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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

 1- ASSENTE

Che qualcuno sia assente può significare diverse cose. Che non è presente per un momento e che presto ritornerà, oppure che manca da così lungo tempo che in molti danno per sempre vuoto il suo posto: che lo prenda un altro, tanto ormai quello non lo vedremo più. Oppure qualcuno potrebbe anche insinuare l'idea che in quel posto non c'è mai stato nessuno e che colui del quale si registra l'assenza in realtà non è mai esistito. Oppure c'è, ma è come se non ci fosse, è cioè assente, nel senso che non ascolta, non partecipa, non risponde nel suo apatico star lì toccato da nulla.
Ci sono persone che vivono senza che nessuno nemmeno s'accorga di loro e altre che proprio nella loro assenza fanno percepire la loro presenza, il valore di quand'erano presenti. Questo è più vero che mai nel caso di Dio (e quando diciamo Dio qui intendiamo quello dell'Antico e del Nuovo Testamento), del quale l' as­senza lascia trasparire cosa dev'essere stata un giorno la sua presenza, al principio di tutto, certo, ma anche in azioni concretamente salvifiche. Si dice che "anche la più umile delle serve vide, al mar Rosso, quello che Isaia, Ezechiele e tutti gli altri profeti non poterono mai vedere" (Mekilta de-Rabbi Ishmael).
Fede e non fede hanno a che fare con lo stesso identico vuoto, per questo è dura battaglia il rendere "ragione" della speranza che ci abita (l Pt 3,15), soprattutto di fronte a quelle situazioni in cui non solo gli stolti, ma i fatti stessi sembrano lì a dirci che: "Dio non c'è" (Sal 14,1). Forse mai come ora il mondo è stato attraver­sato dall'assenza di Dio: il processo di secolarizzazione degli ultimi cinquant'anni ha finito per minare le basi stesse della possibilità di credere. All'assenza di Dio ci si è a tal punto abituati che nemmeno si riesce più a immaginare come potrebbe giovarci la sua presenza. Nemmeno i veri atei sono più tra noi, solo indifferenti che, sonnecchiando tra gli sbadigli sembrano sempre sul punto di direi: "Dio!, che roba è?".
Eppure la scommessa di chi crede gioca ancora tutto sul fatto che il Dio assente da qualche parte ci sia, che quel che ha udito dire di lui corrisponda al vero (credere in Dio non può infatti prescindere dal credere alla sua Parola, quella che qualcuno ci ha trasmesso da gran tempo), e che un giorno o l'altro "La terra si riempirà della co­noscenza / della gloria del Signore, / come le acque ricoprono il mare" (Ab 2,14).
Se vedessimo Dio, se sperimentassimo pienamente la sua presenza non avremmo più alcuna ragione di credere o sperare. E diciamo pienamente poiché una qualche sua presenza chi crede la deve pur sentire, magari la presenza della sua assenza. Tanto che si potrebbe persino ritenere proprio l'assenza di Dio il luogo vero della speranza, dell' anelito di fede. Chi abita tranquillo e sazio nel suo pieno non atten­derà nulla perché ormai crede di avere tutto. Possono esserci persone così colme di religione e tracotanza interiore, da non avere più posto per la fede e persone senza religione con un vuoto e un tremore capaci di autentica fede dentro. Giacché la fede vive costantemente in un vuoto nel quale la memoria rivela qualcosa che non c'è più e la speranza qualcosa che non c'è ancora.
JHWH è il Dio che si è rivelato a Mosè nel roveto dicendo: "Io sono colui che sono!" (Es 4,14), promettendo cioè la sua presenza nella prospettiva del futuro, di quel futuro nel quale egli realizzerà cose straordinarie e inimmaginabilmente nuove, come quella di aprire il mare e di far scendere ogni giorno pane dal cielo. In quell'affermazione non c'è nulla che abbia a che spartire col nome divino EL, "tu sei", nel senso dell'eterno presente, scritto sul portale del tempio di Apollo a Delfo. Il Dio rivelato ad Abramo e Mosè è Dio della storia, un Dio che agisce più che essere. Della presenza di Dio sappiamo qualcosa fin da quando qualcuno ne ha avuto esperienza, incontrando in qualche modo la sua parola, il suo agire. Dio lo si incontra in maniera imprevedibile e discreta. Mosè parlava con lui "faccia a faccia", ma quando pretese di vedere la sua "gloria" gli fu detto senza mezzi termini che nessun uomo può vedere il suo volto e "restare vivo". Al suo passaggio "nella cavità della rupe", Mosè vedrà passare tutta la "bontà" e le "spalle" di Dio, ma non il "volto" (Es 33,11.18-23).
Ernst Bloch, che ha riflettuto come pochi sul significato dell'utopia e della speranza nel mondo moderno alla luce delle radici ebraiche della fede, dice che "Il Dio ultimo e autentico, sconosciuto e sopradivino, rivelazione di noi tutti, 'vive' già ora, pur se non 'incoronato' e non 'oggettivato'; egli 'piange', come dissero alcuni rabbini rispondendo a chi domandava che cosa facesse il Messia, non potendo 'manifestarsi' e redimere; egli 'sta nel più profondo di tutti noi come 'io sono colui che sarò', come 'tenebra del Dio vissuto', come tenebra che lo separa dal suo raggiungimento, dal suo volto che deve finalmente venir svelato, dall'esodo che libera la stessa vera essenza, dall'esilio" (Spirito dell'utopia).
L'assenza di Dio è proprio colui che lo percepisce presente a sentirla di più, poiché quella di Dio è una presenza sempre da venire, come egli stesso ha promesso, una presenza da invocare e mai posseduta come vorremmo. Chi ama Dio vorrebbe essere sempre in sua compagnia, come quando si desidera la compagnia della persona di cui si è innamorati, del più caro tra gli amici. Chi lo ama vorrebbe averlo vicino così come lo aveva Giovanni a tavola durante l'ultima cena, quando conversava con Gesù chinandosi sul suo petto, quando si mangiava insieme e si prendeva cibo con le mani dallo stesso piatto (Gv 13,24-26).
Con Gesù Dio s'è manifestato presente come mai prima, come per farci conoscere il suo desiderio di essere tra noi, concretamente, non - come dicono i mistici - semplicemente nell'interiorità e nei cuori. Cos'è Eucaristia se non bere il sangue versato per noi dal Signore duemila anni fa sul Golgota in attesa di berlo "nuovo" come "frutto della vite" insieme a lui, quando di nuovo verrà, come ha promesso (Mt 26,29)? Il "pane quotidiano" che si chiede nel "Padre nostro" (11t 6,9-13), più che il pane di ogni giorno è il pane del Regno di cui dobbiamo quotidianamente chiedere la venuta. "Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!" esclamò un giorno uno dei commensali che capitò a mangiare attorno a una tavola con Gesù che parlava del banchetto del Regno, dell'umiltà, dei poveri, della "ricompensa alla risurrezione dei giusti" (Lc 14,14-15).
Che Dio provveda il cibo a suo tempo per ogni creatura non ha nulla a che vedere con il pagano ordine naturale e cosmico in cui tutto è previsto nell'eterna connessione di logiche da sempre e per sempre determinate, compresa quella dell'essere inghiotti dal male e dalla morte. Nel Regno "il leone si ciberà di paglia, come il bue" (Is 11,7). Non v'è nulla di più indeterminato, disordinato, innaturale e illogico della risurrezione dei morti, del potentissimo gesto con cui Dio si renderà finalmente presente facendo nuovi cieli e terra. Questo significa desiderare, cercare "anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia" considerando tutto il resto, compreso pane e vestito, nient' altro che "aggiunta" nella "pena" sufficiente per "ciascun giorno" (Mt 6,24-34), nel vuoto, nell'assenza percepita del Regno.
Quando venne Gesù "il regno di Dio" era lì, "in mezzo" alla gente, in mezzo a Israele e al mondo (Lc 17, 21), sarebbe bastato riconoscerlo, sentirsene bisognosi, fare il vuoto dentro, per poterlo accogliere come quando si accoglie con gioia un invito a "nozze" (Mt 22,2). "Dio si era 'appressato' tanto da vicino, che era pronto ad aprirsi una breccia dappertutto ... il regno di Dio in realtà sarebbe potuto irrompere ... Ma essi non cedettero. Lasciarono trascorrere il tempo. Venne l'ora delle tenebre e fu come se il Regno si ritraesse indietro" (R. Guardini, La preghiera del Signore).
Dio continua ad amarci ogni giorno, patendo la fame con chi ha fame, la povertà coi poveri, perché ci ama da fratello, da amico, nell'umiltà dal basso, ed è così che continua a vederci e ascoltarci, conservando ogni cosa, patendo ogni cosa, in attesa di riscattare, redimere ogni cosa alla fine del mondo, quando verrà a giudicare la storia di ogni uomo. Quando si renderà finalmente visibile e presente come non riusciamo nemmeno a immaginare, come la rivelazione del Cristo fece un tempo trapelare appena per qualche anno, mangiando tra noi, guarendo i malati, risuscitando i morti.
Se invochiamo che il Regno venga è perché ancora non c'è: fino a quando il Signore non verrà, nell'ultimo giorno, Dio è l'assente, c'è poco da fare. L'attesa che muove dalla fede e dalla speranza cristiana è attesa non di un coronamento al processo storico di progresso e ascesa, ma attesa di un evento improvviso, della venuta di un mai visto prima, di una novità assoluta e sempre finora assente nel mondo e nella storia, la novità della redenzione. Tale venuta in greco è parousìa, parola che letteralmente significa "presenza" ma alla quale la tradizione che viene dai profeti e dagli apostoli gli ha conferito il timbro messianico della speranza.  Infatti - dice Moltmann - nel Nuovo Testamento per parousìa non s'intende mai la presenza trascorsa di Cristo nella carne e nemmeno la sua presenza attuale nello Spirito, ma sempre e unicamente la sua presenza futura nella gloria" (L'avvento di Dio).
In quella singolare mattinata qualcuno credette vedendo la tomba vuota, l' as­senza del corpo di colui che era stato lì sepolto tre giorni prima. Ma cosa significa "vide e credette", dal momento che subito dopo è anche detto: "Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti" (Gv 20,8-9)? I racconti del sepolcro vuoto che fanno i quattro vangeli sono grovigli contrastanti uno con l'altro e tutto sembra restare appeso a eventi ancora da credere proprio perché ancora da attendere. Gesù non è risorto se i morti non dovessero un giorno risorgere, ha scritto Paolo, con una certa insistenza e determinazione, alle comunità cristiane della prima ora (1 Cor 15,12-19). La fede ha sempre a che fare con l'assenza e col vuoto, col dramma delle domande che devono ancora ricevere risposta, con l'attesa di qualcuno o qualcosa che è ancora assente, che deve farsi ancora vedere e toccare, proprio come quando il Risorto si mostrò a Tommaso facendosi ficcare il dito nelle piaghe (Gv 20,27). Il dramma di chi crede è quello di chi non vede e non sa, un dramma che si esprime tutto nell'anelito e nell'attesa di qualcosa che deve accadere nel futuro. Chi ha smesso di attendere è perché ha anche smesso di sperare in ciò che ancora è assente, infatti "se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza" (Rm 8,24-25).
Ma se non riusciamo più ad attendere, occorrerebbe almeno quel minimo gesto di onestà e consapevolezza di cui faceva lucidamente cenno Martin Heidegger qual­che decennio fa, "di preparare - cioè - nel pensiero e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o dell' assenza di Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo) (Ormai solo un Dio ci può salvare).

(continua prossimo articolo: 2- NASCOSTO)