Prendersi cura del nuovo anno
Mariano Borgognoni (ROCCA- Assisi)

Prendersi cura del nuovo anno

Mariano Borgognoni (ROCCA 1 gennaio 2022)

E’ una brutta consuetudine quella di dividere la vita e la storia in anni, de­cenni o secoli, come se si tagliasse a fette un melone. E fa venire l’ortica­ria sentir ripetere ad ogni piè sospin­to: non siamo più nel Novecento, or­mai siamo nel nuovo millennio. Come se que­sto fosse necessariamente un vantaggio. Ep­pure nessuno di noi si sottrae a bilanci e pro­positi, dentro questa segnaletica convenzio­nale del tempo. E il tempo, pur essendo in­definibile se non per via di approssimazioni come sanno i filosofi e gli scienziati, è dav­vero più importante dello spazio. Innescare processi è più fecondo che occupare spazi. Eppure non si può vivere d’inneschi: né nel­la vita ecclesiale, né in quella sociale, né nel­la vita tout court. È necessario giungere ad alcuni approdi, meglio se saranno punti di una nuova partenza per il futuro piuttosto che paludi stagnanti dove vivere da arrivati. Che cosa augurarsi dunque per l’anno nuovo? Per cosa fare quello che si deve scontando che poi avverrà solo quello che può? Mi appello alla numerologia limitandomi (si fa per dire) a sette obiettivi e auspicandone settanta volte sette, come disse Gesù che amava esagerare al pari di tutta la sua stirpe.
Primo: una se­ria lotta alla pandemia che sul piano plane­tario liberalizzi i brevetti e aiuti i paesi po­veri. Un atto di lungimiranza e di generosità capace di restituire sicurezza al mondo e con­sapevolezza che non serve a molto trince­rarsi nel bunker dei privilegiati.
Secondo: una nuova attenzione alle condizioni di salute della nostra casa comune, straordinariamen­te logorata dal paradigma unico della cre­scita a qualsiasi costo sociale e ambientale. Così l’Agenda 2030 dell’Onu finisce per esse­re una mera cornice di buone intenzioni, come Glasgow ha continuato a dimostrare.
Terzo: rimettere al centro il lavoro. La piena e buona occupazione come traguardo di ci­viltà e democrazia. Lo dico con le parole di Piero Calamandrei: «finché non c’è la possi­bilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la no­stra Repubblica non si potrà chiamare fon­data sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica». Si badi, come aveva ben intuito Pier Pao­lo Pasolini, di cui ricorre il centenario della nascita proprio quest’anno, che sviluppo e progresso possono benissimo non coesiste­re. Non basta agitare la bandiera del Pil se aumenta la povertà, il lavoro impoverito, la desertificazione dei diritti, l’indebolimento della progressività fiscale. Nessuno svilup­po è durevole senza la riduzione della disu­guaglianza. La politica democratica torni sul­la terra se vuole evitare brutte sorprese.
Quarto: tutto quanto detto vale tanto più per le donne, prime ad essere licenziate nella crisi, ultime ad essere assunte, prime ad es­sere sotto-retribuite, ultime ad accedere ai livelli apicali delle carriere. Prime nella pra­tica religiosa, ultime a svolgere ministeri e ruoli significativi nelle sacre istituzioni.
Quin­to: è necessaria più che mai la volontà di fare giustizia e di combattere i poteri criminali che rischiano di prosperare e infettare tutto il Paese sfruttando crisi e malessere. Tutto questo sembra essere scomparso dai radar.
Sesto: siamo dentro la stagione del Sinodo universale e della Chiesa che è in Italia. Ma un cammino sinodale serve solo se è corag­gioso altrimenti si tradurrà in una frustra­zione grande e pericolosa. Il nodo mi pare essere quello di riconoscersi come comunità di battezzati: poi, poi, poi vengono i ministe­ri, da ripensare, ridefinire, inventare e ren­dere inclusivi. Qui si dovrebbe decidere qual­cosa di serio su donne e laici nel governo reale della Chiesa e nella liturgia. Un model­lo patriarcale, maschilista e clericale non sta più in piedi. È meglio che la Chiesa non aspet­ti che le crolli addosso.
Settimo: in questi mesi tante donne e uomini si sono misurati sulle nostre pagine a partire dalla domanda di Gesù ai suoi: «Ma voi chi dite che io sia?». Torna ad essere la domanda cruciale per chi si confessa cristiano. La vera, necessaria ri­forma ecclesiale non può che partire da qui: quale Dio? Solo quello di cui Gesù ci ha fatto la narrazione può catturare ancora il cuore del mondo nell’epoca del disincanto e di nuo­vi perniciosi incantamenti. Correre il rischio della radicalità evangelica, esporsi al falli­mento e (come ci ha insegnato anche da que­ste colonne un vero maestro di fede e di pen­siero, nato cento anni fa ma uomo del futu­ro) «seguire Gesù, entrare come lui nella de­dizione agli ultimi, destando turbamento nel­la città che ci vorrebbe al suo servizio e at­tuare la manifestazione del Dio della pace ai poveri per i quali la città non ha posto» (Er­nesto Balducci, Rocca 3, 1 Febbraio 1991). Avrete notato che sono rimasto fedele all’av­versione verso ogni nuovismo; le sette que­stioni che ho posto sono infatti quelle su cui Rocca ha battuto il chiodo nel 2021. E conti­nuerà a farlo nell’anno nuovo. Auguri a tutte e tutti!