Da Bollate a Torino un carcere utile è possibile
F. Gianfrotta (ROCCA 15/09/22)

Da Bollate a Torino un carcere utile è possibile.

Francesco Gianfrotta[1] (ROCCA 15 settembre 2022)

C ‘è un destino che accompagna il carcere: la scarsa visibilità, salvi i casi di emergenze. Lo ribadisce la neo-direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero, nel li­bro Senza sbarre, scritto con la giornalista Serena Uccello: «Dei molti luoghi che determinano la nostra condizione di cit­tadini abbiamo esperienza diretta. Della scuo­la, degli ospedali, degli uffici pubblici. Il car­cere, invece, è un luogo che non ha apparte­nenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione». Si obietterà che la spiegazione è semplice: si tratta di un luogo destinato ai disonesti o pre­sunti tali, tenuti lontani – per legge – dal re­sto della società. Eppure la letteratura sul carcere, davvero abbondante, ci racconta di una complessità che nessun autore nascon­de o ridimensiona e che, perciò, dovrebbe indurci, in quanto cittadini, a saperne di più, senza rimozioni: operate invece da chi non vuole fare i conti con questioni difficili, che chiamano in causa le idee che ciascuno di noi ha sulla giustizia penale, sulla sicurezza, sugli obiettivi che l’intero sistema penale do­vrebbe realizzare: non in un invisibile futu­ro, di là da venire, ma qui e ora. Per fermarci a Torino, nuova sede operativa della dotto­ressa Buccoliero, ad esempio, si tratta di ri­generare ( come – stando alle cronache re­centi – si è già iniziato a fare per il lavoro dei detenuti) un insieme degradato, a lungo di­stintosi per merito dei suoi operatori, risul­tati capaci, a partire dall’allora direttore Pie­tro Buffa, di costruire realtà (di studio, di lavoro, di formazione) coerenti con l’obietti­vo della funzione rieducativa della pena, e non permeate da quella disperazione che spesso induce il detenuto a gesti autolesivi anche estremi ( questi ultimi non a caso a lun­go non verificatisi a Torino). Una ragione di più per tornare sull’argomento, non limitan­dosi a ragionare sul caso Torino, ma guardan­do a tutti gli istituti di pena.
L’opportunità di ripensarsi.
Leggendo Senza sbarre rinasce la speranza. Nel curriculum di Cosima Buccoliero spicca la direzione del carcere di Bollate, dal 2000 modello di istituto, destinato a dete­nuti non classificati in una delle varie cate­gorie di pericolosità, e organizzato per as­sicurare a chi vi è ristretto occasioni per ripensare alle proprie scelte di vita e modi­ficarle nel futuro. Un Ministro avrebbe voluto utilizzarlo come serbatoio per lo sfol­lamento del carcere milanese di San Vitto­re. Per fortuna prevalsero altre opzioni: quella visione che fa pensare alla direttrice che il cambio di direzione non nuocerà al progetto che aveva ispirato le esperienze realizzate e che «Bollate … ha i tratti del1′ esempio che può essere replicato». È un punto centrale, questo: che non rileva solo per il carcere di Torino, ma potrà incidere sul futuro dell’intero sistema penitenzia­rio. Il carcere di Bollate sorge in un terri­torio (l’area milanese) nel quale è sempre stato radicato lo spirito di solidarietà nei confronti dei soggetti svantaggiati, mani­festato non solo dal volontariato e dalla Chiesa, ma anche dal circuito istituziona­le e dal mondo imprenditoriale. Torino e altre città, però, non sono (mai state) da meno. Campanilismi e graduatorie, in ogni caso, sarebbero fuori luogo. C’entra l’espe­rienza – che parla da sola – di un passato tutt’altro che remoto e neppure breve; ac­compagnata dall’amara constatazione che occorre tanta fatica per realizzare cose che dimostrano che un altro carcere è possibi­le, ma in poco tempo la disattenzione (a dir poco) può far crollare molte parti del­l’edificio.
Il carcere è parte del territorio.
Torino, di nuovo, insegna. Il carcere è una porzione del territorio. Lo si affermava, anche nei documenti ufficiali, all’inizio del millennio: da parte sia di chi ne era convinto e agiva di conseguenza, con ruoli di responsabilità nell’amministrazione penitenziaria; che di quanti si accodavano al refrain senza crederci molto, preferendo pensare al carcere soprattutto come a un insieme di cancelli e sbarre. Lo si ripete, dopo più di venti anni, a riprova del fatto che è necessario ribadirlo e spiegarlo. In car­cere finiscono coloro che – come dice Cosi­ma Buccoliero -ad un certo punto della vita hanno iniziato a deragliare. Non v’è dubbio che anche per causa loro in un certo terri­torio si diffonde l’insicurezza. Ma è proprio in quel territorio che essi torneranno, al ter­mine della detenzione: per questo il rappor­to tra carcere e territorio non può essere nega­to. Prescinderne, quando ci si occupa di fun­zione della pena detentiva, è un errore stra­tegico, all’origine di altri, parimenti gravi e rilevanti su piani diversi: vite detentive che si trascinano nell’ozio; tensioni e conflitti negli istituti e, a volte, prevalenza – nel rap­porto con loro – di modalità di intervento inaccettabili per un paese civile, oltre che pacificamente illegali. E verosimile che vi sia un nesso tra fatti accaduti in luoghi di­versi, nonostante la vigenza di leggi e rego­lamenti di segno opposto, e un carcere chiu­so, nel quale pochi studiano, lavorano o im­parano un mestiere utile per il loro futuro e forti sono le tensioni. Con un ulteriore in­conveniente: che il confronto sui diversi modelli detentivi possibili assume troppo spesso i caratteri di uno scontro ideologico[2]. Da una parte, i cosiddetti buonisti, ac­cusati di scarso realismo, allorché fanno ri­ferimento all’art. 27 della Costituzione, che individua nella rieducazione la finalità del­la pena (anche di quella non detentiva); dal­l’altra, i cosiddetti realisti, accusati di esse­re appiattiti sulla esigenza della punizione dell’illecito, quale risposta dello Stato al re­ato, anche in funzione di prevenzione della diffusione dell’illegalità e della insicurezza. Può servire sparigliare le carte di una di­scussione, che continua ad essere blocca­ta. Trattamentalisti contro securitari: due orribili parole; già solo questo dovrebbe indurre a ragionare in un modo diverso. E, comunque, ad auspicare che si affermi una idea di pena sostenuta dal più largo consenso possibile.
Trasformare il costo in investimento
Un carcere nel quale ci si limiti ad aprire e chiudere porte e cancelli è un puro costo. Per la collettività, che si appaga del risultato minimo (l’esemplarità della punizione), alla prova dei fatti nemmeno scontato, e così ri­nuncia, a priori, ad orientare la spesa dell’ esecuzione penale a finalità diverse ed ul­teriori rispetto a quella della punizione e, al più, della deterrenza. Ma anche per il dete­nuto: il cui pensiero dominante, nell’ozio, come tutti gli addetti ai lavori ben sanno, fa­cilmente diventa quello di non ripetere gli errori che, in passato, gli sono costati la de­tenzione. A chi non è sensibile al tema della finalità rieducativa della pena si potrebbe far presente che si può provare a trasformare un costo in un investimento; se ci si riesce (dopo aver fatto entrare in carcere scuola, univer­sità, imprese e formatori), la collettività avrà avuto, dalla spesa sostenuta per tenere in piedi il sistema dell’esecuzione penale, un’uti­lità di rilievo: la restituzione alla comunità di persone cambiate. L’abbattimento del tasso di recidiva è un obiettivo che il sistema paese (quindi, non solo chi se ne occupa per me­stiere) dovrebbe perseguire con convinzione, operando scelte razionali. Si potrebbe, così, recuperare quella ricchezza generale che nuo­ve braccia e intelligenze, se orientate al ri­spetto dei valori della legalità, possono assi­curare ad un certo territorio. La nostra Co­stituzione, al riguardo, non si limita a fissare la rieducazione quale finalità delle pene (tut­te, non solo quella detentiva). L’art. 4 della Carta dà indicazioni che bisogna saper leg­gere: «Ogni cittadino ha il dovere di svolge­re, ( …), un’attività o una funzione che con­corra al progresso materiale o spirituale del­la società». Verrebbe da aggiungere: sempre, dunque anche se ex-detenuto. Le statistiche ufficiali ci dicono che dove si è investito, con competenza e senza buonismi, nell’offerta di studio, lavoro e formazione e nelle sanzioni alternative al carcere, i risultati sono stati in­coraggianti: la pena è risultata utile. Il futuro della neo-direttrice di Torino, quindi, è scrit­to: il suo impegno in quel carcere – per rilan­ciare situazioni deterioratesi negli ultimi anni – dovrà essere sostenuto da quel territorio, come è già accaduto in passato. Ma altret­tanto varrà per altri istituti di pena. Si do­vranno, di certo, fare i conti con difficoltà strutturali (l’inadeguatezza degli ambienti detentivi alla mission del carcere riguarda molte situazioni). E ci sono altri problemi generali dei quali le autrici di Senza sbarre si mostrano consapevoli, al pari di altri esperti, pronunciatisi sugli stessi temi: il ripensamen­to dei compiti dei diversi operatori, a partire dalla Polizia penitenziaria; la dubbia utilità delle pene detentive brevi. Ancora una vol­ta: non sono le idee giuste a mancare. E però occorre ben altro, come è noto, perché esse diventino realtà effettiva. Ma non è impossi­bile.


[1] Ex magistrato.
[2] Un filosofo dell’800 da molti dimenticato, Car­lo Marx, sosteneva che l’ideologia è riflesso dei rapporti sociali esistenti e perciò «rappresentazio­ne capovolta della realtà» (cfr. Ideologia, sul sito internet Treccani). Da scartare, perciò, ideologie securitarie e buoniste. Buone ragioni per adottare un diverso metodo di discussione e analisi.