La morte della Parrocchia
Racconto

La morte della Parrocchia

(Bollettino salesiano ottobre 2023)

Sui muri e sul giornale della città comparve uno strano annuncio funebre: «Con profondo dolore annunciamo la morte della parrocchia di Santa Eufrosia. I funerali avranno luogo domenica alle ore 11».
La domenica, naturalmente, la chie­sa di Santa Eufrosia era affollata come non mai. Non c’era più un solo posto libero, neanche in piedi. Da­vanti all’altare c’era il catafalco con una bara di legno scuro. Il parroco pronunciò un semplice discorso: «Non credo che la nostra parrocchia possa rianimarsi e risorgere, ma dal momento che siamo quasi tutti qui voglio fare un estremo tentati­vo. Vorrei che passaste tutti quanti davanti alla bara, a dare un’ultima occhiata alla defunta. Sfilerete in fila indiana, uno alla volta e dopo aver guardato il cadavere uscirete dalla porta della sacrestia. Dopo, chi vorrà potrà rientrare dal portone per la Messa».
Il parroco aprì la cassa. Tutti si chie­devano: «Chi ci sarà mai dentro? Chi è veramente il morto?». Cominciarono a sfilare lentamente. Ognuno si affacciava alla bara e guardava dentro, poi usciva dalla chiesa. Uscivano tutti silenziosi, un po’ confusi.
Perché tutti coloro che volevano vedere il cadavere della parrocchia di Santa Eufrosia e guardavano nella bara, vedevano, in uno specchio appoggiato sul fondo della cassa, il proprio volto.


«Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo». (1 Pietro 2,5)




il ragazzo e i chiodi
B.Ferrero

I CHIODI
(Bruno Ferrero)

C’era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe. Un giorno, suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò trentotto chiodi.
Col passare del tempo, comprese che era più facile controllare l’ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera disse al padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli rispose: «È molto bello quel che mi dici; ora, togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con qualcuno».
Dopo un po’ di tempo, il ragazzo poté dire al padre che aveva tolto tutti i chiodi.
Allora il padre lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: «Figlio mio, questo è molto bello; però, guarda: la palizzata è piena di buchi; il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all’ira, provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono».

Tra perdono e memoria.




Racconto
IL FALCO PIGRO

IL FALCO PIGRO


(Bollettino salesiano, febbraio 2023)

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a conse­gnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.
«E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli il cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco. Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chie­deva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l’autore di questo miracolo» ordinò. Poco dopo gli  presentarono un giovane contadino.
«Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?» gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare». 

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.




Racconto
DIO NEL POZZO

Dio nel pozzo
(Bollettino salesiano, settembre 2022)

Una comitiva di zingari si fermò al pozzo di un cascinale.
Un bambino di circa cinque anni uscì nel cortile, incuriosito.
Uno zingaro in particolare lo affascinava, un pezzo d’uomo che aveva attinto un secchio d’acqua dal pozzo e stava lì, a gambe larghe, bevendo. Un filo d’acqua gli scorreva giù per la barba corta e folta, e con le mani forti si reggeva il grosso secchio di legno alle labbra come se fosse stata una tazza.
Finito di bere, si tolse la fascia di lana multi­colore annodata alla vita e con quella si asciugò la faccia. Poi si chinò e scrutò in fondo al pozzo.
Incu­riosito, il bambino si alzò in punta di piedi per cercare di vedere oltre l’orlo del pozzo che cosa stesse guardando lo zingaro. Il gigante si accorse del bambino e sorri­dendo lo sollevò da terra tra le braccia. «Sai chi ci sta laggiù?», chiese. Il bambino scosse il capo.
«Ci sta Dio – disse lo zingaro – Guarda!», e tenne il bambino sull’orlo del pozzo.
Là, nell’acqua ferma come uno specchio, il bambino vide riflessa la propria imma­gine: «Ma quello sono io!».
«Ah!», esclamò lo zingaro, rimettendolo con dolcezza a terra. «Ora sai dove sta Dio».




Racconto
L’ABETE SOLITARIO di B. Ferrero

 L’abete solitario. di Bruno Ferrero
“C’è ancora qualcuno che danza” Ed. ELLEDICI

L’ululato del lupo corse come un brivido lungo il fianco della montagna. Un cervo, che stava brucando l’erba molle di rugiada, si spaventò e partì di gran carriera. Le imponenti corna del cervo sfioravano e scuotevano i rami. Una pigna matura si staccò da un ramo di abete, rotolò giù per il costone, rimbalzò su una roccia sporgente e finì con un tonfo in un avvallamento umido e ben esposto. Una manciata di semi venne sbalzata fuori dal suo comodo alloggio e si sparse sul terreno.

«Urrà! E’ venuto il nostro momento. Ce l’abbiamo fatta!» gridarono i semi all’unisono.

Cominciarono a germogliare, ma scoprirono ben presto che l’essere in tanti provocava qualche difficoltà.

«Fatti un po’ più in là, per favore!» diceva uno. E l’altro: «Attento! Mi hai messo il germoglio in un occhio!». E così via. Comunque, urtandosi e sgomitando, tutti i semi si trovarono un posticino per germogliare. Tutti meno uno. Un seme bello e robusto dichiarò chiaramente le sue intenzioni: «Mi sembrate un branco di sciocchi! Pigiati come siete, vi rubate il terreno l’un con l’altro e crescerete rachitici e stentati. Non voglio aver niente a che fare con voi. Da solo potrò diventare un albero grande, nobile e imponente». Con l’aiuto della pioggia e del vento, il seme riuscì ad allontanarsi dai suoi fratelli e piantò le radici, solitario, sul crinale della montagna. Dopo qualche stagione, grazie alla neve, alla pioggia e al sole divenne un magnifico giovane abete che dominava la valletta in cui i suoi fratelli erano invece diventati un bosco. Certo, i problemi non mancavano. «Stai fermo con quei rami! Mi fai cadere gli aghi» diceva uno. E l’altro: «E tu mi rubi il sole! Fatti più in là».

L’abete solitario li guardava ironico e superbo. Lui aveva tutto il sole e lo spazio che desiderava. Ma una notte di fine agosto, le stelle e la luna sparirono sotto una cavalcata di nuvoloni minacciosi finché sulla montagna si abbatté una bufera devastante. Gli abeti del bosco si strinsero l’uno accanto all’altro, proteggendosi e sostenendosi a vicenda.

Quando la tempesta si placò gli abeti sfiniti si scoprirono salvi. Tutti meno uno. Del superbo abete solitario non restava che un mozzicone scheggiato e malinconico sul crinale della montagna.




Racconto
Il rito degli indiani del Nord America

Il rito degli indiani del Nord America

(da Bollettino salesiano, aprile 2022)

Gli Indiani Cherokee del Nord America hanno un magnifico “rito” per significare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Quando un ragazzo compie gli anni prescritti per dimostrarsi adulto, il padre lo porta nel folto della foresta e gli benda strettamente gli occhi, poi lo lascia da solo seduto su un tronco.

Il ragazzo deve stare sul tronco tutta la notte e non togliersi la benda fino al mattino.

Non può chiedere aiuto a nessuno. Se resiste, al sorgere del sole sarà proclamato uomo. Di solito, la notte è paurosa: ci sono ru­mori strani, sibili e scricchiolii, animali che strisciano, lupi che ululano, fruscii e grugniti, combat­timenti feroci tra i cespugli.

Il ragazzo è armato solo del suo corag­gio. Stringe i pugni e resiste, seduto sul tronco, con il cuore che batte all’impaz­zata.

Finalmente, dopo quella notte orribile, il sole appare e il ragazzo si toglie la benda.

E allora scopre suo padre poco lontano, seduto su un tronco accanto al suo.

Il padre non se n’è andato, è rimasto tutta la notte in silenzio, per proteggere il figlio da ogni possibi­le pericolo, senza che il ragazzo potesse accorgersene.

 

Quando il buon Mosè chiese a Dio il suo nome, Dio rispose semplicemente: «Il mio nome è “Io sono qui». «Non avere mai paura della notte» dice Dio. «Io sono qui, accanto a te»




Racconto. IL GRILLO E LA MONETA

IL GRILLO E LA MONETA
(Bollettino salesiano. Giugno 2019)
Un saggio indiano aveva un caro amico che abitava a Mi­lano. Si erano conosciuti in India, dove l’italiano era an­dato con la famiglia per fare un viaggio turistico. L’india­no aveva fatto da guida agli italiani, portandoli a esplorare gli angoli più caratteristici della sua patria. Riconoscente, l’amico milanese aveva invitato l’indiano a casa sua. Voleva ricambiare il favore e fargli conoscere la sua città. L’indiano cedette all’insistenza dell’amico italiano e un bel giorno sbarcò da un aereo alla Malpensa.
Il giorno dopo, il milanese e l’india­no passeggiavano per il centro della città. A un tratto, in piazza San Babila, l’indiano si fermò e disse: «Senti anche tu quel che sento io?».
Il milanese, un po’ sconcertato, tese le orecchie più che poteva ma ammise di non sentire nient’altro che il gran rumore del traffico cittadino.
«Lì vicino c’è un grillo che canta», continuò, sicuro di sé, l’indiano.
«Ti sbagli», replicò il milanese. «io sento solo il chiasso della città. E poi, figurati se ci sono grilli da que­ste parti».
«Non mi sbaglio. Sento il canto di un grillo», ribatté l’indiano e de­cisamente si mise a cercare tra le foglie di alcuni alberelli striminziti. Dopo un po’ indicò all’amico che lo osservava scettico un piccolo insetto, uno splendido grillo canterino.
«Hai visto che c’era un grillo?», disse l’indiano.
«È vero», ammise il milanese. «Voi indiani avete l’udito molto più acuto di noi bianchi… ».
«Questa volta ti sbagli tu», sorrise il saggio indiano. «Stai attento … ».
L’indiano tirò fuori dalla tasca una monetina e facendo finta di niente la lasciò cadere sul marciapiede. Immediatamente quattro o cinque persone si voltarono a guardare.
«Hai visto?», spiegò l’indiano. «Questa monetina ha fatto un tintinnio più esile e fievole del trillare del grillo. Eppure hai notato quanti bianchi lo hanno udito?».