Confcooperative. Assemblea nazionale
Manca personale qualificato

Confcooperative: la cura per il Paese è garantire un lavoro dignitoso a tutti.
Maurizio Carucci (AVVENIRE 16 giugno 2023)

Il presidente Gardini: 3,8 milioni di persone sottopagate, il 12% degli italiani rinuncia alle cure mediche La mancanza di personale qualificato costa 21 miliardi.

Lavoro e inclusione sociale sono il filo conduttore dell’azione delle cooperative che non delocalizzano, creano lavoro e pagano le tasse in Italia. I lavori della 41esima assemblea di Confcooperative dal titolo Abbiamo cura del Paese si aprono con l’intervento di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari Europei, le Politiche di coesione e il Pnrr. Il ministro ha un nuovo incontro con i tecnici della Ue e prima di lasciare il Parco della musica riceve un vaso di ceramica proveniente dalle zone alluvionate dell’Emilia Romagna, consegnatogli dal presidente di Confcooperative Maurizio Gardini. Subito dopo l’Inno nazionale seguito da La cura di Franco Battiato e da Bella ciao interpretati da Tosca. « La scelta di una canzone non è mai casuale, è un messaggio che viene affidato a parole e musica e arriva dritto al cuore e all’intelligenza emotiva delle persone e ci aiuta a mettere a fuoco in maniera semplice quelle che sono situazioni complesse », spiega Gardini, parlando in particolare de La cura come scelta meditata per riassumere «il compito che le cooperative ogni giorno si pongono, il tema di costruire e dare vita a un’economia sociale».
Uno dei problemi principali è la mancanza di personale qualificato. « Il mismatch – sottolinea il presidente di Confcooperative – mina la competitività delle imprese, costa 1,2% di Pil e 21 miliardi di euro. Riguarda le imprese grandi, piccole e micro: una nostra cooperativa su due non trova le figure di cui necessita. Le nostre imprese occupano 540mila persone, ne potrebbero assumere altre 30mila, ma non trovano professionalità, dal socio sanitario all’area tecnico scientifica, dall’agroalimentare al trasporto e ai servizi turisti e culturali».
Nonostante il Paese cresca e il Pil anche, aumentano le diseguaglianze. Insieme al disagio economico di lavoratori e famiglie, crescono infatti la povertà sanitaria, educativa e abitativa. «Abbiamo 3,8 milioni di lavoratori poveri che ricevono una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6mila euro e oltre tre milioni di lavoratori irregolari o in nero – continua Gardini –. Investiamo sulle imprese virtuose che generano lavoro dignitoso, riducendo, ulteriormente, il cuneo fiscale che pesa circa il 10% in più della media Ocse. Libererebbe nuove risorse per le imprese e lascerebbe più soldi in tasca ai lavoratori con un effetto positivo sui consumi interni depressi dall’inflazione». Il presidente di Confcooperative ricorda che «le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni, erano 800mila nel 2005: parliamo di 5,6 milioni di persone. La povertà relativa riguarda invece 2,9 milioni di famiglie e 8,8 milioni di persone». Preoccupa anche la povertà educativa: «500mila giovani, più di 11 giovani su 100, nella fascia 18-24 anni, abbandonano i percorsi di formazione senza aver conseguito un titolo di studio». Mentre è «drammatica la situazione del 12% di italiani che nel 2022 hanno scelto di non curarsi per mancanza di disponibilità economica pur avendone bisogno per risorse economiche scarse». Inoltre «circa 3 milioni di famiglie vivono nel sovraffollamento e lo indicano come il principale fattore di tensione e di criticità per la propria condizione personale. Il fenomeno riguarda 1,8 milioni di famiglie che vivono in affitto, il 35,6% del totale e 1 milione di famiglie proprietarie, circa il 15,2% del totale».
Insomma, pur nelle difficoltà, le cooperative rispondono ai bisogni delle comunità. Realizzano il 25% dell’agroalimentare, rappresentano il 30% della distribuzione al consumo e al dettaglio, il 19,6% degli sportelli bancari e portano servizi di welfare a sette milioni di italiani.




Riders in Europa. Si cambia?
Avvenire

Più regole sui contratti dei rider: c’è l’intesa tra i governi dell’Ue.

Giovanni Maria Del Re (AVVENIRE 13/06/2023)

 Il punto essenziale dell’accordo è la giusta classificazione dei lavoratori in base a criteri comuni. Al momento 5,5 milioni sono inquadrati come “autonomi”, anche se in molti sono trattati a tutti gli effetti come dipendenti

Accordo fatto tra gli Stati membri per regolare il settore dei cosiddetti “rider”, i lavoratori delle piattaforme digitali, la “Gig Economy”, da Deliveroo a Uber, da MyMenu a Glovo. Un accordo arrivato ieri a Lussemburgo, nel quadro del Consiglio dei ministri Ue per gli Affari sociali, che giunge dopo quello raggiunto a febbraio dal Parlamento Europeo, l’altra istituzione legiferante. Nel dicembre 2022 era fallito un precedente tentativo di accordo tra i Ventisette. Ieri i ministri hanno superato le divergenze – in realtà non del tutto, visto che se si sono astenuti cinque Stati membri (Germania, Spagna, Grecia, Estonia e Lettonia), visti i perduranti dubbi di un impatto troppo pesante sulle società del settore –, ora potrà iniziare il negoziato interistituzionale (trilogo) per l’approvazione definitiva. La base è il testo presentato dalla Commissione Europea il 9 dicembre 2021, con l’idea di porre fine al far west che vige in un settore che genera introiti schizzati dai 3 miliardi di euro del 2016 ai 14 miliardi del 2020, per un totale previsto di addetti di 48 milioni di addetti nel 2025. « La Gig Economy – ha dichiarato, per la presidenza di turno Ue, la ministra svedese per la Parità dei sessi e la vita lavorativa Paulina Brandberg – ha portato molti benefici alle nostre vite, ma questo non deve andare a spese dei diritti dei lavoratori». L’accordo, ha aggiunto, «trova un buon equilibrio tra la protezione dei lavoratori e la certezza giuridica per le piattaforme che danno loro lavoro». Il punto essenziale è anzitutto la giusta classificazione dei lavoratori. Secondo la Commissione, al momento 5,5 milioni di lavoratori del settore sono classificati come “autonomi” con partita Iva. Moltissimi di loro, però, in realtà sono trattati a tutti gli effetti come dipendenti, in quanto, sottolinea una nota del Consiglio dei ministri Ue, «devono rispettare le stesse regole dei lavoratori dipendenti». Questo, si legge ancora, «indica che vi è di fatto una relazione di lavoro dipendente, e dunque devono godere degli stessi diritti e della stessa protezione sociale concessa ai dipendenti nel quadro della normativa nazionale e Ue», ad esempio ferie pagate, contrattazione collettiva, salario minimo o una liquidazione. Per dare certezza giuridica, la Commissione aveva indicato cinque criteri di cui due dovevano esser soddisfatti per affermare che in realtà vi è un rapporto di lavoro dipendente. Gli Stati membri hanno aumentato i criteri a sette, con un minimo di tre per stabilire il rapporto di dipendenza. Tra questi, un tetto massimo agli introiti che può ricevere un rider, restrizioni sulle possibilità di rifiutare un incarico, regole sull’abbigliamento e un codice di condotta. L’accordo degli Stati membri ha confermato una novità che aveva già introdotto il testo del Parlamento Europeo: il ribaltamento dell’onere della prova. E cioè, si legge nel comunicato del Consiglio Ue, «nel caso si applichi la presunzione di rapporto dipendente, starà alla piattaforma digitale dimostrare che invece tale rapporto non sussiste». Una norma che ha suscitato critiche da varie aziende del comparto. Sul testo del Parlamento Europeo, per la cronaca, si erano spaccati i partiti di governo: FdI e Lega a favore, mentre Forza Italia aveva votato contro. Tra gli altri punti, da segnalare la richiesta di maggiore trasparenza nell’uso degli algoritmi utilizzati per la gestione delle risorse umane. Al momento, afferma il Consiglio Ue, «i lavoratori delle piattaforme si trovano confrontati con mancanza di trasparenza su come vengono prese le decisioni e come sono utilizzati i dati personali». L’Ue, invece, si legge nella nota, « vuole assicurare che i lavoratori siano informati sull’utilizzo del monitoraggio automatico e dei sistemi decisionali». Nel testo si richiede che «tali sistemi siano monitorati da personale qualificato, che gode di una protezione speciale da trattamenti ostili. La supervisione umana è richiesta anche per alcune decisioni significative come le sospensioni degli account ».




EQUILIBRIO LAVORO-VITA
Avvenire

Dopo il Covid. Meno smart working, ma orari flessibili: così sta cambiando il lavoro
Luca Mazza (AVVENIRE on line sabato 10 giugno 2023)

A distanza di tre anni dal boom obbligato dalla pandemia il lavoro a distanza non è decollato Nel 2022 sono state coinvolte 3,6 milioni di persone (circa 500mila in meno rispetto al 2021).

Imprescindibile per centinaia di professioni nei mesi più bui del Covid, utile nella lenta fase di uscita dalla pandemia anche con l’obiettivo di raggiungere un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro, fortemente ridimensionato adesso che l’emergenza sanitaria è ufficialmente terminata: lo smart working è in frenata in Italia. A tre anni di distanza dal boom “obbligato”, il lavoro da remoto non è decollato. Anche se il governo ha prorogato al 31 dicembre lo smart working in scadenza a fine giugno per i lavoratori fragili e i genitori con figli under 14 nel privato (mentre per la Pubblica amministrazione il nodo è ancora da sciogliere), molte aziende in realtà già nei mesi scorsi si sono mosse per “ripopolare” sedi e uffici. Contemporaneamente al ridimensionamento dello smart working, inoltre, sta cambiando l’organizzazione del lavoro. L’attenzione del mercato occupazionale, infatti, adesso sembra molto concentrata sulla rimodulazione degli orari, con le prime esperienze di settimana corta (4 giorni di lavoro invece di 5) che state avviate anche in Italia. Partendo dal rallentamento del lavoro agile, la tendenza è confermata dai principali osservatori e centri di ricerca che monitorano il fenomeno. Un trend dovuto soprattutto ai passi indietro che sono stati compiuti (o comunque preannunciati) dalle Pmi e da alcuni enti pubblici. «Già l’anno scorso siamo scesi a un livello molto lontano dai picchi della primavera del 2020, quando con il lookdown duro si era arrivati a 6,5 milioni di lavoratori operativi da remoto – racconta Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano –. Nel 2022 abbiamo contato 3 milioni e 570mila persone che almeno per parte tempo hanno lavorato in smart working, ovvero circa 500mila in meno dell’anno precedente». Entrando nel dettaglio della rilevazione, Crespi spiega che «a fronte di una leggera ma costante crescita del lavoro a distanza nelle grandi aziende, anche se è calata l’intensità (al massimo due o tre giorni a settimana) perché lo smart working “estremo” è quasi sparito, si è registrata invece una marcia indietro per quanto riguarda in particolare le piccole e medie imprese (pmi) e le pubbliche amministrazioni». Le stime calcolate alla fine dello scorso anno dall’Osservatorio del Politecnico indicavano una sostanziale stabilità del numero di “smart workers” per il 2023 (3 milioni e 630mila persone). Ma sono rilevazioni effettuate quando anche a livello politico-istituzionale sembrava esserci un sentiment più favorevole al lavoro a distanza. Per cui, la spinta degli ultimi mesi sul ritorno in presenza probabilmente porterà ad aggiornare al ribasso le previsioni per il 2023.  Tra le ragioni che hanno portato tante realtà di dimensioni ridotte a diminuire le ore lavorare a distanza, ci sono ostacoli culturali, logistici e tecnologici. «Nelle piccole e medie imprese il calo è dovuto sicuramente a una cultura organizzativa che, soprattutto in alcuni comparti, si focalizza sul controllo della presenza, mentre bisognerebbe imparare a valutare di più il lavoro sugli obiettivi, che non devono essere per forza annuali ma anche mensili o settimanali», afferma Crespi. Inoltre, il lento processo di digitalizzazione di tante realtà aziendali di certo non facilita una diffusione del lavoro da remoto per tanti dipendenti. Quanto al settore pubblico, secondo Crespi, l’indirizzo politico è un fattore determinante per la diffusione dello smart working. E il vento sembra essere cambiato rispetto agli anni scorsi. Da uno studio diffuso recentemente dall’Inapp in Italia solo il 14,9% degli occupati opera a distanza, con un potenziale pari a circa il 40%. L’opportunità dello smart working, insomma, non viene “sfruttata” quanto si potrebbe. E il bacino potenziale riguarda soprattutto i laureati, il personale delle grandi imprese, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. «In generale nel pubblico si paga una maggior pigrizia nell’innovazione rispetto al privato – sottolinea il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda –. Se non si riprogettano i processi, i servizi e le procedure in modo innovativo non si potrà mai diffondere lo smart working in modo efficace nella Pubblica amministrazione». Secondo Fadda molte prestazioni per il pubblico potrebbero essere svolte prevalentemente in via digitale, invece spesso è necessaria la presenza fisica agli sportelli: «Senza un’innovazione tecnologica avanzata (che non significa solo l’uso del computer e una connessione a Internet, ma deve comprendere l’intelligenza artificiale, il cloud e la realtà aumentata) la Pubblica amministrazione non riuscirà a dotarsi di una nuova organizzazione del lavoro “ibrida”, con una combinazione efficace tra attività svolte in presenza e da remoto». Un altro investimento indispensabile, per Fadda, è quello formativo: «C’è una grave carenza di competenze digitali nel management della pubblica amministrazione che andrebbe colmata mettendo in campo un’ampia offerta formativa». Al di là del ricorso più o meno diffuso allo smart working, in molte realtà aziendali è in atto una revisione dei processi e dell’organizzazione del lavoro. Alcune aziende, per esempio, negli ultimi mesi hanno iniziato a sperimentare la settimana lavorativa di 4 giorni. Intesa Sanpaolo, per esempio, da inizio anno ha avviato un nuovo modello organizzativo del lavoro (a fine maggio è stato firmato anche l’accordo con i sindacati) che permette di integrare tra loro più strumenti: il lavoro agile, la flessibilità di orario e, appunto, la settimana corta. Tra le principali novità ci sono 120 giorni di smart working all’anno, flessibilità di orario all’ingresso tra le 7 e le 10 e la possibilità di usufruire della settimana corta (9 ore di lavoro al giorno per 4 giorni alla settimana). Si tratta di strumenti disponibili su base volontaria e a parità di retribuzione, che permettono di organizzare il tempo nel modo più congeniale senza diminuire la produttività per l’azienda. «L’elemento fondamentale per il successo di questo modello è la diffusione di una cultura orientata agli obiettivi e al senso di responsabilità, e su questo stiamo molto investendo – commenta Paola Angeletti, Chief Operating Officer Intesa Sanpaolo –. Siamo convinti che promuovere il benessere delle persone e valorizzare i talenti di tutti sia indispensabile per costruire la banca del futuro, in grado di affrontare le prossime sfide in mercati in continua trasformazione, grazie a un modello sempre più agile e dinamico». L’esperimento di Intesa Sp per ora sembra funzionare: dal 1° gennaio, quando le nuove misure sono state avviate, hanno aderito al nuovo lavoro flessibile 40.000 persone (circa il 70% di chi poteva essere abilitato) e alla settimana corta circa 17.000 dipendenti, pari al 60% del personale full time delle strutture di governance e di 12 grandi filiali. Sicuramente agire sulla leva oraria, finora poco utilizzata, è un modo per dare più flessibilità alle persone e autonomia nella gestione del lavoro», evidenzia Fiorella Crespi. «Ma concentrare il lavoro in 4 giorni anziché in 5 non è detto che porti automaticamente vantaggi e benefici per i tutti i dipendenti e per tutte le aziende – avverte la direttrice dell’Osservatorio smart working del Politecnico milanese –. Oltre a valutare possibili ripercussioni sui livelli dei servizi per i clienti, infatti, non si può escludere che, in particolare per i dirigenti di un’azienda, dal lunedì al giovedì ci sia un tale aumento delle difficoltà organizzative, dei carichi di lavoro e dello stress che rischia di essere superiore al giovamento di avere un giorno libero in più a settimana».




Sanità pubblica? Sempre meno
Pandolfi (ROCCA)

DIRITTO ALLA SALUTE. In Italia abbiamo un problema
Luigi Pandolfi (ROCCA 1 maggio 2023)

Lo scorso 1 ° aprile, a Milano, si è svolta una manifestazione in Piaz­za Duomo per «per la salvezza del Sistema Sanitario Nazionale e per il diritto alla salute». L’evento, promosso da 60 organizzazioni, tra associazioni e sindacati, ha visto la parte­cipazione di oltre 5mila persone. Sotto il palco, una scritta molto eloquente: «La sa­lute non è una merce». Esiste un «proble­ma sanità» nel nostro Paese? Evidentemen­te, sì. La pandemia ha fatto letteralmente deflagrare le criticità del sistema, da anni sottoposto a duri picconamenti da parte dei governi, sia centrali che regionali, in nome di una falsa equazione tra efficienza e mer­cato, ovvero tra innalzamento della qualità dei servizi e privatizzazione degli stessi. «Al centro dell’iniziativa – ha dichiarato Vittorio Agnoletto dell’Osservatorio salute – ci sono tutte le rivendicazioni che abbia­mo elaborato in questi anni cruciali, in cui sono esplose in maniera drammatica le gra­vi inefficienze del servizio sanitario pub­blico, depauperato e mortificato da 30 anni di scelte dissennate. Le istituzioni, le re­gioni e i privati ci trattano come clienti, che si aggirano indecisi tra le bancarelle, clienti da ‘pescare’, da sfruttare, non per­sone da curare e riportare in salute. Con questa logica la prevenzione scompare per­ché non produce profitto. Non possiamo consentire che questo accada: la preven­zione, la cura e la riabilitazione sono tutte funzioni alla base del servizio sanitario pubblico e l’accesso universalistico è l’uni­co che garantisce che la salute sia un bene collettivo». Ecco: depotenziamento della sanità pubblica a vantaggio di quella priva­ta, insufficienza se non mancanza assoluta di politiche di prevenzione, inadeguatezza della rete sanitaria di prossimità. Un qua­dro preoccupante, nel quale solo chi ha i soldi ormai può curarsi adeguatamente.
Sempre più privato, malati ridotti a consumatori.
Ne sono prova tangibile le prestazioni ero­gate dai medici ospdalieri al di fuori del normale orario di lavoro. La cosiddetta «at­tività intra-moenia»: strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale utilizzate pri­vatamente, e per prestazioni a pagamento, dai medici che vi operano. Hai bisogno di una visita specialistica? Mesi o addirittura anni di attesa per la prestazione in regime di servizio pubblico, che si riducono a po­chissimi giorni, addirittura al giorno dopo, se si accetta di aprire – potendolo fare – il portafoglio. E sappiamo quanto sia impor­tante il fattore tempo per prevenire malat­tie gravi o scongiurare che le stesse abbia­no un decorso infausto o fatale. Ma non è tutto. Il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), per gli indigenti, offre ancora una certa gamma di servizi gratuiti (per altri è prevista una sorta di compartecipa­zione). Ci sono aree, nondimeno, dove vige una sorta di monopolio del privato. Si pen­si all’assistenza odontoiatrica. Qui i soldi sono tutto. Senza, non c’è di fatto accessi­bilità alle cure. Cosa significa tutto questo in un Paese dove il 25% della popolazione è a rischio di povertà o di esclusione socia­le e dove i poveri assoluti conclamati sono ormai poco meno di 6 milioni? Un tradi­mento della Costituzione. E, manco a dir­lo, uno stravolgimento dei principi che stan­no alla base della legge 833 del 1978, quella che ha istituito il Sistema sanitario nazio­nale. Di che principi parliamo? Universali­tà, uguaglianza ed equità. «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicuri­no l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio», si legge all’art. 1 di detta leg­ge. Tutto ciò che negli ultimi trent’anni, sull’onda della (contro) rivoluzione neoli­berale, è stato ridotto a mero simulacro. Prima il profitto, poi la persona. E il mala­to che viene ricondotto alla categoria ge­nerale e uniformante di consumatore. Co­s’è il consumatore nella teoria economica dominante, detta anche «neoclassica»? Colui che deve massimizzare la soddisfa­zione dei suoi bisogni, tenuto conto del vin­colo rappresentato dal proprio reddito. La risposta al perché tanti italiani, oggi, sono costretti a scegliere tra curarsi e mangiare o pagare le bollette. La salute messa allo stesso livello di altre merci.
Questione di paradigma, nel quale è insita l’idea secondo cui anche nella sanità lo Sta­to deve risparmiare, ridurre il suo inter­vento finanziario. Stando a uno studio re­cente della Fondazione Gimbe, dal 2010 al 2019 il definanziamento della sanità pub­blica italiana è stato di 37 miliardi. Vi han­no concorso governi di centrodestra e cen­trosinistra, oltre a quelli «tecnici». Tra le altre cose, ciò ha significato ancora più ta­gli ai posti letto per pazienti acuti, che, dal 1980 ad oggi, si sono ridotti complessiva­mente di quasi un terzo (da più di 500mila a meno di 200mila). Tagli alle strutture pubbliche, drenaggio di risorse da parte delle cliniche private, che hanno privile­giato, ovviamente, i settori a più alta red­ditività. Diagnostica, alta chirurgia, riabi­litazione, a scapito delle emergenze-urgen­ze, delle terapie intensive, degli interventi di primo soccorso, della medicina territo­riale, della rete del 118. La politica dei ta­gli, unita alla follia del numero chiuso ap­plicato alle facoltà di medicina, ha deter­minato inevitabilmente una scarsità ende­mica di medici e infermieri. Le ultime sti­me parlano di una carenza di 40mila medi­ci e di 100mila infermieri nel nostro Paese. Un dato che si spiega anche con la fuga dei nostri operatori sanitari verso altre nazio­ni europee: 180 mila in vent’anni. Un dato enorme, che ha una semplice spiegazione: ricerca, da parte dei giovani, di maggiore stabilità lavorativa e di remunerazioni mi­gliori di quelle offerte in Italia. Non tutti i medici, nel nostro Paese, godono dei privi­legi del sistema. Ci sono differenze tra un territorio e un altro, ma soprattutto tra vec­chie e nuove generazioni. Ancora oggi, il 70% dei medici e dei ricercatori, italiani e di origine straniera, che operano nelle no­stre strutture pubbliche o nelle cliniche private, è da considerarsi precario.
Il Pnrr e la spada di Damocle dell’autonomia differenziata.
Nemmeno la pandemia ha smosso più di tanto le acque. E il Pnrr, come si evince dalla cronaca di questi giorni, anche su questo versante non sta producendo i ri­sultati sperati. Si faranno la Case e gli Ospe­dali di Comunità? Sarà realizzata la cosid­detta Rete di prossimità, col supporto del­la telemedicina? E l’innovazione, la ricer­ca, la digitalizzazione del Ssn? Staremo a vedere. Per adesso il dibattito politico è concentrato sul rischio che i soldi del Reco­very fund vadano addirittura persi. Non c’è discussione adeguata nei territori su que­sto argomento. Sindaci e presidenti di re­gione sembrano incapaci di comprendere la posta in gioco, mentre anche con la loro complicità, ovvero grazie alla loro inerzia o per via della loro resistenza blanda, sta facendo passi in avanti lo scellerato dise­gno leghista della cosiddetta «autonomia differenziata». Già adesso esistono «diffe­renze» marcate tra i diversi sistemi sanita­ri regionali. La sanità calabrese non è quel­la veneta o emiliana. Per quanto i processi di privatizzazione abbiano colpito trasver­salmente il diritto alla salute da un capo all’altro del Paese, non c’è dubbio che nelle regioni meridionali lo stesso sia spesso del tutto negato. In tutto il Paese, pertanto, servirebbe un ritorno alla sanità pubblica universale, con un ruolo predominante dello Stato, ma nel Mezzogiorno anche maggiori investimenti per recuperare il gap attuale con le regioni più ricche del nord. Si parla invece di «Livelli essenziali di assistenza» (Lea). Che significa? Una base minima per tutti, poi chi ha più risorse fa meglio degli altri. D’altro canto, benché adesso per op­portunità politica non se ne parli, al fondo del disegno leghista c’è sempre l’idea se­condo cui le tasse che si pagano in un dato territorio devono rimanere, in tutto o in parte, nel territorio stesso. Un’idea balor­da, ma che tornerà prepotentemente un minuto dopo che il lombardo-veneto avrà attenuto la competenza esclusiva sulle materie per le quali è stato possibile chie­derla. A cominciare dalla sanità, dove la polpa è decisamente più spessa.




1 maggio 2023. Messaggio dei Vescovi
Giovani e lavoro

Giovani e lavoro per nutrire la speranza.
Messaggio dei Vescovi italiani per la Festa dei lavoratori
(1° maggio 2023)
I dati sull’occupazione in Italia mettono in luce un fatto assai preoccupante: circa un quarto della popolazione giovanile del nostro Paese non trova lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. Il quadro ci deve interrogare su quanto la nostra società, le nostre istituzioni, le nostre comunità investono per dare prospettive di presente e di futuro ai giovani.
Essi pagano anche il conto di un modello culturale che:
– non promuove a sufficienza la formazione,
– fatica ad accompagnarli nei passi decisivi della vita
– e non riesce a offrire motivi di speranza.
Come sottolinea papa Francesco nell’esortazione apostolica Christus vivit: «Il mondo del lavoro è un ambito in cui i giovani sperimentano forme di esclusione ed emarginazione. La prima e più grave è la disoccupazione giovanile, che in alcuni Paesi raggiunge livelli esorbitanti. Oltre a renderli poveri, la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e di sperare e li priva della possibilità di dare un contributo allo sviluppo della società» (n. 270).
Conosciamo molto bene l’impatto sulla vita ordinaria di tale situazione:
– vengono rimandate le scelte di vita
– e si rimuove dall’orizzonte futuro la generazione di figli.
La crisi demografica in corso nel nostro Paese aggrava la situazione.
I giovani diventano sempre più marginali. Le giovani donne conoscono un ulteriore peggioramento delle opportunità lavorative e sociali.
Preoccupa anche il numero elevato di giovani che lasciano il Sud, le Isole e le aree interne per cercare fortuna nelle aree metropolitane del Nord Italia o che addirittura abbandonano per sempre la terra di origine.
Un’attenzione particolare merita la situazione di precarietà lavorativa che vivono molti giovani: dove scarseggia la domanda di lavoro i giovani sono sottopagati, vedono frustrate le loro capacità e competenze e perciò interpellano la coscienza dei credenti in tutti gli ambiti lavorativi e professionali.
Si avverte la fatica di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, per cui molte professionalità non trovano accoglienza nei giovani.
Desta preoccupazione anche il tasso dei giovani che non studiano né lavorano (NEET), quelli che finiscono nelle reti della criminalità, del gioco d’azzardo, del lavoro nero e sfruttato, del mondo della droga e dell’alcolismo.
Papa Francesco, in relazione al tema dei giovani, ha più volte parlato di un’«unzione», di un dono di grazia, manifestazione dell’intrinseca dignità della persona, fonte e strumento di gratuità.  Senza il lavoro non viene infatti a mancare solamente una fonte di reddito – peraltro importantissima – ma i giovani disoccupati «crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro che è quello che dà la dignità» (Visita pastorale a Genova, Incontro con il mondo del lavoro, 27 maggio 2017).
Per porre rimedio a questa crisi epocale, nello spirito del Cammino sinodale, desideriamo condividere percorsi di vera dignità con tutti.
Vorremmo che le comunità cristiane fossero sempre più luoghi di incontro e di ascolto, soprattutto dei giovani e delle loro aspirazioni, dei loro sogni, come anche delle difficoltà che essi si trovano ad affrontare.
Ci impegniamo a condividere la bellezza e la fatica del lavoro, la gioia di poterci prendere davvero cura gli uni degli altri, la fatica dei momenti in cui gli ostacoli rischiano di far perdere la speranza, i legami profondi di chi collabora al bene in uno sforzo comune.
Sollecitiamo la politica nazionale e territoriale a favorire l’occupazione giovanile e facciamo sì che il rapporto scuola-lavoro, garantito nella sua sicurezza, aiuti a frenare l’esodo e lo spopolamento, soprattutto nei territori con maggiore tasso di disoccupazione.
Su questo cammino ci mettiamo in dialogo e in ascolto di quelle esperienze cariche di novità e di speranza, come Economy of Francesco, il Progetto Policoro, le cooperative sociali, le Fondazioni di Comunità, le buone pratiche in campo economico, lavorativo e di microcredito, che sono state censite anche in occasione dell’ultima Settimana Sociale di Taranto.
Ascoltare questi giovani ci aiuta ad incontrarli, assieme a tanti altri che hanno sicuramente molto da dire, ai quali ci offriamo come compagni di viaggio.
Vogliamo trovare il modo ed il tempo per sognare il loro stesso sogno di:
un’economia di pace e non di guerra;
un’economia che si prende cura del creato, a servizio della persona, della famiglia e della vita;
un’economia che sa prendersi cura di tutti e non lascia indietro nessuno.
Desideriamo un’economia custode delle culture e delle tradizioni dei popoli, di tutte le specie viventi e delle risorse naturali della Terra, «un’economia che combatte la miseria in tutte le sue forme, riduce le diseguaglianze e sa dire, con Gesù e con Francesco, “beati i poveri”» (Patto tra il Papa e i giovani di Economy of Francesco, Assisi 24 settembre 2022).
Oggi siamo chiamati a condividere passi e contributi di tanti, perché questa «economia di Vangelo» non rimanga solamente un sogno.
Prendiamo sul serio le aspirazioni dei giovani, le loro critiche all’esistente ed i loro progetti di futuro.
Portiamo il nostro contributo ovunque si disegnino e si realizzino le politiche del lavoro, le contrattazioni collettive ed aziendali, le molteplici forme dell’imprenditorialità e della finanza.
Una nuova visione dell’economia attenta al grido dei poveri e della Terra, dei giovani che rischiano di essere «impoveriti» del loro futuro, trovi spazio nel mondo culturale ed accademico, e alimenti le prospettive della politica a tutti i livelli.
Valorizziamo anche i beni della Chiesa con lo scopo di favorire opportunità lavorative per i giovani nella logica dell’ecologia integrale di Laudato si’.
Scommettiamo sulla capacità di futuro dei giovani. Abbiamo bisogno dell’alleanza tra l’economia, la finanza, la politica, la cultura per costruire reti di accompagnamento per i giovani.
Questi germogli saranno i segni sicuri di una nuova primavera fatta di relazioni buone tra le persone, di famiglie capaci di aprirsi alla vita con coraggiosa speranza, di una società della solidarietà e della cura reciproca. Siamo certi che l’azione dello Spirito sta suscitando nel mondo germogli di novità grazie anche alle future generazioni. Si sta già realizzando sotto i nostri occhi la profezia di Gioele: «Diventeranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3,1).

Roma, 20 marzo 2023

La Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace




Reggio Calabria
Parrocchia a emissioni zero di CO2

REGGIO CALABRIA

La parrocchia a emissioni zero: assorbita una tonnellata di CO2.
Davide Imeneo (Avvenire 05 aprile 2023)

Tutto è iniziato con una pizza condivisa con il gruppo del Coro, una delle attività pianificate alla fine del cammino sinodale 2022 dalla parrocchia San Cristoforo di Reggio Calabria. Durante la cena, alla quale hanno partecipato soprattutto i ragazzi delle scuole medie e superiori, inizia quasi per gioco il conteggio dell’anidride carbonica emessa dalla parrocchia nel corso di un anno solare: 593 chili. «La questione climatica ci sta molto a cuore – ha commentato Marco, 17 anni – la nostra città rischia di perdere il litorale costiero nel giro di pochi decenni, già adesso molte spiagge delle coste reggine sono quasi del tutto scomparse. La mia generazione avverte questo problema come urgente, per questo abbiamo iniziato a parlarne anche in parrocchia: abbiamo condiviso la nostra preoccupazione col parroco».
Da quella serata in pizzeria è scaturita una sinergia capace di coinvolgere tutta la comunità parrocchiale. Gli adolescenti hanno sensibilizzato i più adulti sulla questione climatica e hanno fatto capire loro che bisognava dare almeno un segnale, provando ad invertire la rotta. La comunità parrocchiale, in pieno spirito sinodale, ha accolto l’esigenza manifestata dai più giovani. Per “assorbire” le emissioni di anidride carbonica esiste una soluzione antica quanto “moderna”: piantare alberi. Quindi, grazie a una piattaforma agroforestale che si chiama Treedom, la parrocchia San Cristoforo ha piantato… una foresta. Per assorbire le emissioni del 2022 sono state piantati 23 alberi di Cacao in Camerun. Un gesto che, oltre a un impatto ambientale, genera anche un impatto sociale: grazie alla “foresta parrocchiale” lavoreranno alcuni contadini camerunensi. Ogni pianta di Cacao è costata 15 euro ed è stata “intitolata” al donatore che l’ha offerta: i giovani della parrocchia si sono fatti carico di seguire tutta la procedura. Durante il periodo di Natale si sono preoccupati di distribuire la lettera di adesione all’iniziativa, poi hanno raccolto le quote e i nominativi e, infine, hanno acquistato le piante sulla piattaforma. Adesso nella bacheca parrocchiale è affisso un bel certificato di Treedom che attesta il contributo parrocchiale all’assorbimento di anidride carbonica: una tonnellata. Un traguardo straordinario, che però è stato possibile grazie a tanto impegno da parte dei giovani: «Il passo più difficile – racconta Ilaria, 14 anni – è stato quello di convincere gli adulti ad aiutarci, abbiamo impiegato più di un mese per raccogliere tutte le adesioni necessarie: da parte degli adulti non c’è una grande attenzione alle tematiche ambientali, anzi c’è quasi un’indifferenza. Alla fine, però, grazie alla nostra insistenza siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo e lo ripeteremo ogni anno». Dalle ricerche su internet risulta che la parrocchia reggina sia la prima in Italia ad assorbire con ampio margine tutte le proprie emissioni di CO2.




Il leader della Cisl lancia la sfida per costruire “dal basso” un nuovo modello economico.

 

 

INTERVISTA AL SEGRETARIO GENERALE DELLA CISL

Di Francesco Riccardi (Avvenire 10 marzo 2023)

https://www.avvenire.it/economia/pagine/intervista-al-segretario-generale-della-cisl-quest

«Questa è la vera riforma democratica».

Sbarra: cambiamo il modello economico con centralità della persona, coinvolgimento, relazioni generative. «La partecipazione è la più grande riforma istituzionale verso una piena democrazia sociale, cosa di cui abbiamo enormemente bisogno per raccogliere le sfide di un’economia in transizione ». Il leader della Cisl lancia così la sfida per costruire “dal basso” un nuovo modello economico. Il dialogo con il governo gira a vuoto? «Deve decidere se vuole confrontarsi davvero». La settimana di 4 giorni? «Facciamo un accordo quadro con esecutivo e imprese, poi sperimentiamo»

 Segretario Sbarra, l’esecutivo Cisl ha deliberato ieri a Firenze la proposta di una legge di iniziativa popolare sulla partecipazione. Perché avete scelto questo tema?

È venuto il momento di concretizzare ciò che è presente nella nostra Costituzione all’articolo 46. A breve partiremo con la raccolta firme su un testo completo, solido, sostenibile e immediatamente applicabile sul coinvolgimento dei lavoratori alla gestione, ai risultati e alla organizzazione delle aziende. È una battaglia storica per la Cisl, frutto della nostra impostazione culturale e valoriale che affonda le radici anche nei riferimenti alla dottrina sociale della Chiesa. La partecipazione deve diventare un diritto fondamentale dei lavoratori, la strada per dare centralità alla persona e alla sua creatività, la leva per una nuova prospettiva di democrazia economica.

Non è una contraddizione per la Cisl, che da sempre privilegia la via contrattuale rispetto a quella legislativa, puntare su una norma?

Assolutamente no. La strada che abbiamo scelto non è quella di una imposizione legislativa, ma di un forte sostegno alla contrattazione con leve promozionali e incentivi di natura fiscale, nella convinzione che la partecipazione è possibile solo se passa dalle buone relazioni industriali. Dobbiamo estendere una cultura industriale che ha generato tante buone esperienze in tutti i settori e che può contribuire in modo fondamentale a rafforzare la crescita, i salari e la produttività, la formazione e l’innovazione di processo e prodotto, partendo dal protagonismo sociale del lavoro. Il nostro tessuto produttivo è molto eterogeneo. È auspicabile che siano il sindacato e le associazioni imprenditoriali ad individuare forme di coinvolgimento, scegliendole nel novero delle opportunità che la nostra proposta di legge vuole offrire ad ogni impresa. La partecipazione deve scaturire dal libero spazio negoziale e contrattuale; la legge può e deve agevolare questo percorso.

Quale tipo di partecipazione – organizzativa, economica, finanziaria – cercate in particolare di sostenere e promuovere?

Il primo obiettivo è quello di promuovere l’ingresso di rappresentanze dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di sorveglianza. I lavoratori hanno il diritto di concorrere e collaborare, come indicato dai costituenti, agli indirizzi e alla gestione delle proprie aziende, al rilancio degli investimenti opponendosi alle delocalizzazioni, esercitando quelle flessibilità che nei momenti di crisi aiutano a proteggere l’occupazione e che nei momenti di crescita operano una buona distribuzione della ricchezza. Il secondo punto è regolare la compartecipazione ai risultati dell’impresa e disciplinare l’azionariato diffuso, così da dare anche ai piccoli dipendenti azionisti adeguata rappresentanza e voce nelle scelte societarie. La terza esigenza riguarda il coinvolgimento nelle decisioni organizzative, per aumentare efficienza, adattività e innovazione di sistema. Pensiamo agli orari, alla produttività, al lavoro per obiettivi e in team. Quarto punto: riconoscere ai lavoratori e al sindacato una funzione consultiva a monte, e non a valle, delle decisioni più rilevanti per il futuro delle aziende.

Nel 2009 fu presentato un progetto di legge di promozione della partecipazione con un accordo addirittura bipartisan. Eppure il tentativo fallì. Né le forze politiche né quelle sociali sembrano volerlo mai per davvero… Oggi la prospettiva è diversa? Cgil e Uil sono in sintonia con voi su questo?

Quindici anni sono un’eternità: l’Italia non aveva ancora conosciuto gli effetti del Covid, della guerra in Europa, di una crisi energetica e di un’inflazione che corre a doppia cifra erodendo retribuzioni e risparmi di lavoratori e famiglie. Oggi penso che siamo tutti più consapevoli che dalle crisi di sistema si esce cooperando e remando tutti nella stessa direzione. Occorre fare ognuno la propria parte per promuovere la crescita della comunità nazionale nel segno della corresponsabilità. Significa mettere da parte l’antagonismo novecentesco ed imboccare il cammino di relazioni industriali responsabili e generative, che diano ai lavoratori un ruolo centrale nelle dinamiche aziendali. Ci auguriamo che anche Cgil e Uil insieme agli altri interlocutori sociali ed istituzionali vogliano unirsi in questo percorso per promuovere un’evoluzione del nostro modello di sviluppo.

Il tema della settimana lavorativa di 4 giorni è stato lanciato sia dai metalmeccanici Fim sia dalla Cgil che lo porrà tra i temi centrali dell’ormai prossimo congresso nazionale. Per la Cisl

è una priorità? E come arrivarci?

Diciamo intanto che la riduzione dell’orario di lavoro è un cavallo di battaglia della Cisl da più di 40 anni. È una opportunità fortemente connessa al tema della partecipazione che va raccolta senza demagogia e nel solco della contrattazione. L’obiettivo deve essere quello di elevare e redistribuire quote di produttività trasformandole in riduzione di orario a parità di salario. Dobbiamo capitalizzare le possibilità delle nuove tecnologie e di una organizzazione del lavoro più flessibile e partecipata, connettendo il tempo libero anche programmi di formazione perpetua. Serve un patto triangolare tra sindacato, imprese e governo che stimoli gli investimenti in tecnologia e gli accordi contrattuali di secondo livello anche attraverso adeguati sostegni fiscali. Noi facciamo una proposta: partiamo con la sperimentazione costruendo un accordo quadro con le imprese per consentire, su base volontaria, la settimana di 4 giorni in 100 aziende medie e grandi. Mettiamoci tutti alla prova su questo tema al di là degli slogan.

Intanto il dialogo con il governo sembra girare a vuoto si tanti temi: dal fisco alle pensioni alle politiche attive? O no?

Indubbiamente c’è un calo di tensione. Il Governo è stato distratto da altre questioni in queste settimane. Ora i nodi stanno venendo al pettine. L’esecutivo deve dire con chiarezza se vuole o meno stabilizzare e concretizzare il dialogo con le parti sociali. L’impressione è che qualcuno remi contro, dando alibi a chi non vuole costruire buone riforme condivise. Dobbiamo rilanciare nei prossimi giorni il confronto sui temi della crescita, del contrasto all’inflazione, dell’aumento di salari e pensioni, della riforma del fisco e del sistema pensionistico, di cui non si può solo parlare sui giornali.

Questo vale anche per la riforma del Reddito di cittadinanza?

Certo. Vale anche per il contrasto alla povertà, dove è necessario aumentare le risorse e aprire il confronto con le parti sociali sui cambiamenti del Reddito di cittadinanza. Misura che va salvaguardata tanto nel sostegno alle famiglie in condizione di fragilità quanto alla componente degli occupabili, con misure effettive di politica attiva per il lavoro e la formazione.

Un’ultima domanda. Che impressione le ha fatto vedere sul palco a Firenze Landini, Conte e la Schlein?

Eviterei di cogliere la provocazione della domanda. Dico invece che è stato giusto mobilitarsi contro ogni forma di violenza, per la qualità della scuola, la difesa dei valori della Costituzione. Il sindacato confederale è sempre stato un argine alle derive illiberali e neofasciste. Continueremo ad esserlo, difendendo principi che appartengono a tutti. Valori che promuovono la partecipazione di rappresentanze sociali autonome al rafforzamento della democrazia e alla costruzione del bene comune.

Francesco Riccardi

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IL LAVORO SFRUTTATO. COME CONTRASTARLO?
Video della Consulta pastorale sociale e del lavoro

Per vedere il VIDEO youtube collegarsi a Diocesi di Parma youtube

oppure cliccare su

https://www.youtube.com/watch?v=9dtCZADxkps&t=41s

 

 

Il servizio diocesano per la «pastorale sociale e del lavoro, pace, giustizia e custodia del creato» cerca di ispirarsi ai significativi indirizzi del Magistero della Chiesa, non ultimo la Esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco (2013) in riferimento, per esempio, al capitolo secondo: «No a un’economia dell’esclusione, alla nuova idolatria del denaro, all’inequità che genera violenza…», accogliendo e diffondendo ciò che Papa Francesco chiama le “Sfide dell’inculturazione della fede”. Ovviamente il nostro servizio è complementare agli altri organismi pastorali diocesani e alle iniziative culturali e sociali del territorio.

Per quest’anno abbiamo scelto le problematiche lavorative preparando tre Webinar di 1 ora ciascuno: il lavoro sfruttato, il lavoro problematico, il lavoro virtuoso.

Anche nella VEGLIA DEL LAVORO – che celebreremo nella parrocchia delle Ss.Stimmate il 27 aprile –  mediteremo: LAVORO. BENEDIZIONE O MALEDIZIONE?

  1. Ogni webinar dedica mezz’ora a far affiorare problemi di alcuni aspetti del lavoro che possono incidere negativamente sulla vita delle persone o della società
  2. e dedicando la seconda mezz’ora a evidenziare aspetti migliorativi o buone pratiche già in atto.

Il vescovo avrà sempre una parte importante di riflessione e indirizzo, qualificando così le nostre presentazioni come servizio esplicitamente pastorale che diventa un valore aggiunto a tutta la primaria fatica catechistica e liturgica dei parroci e operatori pastorali.

 Il primo webinar nasce con il contributo di G. Cristini, A. Micheli, M. Rampini, F. Marconi. M. Deriu e le testimonianze di lavoratori rider e di Evelyn Pereira fondatrice della Piattaforma TAKEVE.COM

Il nostro webinar verrà trasmesso  Giovedi 2 marzo ore 20,50 in diretta streaming sul canale YOUTUBE  del sito della Diocesi e sul canale di Giovanni Paolo TV. Sarà sempre consultabile sulla sezione VIDEO del sito della Diocesi e sul profilo FACEBOOK della Diocesi di Parma 2.0.

La novità di quest’anno.

Dopo il lancio pubblico e ufficiale dei video youtube, prepareremo una copia in formato ridotto (video pillola) chiedendo alle parrocchie che lo vorranno di incontrarci per ascoltare commenti e proposte in una forma di ascolto sinodale.

 




Il tempo complicato del lavoro
Cinzia Arena
da AVVENIRE

Orari pazzi, straordinari gratis. Il tempo complicato del lavoro.
Cinzia Arena (Avvenire 11 febbraio 2023)

Da uno studio che ha coinvolto 45mila dipendenti emergono una serie di contraddizioni. Il 16% non viene pagato per gli extra e sta al computer anche la sera e nel weekend.

Lavoro straordinario obbligatorio e gratuito, con impegni che sconfinano nel week-end e nelle ore notturne. Una sorta di “tassa” a carico del dipendente, paradossalmente più vessato anche tempi di smartworking. Sono preoccupanti i dati che emergono da uno studio dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche diffuso ieri. Il 60% dei lavoratori dipendenti fa gli straordinari ma in un caso su quattro, a conti fatti nel 15,9% dei casi, non riceve una retribuzione aggiuntiva. Uno su due è costretto a lavorare in orari definiti “antisociali”, ovvero la notte, il sabato e nei giorni festivi.
Secondo l’indagine Inapp Plus ( Participation, Labour, Unemployment Survey), che ha coinvolto 45mila individui dai 18 ai 74 anni ci sono ampie differenze di genere: fanno gli straordinari il 64,7% dei dipendenti uomini contro il 54,1% delle donne con motivazioni legate nella maggior parte dei casi (51,2%) a carichi di lavoro eccessivi e carenza di personale. Soltanto il 18,4% degli intervistati dichiara di farli per guadagnare di più. C’è poi un 8,1% che afferma di non potersi rifiutare. L’indagine sottolinea che il 18,6% dei dipendenti lavora sia di notte che nei festivi (circa 3,2 milioni di persone), il 9,1% anche il sabato e i festivi (ma non la notte), mentre il 19,3% anche la notte (ma non di sabato o festivi). Gli uomini sperimentano di sia il solo lavoro notturno, sia quello nei festivi, le donne invece sono impegnate più il sabato o nei festivi.
«Spesso la domanda di lavoro richiede disponibilità che confliggono con le esigenze di vita – sottolinea il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda –. È vero che per alcuni settori economici, come il commercio o la sanità, e per alcune professioni, come quelle dei servizi, il lavoro notturno o nei festivi è connaturato alla natura della prestazione, ma è anche vero che questa modalità sembra diffondersi anche dove non è strettamente necessaria. È urgente avviare una seria riflessione sull’organizzazione e articolazione del tempo di lavoro, ma anche sulla sua quantità e distribuzione».
Dall’indagine emerge infatti come il part-time involontario, che riguarda circa 900mila persone in Italia, coincida spesso con orari di lavoro scomodi, quasi esclusivamente nel weekend e di sera, senza considerare i tanti lavoratori autonomi i cui tempi sono dettati dalle esigenze dei clienti.
La sottoccupazione è un fenomeno che colpisce soprattutto le donne, i lavoratori senza diploma e quelli impiegati in aziende di piccole piccolissime dimensioni.
Sempre secondo il Rapporto, “una certa rigidità si registra anche sul fronte dei permessi”: il 21,3% degli occupati (circa 4,7 milioni) dichiara di non poter o non volere prendere permessi per motivi personali, il 54,8% può prenderli e il restante 23,9% può modulare l’impegno lavorativo. Gli uomini hanno una maggiore autonomia, mentre le donne subiscono maggiori pressioni.
« Mentre altrove si discute e si avviano sperimentazioni di orario ridotto o settimana corta – puntualizza Fadda in Italia restano da superare vecchi modelli che incidono pesantemente sui tempi di vita. Il mondo del lavoro è sempre più digitale, veloce, in costante evoluzione ma per gran parte dei lavoratori tradizionali restano ancora tanti problemi irrisolti sul piano della distribuzione degli orari di lavoro ». L’indagine Inapp evidenzia la necessità di soluzioni organizzative equilibrate in termini di turnazioni e di alleggerimento dei vincoli di orario che consentano un bilanciamento sostenibile tra lavoro e vita privata.




I giovani e il lavoro di qualità
Antonio Polito

I giovani e il lavoro di qualità.
Antonio Polito (Corriere della Sera, 7 febbraio 2023).

A Brescia tra gli imprenditori gira una storiella. Dice che mentre un tempo i colloqui per le assunzioni si concludevano con un “grazie, le faremo sapere” dell’azienda al candidato, ora finiscono con un “grazie, vi farò sapere” del candidato all’azienda e il presidente della Camera di Commercio, Roberto Saccone, mi assicura che non è una battuta: sempre più spesso le cose vanno proprio così. Un po’ in tutt’Italia le imprese lamentano una crescente carenza di manodopera. L’aneddotica è ricca e non risparmia neanche le aree più industriose e le comunità più permeate da un’antica cultura del lavoro, come appunto Brescia e la sua provincia (non a caso la prossima Futura Expo delle imprese bresciane metterà questo tema tra gli obiettivi di sostenibilità, al pari di energia e ambiente).
Nelle rilevazioni statistiche la carestia di lavoro viene indicata sempre più in alto tra i fattori di rischio per la ripresa e la crescita. Per quanto paradossale, il fenomeno ormai convive con livelli ancora elevati di disoccupazione, soprattutto giovanile. E seppure siamo ben distanti dalle dimensioni che ha assunto negli USA, durante e dopo il Covid, la cosiddetta “Great Resignation” (o “Big Quit”) anche in Italia abbiamo toccato una cifra record nell’anno appena finito: più di un milione e seicentomila persone hanno lasciato volontariamente il lavoro nei primi nove mesi del 2022, e il trend è in continua crescita. Ci sono ovviamente numerosi e importanti fattori sociali dietro questa specie di sciopero del lavoro, e il Corriere li ha più volte analizzati. Tra gli altri, un sistema scolastico che, carente sotto molti aspetti formativi, lo è ancora di più per quanto riguarda l’orientamento, la capacità cioè di indirizzare i giovani verso gli studi a loro più consoni e i lavori più richiesti. Questo crea spesso un mismatch[1] tra le esigenze delle imprese e le abilità professionali acquisite dai futuri lavoratori. Maggiore fortuna dovrebbero per esempio avere, in un paese manifatturiero come il nostro, gli Its (istituti tecnici superiori), scuole di eccellenza tecnologica post-diploma. Ma poiché il fenomeno riguarda ogni tipo di lavoro, non solo quelli qualificati ma anche i “generici”, bisogna prendere atto che ha radici più profonde. È probabilmente in corso una vera e propria rivoluzione culturale intorno al “valore-lavoro”. Molti l’attribuiscono all’importanza che oggi i giovani danno alla qualità della vita: sono sempre meno disposti a sacrificarla sull’altare del lavoro. È una tesi che implicitamente accusa i nostri figli di non aver abbastanza voglia di lavorare. Ma il rilievo che ha assunto l’aspirazione individuale a realizzarsi, la voglia dei ragazzi di perseguire un progetto di vita soddisfacente e piena, funziona anche nell’altro senso: li spinge cioè a dare invece una grande importanza al lavoro che faranno, alla sua dignità e remunerazione, a non arrendersi a ricatti e precarietà, bassi salari e orari lunghi, dequalificazione professionale o addirittura abusi. E questo è un bene: la qualità del lavoro è oggi considerata parte integrante della qualità della vita.
I più anziani sono soliti dire: “ai miei tempi si cercava un lavoro”; oggi, una o due generazioni dopo, è comprensibile che giovani scolarizzati ed esigenti cerchino qualcosa di più di un lavoro purchessia, o che chiedano di più al lavoro. Sono cambiamenti che stanno producendo effetti perfino sulla politica: la crisi delle sinistre laburiste e riformiste si spiega anche così e va a vantaggio di movimenti populisti che chiedono allo Stato di sostituire il salario come principale fonte di reddito o addirittura di movimenti antagonisti che rifiutano tout court il lavoro dipendente come forma di sfruttamento. D’altra parte il lungo apprendistato alla flessibilità è stato alla fine interiorizzato dalle giovani generazioni; avendo ormai capito che un lavoro non è per sempre, sanno anche che si può cambiarlo frequentemente per scelta, oltre che per costrizione. E infatti insieme alle dimissioni volontarie crescono le nuove attivazioni di contratti, il che significa un flusso dinamico da un’occupazione all’altra, un forte turn-over. A questo si aggiunge poi la rivoluzione tecnologica: l’esperienza dello smart working durante il Covid ha convinto molti che scegliere il lavoro a sé più adatto, aggiustarne gli orari alle esigenze di vita e familiare, ridurne lo stress e il costo del pendolarismo, è oggi possibile.
Queste sono tendenze da cui non torneremo indietro. Non c’è un “prima” che possa essere restaurato sulla base di un appello ai giovani a tornare all’etica del lavoro dei genitori. È dunque giunto il momento di provare a rendere il lavoro più attraente. Innanzitutto dal punto di vista del salario: lo Stato dovrebbe fare piazza pulita di questi anni di “bonus” trasversali, che vanno a chi ne ha bisogno ma anche a chi no, e concentrare il massimo della sua potenza di fuoco nel ridurre la tassazione a carico del lavoro, per mettere più soldi nelle buste paga. Ma serve un cambiamento anche da parte delle imprese: per accrescere la parte creativa, le opportunità di partecipazione, la flessibilità oraria e il livello di autonomia nei lavori che esse offrono ai giovani. La tecnologia spesso lo consente. Le vecchie abitudini spesso le impediscono.
Tutte queste osservazioni non possono però oscurare il punto cruciale: la scarsità della materia prima. Prima ancora dei lavoratori mancano infatti i giovani. Nel 1964, al culmine di quel baby boom le cui coorti stanno ora andando in pensione, nacquero in Italia più di un milione di bambini. I neonati del 2000, che hanno oggi vent’anni e si affacciano al mercato del lavoro, furono poco più della metà. L’anno scorso sono nati in meno di 400.000 bambini. Di questo passo è inevitabile una carestia di forza lavoro, che può cambiare il destino di un grande paese ricco ed esportatore come l’Italia. Forse per la prima volta cominciamo a toccare con mano le conseguenze antropologiche dell’inverno demografico.


[1] Disallineamento (ndr)