PARROCCHIA SOLIDA, LIQUIDA…PROCESSUALE
Enzo Biemmi

La parrocchia: solida, liquida o… processuale? /1
10 settembre 2021 /La parrocchia: solida, liquida o… processuale? /1 – SettimanaNews

di: Enzo Biemmi
Dal 26 al 28 agosto ad Asiago si è svolto il primo incontro relativo al progetto “La Parrocchia del Triveneto: una sfida da accogliere”, organizzato dall’équipe coordinata da fratel Enzo Biemmi e sostenuta dall’ISSR di Verona e dalla Facoltà teologica del Triveneto. È l’inizio di un percorso che si snoderà in tre anni ed è sostenuto dalla CEI: un progetto di teologia pratica che approfondirà il grande tema della parrocchia in chiave missionaria. Pubblicheremo in tre puntate la relazione di fratel Biemmi.
Questo intervento non intende fare la sintesi dei lavori di gruppo (già presentata), ma di collocare quanto è emerso dai racconti in una riflessione pastorale più larga, in modo da renderci consapevoli della direzione da prendere. Di fatto, è il solo intervento propositivo di questa nostra tre giorni e per questo abbiamo voluto prepararlo con una certa cura. È una riflessione che vi propongo come referente di questo progetto, ma è stata condivisa all’interno di un piccolo gruppo di noi in due tappe successive. È quindi anche il risultato di un lavoro comune. La proposta è divisa in tre parti.
La problematica
In questo primo punto proviamo a ridire in sintesi qual è la situazione rispetto alla parrocchia, i problemi che si pongono, le domande che ci facciamo. Cosa appare chiaro?
In Europa ci troviamo da tempo di fronte all’“arretramento o fine della civiltà parrocchiale” secondo l’espressione di Christoph Theobald.[1] L’affermazione piuttosto cruda non dice di per sé che sia finita la parrocchia (anche se più di uno lo crede) ma la forma della sua iscrizione sociale e territoriale tipica di una società di cristianità (coincidenza tra appartenenza civile e religiosa in un territorio preciso).
Se per alcune aree europee questo arretramento è già una fine, in altre, tra cui l’Italia, questo dato convive con un altro: continuità di una parziale identificazione, attese e domande proprie di una società di cristianità, la parrocchia come luogo di servizi religiosi. Questo costituisce una delle fatiche e delle frustrazioni più grandi per i parroci e gli operatori pastorali. Come si fa a parlare di “missione” quando quelli che vengono continuano a chiederci di essere una stazione di servizio?
In questo quadro si è inserita brutalmente la pandemia. «La pandemia è stata come una grande burrasca (o tempesta), che dall’albero parrocchia ha fatto cadere tante foglie e qualche ramo: l’albero ora è più spoglio e lascia vedere con chiarezza nodi problematici». «Ha funzionato anche come lente di ingrandimento, evidenziando problemi che c’erano anche prima e su cui anche prima riflettevamo in forme diverse (con l’impressione di essere in ritardo…): ad es. nel campo dell’IC, della corresponsabilità/ministerialità, del rapporto con il territorio… In questo senso la pandemia sembra aver agito da “acceleratore”».[2] Nello stesso tempo, la pandemia ha obbligato a smettere alcune cose e fatto nascere, come la tempesta Vaia, una nuova generatività anche se fragile. Capiamo bene la frase di papa Francesco: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».
A partire soprattutto dagli anni ’80 la reazione delle diverse Chiese europee è stata di dedicare tutte le proprie energie alla ricomposizione del territorio ecclesiale: come reimpiantare la Chiesa in una cultura che l’ha emarginata o espulsa. Questo è stato fatto secondo una duplice strategia:

  • quella della resistenza, che consiste nell’accettare l’esculturazione del cristianesimo in Europa, puntare sulla sua crescita e vitalità in altri continenti e qui costituirsi come “piccolo resto” più evangelico, con un ruolo contro-culturale di testimonianza. Il problema, secondo questa strategia, non è il cristianesimo e la forma di Chiesa, perché la fede è sempre uguale a se stessa, il problema è questa cultura. Non si parla quindi di riforma, ma di resistenza e radicalità di una minoranza;
  • quella del ripensamento dell’identità del cristianesimo, della forma di Chiesa, della sua iscrizione territoriale, non contro ma dentro l’attuale cultura, di una rivisitazione del cristianesimo discendendo «verso quei “luoghi” elementari dell’esistenza umana e sociale dove nascono le nostre convinzioni».[3]

Per quanto riguarda il ripensamento della parrocchia nella sua modalità organizzativa, questo ha preso forme diverse riassumibili in due: le unità pastorali o aggregazioni simili; il rimodellamento interno alle parrocchie secondo modalità diverse in base ai contesti culturali e sociali. Il contesto urbano, per esempio, vede già volti di parrocchie molto diverse tra di loro.
La strategia di riorganizzazione, quando si è basata essenzialmente sul criterio del numero dei preti e quello di coprire un territorio sempre più vasto conservando tutto, ha mostrato in questi anni molti limiti, di natura diversa. Le “unità pastorali” come tentativo di soluzione possono essere nient’altro che un modello tridentino, portandolo al sovraccarico e qualche volta al collasso, aumentando i problemi organizzativi e il peso sulle spalle dei preti che restano e dei pochi laici che collaborano.
Arnaud Join-Lambert, di area belga, afferma: «La nostra ipotesi è che si sia fatto ricadere sulla parrocchia più di quanto essa non potesse accogliere (“tutto, per tutti, in un luogo”) in scala sempre più grande» (l’unità pastorale come la “parrocchiona”). Aumentare l’impegno organizzativo diminuisce sempre di più la possibilità per la comunità ecclesiale di rispondere alla necessità di vivere il vangelo e di annunciarlo. Anche i laici associati sperimentano questa fatica.
François Moog dice che le unità pastorali e i gruppi pastorali che sono nati per sostenerle sono spesso una variante ecclesiologica del modello precedente, in quanto sono sempre “alcuni” ad avere l’incarico del tutto e per tutti.[4]
Queste osservazioni suonano come un giudizio pesante su quanto fatto finora, ma non mettono di per sé in discussione la scelta (per tanti versi inevitabile se non l’unica possibile), ma invitano a verificare i criteri con la quale è stata fatta e viene condotta.
In alcuni gruppi questa questione è stata affrontata e i due racconti sono, da questo punto di vista, confortanti: si può rimodulare la presenza della Chiesa su un territorio non per semplice ampiamento di scala, ma facendo di questo un modo di mettere in atto un nuovo stile e un nuovo modo di essere comunità. C’è ampio consenso sull’appello a una conversione missionaria della parrocchia e di tutte le forme pastorali. Due i numeri di EG che fanno da riferimento: il n. 27[5] e il n. 28.[6] Il codice “conversione missionaria” è ormai un dato condiviso, sia dai pronunciamenti del magistero,[7] sia dalla riflessione teologico-pastorale, sia da chi lavora alla base. Così condiviso e così ripetuto da divenire uno slogan.
Ma proprio su questo punto emerge un problema: come transitare dal modello attuale di parrocchia a una Chiesa missionaria? Il problema è pratico. Il problema sono i processi di transizione, il “tuilage[8] tra una forma presente e una da creare: come transitare il cambiamento.[9]
Infine – e non è poco – resta da chiarire se la parrocchia è in grado di cambiare, visto che si tratta di una istituzione di per sé nata per il mantenimento e la conservazione e che non ha nel suo DNA una logica missionaria. O, al di là delle dichiarazioni e della difesa a spada tratta del “cattolicesimo popolare italiano”, questa parrocchia non è in grado di cambiare ed è meglio che gradualmente scompaia, a favore di altre forme di vita ecclesiale sorte in questi ultimi tempi? Continuiamo o no a puntare sulla parrocchia?
È su questa questione di fondo che tornerò alla fine di questa riflessione, perché è su questo che siamo chiamati a fare una scelta di campo.
Alcune convinzioni condivise
Dentro questo quadro, ricco di sfide e di interrogativi, si sono già delineate alcune convinzioni e anche alcuni indicatori di direzione, che proviamo semplicemente a nominare. Sono dei punti di riferimento abbastanza condivisi.
1) Una prima convinzione, rafforzata dal Covid ma già presente prima, è la necessità di tornare all’essenziale. Questo richiede un atto di discernimento che consiste nel riconoscere quello che finisce e quello che emerge nei cambiamenti attuali di società e di Chiesa. «Che cosa è essenziale nella vita della comunità cristiana, nella vita di fede, nel variare delle condizioni? In quali forme l’essenziale si può ridisegnare in modo che la perdita di una modalità non significhi perdita della vita nella fede? A livello di celebrazione-preghiera, di catechesi-formazione, di carità?».[10] È la domanda che ci siamo fatti nei gruppi.
2) La condizione per questo discernimento sull’essenziale è che la Chiesa non rimanga attaccata alle proprie strutture. La Chiesa non deve difendere le sue strutture, perché è cosciente di una missione che la supera e la anticipa: corre sempre dietro alla sua forma. Di conseguenza non è attaccata alla struttura parrocchiale come tale. Ciò che le importa è di dare al popolo di Dio la possibilità e i mezzi concreti di riunirsi, di praticare la fede e di avere il loro posto nella società.[11]
3) Nel ripensamento della parrocchia, quello che è in gioco non è solamente e tanto un rimodellamento istituzionale, ma una vera riforma interiore della Chiesa, di cui non conosciamo ancora tutte le conseguenze. Nella relazione costitutiva tra strutture e figura di Chiesa, la conversione delle strutture è condizione per una riforma di Chiesa.
4) Due sono le coordinate che devono orientare l’evoluzione missionaria della parrocchia: l’assunzione comune della missione di annuncio del vangelo, rendendolo disponibile a tutti; il posto e lo statuto della comunità cristiana nella società, come prossimità e segno della carità di Cristo. Queste sono le condizioni perché abbia senso accettare volentieri di essere una minoranza evangelica, e non una setta o un’espressione di controcultura.
5) Nel compito di rendere a tutti disponibile il vangelo (che è la prima coordinata) è prioritario che la parrocchia si configuri come lungo che si prende cura della fede di chiunque o fede elementare (Theobald), cioè della fiducia nella vita che mantiene la sua promessa di riuscita (di salvezza) contenuta già in ogni nascita. In questo senso per missione va inteso prima di tutto il servizio al Regno e non alla Chiesa e al suo accrescimento. Il riferimento diventano gli incontri di Gesù con la gente, non finalizzati prima di tutto a fare discepoli, ma a restituire vita. L’iscrizione della fede nelle esperienze fondamentali della vita è, dunque, la prima forma di “Chiesa in uscita”, dal mondo sacro alla vita delle persone. La vita della gente è alfabeto di Dio. Se una parrocchia fa questo, essa è missionaria.
6) Nello stesso tempo, la parrocchia va riconfigurata in modo che sia in grado di proporre nella libertà la fede discepolare o cristica, attraverso il kerigma come è inteso da EG 164,[12] e di nutrire la vita di fede dei credenti attraverso l’ascolto della Parola, momenti di interiorità, spazi di condivisione e di solidarietà, come indicato dalla prima comunità cristiana nel libro degli Atti.
7) La prossimità è la seconda coordinata di una parrocchia missionaria. Essa si esprime come solidarietà verso ogni forma di emarginazione, esclusione, violenza e ingiustizia e si traduce in un contributo per una umanità più fraterna e solidale, rendendo prossima la signoria di Dio.
8) L’assunzione della missionarietà come criterio di riforma chiede anche una rivisitazione dei funzionamenti interni della comunità, uno stile sinodale e di corresponsabilità, un’estensione della ministerialità, una ridefinizione del ministero del presbitero non nella linea del “pivot” (che sa circondarsi dei fedeli) ma del traghettatore, che sa realmente “esistere” per mettersi da parte, che esercita l’autorità per autorizzare i fedeli a divenire liberi e autonomi.[13] Un’altra immagine significativa per ridire nella prospettiva di una comunità missionaria la funzione del presbitero è quella del servizio «delle midolla e delle giunture» (Eb 4,12), del servizio di comunione che veglia alla crescita della comunità.
Quello della sinodalità dal basso e del ripensamento delle ministerialità ecclesiali sarà il nostro secondo punto di osservazione il prossimo anno.
Dalla condizione della secolarizzazione e dal dramma della pandemia esce una Chiesa ferita come la società in cui essa vive, dimagrita e interrogata (Laiti). Proprio questa condizione di fragilità appare favorevole per lo scongelamento delle sue strutture attuali e la loro rimodulazione in chiave missionaria.


[1] Christoph Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019, 81.
[2] Giuseppe Laiti, Verso una chiesa tra le case della gente. Prima lettura delle “schede di ritorno”. Si tratta della sintesi presentata da don Giuseppe Laiti sul lavoro di discernimento del clero di Verona nell’anno pastorale 2020-2021.
[3] Theobald parla di “accommodement” e di “dépassement”.
[4] Fançois Moog, La Participation des laïcs à la charge pastorale. Une évaluation théologique du c. 517 § 2 (Théologie à l’Université 14), DDB, Parigi 2010.
[5] «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione…».
[6] «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità».
[7] Va segnalato in particolare per la Chiesa italiana il documento sulla conversione missionaria delle parrocchie, che ha anticipato molti temi presenti in Evangelii gaudium: CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004.
[8] Si veda : Le “tuilage” en pastorale. Comment faire du neuf sans désavouer le passé? «Lumen Vitae» 2020 n. 4.

[9] Si tratta di tenere in tensione due versetti del vangelo: «vino nuovo in otri nuovi» (Mc 2,22) e «Ogni scriba divenuto discepolo è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
[10] Giuseppe Laiti, ibidem.
[11] Mgr Claude Dagens, Le réaménagement des paroisses en France. Une réforme intérieure, in Les regroupement paroissiaux. Bilan et perspectives, «Lumen» Vitae 2012, n° 1, 104.
[12] «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti».
[13] Christoph Theobald, Urgenze pastorali, o.c., 248.


La parrocchia: solida, liquida o… processuale? /2
di: Enzo Biemmi. 17 settembre 2021/La parrocchia: solida, liquida o… processuale? /2 – SettimanaNews

Dopo aver descritto la situazione attuale delle parrocchie sul nostro territorio e aver tracciato alcuni punti di condivisione, l’autore mette a confronto due ipotesi contrapposte di parrocchia: una parrocchia “liquida”, totalmente destrutturata, oppure una parrocchia ancora presente sul territorio sia pure in modalità diverse? Dai racconti sintetizzati nei lavori di gruppo e dalle convinzioni circa i passi possibili, nasce la domanda evocata alla fine del primo punto, domanda a cui dobbiamo dare una risposta: la parrocchia è in grado di assumere una postura missionaria o è meglio fare affidamento ad altre forme di vita ecclesiale? Qualcuno pensa che la parrocchia non abbia possibilità di evoluzione e che si tratti di pensare forme visibili di Chiesa totalmente diverse. Possiamo far credito alla capacità delle parrocchie di divenire missionarie o dobbiamo chiedere loro di lasciare il testimone a queste forme nuove di vita ecclesiale? Presento a questo proposito due posizioni diverse, poi dirò come si configura la nostra scelta in questo lavoro triennale appena avviato.
L’ipotesi di una parrocchia “liquida”.
Prende forma, prima di tutto, l’ipotesi di una parrocchia liquida. Possiamo fare riferimento, tra gli altri, ad un articolo di Arnaud Joint-Lambert, pubblicato anche in italiano sulla Rivista del Clero.[1]
Trovandoci in una cultura liquida, l’autore propone una presenza pastorale liquida, attribuendo all’attuale parrocchia definita “solida” (utilizziamo il linguaggio proposto dall’autore) una sola delle funzioni della presenza ecclesiale, quella per i già appartenenti (lo zoccolo duro, diremmo noi) o comunque per quelli che ci passano di tanto in tanto in cerca di servizi religiosi.
A partire dalla constatazione che «il tempo della Chiesa al centro del villaggio è finito», l’autore prende in esame il moltiplicarsi di modalità di presenze di Chiesa non parrocchiali, in particolare in aree ormai radicalmente secolarizzate. Prende come esempio le Citykirchen (chiese della City), nate nei centri urbani germanofoni, la cui caratteristica è di andare verso le periferie esistenziali. «La City è una zona attrattiva, densa, dinamica, dove si mescolano impiegati e passanti, turisti e clienti. In tale contesto sono sorti luoghi aperti a tutti, descritti come “oasi di silenzio”, “luoghi di maturazione della fede”, “luoghi di pausa”. Le Citykirchen sono sia una Chiesa deparrocchializzata, riadattata alla finalità del progetto, sia una costruzione nuova adattata al progetto. Le Chiese storiche e turistiche sono talvolta l’occasione di progetti del genere». Ora, «quando gli operatori pastorali non sono più impegnati “per tutto” e “per tutti” come è nelle parrocchie (pensiamo soprattutto ai funerali, ai sacramenti e alla catechesi), si liberano tempo ed energie per altre cose, più creative, singolari e di tipo evenemenziale»[2] e quindi missionarie.
«Facendo eco alle Idee di Platone, questi luoghi d’incontro sono contrassegnati dal Bello (esposizioni, concerti, creazioni artistiche e culturali ecc.), dal Bene (sostegno ai migranti, alle persone precarizzate ecc.) e dal Vero (formazioni, conferenze, scambi ecc.)». «Il contatto diretto e fisico con tutti coloro, uomini e donne, che sono lontani dalle parrocchie è l’obiettivo comune di tali iniziative».
Il punto di vista dell’autore è il seguente: «le Chiese sono oggi poste di fronte alla sfida della missione “per tutti”, che le parrocchie non svolgono più. Si tratta di moltiplicare luoghi simili, che non pretenderebbero di rappresentare il “tutto”, ma offrirebbero l’incontro attorno a una dimensione dell’esistenza, un’ospitalità, una convivialità o un sostegno». «Per la Chiesa si tratta di proiettarsi in un modo diverso di svolgere la propria missione, che chiameremo la “parrocchia liquida”».
In questa direzione, le parrocchie-solide (quelle nostre attuali, per capirci) sarebbero ormai solo una delle componenti delle parrocchie-liquide, una forma tra tante e quella che, di fatto, ha meno potenziale missionario di tutte.
Come si articola la proposta di una parrocchia liquida? Fondamentalmente attorno a tre dimensioni:

  • L’accompagnamento delle fasi della vita della gente, per periodi stabili ma provvisori (battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni, funerali). Questo aspetto potrebbe essere quello gestito dalla parrocchia solida. In questo compito c’è anche l’eucaristia domenicale.
  • C’è poi tutta la pastorale degli eventi, di proposte legate ai diversi carismi, caratterizzate dalla creatività e libere da ogni struttura.
  • E poi c’è la cura della dimensione mistica, attraverso proposte di preghiera e di salutare solitudine.

Quel che conta è capire che l’obiettivo di questa liquidità tridimensionale è di salvare il per tutti.

  • Dentro tutta questa liquidità pastorale, una posta in gioco oltre il “per tutti” sono le relazioni: creare luoghi di relazioni umane, che sono appunto carenti nella cultura liquida. La sfida è mantenere la comunione dentro questa varietà di comunità.
  • Questa posizione va ben oltre l’autore citato e ben oltre l’area germanofona. Ad esempio, troviamo una posizione simile e ancora più accentuata nel mondo protestante anglosassone, dove si parla di una forma di Chiesa caratterizzata dalla “misted economy[3](economia mista), per indicare l’insieme di forme di chiesa non strutturate, diversificate, creative, e per questo missionarie.

Queste forme, nate in America del nord in modo contrapposto alle parrocchie tradizionali, nel Regno Unito si sono sviluppate in una modalità più pacifica e dialogale. Un rapporto del 2004 in Inghilterra recensisce dodici tipologie di queste nuove forme di Chiesa, alcune delle quali conosciamo perché sono entrate anche da noi.
È anche la posizione in Italia ad es. di Andrea Riccardi rispetto alla presenza della comunità cristiana nelle grandi città.[4]
Se mi sono soffermato su questa prima ipotesi, è perché non è una teoria. In parte è già in atto anche da noi ed è una tendenza che affascina, soprattutto – come sappiamo – le ultime generazioni di preti, molti dei quali non provengono più dalle parrocchie, ma, per esempio, da momenti forti come le giornate mondiali della gioventù, o da esperienze spirituali dei movimenti, o da un viaggio a Medjugorje, o dalla partecipazione alla proposta dei 10 comandamenti… quindi da eventi puntuali, da una di queste forme definite “Chiese emergenti”. È una proposta che attira, perché libera dalla gestione delle strutture parrocchiali, implica fortemente, permette al prete di avere la sensazione di vivere veramente il proprio ministero spirituale, di esercitare una leadership spirituale, ha un effetto missionario visibile e gratificante.
Questa dunque è una prima ipotesi in cui collocare i criteri indicati sopra e quelli emersi dai gruppi: andare verso una parrocchia missionaria significa derubricare quella attuale (lasciandole un compito di gestione di momenti precisi) e dando spazio a variegate forme di Chiesa.
L’ipotesi di una parrocchia dei servizi religiosi che si mantiene in movimento
C’è però un altro modo di pensare il ruolo della parrocchia attuale e di intendere la sua missionarietà. Il sociologo Jean-Marie Donegani, in una conferenza tenuta alla Facoltà del Triveneto nel 2008,[5] prende le distanze da questa scelta di una parrocchia liquida, sia per motivi sociologici che teologici. Egli utilizza due modelli per interpretare la parrocchia nel contesto culturale mutato: il modello comunità (o “setta” secondo la dicitura sociologica) e il modello Chiesa come “servizio pubblico religioso” (anche qui utilizziamo il linguaggio sociologico, con tutti i suoi limiti). Rovesciando le nostre rappresentazioni egli ritiene più missionario questo secondo, nel senso in cui lo è stato Gesù nei suoi incontri con i personaggi del vangelo.[6].
Scrive: «Nei fatti le parrocchie non sono comunità nel senso sociologico del termine in ragione della grande diversità delle condizioni sociali delle persone che esse radunano, della pluralità delle culture che le abitano e della grande varietà del livello di implicazione delle persone che raggruppano (cioè dei loro livelli di fede). Se restringiamo, a partire dalla logica comunitaria, la destinazione della parrocchia al solo livello dei cristiani più impegnati, è la cattolicità della Chiesa che non è più onorata».
La socializzazione propria di una Chiesa “servizio pubblico religioso” «consente la partecipazione di tutti alla vita religiosa e rispetta le differenti soglie di implicazione personale grazie a un sistema di aggregazione molto largo e stabile. Mentre la “setta” funziona secondo un principio intensivo, la Chiesa funziona secondo un principio estensivo: raduna il più grande numero di persone e propone senso anche a coloro che non fanno esplicitamente parte del suo corpo. Mentre nel primo modello comunitario i credenti fanno la Chiesa, in questo secondo modello è la Chiesa che fa i credenti».
Donegani sa bene come reagiamo di pancia a una proposta di questo tipo, frustrati dal fatto di sentirsi ridotti a fornitori di servizi. Ma ci invita a superare la nostra fatica e i sospetti verso una parrocchia di questo tipo, dicendoci che «la sua prossimità e la sua visibilità sono dei segni della sua destinazione a ogni passante; segni della sua vocazione a interessarsi a ogni uomo senza emettere giudizi anticipati sulla qualità del suo desiderio di Dio».
Inoltre, afferma che «non è certo per il fatto che la parrocchia è stata storicamente concepita all’interno del quadro di una logica di appartenenza (quella propria del modello tridentino), che essa è incapace di onorare un’altra logica». Egli sostiene dunque quanto dice EG, la sua plasticità che la rende capace di divenire missionaria ma non elitaria.
Se accogliamo questa provocazione, ci dobbiamo allora chiedere come pensare una parrocchia non liquida (il che – come abbiamo visto – equivarrebbe a dissolverla a favore di altre forme di Chiesa) ma che sa “onorare un’altra logica” rispetto a quella dell’appartenenza o dell’inquadramento, una logica generativa che è un altro modo di dire “missionaria”. Come accompagnare la parrocchia attuale ad essere una comunità generativa?
Parrocchia connotata da “una stabilità processionale”
Vincenzo Rosito, docente di filosofia teoretica presso la Facoltà teologica San Bonaventura-Seraphicum di Roma, ci suggerisce la direzione[7] partendo dall’osservazione di una processione della statua della Madonna in un quartiere popoloso di Roma ormai largamente multietnico.
Guardando questa processione, Rosito supera la tentazione di relegarla semplicemente nella “sottoclasse” delle forme di pietà popolare, espressione residua della parrocchia tridentina. Questo camminare tra i quartieri, tra i palazzi nei cui piani bassi sono collocate delle moschee, in questo arcipelago etnico, viene da lui percepito come «un’azione collettiva che plasma e conferma la postura di una comunità in cammino, che rende visibile ed esperibile la gestualità della sequela, che attraversa lo spazio urbano rappresentando per tutti la prossimità itinerante del Dio di Gesù».
In altre parole, l’autore suggerisce, a partire dal contesto urbano, che la parrocchia può essere questo: una comunità in cammino, di sequela di Gesù, di prossimità con la gente. Questo si traduce «in una pastorale che assuma la fecondità della dimensione processionale e che faccia della processualità l’orientamento, lo stile e il metodo delle pratiche credenti». Una parrocchia “processuale” o “processionale”.
Per l’autore «la parrocchia non può limitarsi a diventare più “liquida” per incontrare le richieste di chi scorre nei flussi del pendolarismo urbano. Essa conserva una qualità da riscoprire e da valorizzare: l’ambivalenza».
«Il verbo greco paroikein è portatore di due significati apparentemente contraddittori, ma fecondamente complementari. Nel senso più comune paroikein significa vivere insieme ad altri, risiedere vicino o in prossimità di altre persone (la chiesa come casa tra le case della gente). Lo stesso verbo però viene quasi sempre impiegato nei testi biblici per indicare l’atto del peregrinare e quindi l’essere forestiero;[8] paroikein significa anche essere viandante e straniero. Comunità di residenza e di cammino, espressione della stabilitas ed esercizio di estraneità, luogo solido e accogliente che tuttavia conserva la mobilità di una tenda: sono queste le polarità che non possono mancare nella riconfigurazione pastorale della parrocchia davanti ai mutamenti attuali».
In altri termini, Rosito invita la parrocchia a vivere volentieri la sua ambivalenza, a non cadere nella tentazione della liquidità, a rimanere un luogo stabile, in cammino, seguendo Cristo, in prossimità con la gente di qualunque livello di fede.
Questo è un secondo modo di intendere la conversione missionaria della Chiesa e il passaggio verso una parrocchia missionaria.
È importante per il nostro cammino sulla parrocchia del Triveneto che portiamo il discorso fino a questo punto, altrimenti rimaniamo costantemente nell’ambiguità. Che posizione prendiamo di fronte a queste due proposte? In quale direzione intendiamo orientare la conversione missionaria delle nostre Chiese?


[1] Aranaud Joint-Lambert, Verso parrocchie ‘liquide’ ? Nuovi sentieri di un cristianesimo ‘per tutti’, «La Rivista del Clero Italiano»3 (2015).
[2] Parola sofisticata, dal francese “événement”, evento puntuale.
[3] Andy Buckler, L’Église émergente en contexte anglophone, in Evangéliser. Approches œcuméniques et européens, Jérôme Cottin et Elisabeth Parmentier (a cura), LIT Verlag, Zurigo 2015, 81-102.L’autore analizza e sostiene questo proliferare di forme di Chiesa, chiamate “Chiesa emergente”, rivolte a chi non fa parte delle nostre parrocchie. Si veda anche Eglises aux marges, Eglise en marche. Vers de nouvelles modalités d’Eglise, sous la direction d’Isabelle Grellier et Alain Roy, Travaux de la Faculté de Théologie Protestante de Strasbourg 15, Association des Publications de la Faculté de Théologie protestante, Strasbourg 2011.
[4] «La Chiesa non può irrigidirsi nelle sue istituzioni parrocchiali, non deve tracciare confini tra dentro e fuori, che spesso vuol dire chiudersi nelle strutture, ma popolare l’orizzonte della città globale di presenze ecclesiali molteplici, capaci di incontro, carismatiche, diversificate, prossime e dialoganti con la gente. La parrocchia urbana non è un fortilizio del cristianesimo… ma una realtà viva accanto ad altre realtà… La moltiplicazione nella città dei soggetti ecclesiali con caratteri diversi parte da una non assolutizzazione del territorio, ma anche nell’accettazione di cammini imperfetti, specie all’inizio, eppure capaci di crescita. Non si può controllare tutto… bisogna favorire questa libertà creativa. Non ci dev’essere timore di concorrenzialità nella pluralità, ma va fatto crescere un modo pluridimensionale di affrontare la realtà umana anche di un territorio» (Andrea Riccardi, La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, Editori Laterza 2021, 207-208).
[5] Jean-Marie Donegani, C’è un futuro per la parrocchia? Soggettivismo, ricerca di senso e servizio della Chiesa, «La Rivista del Clero Italiano»6 (2008).
[6] Si veda tra gli altri apporti in questa linea: Valérie Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon 2019, 47-72.
[7]Vincenzo Rosito, La parrocchia nella città che cambia, «Rivista del Clero» 6/2018.
[8] È il termine usato dai due discepoli di Emmaus nei riguardi di Gesù: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”.


La parrocchia: solida, liquida o… processuale? /3
24 settembre 2021
di: Enzo Biemmi

Dopo i due articoli precedenti, l’autore presenta un’ipotesi di lavoro per il Triveneto, ma in realtà il discorso riguarda tutte le aree della Chiesa italiana che sentono l’urgenza di dare una risposta adeguata alla propria situazione, al proprio territorio e alla sua gente.La scelta di una posizione o di un’altra, che porta a orientare diversamente la pastorale, tanto più quanto si è responsabili di una parrocchia o di una diocesi, dipende da diversi fattori: dalla formazione che si è avuta, dalle convinzioni teologiche, dall’esperienza da cui si viene (come dicevo prima per i preti giovani), ma soprattutto dal contesto sociale e culturale che ci è proprio.

Un’indagine che continua
Il nostro contesto del Triveneto non è quello dell’area europea totalmente secolarizzata, neppure del mondo anglosassone protestante, tantomeno del nord America. Questo non significa non mettersi in reale ascolto di quanto ci viene da queste aree culturali, ma richiede un discernimento per una risposta adeguata alla propria situazione, al proprio territorio e alla sua gente.
È per questo motivo che il percorso che abbiamo iniziato e che procederà per i prossimi due anni percorre la seconda prospettiva di cambiamento missionario. Scommette sul fatto che il binomio parrocchia-missione non sia un ossimoro. Scommette sulla possibilità che la parrocchia possa essere questo spazio stabile e in cammino dietro al Signore che renda possibile sperimentare la prossimità di Dio per tutti i livelli di fede, tutte le culture, tutte le storie di vita delle persone, a servizio della fede elementare e, quando possibile, della fede discepolare.
Certo, questo richiede alla parrocchia di non essere gelosa di altre forme di accesso alla fede, di lasciarsi da esse interrogare, di ospitarle, sapendo che, alla fine, tutte le forme di accesso alla fede hanno necessità di strutturarsi, devono trovare un approdo sufficientemente stabile e ordinario, hanno bisogno di un riferimento non esclusivo, di un luogo che dica la cattolicità della Chiesa e dove l’eucaristia celebri e educhi a questa cattolicità.
Non è una scelta ideologica. È un’ipotesi di lavoro aperta. Non si tratta tanto di prendere posizione tra due visioni diverse, ma di metterci in ascolto di quello che accade nelle nostre comunità, di imparare dai racconti delle parrocchie che camminano, due dei quali abbiamo analizzato in questi giorni. Altri sette sono stati raccontati e accuratamente analizzati dal Progetto Parrocchia della Toscana e dell’Emilia-Romagna.
In questi racconti si vedono parrocchie che stanno diventando missionarie senza liquefarsi e senza sparire. Si vede soprattutto che non c’è più “la parrocchia” (monomodello) ma ci sono “le parrocchie”, non solo perché molte sono diventate unità pastorali, ma perché si stanno configurando in modalità molto diverse a seconda del territorio e della situazione culturale.[1] Queste parrocchie stanno integrando una pluralità di forme di accesso alla fede, rimanendo però un riferimento allo stesso tempo stabile e in cammino.
Senza, quindi, farne una scelta ideologica, riteniamo che sia questa la via da seguire verso una conversione missionaria per il nostro contesto del Triveneto. Proviamo dunque a lavorare per una parrocchia che faccia della “processualità” la sua modalità di conversione missionaria. Questa parrocchia può ospitare e favorire altre forme di accesso alla fede anche imperfette, senza che diventino esclusive. Di questo infatti si tratta: non sono tanto forme alternative di Chiesa (o “Chiese emergenti”) ma esperienze diversificate di accesso alla fede.
Dentro questa scelta possiamo allora valorizzare fino in fondo i criteri emersi dai racconti e dai gruppi e quelli che emergeranno nei prossimi due anni, dedicati all’ascolto di pratiche secondo l’angolatura della ministerialità/sinodalità e della presenza di prossimità al territorio.
Come sarà la situazione fra vent’anni?
Questa scelta rimane però aperta. Non è un modo rassicurante per dire: tranquilli, la parrocchia tiene, continuiamo così senza ascoltare altre sirene. È la scelta che oggettivamente ci sembra la più adeguata per il nostro contesto e la sua storia, ma è basata sulla consapevolezza che la riforma non la faremo noi, ma ci arriverà dalle sorprese di Dio.
Come saranno le cose fra vent’anni? Pur assumendo questa posizione, che ci sembra la più corretta, dobbiamo mettere in conto che ci siano delle conversioni e delle sorprese che non possiamo immaginare. I cambiamenti sono così veloci che non possiamo dominarli.
Ma quello che possiamo fare e che ci consola – e non è poco – è il fatto che l’agire pastorale da mettere in atto per questo cambiamento della parrocchia in prospettiva missionaria è il risultato di uno «sguardo non solo analitico, né esclusivamente missionario, ma essenzialmente contemplativo» (la famosa domanda di don Dario su dove è in tutto questo la spiritualità).
Alla luce della Evangelii gaudium
Terremo bene insieme le affermazioni di due numeri di EG.
«Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» (EG 28).
«Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. … Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata» (EG 71).
Scriveva Martini: «lo Spirito c’è, anche oggi, come ai tempi di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo, né svegliarlo ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro» (C.M. Martini, Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 1997, p. 11).
Questa è la postura giusta dentro l’impegno di ripensamento delle nostre parrocchie: andare dietro ai percorsi che il Signore sta già facendo nel cuore delle persone.
«Solo Dio può generare qualcuno che possa partecipare alla sua vita. Allora la domanda che dobbiamo farci non è: come farà la Chiesa a suscitare nuovi cristiani? Quali strategie pastorali dovrà essa adottare per diventare più efficace? […] Dobbiamo invece porci su un altro piano: cosa accade fra Dio egli uomini e le donne che vivono all’alba di questo secolo? Quali percorsi prende Dio per incontrarsi con essi e farli nascere alla sua vita? E quindi cosa chiede alla Chiesa di cambiare, trasformare nella sua maniera tradizionale di credere e vivere, per assecondare quell’incontro?».[2]
Assecondare l’incontro tra Dio e gli uomini di oggi, incontro già in atto prima che noi arriviamo, è un bel modo di pensare con responsabilità ma anche senza ansie la conversione missionaria delle nostre parrocchie.


[1] Molto significativa a questo proposito è l’analisi fatta da Augusto Bonora, prete di Milano, che dialogando con l’articolo di Arnaud Joint-Lambert citato sopra, ritiene che la proposta di una parrocchia liquida non sia adeguata e propone invece di rafforzare quanto è già in atto: la presenza di parrocchie con tipologie diverse a seconda della situazione territoriale e culturale. Augusto Bonora, Sul futuro della parrocchia nella città. Attualità dei modelli della Chiesa apostolica, «Rivista del Clero Italiano», ottobre 2015.
[2] Henri Derroitte, Iniziazione e rinnovamento catechetico. Criteri per una rifondazione della catechesi parrocchiale, in ID. (ed.), Catechesi e iniziazione cristiana, Elledici, Torino 2006, p. 53.