QUARESIMA E LE VIE DELLA CONVERSIONE
Carlo Molari
LE VIE DELLA CONVERSIONE. Carlo Molari (ROCCA 1/4/04)
La quaresima ripropone alla Chiesa la conversione continua, come la condizione assoluta per il cammino di fede e per rendere significativa la celebrazione della Pasqua. Oggi inoltre essa è necessaria come testimonianza pubblica della speranza, cui anche l’uomo secolarizzato non può rinunciare. Sergio Quinzio, in un inedito pubblicato dalla Stampa il 3 febbraio 2004, osservava in merito: «l’uomo moderno che ha alle sue spalle la grande speranza cristiana, ha cercato per questo, di pervenire a una condizione umana redenta, salvata, liberata. Non è mai più uscito dal bisogno che la rivelazione cristiana ha posto in lui, continua a volere qualcosa che superi di gran lunga i penosi limiti della ‘natura umana’. Anche se è uscito dall’orizzonte della fede cristiana, l’uomo non è uscito dall’orizzonte di quella speranza… Lo stesso rifiuto della salvezza ne tradisce il bisogno». La conversione dei credenti e la testimonianza che ne deriva, hanno oggi anche l’urgente finalità di rispondere al bisogno di salvezza e di tracciare quindi vie alla speranza. Il messaggio di chi vive processi di conversione riferendosi al Vangelo o aprendosi all’azione di Dio è inequivocabile: le novità nelle persone e nella storia umana sono possibili, anche oltre la misura delle nostre attese, perché l’azione di Dio è una straordinaria potenza di vita per le creature e per la loro storia. Spesso però il messaggio trasmesso dai credenti è ambiguo e incerto perché la conversione è intesa in chiave puramente morale come cambiamento di costumi. La conversione è molto di più perché consiste in un processo vitale che attiene al divenire della persona e allo sviluppo della specie. Non si tratta semplicemente di cambiare pensieri, desideri, azioni, ma di diventare persone nuove o di consentire che la vita sviluppi tutte le virtualità della specie umana.
In questa prospettiva le componenti della conversione sono almeno tre:
– la consapevolezza del negativo che condiziona la storia e le persone,
– la presa di distanza ideale dal male individuato,
– l’esercizio della fiducia in Dio per consentire l’espressione in noi della sua azione misericordiosa.
Molti equivoci sulla conversione e molte resistenze derivano dalla poca chiarezza di questi aspetti.
Consapevolezza del male.
La presa di coscienza del male è un processo complesso che si sviluppa secondo dinamiche e in momenti diversi. Il primo dato è il giudizio preventivo delle scelte che ci apprestiamo a fare, la risonanza inferiore degli atti che compiamo, in una parola: il giudizio della coscienza. Ma il dato più significativo e completo per la consapevolezza del male è l’analisi dei frutti che conseguono alle scelte compiute. Dai risultati vitali delle scelte, infatti, appare quale tipo di forza è stata messa in moto e quali spazi sono stati effettivamente aperti al fluire della vita. La consapevolezza del male, perciò, deve implicare anche l’analisi delle conseguenze per la persona e degli influssi esercitati nell’ambiente con le azioni compiute. Ci sono esperienze che solo dopo molto tempo rivelano le loro insufficienze e manifestano le potenzialità dei loro inquinamenti. Importante è rendersi conto che il male non risiede semplicemente nei gesti compiuti o nelle opere realizzate, perché diventa flusso storico, struttura vitale, realtà permanente delle persone. La presa di coscienza del male, perciò, conduce alla consapevolezza del negativo, che svuota la persona, si insinua nelle relazioni, inquina i processi storici. Non si tratta perciò solo di trasgressioni morali o giuridiche, ma di realtà profonde, di decadenza vitale, di impoverimenti progressivi delle società. Le scelte sono segni di una condizione e diventano stimoli ulteriori ai processi degenerativi delle persone e delle comunità. Il grado di consapevolezza del male cresce con la persona stessa e con il raffinamento della sua sensibilità spirituale, costituita da qual complesso di criteri e di valutazioni che rafforzano la struttura interiore della persona. Per il giudizio storico quindi è necessario tenere presente che la consapevolezza del male non risulta solo dai frutti negativi derivati, ma anche dallo sviluppo della coscienza giudicante. Vi sono infatti delle scelte che in un particolare periodo non sembrano avere alcun carattere negativo e che invece con il passare del tempo, anche indipendentemente dai frutti emersi, appaiono in se stesse inadeguate e contrarie alle esigenze della vita. Per questo le scelte, compiute nel passato, man mano che il tempo passa, possono apparire in una luce progressivamente diversa. Non cresce la colpa soggettiva, perché il passato ne ha fissato la misura secondo il grado di responsabilità e di consapevolezza del tempo in cui l’azione si è svolta, ma la conversione può manifestarsi più esigente secondo il peso del male introdotto nella storia personale e sociale. Questi criteri non riguardano solo le scelte personali, bensì anche quelle comunitarie e storiche.
Presa di distanza e riparazione del male
Di fronte al male, tuttavia, la consapevolezza non è sufficiente alla conversione. È necessaria anche una esplicita presa di distanza e un rifiuto consapevole del male. Essa si esprime in vari modi sia a livello personale che a livello storico e sociale. Riguardo alla persona, la presa di distanza implica saper riconoscere gli effetti negativi, previsti o meno, che le scelte di fatto hanno provocato; saper smascherare e analizzare i meccanismi vissuti e le giustificazioni ingannevoli che li hanno suscitati e accompagnati. A livello storico la presa di distanza implica l’accoglienza delle conclusioni degli studi seri compiuti dagli esperti, l’individuazione delle cause e dei processi che hanno condotto alle scelte negative, la richiesta esplicita e pubblica di perdono per le scelte compiute nel passato non solo dalle singole persone, ma anche dalle istituzioni, non solo in rapporto al presente, ma anche a tutto il passato. A questi processi dovrebbero impegnarsi tutte le istituzioni anche planetarie. In questo quadro si comprendono sia gli studi storici promossi da Giovanni Paolo II durante il suo pontificato per gli episodi oscuri o ambigui della storia ecclesiale, e anche i numerosi atti di pentimento espressi in varie circostanze e in particolare nell’occasione dell’anno giubilare. Alcuni, anche recentemente, hanno criticato l’insistenza con cui il Papa ha riproposto alla chiesa questa strada. Ma le ragioni addotte non sembrano toccare i punti essenziali dei gesti di riconciliazione. Scrive ad es. lo storico fiorentino Michele Ranchetti: «La richiesta di perdono da parte della chiesa… è un atto, in apparenza rivoluzionario. Si è detto per la prima volta nella storia, la chiesa di Roma riconosce i suoi errori e le sue colpe. È vero. Ma è anche vero che a questa dichiarazione di colpa, a questa richiesta di perdono non segue assolutamente nulla: nessuna forma di penitenza e di espiazione. È un atto «verbale» che non si sa a chi sia diretto, chi riguardi, chi debba e possa valersene» (Non c’è più religione. Garzanti, Milano 2003, p. 12). Per la Chiesa, secondo Ranchetti, esso «appare ora come la più esplicita affermazione della propria autorità assoluta che offre a sé stessa il perdono, ai suoi membri incorsi in peccato, ma senza indicare né chi né dove, né quando, e senza alcuna forma di espiazione, senza alcuna penitenza visibile» (ivi p. 24).
Le cose non stanno così. La domanda di perdono è rivolta a Dio per accogliere quella forza di vita che trasforma le persone e le rende capaci di novità radicali. Ma insieme è sollecitazione e impegno a prendere le distanze da quei meccanismi di male che si sono espressi nel passato e che operano ancora oggi. La presa di distanza dal male della propria storia significa riconoscerlo, additarlo come male da superare e assumere oggi atteggiamenti opposti a quelli esercitati nel passato.
Non sono sufficienti il riconoscimento del male e la presa di distanza se questi atti non sono seguiti da atteggiamenti di accoglienza di quella energia che investe l’orante, lo alimenta e fiorisce in lui come vita nuova. Il processo di riconciliazione implica un’azione purificatrice di Dio che, accolta dalla creatura, diventa in lei qualità inedita di vita. La conversione quindi non è l’iniziativa dell’uomo che vuole diventare migliore, ma la risposta umana ad una sollecitazione di Dio, che con atto gratuito, purifica la creatura dal peccato rinnovandole l’offerta della vita. Al perdono richiesto, perciò non deve seguire nessuna punizione o sofferenza, bensì una forma nuova di esistenza che si concretizza in gesti concreti di dialogo, in atti di accoglienza, in invenzioni di fraternità, in segni di amicizia, in offerte di misericordia, secondo le diverse forme di peccato di cui si chiede perdono. Ora è innegabile che le pratiche di riconciliazione quando si svolgono con consapevolezza e coinvolgimento interiore modificano gli orientamenti di vita. Gli inviti perciò che il Papa ha rivolto alla chiesa cattolica non sono stati vani e insignificanti, bensì espressioni sincere della volontà di accogliere l’azione misericordiosa di Dio per farla fiorire in novità di vita.