Minimo sindacaRe
Andrea Gaiardoni (ROCCA 01/05/2022)

Minimo sindacare

Andrea Gaiardoni (ROCCA 1 maggio 2022)

Ci sono le parole, ed è un bene che ci siano: «Noi siamo per stabiliz­zare i precari, sia nel pubblico sia nel privato. Siamo per investire in formazione, perché fa la diffe­renza. In vent’anni la contratta­zione aziendale non è cresciuta, sono cre­sciuti i contratti nazionali pirata. È il mo­mento di una legge sulla rappresentanza e di riconoscere ai contratti nazionali il ruolo di autorità salariale che aumenti il potere d’acquisto. La crescita dei salari è la condizione perché riprendano i consu­mi». La voce è di Maurizio Landini, segre­tario della Cgil, il più importante e rap­presentativo sindacato d’Italia. La musica che fa da sfondo, però, è fuori sincrono. E quella la scrive il governo, il Parlamento, troppe volte «distratti» dall’incombere delle minacce quotidiane (dalla guerra alla pandemia). Ma che di certo, negli ultimi anni, non hanno brillato per «visione del lavoro»: senza il disegno di una rinnovata politica industriale, senza un piano d’in­vestimenti che vada oltre l’emergenza, senza un vero modello di sviluppo nazio­nale, ma frammentato in diecimila rivoli locali. Ancora senza una riforma fiscale, invocata da anni come un eco che rimbal­za nel vuoto, in grado di colpire seriamen­te l’evasione, la sistematica elusione, l’eco­nomia offshore, le rendite finanziarie. E con una precarietà arrivata ben oltre il li­vello di guardia.
«È indispensabile una nuova politica dei redditi che tuteli lavoratori e pensionati, competitività e sostenibilità produttiva delle imprese: un patto sociale anti-infla­zione che sostenga i ceti fragili e le impre­se in difficoltà», è l’appello del segretario della Cisl, Luigi Sbarra. Perché oramai vi­viamo nell’epoca dell’erosione: dei posti di lavoro, dei salari, del potere d’acquisto, dei diritti stessi dei lavoratori. E spesso la principale responsabilità risiede nella glo­balità delle crisi economiche e politiche. Emergenze su emergenze che sempre più spesso vengono affrontate con soluzioni di «respiro corto»: sussidi, ristori, sgravi fiscali. Come se le istituzioni non riuscisse­ro a tenere il passo degli eventi: tampona­re sì, prevenire mai, migliorare le condi­zioni dei lavoratori men che meno. E oggi ci troviamo con un’economia di nuovo in affanno, con le stime che peggiorano, il Pil che scende a precipizio, la spesa che sale, un carico fiscale che pesa insoppor­tabilmente sulle spalle dei lavoratori. Con una forbice della disuguaglianza sempre più divaricata. La redistribuzione del ca­rico fiscale, da spostare su profitti e capi­tali, dovrebbe essere una priorità, ma se ne parla in una corsia marginale e i pro­gressi sono lentissimi: ci sono sempre al­tre urgenze, altre emergenze.

La firma sul «Protocollo di partecipazione».

Dunque non mancano gli argomenti, e di conseguenza le parole da mettere sul ta­volo. Ma i fatti? Le soluzioni? Un tempo questo indispensabile ruolo di «cerniera» tra politica e paese reale, e di pungolo, soprattutto sul tema del lavoro, era svolto dal sindacato. Ma oggi? Con un sistema politico «destrutturato e distante dai cit­tadini», come l’ha recentemente definito il segretario della Cgil? Un buon segnale è arrivato alla fine dello scorso anno, il 23 dicembre, quando il governo ha firmato il «Protocollo per la partecipazione delle organizzazioni sociali alla gestione del Pia­no nazionale di ripresa e resilienza»: vuol dire che Cgil, Cisl e Uil parteciperanno in maniera stabile e preventiva ai processi che porteranno a definire progetti e stan­ziamenti per le sei missioni del Pnrr. «Ta­voli» che saranno attivati non soltanto nei ministeri, ma anche a livello locale, nelle Regioni e nei Comuni.
Ma resta una domanda: il sindacato di oggi, com’è oggi, avrà la forza per incide­re? Di divincolarsi dalle logiche imposte dai partiti, compreso il continuo flirtare con gli imprenditori a scapito dei diritti di chi lavora? Riuscirà a ottenere risultati concreti? «Rispetto a quando i sindacati sono nati, durante la seconda rivoluzione industriale, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, la situazione è cambiata in modo radicale», spiega Lorenzo Mechi, professore associato di Storia delle rela­zioni internazionali all’Università di Pado­va. «Di fronte ai cambiamenti tecnologi­ci, nella distribuzione nazionale e inter­nazionale del lavoro, con la frammenta­zione del processo produttivo tra più pae­si, con la nascita delle multinazionali, delle filiere globali di produzione, il sindacato si è necessariamente indebolito. Si può dire che in qualche misura sia stato aggi­rato. Perché questi processi hanno avuto sicuramente una «ragione» sul piano stret­tamente economico: conviene produrre altrove, dove i salari costano un decimo, per tornare a vendere qui: la globalizza­zione permette questo. Ma ancor più ha pesato un altro aspetto, forse perfino su­periore a quello economico: gli imprendi­tori che hanno operato quelle scelte si sono così sottratti a un «controllo sindacale» che, nella loro percezione, si era fatto più soffocante. Hanno tolto il terreno sotto ai piedi del sindacato, del lavoro organizza­to, riguadagnando un’autonomia contrat­tuale che avevano perso da decenni. Per­ciò ritengo che il sindacato sia stato in parte aggirato e in parte emarginato: con una forza che oggi è sicuramente ridotta rispetto al passato».

La sfida di Landini: «Unità sindacale».

Quindi cosa fare per risollevare il ruolo dei sindacati, che per decenni hanno consen­tito ai lavoratori di «entrare» nei principali teatri della politica, di poter davvero con­tare qualcosa (non si muoveva foglia, che riguardasse il tema del lavoro, senza l’ac­cordo con i sindacati)? Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, non ha dubbi: la soluzione è l’unità sindacale. «Non esisto­no più le ragioni storiche e politiche che hanno diviso Cgil, Cisl e Uil», aveva già detto nel 2019, poco prima che la pandemia con­gelasse gran parte dei temi non strettamen­te collegati all’emergenza. «Bisogna costru­ire una risposta alla frantumazione dei di­ritti e dei processi produttivi. In questo quadro va rafforzato il ruolo del sindacato e della contrattazione nei luoghi di lavoro. Il sindacato deve allargare gli spazi della sua rappresentanza, dobbiamo sempre più far entrare nelle nostre sedi e nelle nostre piattaforme rivendicative i nuovi lavori, le differenze di genere, l’attenzione per l’am­biente». E oggi non ha cambiato idea: «La scissione dei sindacati negli anni ’50 avvenne sulla base dell’appartenenza politica in un mondo diviso in blocchi. Quella condizio­ne oggi non c’è più. Dobbiamo ragionare sull’unità sindacale con un profilo diverso: le ragioni che portarono a quella rottura non possono più essere considerate come motivo ostativo alla ricostruzione di un sog­getto sindacale unitario, democratico, plu­rale. Che può nascere dal basso e può rea­lizzarsi mettendo in pratica un’idea di sin­dacato fondato sull’autonomia, sulla demo­crazia, sulla partecipazione, sulla rappre­sentanza». Per poi uscire dal vago e punta­re dritto ai suoi interlocutori, come ha fat­to all’ultima assemblea organizzativa della Cgil, a Rimini: «A Cisl e Uil proponiamo di dare vita a una stagione di elezione delle Rsu in tutte le imprese con più di 15 dipen­denti. Proponiamo un’idea di sindacato confederale basato sull’unità e sul pluralismo: per affrontare il problema di come mette­re i lavoratori al centro del cambiamento». La risposta degli altri due principali sin­dacati, Cisl e Uil, è stata, per così dire, prudente. «In Italia non c’è un sindacato unico c’è un sindacato unitario», ha più volte ripetuto il segretario della Uil, Pier­paolo Bombardieri. Mentre Luigi Sbarra, segretario della Cisl, ha commentato: «Fi­gurarsi se Cisl è contraria all’unità sinda­cale, ma dobbiamo fare chiarezza su con­tenuti e metodo da esercitare come rap­presentanza. Come sul modello di sinda­cato che serve a questo Paese. La marcia verso il nuovo va orientata con la bussola della concordia e della corresponsabilità». Un tema, quello del sindacato unico, da diversi anni foriero di aspre divisioni. Nel 2015 lo invocò anche Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio e artefice di quel Jobs Act che segnò la fine dell’articolo 18 (con la trasformazione dei contratti da tempo «indeterminato» a tempo «indeter­minabile» vista la libertà di licenziamen­to che introduceva), ma ricevette un bru­sco stop da tutte le sigle. Con Susanna Camusso, all’epoca segretario generale Cgil, che sentenziò: «È una concezione che esiste solo nei regimi totalitari».
Ora, evidentemente, le esigenze sono cam­biate. E c’è chi ritiene si debba fare di più, con più compattezza, con maggior peso di rappresentanza. I numeri (elaborati dal Centro studi della Confederazione Euro­pea dei Sindacati) dicono che in Italia il 35% dei lavoratori dipendenti è iscritto a un sindacato (in Germania appena il 18%, in Francia soltanto l’8%) e che l’80% è «co­perto» da un tetto di contrattazione col­lettiva (in Germania siamo al 62%, men­tre in Francia la percentuale sale al 98%). Ancora il professor Mechi: «La ‘densità sin­dacale’ rilevata nei paesi Ocse negli ulti­mi vent’anni segna un drastico calo di iscri­zioni, con alcune eccezioni però. E tra que­ste c’è l’Italia, anche se il dato degli iscrit­ti contempla una forte presenza di pen­sionati (nell’ordine del 50%: e c’è un’im­portante riforma in arrivo, ndr). Bisogna anche rilevare come alcune decisioni del­l’Unione Europea abbiano quasi spinto, negli ultimi vent’anni, i governi europei verso una deregolamentazione del merca­to del lavoro. Eclatante il caso della Gre­cia, passata attraverso la drammatica crisi del 2009 (gestita dalla cosiddetta ‘troika’): all’epoca il 100% dei lavoratori greci era tutelato da una contrattazione collettiva: oggi siamo al 14%. Dimostrazione che ora­mai l’Unione Europea contribuisce larga­mente al disegno delle politiche economi­che degli stati membri».

Nasce lo «Statuto della Persona»

Ed è proprio per questo che servirebbe un sindacato forte: proprio per «governare» questi passaggi, per vigilare sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Non è un tema del passato. Non è un argomento scaduto. È una sfida che riguarda il futuro di tutti noi. Maurizio Landini, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, l’ha spiegata così: «Vedo una frattura tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica. Un nostro son­daggio mostra che circa il 60% degli italia­ni pensa che la politica sia importante, ma non si sente rappresentato nel quadro at­tuale. È problema molto serio. E riguarda tutti, forze politiche e sociali, imprese e sindacato: c’è bisogno di un nuovo prota­gonismo del mondo del lavoro. Dobbiamo trovare la forza di dire basta alla precarie­tà. È necessario cancellare forme contrat­tuali assurde come il lavoro a chiamata, intermittente, i tirocini extra-curriculari, definendo un unico contratto di inserimen­to al lavoro finalizzato alla stabilità. E van­no aumentati i salari, che sono tra i più bassi in Europa: non è più tollerabile».

E se il futuro ruolo del sindacato (unito o unitario che sia) fosse non più soltanto nel­la difesa del lavoro, ma anche del lavora­tore? In una nuova concezione di welfa­re? Sul punto i tre maggiori sindacati han­no già trovato un pieno accordo, al punto da aver firmato, alla fine di marzo, un’in­tesa (con Enel) di straordinario valore in­novativo che segna una svolta nelle rela­zioni sindacali: lo «Statuto della persona». Come spiega il segretario della Cisl, Sbar­ra: «Puntiamo alla valorizzazione della persona che lavora, alla sua promozione, alla sicurezza e alla tutela integrale della lavoratrice e del lavoratore». Un accordo che potrebbe fare da apripista, da model­lo facilmente replicabile in altre realtà. Come si legge in un comunicato firmato da tutte le sigle sindacali: «Siamo davanti a un protocollo innovativo nel panorama italiano, che rende l’essere umano prota­gonista di un ecosistema in cui azienda e organizzazioni sindacali collaborano alla creazione di un ambiente di lavoro sano, sicuro, stimolante e partecipativo». E que­sto è un bel punto fermo da cui ripartire.