In principio era il Verbo. E il Verbo si fece carne
P. Ermes Ronchi

In principio era il Verbo. E il Verbo si fece carne.
(Da PRIMA DELLE SORGENTI (Omelie Padre Ermes Ronchi anno A), Servitium, 2010, pagg. 31ss

È un Vangelo immenso, quello che abbiamo ascoltato, che ci vieta pensieri piccoli. In principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. E il Verbo si fece carne. E ha dato a ciascuno il potere di diventare figli di Dio.  Colui che ha riempito il cielo con miliardi di galas­sie, l’inventore dell’universo, si fa piccolo e ricomincia da Betlemme. Ci deve essere qualcosa di vero in tutto ciò. Colui che ha separato la luce dalle tenebre, il firmamento dalla terra, si fa inchiodare su di una croce. Ci deve es­sere qualcosa di vero. Se della storia di Dio i vertici so­no una mangiatoia e una croce, questa nostra fede non ha altra spiegazione che Dio e le sue vie impossibili al­l’uomo.
Nessuna invenzione da parte dell’uomo avrebbe osato. A Betlemme non c’è nessuna illusione, nessun raggiro, nessuna menzogna. Lo garantiscono una mangiatoia e una croce. E Dio è là dove la ragione si scan­dalizza, dove la natura si ribella, dove io non vorrei mai essere. Con Simone Weil, mistica del secolo scorso, amava ripetere che «la vita del cristiano è comprensibile solo se in essa c’è qualcosa di incomprensibile», una vertigine, un sogno, una vergine incinta di Dio, un pre­sepio, una croce, voli di angeli.
Ma il miracolo grande è che Dio non plasma più l’uomo nuovo con polvere del suolo, come in princi­pio, nell’Eden, per Adamo, ma che si fa lui stesso pol­vere plasmata, vaso fragile d’argilla e non più vasaio, bambino di Betlemme. E se io dovrò piangere, anche lui imparerà a piangere. E se io devo morire, anche lui ha gustato l’orrore della morte.
Solo un Dio poteva imboccare queste strade. E so­lo gli umili gli credono, lieti che Dio sia così libero e così stupefacente, da preferire ciò che l’uomo emargi­na. Il prodigio più grande è che Dio ama ciò che è umile. Dio nell’umiltà: ecco la parola rivoluzionaria, l’appassionata parola del Natale.
La grande ruota della storia aveva sempre girato nella stessa direzione: dal piccolo verso il grande, il meno a servizio del più, che non è altro che la legge del più forte. Quando Gesù è nato, la grande ruota della storia per un attimo si è fermata. Poi qualcosa ha cominciato a girare al contrario; o meglio, nel senso vero della storia.
«Viene nel mondo la luce vera» (Gv 1,9): da Dio verso l’uomo, dal grande verso il piccolo, da una città verso la stalla, i re Magi verso il Bambino, il forte a ser­vizio del debole.
Natale è l’inizio del capovolgimento totale, di un nuovo ordinamento di tutte le cose. Natale è il giudizio del mondo. E la sua redenzione. Dice che la storia non appartiene a chi fa sfoggio di forza o di denaro. Quella è solo una storia perdente. La storia vera è l’opera di chi si colloca là dove nessuno vorrebbe essere, nell’umiltà del servizio, nell’insignificanza solo apparente della bontà, nel silenzio degli uomini di buona volontà.
Maria, incinta di Gesù, l’aveva anticipato nel suo canto: «Ha rovesciato i violenti, ha innalzato i deboli. Chi si fida della ricchezza sarà a mani vuote e a cuore vuoto. Chi si fida della bontà possederà la terra». È il bambino Gesù dentro la mangiatoia a compiere il giu­dizio e la redenzione del mondo. A chi accetta di avvi­cinarsi a lui, accade qualcosa. Recarci davanti a quella che non è neppure una culla, ci trasforma.
Chi di noi celebrerà bene il Natale? Chi depone da­vanti a quel bambino ogni arroganza, ogni distanza, e riscopre la volontà d’amore.
Chi di noi celebrerà bene il Natale? Chi non espor­ta morte ma comunione, chi accoglie Dio nella sua carne. Perché Dio viene nella vita, accade nella con­cretezza dei miei gesti, deve abitare i miei occhi. E lo sguardo allora si fa tenero, attento. Deve abitare il mio udito, perché io ascolti con il cuore. Deve abitare la mia bocca, perché io dica parole di bene e sappia be­nedire la vita e le creature. Deve abitare le mie mani perché si aprano, si stendano a donare pace, ad asciugare lacrime, a vestire i nudi, a spezzare ingiustizie.
La grandezza d’ognuno di noi dipende da chi l’a­bita. Vera grandezza è essere abitati da Dio. E se ha voluto nascere in una stalla, non si scandalizzerà di me, dello sporco che è in me, abiterà le mie miserie il nodo di povertà e di sole che so di essere, e che egli trasformerà.
Perché ora è il tempo del mio natale. Capisco che Cristo nasce perché io nasca. La nascita di Gesù vuo­le, domanda la mia nascita, che io nasca diverso e nuo­vo, che nasca dallo Spirito di Dio, che nasca così pic­colo e libero da essere incapace di aggredire, di odia­re, di minacciare. Che io nasca così umile e ingenuo da pensare con il cuore.
Certo, non è facile il Natale. È il giudizio del mon­do. E tutti conosciamo un popolo o una famiglia o al­meno una persona che piangerà perché è tradita, per­ché è sola, perché è stata sfiorata dall’ angelo della morte. Non è facile il Natale. Tutta la violenza del mondo contraddice gli angeli di Betlemme, contrad­dice il loro canto: «Pace in terra». La mia fede talvolta domanda: E se fosse tutto un’illusione creata dal bam­bino che è in noi? Se fossimo rimandati a Dio solo dal­la paura e dal disastro della storia? Ma è Dio che è rimbalzato fino a noi. È un altro il movimento del mondo.
C’è in me l’uomo disincantato che ritiene il Natale una festa ormai pagana, che ha visto le stelle cadere e svuotarsi il cielo. E tuttavia c’è un bambino in me, e gli parli di Dio e lui lo sente respirare.