Reggio Calabria
Parrocchia a emissioni zero di CO2

REGGIO CALABRIA

La parrocchia a emissioni zero: assorbita una tonnellata di CO2.
Davide Imeneo (Avvenire 05 aprile 2023)

Tutto è iniziato con una pizza condivisa con il gruppo del Coro, una delle attività pianificate alla fine del cammino sinodale 2022 dalla parrocchia San Cristoforo di Reggio Calabria. Durante la cena, alla quale hanno partecipato soprattutto i ragazzi delle scuole medie e superiori, inizia quasi per gioco il conteggio dell’anidride carbonica emessa dalla parrocchia nel corso di un anno solare: 593 chili. «La questione climatica ci sta molto a cuore – ha commentato Marco, 17 anni – la nostra città rischia di perdere il litorale costiero nel giro di pochi decenni, già adesso molte spiagge delle coste reggine sono quasi del tutto scomparse. La mia generazione avverte questo problema come urgente, per questo abbiamo iniziato a parlarne anche in parrocchia: abbiamo condiviso la nostra preoccupazione col parroco».
Da quella serata in pizzeria è scaturita una sinergia capace di coinvolgere tutta la comunità parrocchiale. Gli adolescenti hanno sensibilizzato i più adulti sulla questione climatica e hanno fatto capire loro che bisognava dare almeno un segnale, provando ad invertire la rotta. La comunità parrocchiale, in pieno spirito sinodale, ha accolto l’esigenza manifestata dai più giovani. Per “assorbire” le emissioni di anidride carbonica esiste una soluzione antica quanto “moderna”: piantare alberi. Quindi, grazie a una piattaforma agroforestale che si chiama Treedom, la parrocchia San Cristoforo ha piantato… una foresta. Per assorbire le emissioni del 2022 sono state piantati 23 alberi di Cacao in Camerun. Un gesto che, oltre a un impatto ambientale, genera anche un impatto sociale: grazie alla “foresta parrocchiale” lavoreranno alcuni contadini camerunensi. Ogni pianta di Cacao è costata 15 euro ed è stata “intitolata” al donatore che l’ha offerta: i giovani della parrocchia si sono fatti carico di seguire tutta la procedura. Durante il periodo di Natale si sono preoccupati di distribuire la lettera di adesione all’iniziativa, poi hanno raccolto le quote e i nominativi e, infine, hanno acquistato le piante sulla piattaforma. Adesso nella bacheca parrocchiale è affisso un bel certificato di Treedom che attesta il contributo parrocchiale all’assorbimento di anidride carbonica: una tonnellata. Un traguardo straordinario, che però è stato possibile grazie a tanto impegno da parte dei giovani: «Il passo più difficile – racconta Ilaria, 14 anni – è stato quello di convincere gli adulti ad aiutarci, abbiamo impiegato più di un mese per raccogliere tutte le adesioni necessarie: da parte degli adulti non c’è una grande attenzione alle tematiche ambientali, anzi c’è quasi un’indifferenza. Alla fine, però, grazie alla nostra insistenza siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo e lo ripeteremo ogni anno». Dalle ricerche su internet risulta che la parrocchia reggina sia la prima in Italia ad assorbire con ampio margine tutte le proprie emissioni di CO2.




Il leader della Cisl lancia la sfida per costruire “dal basso” un nuovo modello economico.

 

 

INTERVISTA AL SEGRETARIO GENERALE DELLA CISL

Di Francesco Riccardi (Avvenire 10 marzo 2023)

https://www.avvenire.it/economia/pagine/intervista-al-segretario-generale-della-cisl-quest

«Questa è la vera riforma democratica».

Sbarra: cambiamo il modello economico con centralità della persona, coinvolgimento, relazioni generative. «La partecipazione è la più grande riforma istituzionale verso una piena democrazia sociale, cosa di cui abbiamo enormemente bisogno per raccogliere le sfide di un’economia in transizione ». Il leader della Cisl lancia così la sfida per costruire “dal basso” un nuovo modello economico. Il dialogo con il governo gira a vuoto? «Deve decidere se vuole confrontarsi davvero». La settimana di 4 giorni? «Facciamo un accordo quadro con esecutivo e imprese, poi sperimentiamo»

 Segretario Sbarra, l’esecutivo Cisl ha deliberato ieri a Firenze la proposta di una legge di iniziativa popolare sulla partecipazione. Perché avete scelto questo tema?

È venuto il momento di concretizzare ciò che è presente nella nostra Costituzione all’articolo 46. A breve partiremo con la raccolta firme su un testo completo, solido, sostenibile e immediatamente applicabile sul coinvolgimento dei lavoratori alla gestione, ai risultati e alla organizzazione delle aziende. È una battaglia storica per la Cisl, frutto della nostra impostazione culturale e valoriale che affonda le radici anche nei riferimenti alla dottrina sociale della Chiesa. La partecipazione deve diventare un diritto fondamentale dei lavoratori, la strada per dare centralità alla persona e alla sua creatività, la leva per una nuova prospettiva di democrazia economica.

Non è una contraddizione per la Cisl, che da sempre privilegia la via contrattuale rispetto a quella legislativa, puntare su una norma?

Assolutamente no. La strada che abbiamo scelto non è quella di una imposizione legislativa, ma di un forte sostegno alla contrattazione con leve promozionali e incentivi di natura fiscale, nella convinzione che la partecipazione è possibile solo se passa dalle buone relazioni industriali. Dobbiamo estendere una cultura industriale che ha generato tante buone esperienze in tutti i settori e che può contribuire in modo fondamentale a rafforzare la crescita, i salari e la produttività, la formazione e l’innovazione di processo e prodotto, partendo dal protagonismo sociale del lavoro. Il nostro tessuto produttivo è molto eterogeneo. È auspicabile che siano il sindacato e le associazioni imprenditoriali ad individuare forme di coinvolgimento, scegliendole nel novero delle opportunità che la nostra proposta di legge vuole offrire ad ogni impresa. La partecipazione deve scaturire dal libero spazio negoziale e contrattuale; la legge può e deve agevolare questo percorso.

Quale tipo di partecipazione – organizzativa, economica, finanziaria – cercate in particolare di sostenere e promuovere?

Il primo obiettivo è quello di promuovere l’ingresso di rappresentanze dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di sorveglianza. I lavoratori hanno il diritto di concorrere e collaborare, come indicato dai costituenti, agli indirizzi e alla gestione delle proprie aziende, al rilancio degli investimenti opponendosi alle delocalizzazioni, esercitando quelle flessibilità che nei momenti di crisi aiutano a proteggere l’occupazione e che nei momenti di crescita operano una buona distribuzione della ricchezza. Il secondo punto è regolare la compartecipazione ai risultati dell’impresa e disciplinare l’azionariato diffuso, così da dare anche ai piccoli dipendenti azionisti adeguata rappresentanza e voce nelle scelte societarie. La terza esigenza riguarda il coinvolgimento nelle decisioni organizzative, per aumentare efficienza, adattività e innovazione di sistema. Pensiamo agli orari, alla produttività, al lavoro per obiettivi e in team. Quarto punto: riconoscere ai lavoratori e al sindacato una funzione consultiva a monte, e non a valle, delle decisioni più rilevanti per il futuro delle aziende.

Nel 2009 fu presentato un progetto di legge di promozione della partecipazione con un accordo addirittura bipartisan. Eppure il tentativo fallì. Né le forze politiche né quelle sociali sembrano volerlo mai per davvero… Oggi la prospettiva è diversa? Cgil e Uil sono in sintonia con voi su questo?

Quindici anni sono un’eternità: l’Italia non aveva ancora conosciuto gli effetti del Covid, della guerra in Europa, di una crisi energetica e di un’inflazione che corre a doppia cifra erodendo retribuzioni e risparmi di lavoratori e famiglie. Oggi penso che siamo tutti più consapevoli che dalle crisi di sistema si esce cooperando e remando tutti nella stessa direzione. Occorre fare ognuno la propria parte per promuovere la crescita della comunità nazionale nel segno della corresponsabilità. Significa mettere da parte l’antagonismo novecentesco ed imboccare il cammino di relazioni industriali responsabili e generative, che diano ai lavoratori un ruolo centrale nelle dinamiche aziendali. Ci auguriamo che anche Cgil e Uil insieme agli altri interlocutori sociali ed istituzionali vogliano unirsi in questo percorso per promuovere un’evoluzione del nostro modello di sviluppo.

Il tema della settimana lavorativa di 4 giorni è stato lanciato sia dai metalmeccanici Fim sia dalla Cgil che lo porrà tra i temi centrali dell’ormai prossimo congresso nazionale. Per la Cisl

è una priorità? E come arrivarci?

Diciamo intanto che la riduzione dell’orario di lavoro è un cavallo di battaglia della Cisl da più di 40 anni. È una opportunità fortemente connessa al tema della partecipazione che va raccolta senza demagogia e nel solco della contrattazione. L’obiettivo deve essere quello di elevare e redistribuire quote di produttività trasformandole in riduzione di orario a parità di salario. Dobbiamo capitalizzare le possibilità delle nuove tecnologie e di una organizzazione del lavoro più flessibile e partecipata, connettendo il tempo libero anche programmi di formazione perpetua. Serve un patto triangolare tra sindacato, imprese e governo che stimoli gli investimenti in tecnologia e gli accordi contrattuali di secondo livello anche attraverso adeguati sostegni fiscali. Noi facciamo una proposta: partiamo con la sperimentazione costruendo un accordo quadro con le imprese per consentire, su base volontaria, la settimana di 4 giorni in 100 aziende medie e grandi. Mettiamoci tutti alla prova su questo tema al di là degli slogan.

Intanto il dialogo con il governo sembra girare a vuoto si tanti temi: dal fisco alle pensioni alle politiche attive? O no?

Indubbiamente c’è un calo di tensione. Il Governo è stato distratto da altre questioni in queste settimane. Ora i nodi stanno venendo al pettine. L’esecutivo deve dire con chiarezza se vuole o meno stabilizzare e concretizzare il dialogo con le parti sociali. L’impressione è che qualcuno remi contro, dando alibi a chi non vuole costruire buone riforme condivise. Dobbiamo rilanciare nei prossimi giorni il confronto sui temi della crescita, del contrasto all’inflazione, dell’aumento di salari e pensioni, della riforma del fisco e del sistema pensionistico, di cui non si può solo parlare sui giornali.

Questo vale anche per la riforma del Reddito di cittadinanza?

Certo. Vale anche per il contrasto alla povertà, dove è necessario aumentare le risorse e aprire il confronto con le parti sociali sui cambiamenti del Reddito di cittadinanza. Misura che va salvaguardata tanto nel sostegno alle famiglie in condizione di fragilità quanto alla componente degli occupabili, con misure effettive di politica attiva per il lavoro e la formazione.

Un’ultima domanda. Che impressione le ha fatto vedere sul palco a Firenze Landini, Conte e la Schlein?

Eviterei di cogliere la provocazione della domanda. Dico invece che è stato giusto mobilitarsi contro ogni forma di violenza, per la qualità della scuola, la difesa dei valori della Costituzione. Il sindacato confederale è sempre stato un argine alle derive illiberali e neofasciste. Continueremo ad esserlo, difendendo principi che appartengono a tutti. Valori che promuovono la partecipazione di rappresentanze sociali autonome al rafforzamento della democrazia e alla costruzione del bene comune.

Francesco Riccardi

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IL LAVORO SFRUTTATO. COME CONTRASTARLO?
Video della Consulta pastorale sociale e del lavoro

Per vedere il VIDEO youtube collegarsi a Diocesi di Parma youtube

oppure cliccare su

https://www.youtube.com/watch?v=9dtCZADxkps&t=41s

 

 

Il servizio diocesano per la «pastorale sociale e del lavoro, pace, giustizia e custodia del creato» cerca di ispirarsi ai significativi indirizzi del Magistero della Chiesa, non ultimo la Esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco (2013) in riferimento, per esempio, al capitolo secondo: «No a un’economia dell’esclusione, alla nuova idolatria del denaro, all’inequità che genera violenza…», accogliendo e diffondendo ciò che Papa Francesco chiama le “Sfide dell’inculturazione della fede”. Ovviamente il nostro servizio è complementare agli altri organismi pastorali diocesani e alle iniziative culturali e sociali del territorio.

Per quest’anno abbiamo scelto le problematiche lavorative preparando tre Webinar di 1 ora ciascuno: il lavoro sfruttato, il lavoro problematico, il lavoro virtuoso.

Anche nella VEGLIA DEL LAVORO – che celebreremo nella parrocchia delle Ss.Stimmate il 27 aprile –  mediteremo: LAVORO. BENEDIZIONE O MALEDIZIONE?

  1. Ogni webinar dedica mezz’ora a far affiorare problemi di alcuni aspetti del lavoro che possono incidere negativamente sulla vita delle persone o della società
  2. e dedicando la seconda mezz’ora a evidenziare aspetti migliorativi o buone pratiche già in atto.

Il vescovo avrà sempre una parte importante di riflessione e indirizzo, qualificando così le nostre presentazioni come servizio esplicitamente pastorale che diventa un valore aggiunto a tutta la primaria fatica catechistica e liturgica dei parroci e operatori pastorali.

 Il primo webinar nasce con il contributo di G. Cristini, A. Micheli, M. Rampini, F. Marconi. M. Deriu e le testimonianze di lavoratori rider e di Evelyn Pereira fondatrice della Piattaforma TAKEVE.COM

Il nostro webinar verrà trasmesso  Giovedi 2 marzo ore 20,50 in diretta streaming sul canale YOUTUBE  del sito della Diocesi e sul canale di Giovanni Paolo TV. Sarà sempre consultabile sulla sezione VIDEO del sito della Diocesi e sul profilo FACEBOOK della Diocesi di Parma 2.0.

La novità di quest’anno.

Dopo il lancio pubblico e ufficiale dei video youtube, prepareremo una copia in formato ridotto (video pillola) chiedendo alle parrocchie che lo vorranno di incontrarci per ascoltare commenti e proposte in una forma di ascolto sinodale.

 




Il tempo complicato del lavoro
Cinzia Arena
da AVVENIRE

Orari pazzi, straordinari gratis. Il tempo complicato del lavoro.
Cinzia Arena (Avvenire 11 febbraio 2023)

Da uno studio che ha coinvolto 45mila dipendenti emergono una serie di contraddizioni. Il 16% non viene pagato per gli extra e sta al computer anche la sera e nel weekend.

Lavoro straordinario obbligatorio e gratuito, con impegni che sconfinano nel week-end e nelle ore notturne. Una sorta di “tassa” a carico del dipendente, paradossalmente più vessato anche tempi di smartworking. Sono preoccupanti i dati che emergono da uno studio dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche diffuso ieri. Il 60% dei lavoratori dipendenti fa gli straordinari ma in un caso su quattro, a conti fatti nel 15,9% dei casi, non riceve una retribuzione aggiuntiva. Uno su due è costretto a lavorare in orari definiti “antisociali”, ovvero la notte, il sabato e nei giorni festivi.
Secondo l’indagine Inapp Plus ( Participation, Labour, Unemployment Survey), che ha coinvolto 45mila individui dai 18 ai 74 anni ci sono ampie differenze di genere: fanno gli straordinari il 64,7% dei dipendenti uomini contro il 54,1% delle donne con motivazioni legate nella maggior parte dei casi (51,2%) a carichi di lavoro eccessivi e carenza di personale. Soltanto il 18,4% degli intervistati dichiara di farli per guadagnare di più. C’è poi un 8,1% che afferma di non potersi rifiutare. L’indagine sottolinea che il 18,6% dei dipendenti lavora sia di notte che nei festivi (circa 3,2 milioni di persone), il 9,1% anche il sabato e i festivi (ma non la notte), mentre il 19,3% anche la notte (ma non di sabato o festivi). Gli uomini sperimentano di sia il solo lavoro notturno, sia quello nei festivi, le donne invece sono impegnate più il sabato o nei festivi.
«Spesso la domanda di lavoro richiede disponibilità che confliggono con le esigenze di vita – sottolinea il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda –. È vero che per alcuni settori economici, come il commercio o la sanità, e per alcune professioni, come quelle dei servizi, il lavoro notturno o nei festivi è connaturato alla natura della prestazione, ma è anche vero che questa modalità sembra diffondersi anche dove non è strettamente necessaria. È urgente avviare una seria riflessione sull’organizzazione e articolazione del tempo di lavoro, ma anche sulla sua quantità e distribuzione».
Dall’indagine emerge infatti come il part-time involontario, che riguarda circa 900mila persone in Italia, coincida spesso con orari di lavoro scomodi, quasi esclusivamente nel weekend e di sera, senza considerare i tanti lavoratori autonomi i cui tempi sono dettati dalle esigenze dei clienti.
La sottoccupazione è un fenomeno che colpisce soprattutto le donne, i lavoratori senza diploma e quelli impiegati in aziende di piccole piccolissime dimensioni.
Sempre secondo il Rapporto, “una certa rigidità si registra anche sul fronte dei permessi”: il 21,3% degli occupati (circa 4,7 milioni) dichiara di non poter o non volere prendere permessi per motivi personali, il 54,8% può prenderli e il restante 23,9% può modulare l’impegno lavorativo. Gli uomini hanno una maggiore autonomia, mentre le donne subiscono maggiori pressioni.
« Mentre altrove si discute e si avviano sperimentazioni di orario ridotto o settimana corta – puntualizza Fadda in Italia restano da superare vecchi modelli che incidono pesantemente sui tempi di vita. Il mondo del lavoro è sempre più digitale, veloce, in costante evoluzione ma per gran parte dei lavoratori tradizionali restano ancora tanti problemi irrisolti sul piano della distribuzione degli orari di lavoro ». L’indagine Inapp evidenzia la necessità di soluzioni organizzative equilibrate in termini di turnazioni e di alleggerimento dei vincoli di orario che consentano un bilanciamento sostenibile tra lavoro e vita privata.




I giovani e il lavoro di qualità
Antonio Polito

I giovani e il lavoro di qualità.
Antonio Polito (Corriere della Sera, 7 febbraio 2023).

A Brescia tra gli imprenditori gira una storiella. Dice che mentre un tempo i colloqui per le assunzioni si concludevano con un “grazie, le faremo sapere” dell’azienda al candidato, ora finiscono con un “grazie, vi farò sapere” del candidato all’azienda e il presidente della Camera di Commercio, Roberto Saccone, mi assicura che non è una battuta: sempre più spesso le cose vanno proprio così. Un po’ in tutt’Italia le imprese lamentano una crescente carenza di manodopera. L’aneddotica è ricca e non risparmia neanche le aree più industriose e le comunità più permeate da un’antica cultura del lavoro, come appunto Brescia e la sua provincia (non a caso la prossima Futura Expo delle imprese bresciane metterà questo tema tra gli obiettivi di sostenibilità, al pari di energia e ambiente).
Nelle rilevazioni statistiche la carestia di lavoro viene indicata sempre più in alto tra i fattori di rischio per la ripresa e la crescita. Per quanto paradossale, il fenomeno ormai convive con livelli ancora elevati di disoccupazione, soprattutto giovanile. E seppure siamo ben distanti dalle dimensioni che ha assunto negli USA, durante e dopo il Covid, la cosiddetta “Great Resignation” (o “Big Quit”) anche in Italia abbiamo toccato una cifra record nell’anno appena finito: più di un milione e seicentomila persone hanno lasciato volontariamente il lavoro nei primi nove mesi del 2022, e il trend è in continua crescita. Ci sono ovviamente numerosi e importanti fattori sociali dietro questa specie di sciopero del lavoro, e il Corriere li ha più volte analizzati. Tra gli altri, un sistema scolastico che, carente sotto molti aspetti formativi, lo è ancora di più per quanto riguarda l’orientamento, la capacità cioè di indirizzare i giovani verso gli studi a loro più consoni e i lavori più richiesti. Questo crea spesso un mismatch[1] tra le esigenze delle imprese e le abilità professionali acquisite dai futuri lavoratori. Maggiore fortuna dovrebbero per esempio avere, in un paese manifatturiero come il nostro, gli Its (istituti tecnici superiori), scuole di eccellenza tecnologica post-diploma. Ma poiché il fenomeno riguarda ogni tipo di lavoro, non solo quelli qualificati ma anche i “generici”, bisogna prendere atto che ha radici più profonde. È probabilmente in corso una vera e propria rivoluzione culturale intorno al “valore-lavoro”. Molti l’attribuiscono all’importanza che oggi i giovani danno alla qualità della vita: sono sempre meno disposti a sacrificarla sull’altare del lavoro. È una tesi che implicitamente accusa i nostri figli di non aver abbastanza voglia di lavorare. Ma il rilievo che ha assunto l’aspirazione individuale a realizzarsi, la voglia dei ragazzi di perseguire un progetto di vita soddisfacente e piena, funziona anche nell’altro senso: li spinge cioè a dare invece una grande importanza al lavoro che faranno, alla sua dignità e remunerazione, a non arrendersi a ricatti e precarietà, bassi salari e orari lunghi, dequalificazione professionale o addirittura abusi. E questo è un bene: la qualità del lavoro è oggi considerata parte integrante della qualità della vita.
I più anziani sono soliti dire: “ai miei tempi si cercava un lavoro”; oggi, una o due generazioni dopo, è comprensibile che giovani scolarizzati ed esigenti cerchino qualcosa di più di un lavoro purchessia, o che chiedano di più al lavoro. Sono cambiamenti che stanno producendo effetti perfino sulla politica: la crisi delle sinistre laburiste e riformiste si spiega anche così e va a vantaggio di movimenti populisti che chiedono allo Stato di sostituire il salario come principale fonte di reddito o addirittura di movimenti antagonisti che rifiutano tout court il lavoro dipendente come forma di sfruttamento. D’altra parte il lungo apprendistato alla flessibilità è stato alla fine interiorizzato dalle giovani generazioni; avendo ormai capito che un lavoro non è per sempre, sanno anche che si può cambiarlo frequentemente per scelta, oltre che per costrizione. E infatti insieme alle dimissioni volontarie crescono le nuove attivazioni di contratti, il che significa un flusso dinamico da un’occupazione all’altra, un forte turn-over. A questo si aggiunge poi la rivoluzione tecnologica: l’esperienza dello smart working durante il Covid ha convinto molti che scegliere il lavoro a sé più adatto, aggiustarne gli orari alle esigenze di vita e familiare, ridurne lo stress e il costo del pendolarismo, è oggi possibile.
Queste sono tendenze da cui non torneremo indietro. Non c’è un “prima” che possa essere restaurato sulla base di un appello ai giovani a tornare all’etica del lavoro dei genitori. È dunque giunto il momento di provare a rendere il lavoro più attraente. Innanzitutto dal punto di vista del salario: lo Stato dovrebbe fare piazza pulita di questi anni di “bonus” trasversali, che vanno a chi ne ha bisogno ma anche a chi no, e concentrare il massimo della sua potenza di fuoco nel ridurre la tassazione a carico del lavoro, per mettere più soldi nelle buste paga. Ma serve un cambiamento anche da parte delle imprese: per accrescere la parte creativa, le opportunità di partecipazione, la flessibilità oraria e il livello di autonomia nei lavori che esse offrono ai giovani. La tecnologia spesso lo consente. Le vecchie abitudini spesso le impediscono.
Tutte queste osservazioni non possono però oscurare il punto cruciale: la scarsità della materia prima. Prima ancora dei lavoratori mancano infatti i giovani. Nel 1964, al culmine di quel baby boom le cui coorti stanno ora andando in pensione, nacquero in Italia più di un milione di bambini. I neonati del 2000, che hanno oggi vent’anni e si affacciano al mercato del lavoro, furono poco più della metà. L’anno scorso sono nati in meno di 400.000 bambini. Di questo passo è inevitabile una carestia di forza lavoro, che può cambiare il destino di un grande paese ricco ed esportatore come l’Italia. Forse per la prima volta cominciamo a toccare con mano le conseguenze antropologiche dell’inverno demografico.


[1] Disallineamento (ndr)




COME DONARE PER AIUTI A TURCHIA E SIRIA
Caritas Italiana

COME DONARE PER AIUTI A TURCHIA E SIRIA.

È possibile sostenere gli interventi di Caritas Italiana per l’ emergenza, utilizzando il conto corrente postale n. 347013

o donazione on-line (https://donazioni.caritas.it/),

o bonifico bancario intestato a CARITAS ITALIANA  specificando nella causale “Terremoto Turchia-Siria 2023” tramite:

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  • Banca Intesa Sanpaolo, Fil. Accentrata Ter S, Roma . Iban: IT66 W030 6909 6061 0000 0012 474
  • Banco Posta, viale Europa 175, Roma. Iban: IT91 P076 0103 2000 0000 0347 013
  • UniCredit, via Taranto 49, Roma. Iban: IT 88 U020 0805 2060 0001 1063 119



Papa Francesco
per la 31a GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

Messaggio di Papa Francesco per la 31a GIORNATA MONDIALE DEL MALATO – 11 febbraio 2023

«Abbi cura di lui». La compassione come esercizio sinodale di guarigione

Cari fratelli e sorelle!
La malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come stiamo camminando: se è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi e lasciando che gli altri “si arrangino”. Perciò, in questa 31a Giornata Mondiale del Malato, nel pieno di un percorso sinodale, vi invito a riflettere sul fatto che proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza. Nel Libro del profeta Ezechiele, in un grande oracolo che costituisce uno dei punti culminanti di tutta la Rivelazione, il Signore parla così: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, […] le pascerò con giustizia» (34,15-16). L’esperienza dello smarrimento, della malattia e della debolezza fanno naturalmente parte del nostro cammino: non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli. Si tratta dunque di imparare da Lui, per essere davvero una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto. L’Enciclica Fratelli tutti, come sapete, propone una lettura attualizzata della parabola del Buon Samaritano. L’ho scelta come cardine, come punto di svolta, per poter uscire dalle “ombre di un mondo chiuso” e “pensare e generare un mondo aperto” (cfr n. 56). C’è infatti una connessione profonda tra questa parabola di Gesù e i molti modi in cui oggi la fraternità è negata. In particolare, il fatto che la persona malmenata e derubata viene abbandonata lungo la strada, rappresenta la condizione in cui sono lasciati troppi nostri fratelli e sorelle nel momento in cui hanno più bisogno di aiuto. Distinguere quali assalti alla vita e alla sua dignità provengano da cause naturali e quali invece siano causati da ingiustizie e violenze non è facile. In realtà, il livello delle disuguaglianze e il prevalere degli interessi di pochi incidono ormai su ogni ambiente umano in modo tale, che risulta difficile considerare “naturale” qualunque esperienza. Ogni sofferenza si realizza in una “cultura” e fra le sue contraddizioni. Ciò che qui importa, però, è riconoscere la condizione di solitudine, di abbandono. Si tratta di un’atrocità che può essere superata prima di qualsiasi altra ingiustizia, perché – come racconta la parabola – a eliminarla basta un attimo di attenzione, il movimento interiore della compassione. Due passanti, considerati religiosi, vedono il ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia le cose, genera un mondo più fraterno.
Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido “ospedale da campo”: la sua missione, infatti, particolarmente nelle circostanze storiche che attraversiamo, si esprime nell’esercizio della cura. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli.
La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme. La profezia di Ezechiele citata all’inizio contiene un giudizio molto duro sulle priorità di coloro che esercitano sul popolo un potere economico, culturale e di governo: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (34,3-4). La Parola di Dio è sempre illuminante e contemporanea. Non solo nella denuncia, ma anche nella proposta. La conclusione della parabola del Buon Samaritano, infatti, ci suggerisce come l’esercizio della fraternità, iniziato da un incontro a tu per tu, si possa allargare a una cura organizzata. La locanda, l’albergatore, il denaro, la promessa di tenersi informati a vicenda (cfr Lc 10,34-35): tutto questo fa pensare al ministero di sacerdoti, al lavoro di operatori sanitari e sociali, all’impegno di familiari e volontari grazie ai quali ogni giorno, in ogni parte di mondo, il bene si oppone al male.
Gli anni della pandemia hanno aumentato il nostro senso di gratitudine per chi opera ogni giorno per la salute e la ricerca. Ma da una così grande tragedia collettiva non basta uscire onorando degli eroi. Il Covid-19 ha messo a dura prova questa grande rete di competenze e di solidarietà e ha mostrato i limiti strutturali dei sistemi di welfare esistenti. Occorre pertanto che alla gratitudine corrisponda il ricercare attivamente, in ogni Paese, le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l’accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute.
«Abbi cura di lui» (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: «Va’ e anche tu fa’ così». Come ho sottolineato in Fratelli tutti, «la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (n. 67). Infatti, «siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile» (n. 68).
Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da scartare.
All’intercessione di Maria, Salute degli infermi, affido ognuno di voi, che siete malati; voi che ve ne prendete cura in famiglia, con il lavoro, la ricerca e il volontariato; e voi che vi impegnate a tessere legami personali, ecclesiali e civili di fraternità. A tutti invio di cuore la mia benedizione apostolica.
Roma, San Giovanni in Laterano, 10 gennaio 2023.
FRANCESCO




Carcere, mai così tanti detenuti
L’appello di Papa Francesco

Carcere, mai così tanti detenuti. L’appello di Papa Francesco
Lucia Capuzzi (Avvenire 22 dicembre 2022)

 Viaggio nei centri di detenzione di tutto il mondo, dopo la richiesta di clemenza per Natale che il Papa ha rivolto ai Capi di Stato. Sovraffollamento ed emergenze igienico-sanitarie. E il dramma di chi si toglie la vita in completa solitudine dietro le sbarre. La miseria in molti Paesi é considerata un delitto: in 42 Paesi africani chi è senza reddito è punibile. Noury (Amnesty International): il ricorso alla reclusione continua ad essere considerato come il solo strumento per garantire la sicurezza. Un recluso su tre è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu che prevede che tale quota non oltrepassi il 16,3%.

 «Un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura». È questa la richiesta che papa Francesco rivolge, in occasione del Natale, a tutti i capi di Stato del pianeta. Un appello di scottante attualità perché – come rivela l’ultimo studio di Penal reform International – mai prima d’ora il numero di detenuti era stato tanto alto: 11,5 milioni di persone, il 24 per cento in più rispetto al 2000, anno in cui Giovanni Paolo II fece un’analoga petizione. A crescere con particolare rapidità è stata soprattutto la percentuale di donne – + 33 per cento -, i minori dietro le sbarre sono oltre 261mila. Sono gli Stati Uniti ad avere il maggior numero di prigionieri – due milioni -, seguiti da Cina (1,69 milioni) e Brasile (811mila).
Un recluso su tre, inoltre, è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu 2030 che, per garantire un equo accesso alla giustizia, prevede che la tale quota non oltrepassi il 16,3 per cento. La questione riguarda tutti i Paesi, in Africa e in Asia raggiunge, tuttavia, livelli macroscopici. In Nigeria, quanti aspettano il processo in carcere sono addirittura 50mila. Nella gran parte dei casi, come nel resto del Continente, si tratta di persone accusate di reati minori e con pochi mezzi per pagare la cauzione. Nel Sud del mondo spesso è la miseria stessa ad essere considerata un delitto: in 42 Paesi africani è punibile con il carcere il fatto di non avere un reddito. Mendicare è vietato in varie parti della regione.
La tendenza alle “manette facili” non solo resta in voga ma dovrebbe aumentare ulteriormente nel futuro imminente. L’anno scorso, almeno ventiquattro nazioni hanno annunciato progetti di espansione dei penitenziari, per un totale di 437mila strutture. Quasi la metà in Turchia, un quinto in Sri Lanka, i due Paesi con i maggiori complessi carcerari.
Il boom di nuove costruzioni non riesce comunque a risolvere il nodo cronico del sovraffollamento, dato l’incremento del ritmo degli arresti. In 121 Stati, le prigioni operano ben oltre la propria capacità massima, in 13 addirittura le persone “in eccesso” sono più del 250 per cento. «Sovraffollamento e mancato rispetto degli standard minimi igienico-sanitari sono i due drammi che maggiormente rendono difficile la vita dei detenuti», afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nel pieno della pandemia, l’Ong aveva chiesto ai governi di ridurre la concentrazione dei reclusi per arginare il contagio, attraverso il ricorso alle misure alternative. Qualche Paese – come Ecuador, Sudafrica, Indonesia, India, Cina, Regno Unito, Cile, Bulgaria, Congo, Turchia, Egitto, Iran, Nepal e la stessa Italia – si è mosso, pur con estrema lentezza, in tale direzione, con provvedimenti, tuttavia, frammentari e temporanei. Appena usciti dalla fase acuta della tempesta Covid, ovunque, si è assistito a un ritorno al vecchio sistema di incarcerazione di massa. «Purtroppo – aggiunge Noury -, il ricorso alla reclusione continua ad essere considerato come il solo strumento per garantire la sicurezza. Il che determina una congestione delle strutture e questo espone i detenuti a rischi per la salute fisica e mentale, spesso letali». Non a caso, il tasso di mortalità dietro le sbarre è più alto del 50 per cento rispetto al fuori. «Alle condizioni indegne, poi, si aggiungono abusi e torture, sistematici in alcuni Paesi», aggiunge il portavoce di Amnesty che sottolinea, in particolare, tre casi preoccupanti: El Salvador, Egitto e Iran. Da quando, lo scorso marzo, il presidente Nayib Bukele ha proclamato lo stato di emergenza, 57mila persone sospettate di avere relazioni con le “maras”, le feroci bande locali, sono finite in cella, il 2 per cento degli adulti. Ormai, il tasso di incarcerazioni in rapporto alla popolazione ha battuto gli Usa per diventare il più alto del mondo.
« In Egitto, si contano almeno 7mila detenuti per ragioni di coscienza. L’Iran ha attuato tra i 16 e i 18 nuovi arresti dall’inizio delle proteste. Scelte che hanno incrementato ulteriormente il sovraffollamento». In questi tre Paesi le morti in carcere per mancanza di cure sono all’ordine del giorno. «Purtroppo, si sta affermando una narrativa riguardo ai diritti umani estremamente pericolosa. Questi ultimi non sono considerati innati bensì “si meritano”. Quelli dei detenuti, per definizione poco meritevoli in base agli standard tradizionali, possono essere ridotti o violati – conclude Noury –. Per questo, le parole di papa Francesco sono tanto importanti».




LAVORO FRAGILE, ASSENTE, RIFIUTATO
Costantino Corbari (ROCCA n.24)

Lavoro fragile, assente, rifiutato

Costantino Corbari[1] (ROCCA n.24, 15 dicembre 2022)

Il lavoro resta alla base della nostra vita, tuttavia è sempre meno centra­le nell’agenda del Paese. Evidente la sua progressiva perdita di rilievo nel dibattito politico. Guerra in Ucraina, energia, inflazione: queste al momen­to le emergenze per partiti e istituzioni. Inoltre, processi innovativi, robotica e in­telligenza artificiale rendono la presenza dell’uomo sempre meno indispensabile negli ambiti produttivi oltre che in quelli creativi. Ancora, il lavoro sembra non ve­nire considerato prioritario neanche dai molti giovani che lo vivono con sentimen­to di distacco, come obbligo utile per la sopravvivenza. La vita è altrove. «Il lavoro è un dato originario interno che concorre a definire il significato stesso dell’esistenza» ha scritto Francesco Nova­ra, tra i fondatori della psicologia del la­voro. Ma quanti di coloro che abbandonano il posto fisso per altre strade, o non si pre­sentano sul mercato del lavoro o vivono di precarietà e insicurezza, condividono le sue parole? Oppure si sentono parte del cammino che indica il costituzionalista Filippo Pizzolato: «Il lavoro è il contributo che ogni cittadino è chiamato a dare alla costituzione cooperativa della conviven­za»? Sono interrogativi che si sono poste le Acli lombarde nell’avviare una riflessione sul tema del lavoro, di come stia cambiando e di come questo incida sull’atteggiamento oltre che sulla vita delle persone. Parten­do dalla convinzione che il lavoro, nono­stante la sua apparente marginalità, sia ancora uno spazio di crescita personale oltre che fonte di riconoscimento sociale. Il ciclo dei dialoghi ha preso avvio da un approfondimento sul lavoro «fragile, as­sente, rifiutato». Tre aggettivi che ben descrivono la realtà del lato debole del la­voro. Una condizione che coinvolge milio­ni di persone che faticano a trovare una soddisfacente collocazione nel mercato del lavoro. Si tratta di un’area estesa di disoccupati cronici, di sottoccupati, di precari, di working poor, di lavoratori in nero, di si­tuazioni di caporalato, ma anche di giova­ni in costante ricerca di un lavoro decen­te e di lavoratori che puntano ad una oc­cupazione che assicuri un migliore equili­brio tra vita privata e impegno lavorativo. Ma di cosa parliamo concretamente quan­do usiamo le parole: fragilità, assenza e rifiuto a proposito del lavoro?
Lavoro fragile.
Fragile è il lavoro precario, temporaneo. Sono precari coloro che vivono una gene­rale condizione di incertezza che si pro­trae per molto tempo. In Italia, secondo le rilevazioni Istat, sono oltre tre milioni. Fragile è il lavoro povero, sottopagato. Un recente studio Ocse ci dice che negli ulti­mi 30 anni i salari medi reali degli italiani sono diminuiti del 3,6%. Un dato che te­stimonia il diffondersi di una condizione di povertà lavorativa, cioè di chi vive in una situazione di povertà nonostante sia occupato.
Fragile è il lavoro nero. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare solo al Sud e alla raccolta dei pomodori. Modalità di intermediazione illecita di manodopera sono presenti in tutt’Italia e in ogni cam­po lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristora­zione, servizi a domicilio, pesca, cantieri­stica navale. Lavoro nero vuol dire anche caporalato. Fenomeno che riguarda parti­colarmente i soggetti più vulnerabili quali i migranti, le donne e i minori.
Fragile è il lavoro insicuro. Sebbene non ci sia una correlazione lineare, è evidente che dove c’è più lavoro precario il rischio che accadano degli incidenti è più eleva­to. Quasi mezzo milione le denunce per infortuni sul lavoro presentate all’Inail nei primi otto mesi del 2022. Tre al giorno i morti da gennaio a fine agosto.
Lavoro assente.
Per molti il lavoro non c’è. Il tasso di disoccupazione è al 7,8% a fine agosto (6,7% uomini, 9,3% donne). Nel Sud e nelle isole si arriva al 14,2%.I giovani tra 15 e 24 anni senza un lavoro sono il 21,2%. Nei prossi­mi mesi è atteso un peggioramento dell’oc­cupazione per la crisi causata dal costo dell’energia e dalla guerra in Ucraina.
I tassi in questo momento sono in calo an­che grazie alla crescita del numero di per­sone che hanno smesso di cercare un lavo­ro. I giovani che non studiano, non lavora­no e non frequentano corsi di formazione – i famosi neet, tra i 15 e i 29 anni – sono circa tre milioni, con una leggera preva­lenza femminile. Una massa di persone che rischiano la marginalizzazione cronica, ca­ratterizzata non solo da povertà materiale e carenza di prospettive, ma anche da de­pressione psicologica e disagio emotivo. Una perdita grave, individuale e sociale.
Lavoro rifiutato.
Fenomeno recente quello delle numerose dimissioni volontarie, la Great Resigna­tion, assai cresciute in epoca Covid. Nei primi sette mesi del 2022 sono state più di un milione le persone con contratto di la­voro a tempo indeterminato che hanno lasciato un posto sicuro, il valore più ele­vato dell’ultimo decennio. Parliamo di per­sone, per lo più giovani, che rinunciano all’impiego nella speranza, o illusione, di una migliore qualità della vita privata. Il posto fisso è importante ma non può mor­tificare la vita, le relazioni, le speranze di una condizione umana piena.
La forte crescita dell’occupazione, che ha caratterizzato la prima parte dell’anno, e la difficoltà delle imprese a trovare le fi­gure professionali cercate, rafforzano la capacità contrattuale di coloro che cerca­no un’occupazione adeguata alle loro aspettative e questo favorisce un così am­pio numero di dimissioni.
Sono tante infatti le imprese che cercano gente da impiegare in officina, in cantie­re o in ufficio, poche le persone disposte a farsi assumere. Un fenomeno che evi­denzia inoltre la realtà di un disallinea­mento tra le competenze necessarie e quelle disponibili con un importante pro­blema di formazione.
C’è infine da considerare che ogni anno decine di migliaia di giovani lasciano l’Ita­lia alla ricerca di un posto di lavoro più soddisfacente, di una migliore retribuzio­ne oltre che di nuove esperienze. Possiamo oggi immaginare un cambio di rotta e la correzione di una realtà sempre più distorta?
La politica pensa ad altro. Giorgia Meloni nel suo primo discorso, quello alla Camera dei deputati, non ha mai citato né la parola lavoro, né la parola sindacati. La sinistra è avvitata su se stessa, litigiosa e distante dai problemi concreti delle persone.
I sindacati confederali, purtroppo sempre più deboli, spesso divisi tra loro, eviden­ziano una ridotta capacità di incidere sul­le scelte. L’azione contrattuale non è bloc­cata e molti contratti di lavoro vengono rinnovati, sia nazionali di categoria che di singole imprese. Occorre però tenere presente che l’occupazione nell’industria – dove Cgil, Cisl e Uil sono più forti – pesa per poco meno del 20% del totale mentre quella nei servizi – dove il sindacato è più debole e dove regna la precarietà – rap­presenta circa il 72% del totale. Confindustria, dal canto suo, in concomitan­za con l’insediamento del nuovo governo ha pensato bene di sottoscrivere un accordo per gli artigiani con la sola U gl, sindacato notoriamente vicino alla destra politica, con condizioni peggiorative rispetto a quelle in essere con le imprese aderenti alle associa­zioni artigiane. Immediata la reazione delle organizzazioni sindacali maggiori che han­no protestato per la violazione del «Patto per la fabbrica» e l’incentivo ai contratti pirata. Un semplice caso? Un segnale alla Meloni? Lo capiremo presto.
Papa Francesco, in occasione dell’incon­tro con gli aclisti per il 70° dell’associazio­ne, ebbe a dire queste parole: «Davanti a questa cultura dello scarto, vi invito a realizzare un sogno che vola più in alto. Dob­biamo far sì che, attraverso il lavoro – il ‘lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale‘ – l’essere umano esprima ed ac­cresca la dignità della propria vita». Un sogno che molti non riescono neppure ad immaginare.


[1] Giornalista, docu­mentarista Tv, Uf­ficio Studi Acli Lombardia




Poveri: superare l’assistenzialismo

Poveri: superare l’assistenzialismo
settimananews.it/societa/poveri-superare-assistenzialismo/
di: Antonio Cecconi[1]

La giornata mondiale dei poveri, (13 novembre 2022), dovrebbe indurre a una riflessione collettiva su un problema che non è di un giorno ma di tutti i giorni. Ne stanno parlando a più voci il mondo civile ed ecclesiale, evidenziando la cronica difficoltà di affrontare e arginare il crescente fenomeno della povertà.

Non siamo usciti dall’assistenzialismo.
Apprezzando decisamente la necessità di dare adeguata informazione dei problematici andamenti in atto nella società italiana, mi permetto di aggiungere alcune personalissime osservazioni e considerazioni, precisando che il movente iniziale di questi pensieri è stato il resoconto dell’ottimo Paolo Lambruschi (su Avvenire del 18 ottobre u.s.) della presentazione del rapporto sulla povertà della Caritas L’anello debole e, nello specifico, una mia personale reazione all’uso dei termini “assistiti” e “beneficiari”, usati per i destinatari dei servizi di cui molte Caritas sono attive protagoniste.
Non voglio fare del nominalismo, ma in termini come questi ravviso il sapore pietistico di una filantropia e beneficienza ottocentesche, che l’azione pedagogica di oltre cinquant’anni di Caritas dovrebbe ormai aver espulso dal vocabolario ecclesiale. E anche da quello sociale.
Forse sta succedendo che il ritorno delle vecchie povertà, accanto alle nuove, e le prospettive di crescente impoverimento della società italiana siano fenomeni complessivi che suscitano in molti il desiderio di fare qualcosa, e che le più immediate risposte appaiano l’assistenza e la beneficienza.
Il rischio è fermarsi lì o ritornare lì, a gesti che soccorrono nell’immediato ma mantengono la distanza o addirittura potrebbero essere funzionali ad andamenti socioeconomici che lasciano immutati e insuperabili i privilegi, gli arricchimenti e le differenze. Giudico della stessa natura e di analogo effetto – al di là della buona fede di chi vi aderisce – i numerosi appelli di sottoscrivere contributi di pochi euro per varie iniziative contro la fame e le malattie che ricorrono nelle reti tv.

Il ruolo della Caritas.
Mentre ciò avviene sul versante sociale, sul versante ecclesiale potremmo correre il rischio di dimenticare quello che un documento della CEI scriveva all’inizio degli anni ’90:«La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 39). Vado ancora più indietro, al discorso con cui Paolo VI tenne a battesimo le nascenti Caritas (italiana e diocesane) il 27 settembre 1972: «… la vostra azione non può esaurirei suoi compiti nella pura distribuzione di aiuto ai fratelli bisognosi… Al di sopra di questo aspetto puramente materiale della vostra attività emerge la sua prevalente funzione pedagogica, il suo aspetto spirituale che non si misura con cifre e bilanci, ma con la capacità che essa ha di sensibilizzare le Chiese locali e i singoli fedeli al senso e al dovere della carità in forme consone ai bisogni e ai tempi».
Agire su due livelli.
Tra le risposte ai bisogni di questi tempi possono esserci certamente e assolutamente, nell’immediato, il pacco spesa e l’aiuto per pagare le bollette della luce o del gas. Ma non possiamo fermarci lì! Oltre a organizzare queste e ad altre forme necessarie di soccorso concreto, ritengo si possa e si debba agire su due livelli:

1) far crescere la coscienza ecclesiale verso il dovere di una carità fattiva che si traduca in impegni creativi e costanti di accoglienza, ospitalità, accompagnamento, prossimità e condivisione, da proporre a parrocchie, famiglie, associazioni; non ci si può accontentare di gestire nelle parrocchie – o livelli più ampi: vicariali o diocesani – l’erogazione di alcuni servizi a cui rinviare “i poveri”! Una Caritas parrocchiale che soltanto distribuisce ma anche non educa, anima e provoca l’intera comunità, compromette la sua stessa natura;

2) agire sulla politica e sull’economia per intaccare i perversi andamenti di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e di scivolamento verso la povertà di fasce sempre più ampie di popolazione.

Purtroppo – è esperienza recentissima – la lotta alla povertà ha avuto ben poco spazio nei programmi elettorali dei partiti e nelle propagande dei candidati; sta di fatto che moltissimi esponenti politici e pubblici amministratori elogiano il volontariato perché interviene a tappare le falle di uno stato sempre meno sociale, ma si dimostrano incapaci di progettare – col concorso del volontariato e delle stesse Caritas – adeguate contro misure nei confronti del crescente disagio sociale. Siamo ben lontani dai tempi in cui si auspicava che quello che oggi viene donato per carità cristiana o solidarietà umana, domani sarà dato per giustizia. Allora si teorizzava un passaggio dalla beneficienza ai diritti rispetto al quale si sta tornando indietro, e il vocabolario assistenzialista ne è la spia!
E in ambito ecclesiale?
In ambito ecclesiale, urge un serio esame di coscienza – il cammino sinodale può fornirne l’occasione – per diventare prima di tutto una Chiesa “dalla carità” e di conseguenza Chiesa “della carità”. Questo vuol dire attingere alla profondità della carità trinitaria e cristologica, magari scomodando i teologi come è sempre stato costume della Caritas, per crescere nell’autocoscienza ecclesiale oblativa di tutto il popolo di Dio, e partendo da qui sostenere le dimensioni operative, sempre curando la “pedagogia dei fatti”: educare al dono facendo, facendo fare, accompagnando il fare con il riflettere. E magari anche con il pregare. Chiediamoci se non stiamo correndo il rischio di diventare una Chiesa e una Caritas tutte assorbite dal fare per i poveri senza trovare tempo e modo per riflettere sulle cause delle povertà e senza compiere verso l’intera comunità – ecclesiale e civile – un’opera di educazione, stimolo e direi conversione nella prospettiva della condivisione, rivolgendoci con parresia a tutti coloro che vivono in condizioni agiate o quanto meno dignitose; e senza coscientizzare i poveri (delle varie forme di povertà, disagio, emarginazione…) sui loro diritti, senza avviare per/con loro cammini di inclusione, dignità, autonomia, responsabilità… senza almeno provarci!  A mo’ di esempio: affiancare la distribuzione di aiuti alimentari (consegna pacchi spesa, gestione di empori della solidarietà ecc.) con spazi educativi in cui i percettori di aiuti ricevono anche indicazioni e proposte di corretta alimentazione, risparmio energetico, sobrietà…Inoltre, nella prospettiva dell’uscita dalla povertà attraverso l’esercizio dei diritti/doveri, va percorsa – con consapevolezza e continuità più forti di quanto attualmente non avvenga– la strada del diritto al lavoro, a partire dal coinvolgimento in attività di pubblica utilità delle persone destinatarie di aiuti; per poi estenderla, con le collaborazioni e gli agganci giusti, a percorsi formativi orientati all’inserimento lavorativo.
Sedersi ai tavoli della programmazione.
Un ulteriore aspetto importante e forse decisivo, per un diverso modo di contrastare la povertà e l’emarginazione, è la disponibilità delle Caritas – ma anche del volontariato e dell’intera galassia del terzo settore – a sedere ai tavoli in cui si programmano e si attuano le politiche sociali, a partire dal concreto dei territori e fino all’interlocuzione col Governo e il Parlamento. In alcuni casi si tratterà di chiedere di essere ammessi dimostrando di averne titolo e competenza, in altre realtà addirittura di promuovere, evitando lo spezzettamento di risposte e favorendo invece l’approccio partecipato e la convergenza di tutte le forze della solidarietà. Per svolgere queste azioni, ci sarà bisogno, oltre che di presentare le situazioni di povertà come già avviene attraverso i rapporti che la Caritas produce sia a livello nazionale che territoriale, di promuovere studi e ricerche al fine di acquisire competenze e proporre sperimentazioni in materia di politiche sociali (la dimensione dello studio e della ricerca è esplicitamente presente nei compiti statutari di Caritas italiana fin dalle sue origini). Complementare all’aspetto ecclesiale c’è la dimensione civile, e quindi le motivazioni, la consapevolezza e la qualità di chi, nella pubblica amministrazione, è chiamato a responsabilità di governo ai vari livelli, dal piccolo comune fino ai vertici della repubblica. La comunità ecclesiale dovrebbe fare un serio esame di coscienza sul proprio contributo all’educazione civica di base, per verificare quanto il cristiano medio abbia consapevolezza circa quei «doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» enunciati nell’art. 2 della Costituzione (non a caso per la formulazione di quel testo fu determinate l’apporto di un cattolico del calibro di Giorgio La Pira!). Chiediamoci se e quanto la disaffezione verso la “cosa pubblica” – dall’assenteismo elettorale all’evasione fiscale – non si sia diffusa anche trai buoni cristiani, nel popolo delle parrocchie e nel vasto mondo delle aggregazioni cattoliche… Per poi riflettere sul rarefarsi di presenze cattoliche significative e credibili tra gli eletti nelle diverse sedi di partecipazione democratica, e constatare la palese assenza di coraggiose traduzioni dell’insegnamento sociale della Chiesa. C’è qualcuno, da qualche parte, che si stia chiedendo se qualcosa della Laudato si’ e della Fratelli tutti sia applicabile alla vita di un Comune, di una Regione, dello Stato?
Un’ultima cosa: molte case canoniche e conventi si stanno svuotando per mancanza di personale ecclesiastico che le abiti, in conseguenza dell’evidente crisi delle vocazioni alla vita consacrata. Nel frattempo, una delle forme di povertà registrate da molti centri di ascolto delle Caritas (come pure dagli assessorati alle politiche sociali) è l’emergenza abitativa: famiglie non in grado di sostenere il costo degli affitti, accoglienza di profughi emigranti… La Chiesa potrebbe decisamente fare qualcosa di più di quanto non stia facendo adesso, soprattutto promuovendo coraggiose e lungimiranti sinergie con gli enti locali e il terzo settore.


[1] Direttore Caritas Pisa