Cipputi resiste, produce tanto e sciopera poco
Gloria Riva

Cipputi resiste, produce tanto e sciopera poco
Gloria Riva (L’Espresso 30 aprile 2023)

 Niente più catene di montaggio e tute blu. Oggi l’operaio metalmeccanico in camice bianco lavora al computer. Rappresenta una buona fetta di Pil. Ma la coscienza di classe è scomparsa.

 Giuseppe Scudiero aveva vent’anni quando fu arruolato alla catena di montaggio di Pomi­gliano d’Arco. Era il ’95, all’epoca si assem­blava l’Alfa 147. Ancora se la ricorda la schiena rotta a fine turno, «perché la linea era a 40 centimetri da terra e bisognava chinarsi per vestire la scocca di fili elettrici, sedili, plancia e così via». Lo chiamavano lo sta­bilimento riottoso, visto che nove auto su dieci usciva­no da lì con almeno un difetto. Si diceva che le tute blu lo facessero per sfregio. Le cose migliorarono quando l’al­lora amministratore delegato, Sergio Mar­chionne, fece alzare di un metro la linea per far camminare l’auto ad altezza d’uomo e portò la tecnologia alla catena di montag­gio: «Ora se qualcuno dimentica di instal­lare i freni sulla Panda, il computer blocca tutta la linea. È stata una rivoluzione», l’ulti­ma grande rivoluzione, perché «con Stellan­tis stiamo facendo passi indietro», dice Giu­seppe, che oggi di anni ne ha 38 e fa parte di una nuova generazione di tute blu, legata alla fabbrica che dà lavoro: «Da queste par­ti 1.700 euro al mese sono una rarità». I tem­pi delle grandi lotte sindacali sono lontani, forse perché si è rimasti in pochi: «A Pomi­gliano non si assume più», anzi, nell’ultimo anno se ne sono andati in 200 e i dipenden­ti sono 4.200: «Poi c’è un grosso gruppo en­trato nell’89», che scruta la pensione all’oriz­zonte e battaglia per inserire il lavoro di linea fra i mestieri usuranti per potersene andare prima, quasi uno sconto di pena. Vista da quaggiù, la classe operaia sembra un animale in via d’estinzione, ma allargando lo sguardo alla miriade di piccole e medie imprese italiane è chiaro che il lavoro operaio va tutelato in tutti i modi: la metalmecca­nica dà lavoro a 1,6 milioni di persone – è il settore che occupa più operai in assoluto -, produce 110 miliardi di euro di ricchezza (8 per cento del Pil), esporta beni per 200 mi­liardi (ovvero la metà dell’export italiano) e così facendo controbilancia la strutturale dipendenza estera energetica e agroalimen­tare. Detto altrimenti, senza Cipputi l’Italia potrebbe benissimo alzare bandiera bianca. Ed è quindi giusto ricordarlo ora, a ridosso del Primo Maggio, la festa dei lavoratori, che però in piazza non vanno più.
«È colpa della frammentazione del lavo­ro», spiega il sindacalista della Fiom di Padova, Loris Scarpa, che ci risponde al telefono mentre con la sua auto si sposta da un’assemblea all’altra: «Una volta alle riu­nioni sindacali partecipavano in mille, ades­so per interfacciarmi con cento persone inanello sei, sette assemblee». Loris descri­ve un nuovo homo metalmeccanicus iden­tificabile con l’informatico «che grazie allo smartworking si è liberato dall’intollerabile giogo del capo azienda», con gli addetti alla posa della fibra ottica «che mal digeriscono il sempre più stretto controllo da remoto», con l’operaio specializzato che governa una macchina, un tornio, una fresa, dando ordini a un computer e, a fine turno, esce dall’offici­na senza macchie di grasso, con il fisico in­tegro. Il risultato, però, è una parcellizzazio­ne della classe operaia e una fatica immane per il sindacalista moderno, lasciato solo a menare fendenti al vento, come un Don Chi­sciotte 4.0: «Siamo passati da una moltitu­dine unita, che votava a sinistra e scioperava in massa, a una platea operaia disomogenea, che stenta a riconoscersi in una rivendica­zione comune e non va più neanche a votare, perché ha capito che da destra a sinistra il lavoro non è più all’ordine del giorno». Ma qualcuno ci sarà pur andato alle urne: «E al­lora ha votato Meloni. Ma il punto è un al­tro», continua Scarpa: «Oggi è diventato dif­ficile lottare anche quando a rischio ci sono i posti di lavoro. Non per altro, ma perché manca proprio l’avversario». Scarpa si riferisce alla scomparsa degli imprenditori – altra specie in via d’estinzione – sostituiti dai fondi d’investimento che hanno conquistato l’a­zionariato e se ne fregano della restituzione sociale. Loro, i fondi, a fine anno guardano al risultato finanziario: «E se i conti non tornano chiudono e se ne vanno». Ma anche dove il padrone c’è, non è faci­le battagliare e vincere: «Negli ultimi tre anni la velocità di crescita dei profitti è cinque vol­te superiore a quella del costo del lavoro. Le contrattazioni aziendali sono in salita e otte­niamo aumenti salariali con il contagocce», racconta Simone Vecchi della Fiom di Reg­gio Emilia. Per di più l’inflazione ha causato una perdita del sette per cen­to dei salari.
Le rivendicazioni dei moder­ni metalmeccanici vanno an­che al di là dei quattrini. A Bo­logna, ad esempio, anche le tute blu vogliono la settimana cor­ta di quattro giorni. Lo racconta Simone Selmi, della Fiom, che smonta il mito dell’assenza di giovani nel­le officine: «Laddove il lavoro è qualificato e la paga buona, l’età media è sotto i 40 anni e questa generazione rivendica il diritto ad avere più tempo per sé. Alcune imprese sono sufficientemente tecnologizzate e struttura­te per garantire riduzioni di orario a parità di paga, ma per le altre serve un ragionamen­to complessivo con il governo, con i ministe­ri competenti, con le-imprese per ridisegna­re l’intero sistema produttivo e industriale».
La tecnologia sta dando una mano a ri­durre i carichi di fatica, ma in alcuni casi crea distorsioni: prendiamo il caso di Ima, Coesia e Marchesini, i leader mondiali di produzione di macchine per il packaging. In queste tre fabbriche emiliane gli operai pro­ducono i macchinari per confezionare cibi, farmaci, tabacchi e così via. Se prima della pandemia una grossa fetta del lavoro si svol­geva in trasferta – si prendeva un aereo e si andava dal cliente per montare i macchina­ri e poi ci si imbarcava nuovamente per ag­giornare o aggiustare gli stessi -, con sem­pre maggiore frequenza gli operai riescono a fare una buona parte dello stesso lavoro da remoto, indossando anche dispositivi di re­altà aumentata. Il rovescio della medaglia è che la trasferta fisica frutta stipendi oltre i quattromila euro al mese, mentre quella da remoto quasi nulla: «È un tema di cui discu­tere», risponde Simone Selmi.
La tecnologia, puntualizza Ferdinando Uliano della Fim, è servita ad aumentare l’intensità del lavoro: «L’iniezione di robotica, automazione indu­striale e digitalizzazione dei sistemi ha incre­mentato la produttività dei metalmeccanici di 15 punti negli ultimi dieci anni, un’eccezione nel panorama nazionale di produtti­vità bloccata. Questo scarto positivo deriva anche da un massiccio ricorso al lavoro su turni, praticato con sempre maggiore fre­quenza». Quindi il lavoro si è fatto più avan­zato, tecnologico, ma anche più serrato, tan­to che una delle maggiori criticità lamentate dagli stessi operai è lo stress e il ritmo trop­po intenso. Questo anche perché le tute blu sono troppo poche per stare al passo con la costante espansione del settore manifattu­riero. Secondo l’ultima indagine Excelsior Unioncamere le imprese metalmeccaniche sarebbero pronte ad assumere entro giugno 200mila operai specializzati, per lo più fon­ditori, saldatori, montatori di carpenteria metallica, manutentori di macchine e attrez­zature elettriche ed elettroniche. «Il proble­ma è che il 71 per cento delle nostre aziende non trova quel personale», risponde Ste­fano Franchi, direttore generale di Feder­meccanica, che continua: «Nell’immagina­rio collettivo il lavoro dell’operaio è rimasto quello di cinquant’anni fa, un mestiere fati­coso, sporco, pericoloso, poco entusiasman­te, scarsamente remunerato. In realtà l’ope­raio d’oggi non è più mano-d’opera, bensì “mente-d’opera”, con uno ridotto impe­gno fisico e un maggior compito mentale. Si chiedono competenze informatiche, digitali, tecniche. È necessario un diploma, serve una formazione costante, c’è bisogno di capaci­tà relazionali, problem solving, competenze trasversali. Noi stessi, come federazione, ci siamo attrezzati per creare i corsi di forma­zione (che dovrebbero stare in capo alle poli­tiche attive) per riqualificare persone disoc­cupate e inoccupate. E sempre noi lavoriamo con i giovani, e soprattutto con le giova­ni, per convincerli a diplomarsi nelle scuole professionali e negli istituti tecnici, spiegan­do loro che il lavoro dell’operaio specializza­to è di qualità». E la busta paga? «Negli anni ’80 il 35 per cento dei dipendenti della me­talmeccanica era inquadrato al terzo livello (il meno qualificato), oggi ci sta solo 1’11 per cento. Questo dimostra che l’evoluzione c’è stata e continua a esserci».
Veniamo alle cifre: i metalmeccani­ci meno qualificati hanno una retribuzione lorda annua di 25mila euro, mentre la stra­grande maggioranza guadagna 32mila euro. Nel 96 per cento dei casi ha un contratto a tempo indeterminato, solo il cinque per cen­to è part-time, sette su dieci sono uomini, il 60 per cento ha meno di 50 anni (un quarto è under 34), il 72 per cento ha almeno il diplo­ma, solo il 30 per cento fa un lavoro manua­le, nel 73 per cento dei casi risiede al Nord. E allora perché i giovani sono così sciocchi da non sognare un futuro da tuta blu? Forse perché ancora troppo spesso il qualificato lavoro operaio viene svilito da una classe po­litica che ignora cosa sia il lavoro tout courte da una classe dirigente altrettanto inconsa­pevole. Un esempio? A marzo, Lucia Morselli, amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva, ha inserito una sdraio e un sole nel logo della comuni­cazione ufficiale di proroga della cassa inte­grazione straordinaria, come a dire che l’en­nesimo rinnovo dell’ammortizzatore sociale, che decurta il salario del 40 per cento, è da incassare come una bella vacanza. «Non vo­gliamo andare al mare. Vogliamo lavorare», ha risposto l’Rsu della Uilm, Gennaro Oli­va che, con il suo diploma di perito elettro­tecnico, da giovanissimo è stato messo su un piano di colata continua dell’Ilva per riparare l’impianto difetto­so. All’epoca si era domandato si è domandato: «Possibile che esi­stano luoghi così?». Eppure ha sistemato l’impianto e ha continuato a farlo, finché 12 anni fa l’azienda è finita in crisi, ed è sta­ta dimenticata da otto governi e altrettanti ministri dello Sviluppo del Lavo­ro. Basta un caso negativo come Ilva per fare ombra a storie d’eccellenza come la LFoun­dry di Avezzano, dove 1500 metalmeccanici in camice bianco – costantemente formati e altamente qualificati – creano i semicondut­tori per i sensori delle automobili e i sistemi automatizzati montati ovunque. «Si lavora a ciclo continuo, in camera bianca, più simile a una sala operatoria che a un’officina. È fisicamente stancante», dice la metalmeccanica Alessandra Malandra, che continua: «Ma è entusiasmante, perché c’è la percezione di essere dalla parte giusta della storia, di fare un mestiere che ha un futuro ed è utile alla crescita del Paese».