Grandi e piccole guerre crescono
M.Salvi (ROCCA)

Grandi e piccole guerre crescono
Maurizio Salvi (Rocca 02, 15 gennaio 2024)

Senza nessun rammarico ci siamo lasciati dietro le spalle il 2023, anno in cui la ‘guerra a pezzi’, evocata fin dal 2016 con immenso dolore da papa Francesco, è scivolata verso qualcosa di ancora più grave in un’ampia regione strategica del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. Molti os­servatori parlano ora di una vera e pro­pria Terza Guerra mondiale non dichiara­ta, ma in atto, dalle conseguenze impreve­dibili. Nei libri di storia del primo quarto del XXI secolo, il 2023 sarà registrato come ‘l’anno delle due guerre’, rappresentate dal conflitto in Ucraina, giunto ormai al suo secondo anniversario, e dalle ostilità frut­to dell’attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas (‘Alluvione Al Aqsa’), e della dura e prolungata risposta di Israele a Gaza. Ma Therese Petterson, coordinatrice dell’Up­psala Conflict Data Program (Ucdp), ha ricordato che le due grandi tragedie sono accompagnate da altri sette scontri arma­ti importanti in Africa e Asia, di cui si par­la poco o niente, riguardanti Burkina Faso, Somalia, Sudan, Yemen, Birmania, Nige­ria e Siria. E poi Magnus Oberg, che del­l’Ucdp è il direttore, ha aggiunto che «il numero dei conflitti nel mondo non cessa di aumentare, e che i morti sono cresciuti del 97% nel 2022, con un balzo di oltre il 400% dall’inizio degli anni 2000».

Un quadro preoccupante.
Il quadro che emerge da queste premesse è estremamente preoccupante, dato che se pure in Ucraina lo scontro resta circoscrit­to, e pare entrato in una fase decisiva ver­so un qualche compromesso, in Medio Oriente la guerra si espande invece a mac­chia d’olio, con evidenti riflessi militari, politici ed economici. In un saggio di recente pubblicato in italiano da Neri Pozza Editore (L’invenzione del Medio Oriente. Cairo 1921), C. Brad Faught, professore di Storia coloniale alla Tyndale University di Toronto, racconta che Winston Chur­chill, all’epoca ministro delle Colonie bri­tannico, affrontò la sfida dei nascenti na­zionalismi e quanto le decisioni adottate nella conferenza internazionale svoltasi in Egitto plasmarono il Medio Oriente nei ter­mini geopolitici con i quali siamo ancora chiamati a confrontarci. Era un’epoca, un secolo fa, in cui le grandi questioni deri­vanti dalle guerre venivano discusse e ri­solte in conferenze internazionali (Parigi nel 1919 e Sanremo nel 1920), che deline­arono la natura e la portata del nuovo si­stema di mandati internazionali per il go­verno dei territori del Medio Oriente, un tempo ottomani. La conclusione dei lavo­ri in terra d’Egitto, sottolinea Faught, «si tradusse nella nascita di due nuovi stati arabi, l’Iraq e la Giordania, e nella defini­zione delle linee guida del mandato bri­tannico sulla Palestina. Un risultato desti­nato a trasformarsi in una anticipazione dell’odierno Stato di Israele», nato nel maggio 1948. Sei mesi prima, una risolu­zione dell’Onu aveva stabilito la creazio­ne di due Stati: uno arabo palestinese e uno ebraico. Ma Siria, Giordania, Egitto e Iraq ritennero ineguale quella spartizione e attaccarono Israele nel giorno della pro­clamazione della sua indipendenza. A que­sta guerra persa dagli arabi, ne seguirono altre tre con la stessa sorte aversa: Suez (1956), Sei Giorni (1967) e Kippur (1973).
50 anni di tensioni
Negli ultimi 50 anni le tensioni non si sono mai placate, e le organizzazioni palestine­si moderate (Al Fatah e Olp) si sono proposte quali interlocutori unici di Israele, giocando, con l’appoggio della comunità internazionale, la carta del dialogo e della diplomazia. Senza però riuscire ad otte­nere da Tel Aviv l’accettazione del princi­pio della nascita di una Palestina indipen­dente previsto dagli Accordi di Oslo (1993- 95). Questo fallimento ha offerto argomen­ti crescenti a partiti radicali islamici, in pri­mo luogo Hamas, per l’uso di cruenti atti di forza. Poi, con l’ascesa al potere di Ben­yamin Netanyahu, il tema ha perso di im­portanza, mentre è aumentato lo spa­zio concesso ai coloni ebrei ortodossi per insediarsi sulle terre promesse dall’Onu ai palestinesi. Sono oggi almeno 500.000 in Cisgiordania e 200.000 a Gerusalemme est. Ma il peggio doveva ancora venire, perché durante la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno lancia­to l’idea degli Accordi di Abramo (2020) per incoraggiare i Paesi arabi (puntando soprattutto sull’Arabia Saudita) a ricono­scere Israele con promesse di vantaggi ge­nerici, ma non di uno Stato, per i palesti­nesi. Con il senno di poi possiamo dire che probabilmente è stato in quel periodo che Hamas da una parte, e l’Iran dall’altra, hanno cominciato a pensare ad una stra­tegia estrema e rischiosa per costringere Israele a cedere sul principio dell’entità statale. Il partito guidato da Ismail Ha­niyeh ha quindi deciso di organizzare l’at­tacco terroristico costato la vita ad alme­no 1.200 civili e militari israeliani nei vil­laggi vicini a Gaza, con la cattura di quasi 250 ostaggi, atto che ha avuto un costo provvisorio di oltre 22.000 militanti e civi­li. Nel contempo, Teheran ha usato questi tre anni per infittire la sua rete di allean­ze, chiamata ‘Asse della Resistenza’, mi­rante a rafforzare la sua influenza nella regione. Insieme al gruppo Hezbollah nel sud del Libano e a varie milizie in Iraq e Siria, l’Iran ha schierato anche a sorpresa il movimento sciita degli Houthi, al pote­re ‘de facto’ nello Yemen settentrionale, e cresciuto enormemente in una guerra di resistenza con l’Arabia Saudita.
Il rischio di un allargamento del conflitto
La strategia di questi gruppi è stata quella di premere su Israele da più parti, costrin­gendo le sue forze armate a dividersi su fronti differenti, e a rispondere ad attac­chi provenienti non solo da Gaza, ma an­che dal Libano, dalla Siria e dall’Iraq. Si è trattato in sostanza di un allargamento del conflitto che non ha riguardato solo le ri­sposte israeliane in territorio siriano o libanese, ma si è esteso al Mar Rosso dove gli Houthi hanno sparato missili contro navi cargo con merci israeliane e minac­ciato direttamente il traffico navale attra­verso lo stretto di Bab El Mandeb. Molti armatori hanno ordinato alle loro unità di raggiungere l’Europa e l’Oceano Atlan­tico realizzando il periplo dell’Africa, con evidente aumento del costo del trasporto. Inoltre, la determinazione israeliana di proseguire le operazioni a Gaza ha allar­mato anche Paesi islamici normalmente moderati, fra cui la Malaysia, Così Kuala Lumpur ha avvertito Tel Aviv che i suoi interessi sulle navi da carico in transito nello stretto di Malacca potrebbero non essere protetti. Gli analisti si spingono anche a prevedere che un eventuale ag­gravamento di questa crisi potrebbe com­portare la paralisi del traffico navale an­che nel Canale di Suez e poi perfino nello Stretto di Gibilterra. Questo se in uno dei Paesi arabi della zona (Algeria, Marocco, Mauritania o Repubblica Araba Sarahoui) dovesse manifestarsi un gruppo sciita ade­rente al citato «Asse della Resistenza» filo­iraniano.
In assenza di robusti piani diplomatici capaci di scongiurare l’uso crescente del­le armi, gli Usa non si sono fatti pregare ed hanno dato vita in Bahrein, dove si tro­va il Comando della Marina statunitense nel Golfo Persico, all’Operazione ‘Guardia­no della Prosperità’ per contrastare attac­chi ostili nel Mar Rosso. Vi hanno aderito Gran Bretagna, Canada, Francia, Italia, Olanda Norvegia, Spagna, Bahrein e Seychelles ma, sorprendentemente, nes­sun Paese arabo significativo, come Ara­bia Saudita o Egitto. Riguardo infine alle dichiarazioni di Netanyahu che l’operazio­ne a Gaza, dove la situazione umanitaria è drammatica, «durerà a lungo», Jean­Pierre Filiu, professore nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pari­gi, ha detto al francese Le Monde, che Isra­ele potrebbe decidere di prolungare le sue operazioni militari fino alle elezioni pre­sidenziali negli Stati Uniti, Nella speran­za di un ritorno alla Casa Bianca di Trump, in passato convinto sostenitore delle ragioni israeliane a tutti i livelli. Se così fosse, si tratterebbe comunque di una strategia rischiosa e impopolare a livello internazionale, vista ad esempio la deci­sione del moderato Sudafrica di denun­ciare per genocidio Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia del­l’Aja.