situazione cui ha fatto da corollario una sostanziale contrazione dei diritti dei lavoratori.
Lo spacchettamento del mondo del lavoro.
La fine del ciclo fordista/taylorista, il cui cuore era la grande fabbrica omogenea e la dimensione nazionale della produzione e del mercato, ha portato con sé uno spac­chettamento del mondo del lavoro. Oggi si può lavorare per la stessa azienda, svolge­re mansioni identiche, e avere contratti diversi e diverse remunerazioni. Sotto lo stesso tetto di un’impresa, e per le stesse tipologie di lavoro, possono ritrovarsi lavo­ratori a tempo indeterminato e detentori di partita Iva, co.co.co e lavoratori «som­ministrati». Non solo. Per la stessa azienda possono fornire la propria opera lavoratori e professionisti contrattualizzati da soggetti diversi, come accade nel caso dell’esterna­lizzazione di alcuni servizi o segmenti di produzione. È un discorso, ormai, che ri­guarda tutto il mondo del lavoro, compre­so quello che afferisce al comparto della pubblica amministrazione o degli enti di ricerca. Lavoratori, ricercatori e professio­nisti, che svolgono le medesime attività, spesso nel medesimo posto, ma con diritti diversi. Si pensi ai precari di lungo corso del settore della ricerca che lavorano negli stessi ambienti, negli stessi laboratori, dei colleghi a tempo indeterminato, ovvero ai lavoratori di «pubblica utilità» o «socialmente utili» che nei comuni condividono la stanza, e a volte anche la scrivania, con i dipendenti in pianta organica, strutturati e full time.
La fine dell’universalità dei diritti nel mondo del lavoro. Un fenomeno che ha spostato la conflittualità ad un livel­lo, per così dire, orizzontale, tra gli stessi lavoratori: precari contro «garantiti»; gio­vani contro anziani; le donne in competi­zione con gli uomini; gli stranieri in con­correnza con gli autoctoni. Non è stato, in ogni caso, un fenomeno spontaneo, ma il risultato di precise scelte politiche. A par­tire dai primi anni Novanta, parallelamen­te al rilancio del progetto di costruzione dell’unità politica e monetaria europea (più monetaria che politica, in verità), si è in­tervenuti massicciamente sulla legislazio­ne riguardante il lavoro e il suo «mercato».
Le «riforme» che hanno precarizzato.
L’arco temporale è quello che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso alla fine degli anni dieci del nuovo secolo.
Vent’anni di «riforme» che hanno radicalmente tra­sformato il mondo del lavoro, nella direzio­ne di una sua crescente precarizzazione.

  1. Un primo intervento organico si è avuto con il cosiddetto «pacchetto Treu» (dal nome del ministro Tiziano Treu) nel 1997. Nel vocabo­lario della politica entra prepotentemente un termine con cui ancora ai giorni nostri facciamo i conti: «flessibilità». Con l’obietti­vo di favorire un più facile accesso al mer­cato del lavoro, per i giovani ma non solo, si sdoganano l’intermediazione privata tra do­manda e offerta di lavoro (lavoro interinale) e molteplici forme di contratti a termine; parimenti, si indebolisce il collocamento pubblico e si rafforza la linea di continuità tra scuola e lavoro attraverso l’apprendista­to e i tirocini. Nello stesso «pacchetto» si dà il via alla stagione del precariato nella pub­blica amministrazione: un esercito di lavo­ratori di pubblica utilità (Lpu), soprattutto nel Mezzogiorno, finisce per strutturare un bacino endemico di precariato nei comuni, nelle province e nelle regioni, che ancora al giorno d’oggi non è stato del tutto svuotato.
  2. Cinque anni dopo arriva la «riforma Biagi» (dal nome del giuslavorista assassinato dal­le «nuove Brigate Rosse» nel 2002). Nell’in­tento – quello dichiarato – di mettere ordi­ne nella giungla dei «nuovi lavori» (viene abrogato il lavoro interinale), si procede al­l’introduzione di altre tipologie di lavoro a termine, spezzettato, purtroppo instabile e precario. Nascono i co.co.pro, i «contratti di somministrazione di lavoro» e di «lavoro ripartito», il «lavoro intermittente» e quello «occasionale». A ben vedere è un allargamen­to del ventaglio dei contratti «atipici». Il quadro normativo con cui il Paese entra nella Grande recessione seguita al crack americano dei subprime. È la stagione dell’auste­rità, del risanamento dei conti pubblici, delle «riforme strutturali».
  3. Il governo Monti (2011- 2013) ritorna di nuovo sulla materia. Ed an­che in questo caso l’obiettivo dichiarato è quello di proteggere i lavoratori dall’insicu­rezza lavorativa. Invero, accanto ad alcuni interventi tendenti a disincentivare il ricor­so a contratti atipici, la «riforma Fornero» (dal nome del Ministro Elsa Fornero) punta a rendere più «flessibile» l’uscita dal lavo­ro. Espressione edulcorata per indicare «licenzia­menti più facili». Un bilanciamento nell’in­teresse delle imprese, riassunto nella se­guente formula: « Un mercato del lavoro più inclusivo e più dinamico».
  4. La stessa visione, grossomodo, che sovrintenderà due anni più tardi al JobsAct varato dal governo di Mat­teo Renzi (2014). Su questo provvedimento vale la pena soffermarsi un po’ di più, pren­dendo in esame la fattispecie delle cosid­dette «tutele crescenti». Dalla disposizione contenuta nel testo di riforma si ricava che è l’anzianità di servizio a determinare il gra­do di godimento dei diritti costituzionali da parte dei lavoratori, dunque, nella generali­tà dei casi, l’età dello stesso lavoratore. Ep­pure, nel nostro ordinamento, solo la mag­giore età costituisce uno spartiacque nella storia personale di un individuo, delinean­do una separazione tra un prima e un dopo nella scala di godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione. Beninteso, un minore non ha diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti negoziali, ma non per questo è passibile di soprusi e di discrimi­nazioni. Anzi, c’è una tutela rafforzata che li riguarda, in quanto «soggetti deboli». Nel­lo schema proposto dal governo in materia di rapporti di lavoro, c’è invece un rovescia­mento del principio: più sei giovane (in Ita­lia si può lavorare già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai. Uno stravolgimento del prin­cipio cardine della nostra Legge fondamen­tale: «Tutti i cittadini hanno pari dignità so­ciale e sono eguali davanti alla legge, ( …)».
  5. Così si arriva al «decreto dignità» voluto dal Movimento 5 Stelle nel 2018, al tempo del governo gialloverde. Un intervento con un evidente scarto tra finalità dichiarate e ri­sultati conseguibili. Non risolve il problema della polverizzazione dei contratti «atipici» e si concentra quasi esclusivamente sulla durata ed il prolungamento dei contratti a tempo determinato. Si prevede la diminu­zione della durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi; l’obbligo di dichia­rare i motivi del ricorso al contratto a ter­mine; la possibilità di prorogare solo quat­tro volte un contratto a tempo determinato mentre prima le possibilità erano cinque. Intenti giusti, ma configurati in un provve­dimento frettoloso, al di fuori di una revi­sione organica delle norme vigenti in mate­ria di lavoro, che non hanno sortito effetti particolarmente significativi dal lato della lotta alla precarietà.

Dopo più di un secolo e mezzo, mutatis mutandis, siamo ancora a ciò che il giovane Marx, umanista prima di abbracciare la «critica dell’economia politi­ca», scriveva nel Manoscritti economi­co-filosofici del 1844: «Il risultato è che l’uo­mo (il lavoratore) si sente libero ormai sol­tanto nelle sue funzioni bestiali, nel man­giare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corpora­le ecc., e che nelle funzioni umane si sente niente più che una bestia». D’altra parte, come si accennava all’inizio, i progressi del­la scienza e della tecnica, la rivoluzione in­formatica, anziché «liberare» il lavoro e ri­partirlo, sono stati funzionali ad un suo più duro asservimento, oltre che al suo rispar­mio (disoccupazione tecnologica).
Un’economia che produce disuguaglianza.
Parliamo di un lungo processo di destrut­turazione dei rapporti di lavoro e delle re­lazioni industriali, funzionale ad un’econo­mia sempre più orientata alle esportazioni (nel 2020, nonostante la pandemia, il saldo della bilancia commerciale italiana è stato di 63,6 miliardi di euro) ed alla compres­sione della domanda interna, che ha pro­dotto e produce diseguaglianze, che è alla base di salari e stipendi, a parità di potere d’acquisto, tra i più bassi d’Europa. Una recente analisi dell’Ocse ha dimostrato addirittura che l’Italia è l’unico paese in ambito Ue in cui i salari, al netto dell’infla­zione, sono diminuiti rispetto a trent’anni fa. Mentre in Germania e in Francia sono aumentati di circa il 30%, da noi sono di­minuiti del 2,9%. Intanto, se si fa un con­fronto con la situazione degli altri paesi europei, ciò che balza agli occhi è anche l’estensione dell’area del non-lavoro. Insie­me alla Grecia condividiamo gli ultimi po­sti della classifica europea per quanto ri­guarda il tasso di disoccupazione generale e quello giovanile. Dati che hanno subìto un forte peggioramento a causa della pan­demia. Con il rimbalzo dell’economia dopo il tonfo del 2020 (8,9% sull’anno preceden­te), stiamo però assistendo anche ad un recupero dei posti di lavoro persi. Gli ulti­mi dati forniti dall’Istat ci dicono che il tasso di disoccupazione è sceso all’8,5% (se nel calcolo vengono inseriti anche quelli che non cercano più un lavoro la percentuale lievita fino al 22%) e c’è stato anche un balzo in avanti del tasso di occupazione (59,6%). Del milione di posti di lavoro persi a causa del Covid se ne sono recuperati all’incirca 700 mila. Ma di che lavoro par­liamo? Secondo le stime del Ministero del lavoro il 99% dei contratti è a tempo deter­minato e uno su dieci ha avuto una durata non superiore alle 24 ore. Il 13,3% di questi «contratti» ha avuto addirittura la durata di un solo giorno. Non ne stiamo uscendo migliori. Non sta andando tutto bene. Dal­la pandemia che, invero, non è mai finita siamo transitati direttamente, senza solu­zione di continuità, in un cupo scenario di guerra. Delle difficoltà delle famiglie si fa beffe l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, dei carburanti, delle uten­ze, ma la politica non disdegna un aumen­to della spesa per armamenti.
Verso un keynesismo di guerra.
Il conflitto in Ucraina, insomma, ci sta por­tando direttamente verso un keynesismo di guerra. La minaccia è rappresentata solo dalla Russia o ci stiamo preparando per un nuovo conflitto mondiale?
I trenta paesi del­la Nato spendono 1.100 miliardi di dollari per la difesa, mentre Cina, India e Russia insie­me (tre miliardi di persone) arrivano a mala­pena a 390 miliardi. Biden ha portato la spe­sa del Pentagono a 813 miliardi di dollari per il 2023. La Russia, nel 2021, ha stanziato per le sue forze armate 46 miliardi di dollari. Non c’è proporzione. Che poi, un confronto con il nuovo «asse del male» non si risolverebbe che con il ricorso all’atomica. Perché, allora? Sono certamente valide le parole di France­sco: «La spesa per le armi è una pazzia di cui vergognarsi». Ma per chi le produce e le ven­de non è pazzia. È guadagno, profitto, ric­chezza. Ed anche il loro impiego fa parte del gioco. Per questo, come un secolo fa, i lavo­ratori «di tutti i paesi» dovrebbero scendere in piazza e gridare forte il loro no alla guer­ra. Alla guerra in quanto tale, che vede in campo attori diretti e chi agisce per procura. È inaccettabile che i «lavoratori di tutti i pa­esi» ieri abbiano dovuto pagare il costo del risanamento delle scorribande finanziarie delle banche, poi il prezzo sociale della pan­demia, adesso il prezzo ancora più salato della guerra. I soldi e gli sforzi dei governi devono essere indirizzati al recupero della dignità del lavoro, per combattere la precarietà, per salari e stipendi commisurati al costo reale della vita, non per preparare nuove guerre. In Italia, per un nuovo patto sociale in nome dei principi fondamentali della nostra Costi­tuzione. L’ammonimento di Francesco: «Die­tro ogni attività c’è una persona umana». Sarebbe ora di tenerne conto.


[1] Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui Micromega, Il Manifesto, Linkiesta, Economia e Politica.