La lotta di Giobbe
(Don Angelo Casati).
Oggi la Liturgia ha accostato alla pagina del vangelo di Marco la
pagina del libro di Giobbe, che forse può disturbare la sensibilità
delle persone cosiddette devote che, davanti al dolore degli altri,
predicano senza troppa fatica, come fanno gli amici di Giobbe, la
rassegnazione o la resa.
Giobbe risponde con la lotta. E Dio è dalla parte di Giobbe e non
dalla parte dei suoi amici che, bravi loro, hanno un prontuario di
risposte teologiche per spiegare i drammi dell'umanità.
Dio accetta parole di protesta come quelle di Giobbe che oggi
abbiamo ascoltato, parole che parlano della fatica del vivere.
È folgorante e sorprendente il libro di Giobbe, perché noi siamo
stati educati a legare Dio e la sua immagine all'insegnamento della
rassegnazione e dell'accettazione passiva. E invece il libro di
Giobbe -scrivono i monaci di Bose- predica "la legittimità del
linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell'uomo, quando
si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla
situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio
la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà
aggressività verso i suoi amici teologi che in realtà si rivelano
nemici e medici del nulla".
Pensate invece quante volte anche noi, come gli amici di Giobbe, ci
scandalizziamo di fronte al grido o alla bestemmia di dolore, e
quante volte invitiamo al silenzio, o all'attenuazione del grido:
«Ma non dire così. Esageri!».
Il libro di Giobbe non legittima la figura del credente come di
colui che la dà vinta al male, legittima la figura del credente come
di colui che lotta contro il male. Perché questa è anche l'immagine
di Dio. Non è forse questa l'immagine di Dio, che, come per una
fessura, intravediamo in Gesù di Nazaret?
"Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la
sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini
maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece
lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute
all'uomo."
Gesù istruisce i suoi discepoli e istruisce noi oggi con il suo
esempio. Ci istruisce con i suoi verbi, i verbi di Gesù nella casa
di Simone, che dovrebbero diventare i nostri verbi oggi nelle case
di questa umanità. Ricordiamoli: "si accostò, la prese per mano, la
sollevò". Quasi a suggerire che se noi ci teniamo a debita distanza,
se noi rifuggiamo dal contatto fisico, non solleviamo nessuno. Chi
soffre, per sentirsi in qualche modo rivivere, "risorgere", come
allude il verbo greco, ha bisogno di vicinanza, di mani che
accarezzino, che stringano.
Non faremo miracoli. Nemmeno a Gesù fu possibile fare miracoli a
tutti. È scritto: "gli portarono tutti i malati e gli
indemoniati… guarì molti". Tutti… molti! C'è uno scarto.
Ma sollevò tutti. Non faremo miracoli, ma solleveremo qualcuno,
accostandoci, prendendo per mano.
Vorrei aggiungere che Marco, se da un lato registra l'immergersi di
Gesù in questa umanità dolente, dall'altro registra l'andarsene, un
duplice andarsene. Esce quando ancora è buio di casa e si ritira in
un luogo deserto e lì prega. E così scopriamo nelle pieghe della
pagina di Marco da dove Gesù attingesse quella sua forza, l'energia
dello Spirito che faceva di lui l'uomo della compassione, della
vicinanza, della cura, della dedizione assoluta. Così per lui, così
anche per noi. C'è una sorgente, una sorgente segreta.
Ma nel brano di Marco è accennato anche un altro "andarsene". I
discepoli lo scovano, gli dicono: "tutti ti cercano". Dice: "Andiamocene
altrove… per questo sono venuto". È venuto per andare altrove:
la Galilea non è un solo villaggio.
C'è sempre questo pericolo di voler fare di Gesù il proprio
cappellano, un cappellano di corte, il cappellano del proprio
gruppo, del proprio movimento e non il Salvatore di tutti i
villaggi. E Gesù se ne va. Chissà se l'abbiamo capito. Essere nel
mondo e diventare uomini e donne di un villaggio solo
significherebbe spegnere e tradire il vero movimento, quello del
vangelo. Vangelo che ci mette in guardia dalla tentazione di
rinchiudere noi stessi in un solo villaggio e dalla pretesa di
rinchiudere Dio in un solo villaggio.
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