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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

10. IL MORTO

Anche se in pochi sembrano saperlo, la morte è entrata tra noi senza che Dio lo volesse: “Dio non ha creato la morte… Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo”, dice il Libro della Sapienza (1,13;2,24). Da quando ha fatto irruzione tra noi con essa Dio è entrato in una lotta furibonda, e così sarà fino all’ultimo giorno: tra gl’innumerevoli nemici la morte sarà “l’ultimo a essere annientato”, dirà san Paolo (1Cor 15,26).
La modernità tuttavia, pur prendendo spunto e vigore da tali presupposti d’inimicizia e di lotta, e forse proprio a causa di questo, è arrivata a parlare della morte stessa di Dio, come se Dio avesse già perduto da tempo la sua battaglia. “Dio è morto!”: ecco il grido risuonato tra noi da secoli, poiché Nietzsche non ha fatto altro che mettere in bocca al suo “folle uomo”, quel che già covava nel cuore della modernità, da quando si volle espellere Dio per prenderne il posto in forza della propria ragione e tracotanza.
Ad accorgersi della morte di Dio, in quel famoso aforisma nietzschiano, è un pazzo ancora in qualche modo abitato dalla fede, uno che forsennatamente continua a cercare Dio in mezzo al “mercato”, nonostante le risa degli astanti. Mentre tutti loro credono di vedere ogni cosa alla “chiara luce del mattino”, il folle si sente costretto ad accendere la sua “lanterna”, accorgendosi di come senza Dio “seguita a venire notte, sempre più notte”. Solo chi ha sperato e creduto molto in Dio può percepire con dolore che è stato ucciso. Anzi: che siamo stati noi a ucciderlo, “noi, gli assassini di tutti gli assassini”, e che continuiamo a farlo con la nostra indifferenza, magari sbadigliando davanti all’immagine del Crocifisso. Non è un caso che dalle vie del mercato il folle uomo farà irruzione, “in quello stesso giorno, anche nelle chiese e, cacciato via dirà: ‘Che altro ancora sono queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?’” (La gaia scienza, 125).
E tuttavia, cosa si fa dentro le chiese, quando al suono della campana la gente si raduna attorno all’altare con un sacerdote che trasforma pane e vino in corpo e sangue di Cristo, se non annunciare la morte del Signore? Cosa fanno coloro che si convertono a tale fede e che vengono immersi nell’acqua, se non venire battezzati “nella sua morte”, fino a essere “sepolti insieme a lui nella morte”, affinché “intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte”, lo siano “anche a somiglianza della sua risurrezione” (Rom 6,3-5)? Cos’è cristianesimo se non fare memoria, insieme alla comunità dei credenti, del terribile soffrire in cui Dio s’è lasciato immergere, per amore, fino a morire? Possiamo rimanere in comunione di vita con lui senza esserlo, prima di tutto, in questa discesa con lui verso la morte?
E non è forse meno ipocrita, in questo senso, chi resta al mercato a ridere e gozzovigliare rispetto a chi invece entra in chiesa senza il timore dovuto, nei confronti di un Dio del quale ovunque si è chiamati ad annunciare non solo la morte, ma anche lo scandalo di quella morte? Terribile è infatti avere a che fare col Crocifisso “senza scandalo” – ammoniva Karl Barth – poiché solo nella percezione di quello scandalo noi possiamo cogliere “il riflesso dello scandalo che noi siamo per Dio” (L’Epistola ai Romani).
Il cristiano è infatti prima di tutto chiamato ad annunciare la morte del Signore e solo dopo potrà anche proclamarne credibilmente la risurrezione che, altrimenti, rimarrebbe un avvenimento quasi naturale o persino astratto, anziché un fatto inaudito e sconvolgente del quale gli stessi discepoli stentarono a comprendere la portata: solo morendo Dio ha potuto vincere la morte, un prezzo di sofferenza inimmaginabile, incomprensibile per la nostra mente umana.
Ma ancora saremmo semplicemente da capo se un altro fatto, altrettanto sconcertante e inaudito, non dovesse accadere nel futuro così come ci è stato promesso da Dio. Per questo la Chiesa ancora oggi ci invita, non solo ad annunciare la morte del Signore e a proclamarne la risurrezione, ma in particolare di farlo “nell’attesa” della sua venuta.
Di questa attesa è costituita la fede cristiana, una fede che fa’ memoria della risurrezione del Signore, nella speranza che a risorgere con lui e dopo di lui, siano anche tutti i morti. Una fede che può anch’essa morire. Anzi. Se Gesù seriamente dubitava di trovare ancora “la fede sulla terra” al momento della sua venuta (Lc 18,8), cos’altro sarebbe in tal caso la fine del mondo, se non l’irruzione del Dio vivente creduto morto in una terra in cui a essere morta è proprio l’attesa di lui, la fede in lui?
Ma se è così, allora tutte le profezie che riguardano le terribili cose annunciate per la fine dei giorni - con “cieli in fiamme” che si dissolvono ed “elementi incendiati” che si fondono, mentre i credenti “nella santità della condotta e nelle preghiere” aspettano e affrettano, secondo la “promessa” quei “nuovi cieli e una terra nuova nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,12-13) - andrebbero forse lette paragonandole alla passione e alla croce del Signore. Così come Cristo non prima ma dopo la sua morte è potuto risorgere, anche il mondo non prima ma dopo la sua fine, vedrà i morti risorgere, la “Gerusalemme nuova” scendere “dal cielo, da Dio”, il quale “asciugherà ogni lacrima” dai nostri occhi, “e non vi sarà più la morte” (Ap 21,2-4). “Tutto il corpo” non potrà, alla fine, che seguire, “secondo verità nella carità”, la sorte del “capo” per essere davvero salvato (Ef 4,15-16).
Certo, se i morti non dovessero un giorno risorgere, “vuota” sarebbe la nostra fede (1Cor 15,14). E tuttavia il credente, proprio “secondo verità nella carità”, continuerebbe comunque ad amare il suo Dio anche solo fermandosi sotto la croce, sentendone la vicinanza, fino all’ultimo, nello stesso dolore, nella stessa attesa, nella stessa sconfitta.
Se credibile nonostante tutto è il Dio di Cristo lo è perché è risorto dopo essere morto per davvero come noi, come uomo ancora giovanissimo e pieno di spavento, gridando fino al suo ultimo fiato a Dio: “Perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Sì, è morendo come un disperato che ha dato a noi speranza il Signore, non morendo come tanti tra noi, sazi di denari e di anni, annoiati nel lusso, nel grasso e tra gli applausi.
Noi sappiamo quali domande e quali tremori suscitò nell’animo di un credente come Dostoevskij l’immagine non tanto del Crocifisso, quanto proprio quella del “Cristo nel sepolcro” dipinta da Hans Holbein. Domande che metterà in bocca a Ippolit, il giovane tisico che incontriamo nel suo romanzo L’idiota. Domande che mettono a dura prova la fede: come poterono conservare la fede coloro che avevano creduto in lui vedendolo ridotto in quel modo? Non solo: Ma “se il Maestro stesso, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, chissà se sarebbe salito sulla croce e se vi sarebbe morto come morì?”.
Se mai la sensibilità ebraica s’è lasciata abbindolare dall’illusione dell’immortalità dell’anima o degli astratti luoghi paradisiaci dell’aldilà, è per la sua accanita fedeltà alla vita e alla terra qui e ora, per avere da sempre preso sul serio la morte, senza edulcorarla ma anche senza temere di guardarla in faccia per quel che è. E questo è anche il motivo per cui solo nel cuore di Israele nasce la speranza di vincerla e per sempre la morte. Il cristianesimo farà un passo ulteriore, fino a credere morto Dio stesso nel Figlio Gesù. Ma al di là di ogni spiritualismo o tendenza mistica, ciò va compreso sempre all’interno dei concretissimi presupposti della fede ebraica. Uno storico ebreo, nato e morto nel secolo scorso, David Flusser, ha potuto dire così: “Se, come credono i cristiani, il Martire era insieme anche il Messia, allora la sua morte ha un’importanza cosmica” (Articolo ‘Jesus’ dell’Enciclopedia Judaica). A questa affermazione facciamo seguire una sottolineatura di Paul Beauchamp : “La croce, che ha il suo posto nelle apocalissi, segna il primo tempo cosmico della fine dei tempi, apre la fine dei tempi, il tempo dell’‘orologio senza lancette’” (La Legge di Dio).
Alla morte il credente risponde avendo a  cuore non soltanto la propria vita, ma anche quella degli altri, a cominciare da quella di chi è morto col desiderio di non essere dimenticato. La fede cristiana crede nella “comunione dei santi”, nella risurrezione di coloro con i quali ci si sente uniti nonostante la morte ci abbia separati. Il centro della fede è la vita, non la morte, la “vita eterna” a noi promessa “in eredità” (Mt 19,29), che mai potrà prescindere da quella di tutti gli altri vissuti lungo le generazioni della storia. Chi ama come il Signore ci ha amati e ama, è toccato dalla propria morte, certamente, ma in particolare modo da quella di coloro che ci stanno accanto.
 Ma nel grande ritardo il credente altro non riesce a vedere, nel frattempo, che la sconfitta di Dio, e a vederla proprio perché ancora credente. Di questo giunse a parlare con una certa chiarezza Sergio Quinzio, verso il finire della sua vita, cercando pure di mettersi nei panni di coloro che con fatica ne accettavano il discorso. “Il rimedio è facile e a portata di mano – diceva - non pensare più a Dio. E del resto è già stato adottato: il mondo sta avanzando da secoli sul binario segnato da questo rimedio”. Perché? Perché “le parole della Bibbia, da secoli venerate senza essere più comprese, non comprese perché divenute inaccettabili, e inaccettabili innanzitutto per il loro mancato compimento, l’uomo contemporaneo non può più ascoltarle”. Ma è un rimedio che alla fine non rimedia a nulla, perché col nostro forsennato voler “vivere tutto nel presente” continuiamo ad appartenere, forse più che mai, “alla contraffazione anticristica della pienezza messianica”. La fede, pur avendo una potenza inimmaginabile - riuscendo a restare tale anche quando Dio non salva ancora e si mostra debole e impotente nel mondo - può anche morire, se Dio dovesse tardare troppo. Anzi, nel tempo ultimo e decisivo le cose precipiteranno a tal punto che “se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; ma” – e anche questo siamo chiamati a credere e sperare - “grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati” (Mt 24,22).
Ma che tipo di fede sarebbe allora, quella degli ultimi giorni e che dovesse ad un certo punto morire, se non fede che, “come Cristo, alla fine muore crocifissa nella storia del mondo”? Ed è proprio da questo bassissimo punto che Quinzio osa far spiccare, per amore del suo Dio, un salto ulteriore alla fede, quello ai limiti del dicibile: “Eppure, morendo – e facendo in questa morte l’esperienza dell’incombente sconfitta di Dio -, agonizzando nella consapevolezza del definitivo orrore che la sovrasta, essa fa la sua invocazione più potente, la più vicina, la più simile, al limite quasi dell’identificazione, a quella di Gesù Cristo”, provocandone “il supremo capovolgimento. Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio” (La sconfitta di Dio).
Siamo davvero al limite, e tuttavia soltanto così, soltanto credendo ai limiti del possibile, affidandoci a Dio fino all’ultimo fiato, riusciremo forse a non lasciarlo solo nel suo infinito amarci e attenderci, stando con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

(continua prossimo articolo:11- TERRIBILE)