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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

3 - IL SOLO

Qui, parlando di Dio come “il solo” si intendono due cose: che è il solo, unico Dio a dirci: “Non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20,3), e che, proprio per questo, vive una sorta di sofferta solitudine, non soltanto quando lo abbandoniamo, ma anche nel suo attendere d’essere in comunione con noi nel giorno ultimo della redenzione. Il suo essere “un Dio geloso” (Es 20,5), consegue da questo suo desiderio di essere amato come “il solo”. Sì anche Dio soffre di grande solitudine, quando non teniamo conto di lui, quando ci dedichiamo a tutto meno che all’ascolto della sua parola.

Il monoteismo sorge dall’esperienza di Israele che nei tempi antichi accolse questo imperativo nelle orecchie e nel cuore: “Ascolta, Israele: JHWH è il nostro Dio, JHWH solo” (Dt 6,4). Ebraismo, cristianesimo e Islam, sulla base di questa rivelazione che ha JHWH al suo centro, hanno due caratteristiche fondamentali: l’invisibilità e l’unicità di Dio, a Dio si arriva attraverso l’ascolto non attraverso la visione; e stando a dovuta distanza dagli altri dèi. Altri dèi possono anche esistere, non è questo il problema, basta sapere quello che a Mosè disse il suocero, sacerdote di Madian, dopo avere udito ciò di cui è capace JHWH: egli “è più grande di tutti gli dèi” (Es 18,11). Le divinità di cui pullulavano le religiosità dei popoli circostanti a Israele, a cominciare dall’Egitto, avevano la caratteristica di essere visti e toccati. Nella penuria del deserto il popolo che non ne poteva più di quel non vedere, e che volle con tutte le forze sì fare festa, “in onore del Signore”, ma farlo alla maniera di tutti gli altri popoli con un “vitello di metallo fuso” da poter vedere offrendogli sacrifici su un altare, dandosi “al divertimento” (Es 32,4-6), non avrebbero mai dovuto farlo: nulla ingelosisce Dio, nulla lo lascia solo, come il nostro tradirlo con ciò che si vede e si tocca, con ciò che fa volgere altrove il nostro cuore anziché a lui e al compimento delle sue promesse. Il desiderio di vedere Dio è buono, siamo fatti per stare in comunione piena con lui. A non essere buona è la pretesa di vederlo quando vogliamo noi attraverso forme di visibilità che conducono all’idolatria, a distogliere l’attenzione dall’ascolto di quella Parola che dice come il Dio unico che non si vede ora, si vedrà un giorno, quando sarà lui a volerlo: l’invisibilità di Dio è per un frattempo di attesa disteso su promesse quotidianamente da ascoltare, sulla speranza di fatti che accadranno in futuro ai quali siamo chiamati a credere.

Solo la sua Parola ci permette di amare l’invisibile desiderando di conoscerlo pienamente nel giorno in cui ci è stato promesso che accadrà. L’ascolto precede ogni cosa riguardo a Dio; per questo l’esperienza ebraica della fede non è legata a un dogma affermativo che ci porta a dire: “Io credo”, ma a un imperativo attraverso il quale ci viene detto: “Ascolta!”. Nel dogma l’esperienza è individuale e siamo noi a parlare, nell’imperativo l’esperienza è invece comunitaria ed è Dio a parlare. Del resto, chi avrebbe mai saputo qualcosa di questo Dio unico se uomini e donne d’Israele non lo avessero un tempo ascoltato raccontando ai loro figli quel che avevano udito? Davanti al Dio di Israele che è unico non ci sta una persona unica che parla ma un popolo unico che ascolta. In questo senso a essere davvero solo non è tanto ognuno di noi ma Dio: nell’attesa noi siamo in tanti, ci vediamo e stiamo insieme, Dio è invece solo e attende di essere visto da noi, di essere in nostra compagnia.

Certo è l’assenza di lui e di quel che deve ancora fare a costringerci a costruire i nostri “vitelli” da adorare, e non c’è peggior adorazione di quella di se stessi, di quella che si ammanta di molta religiosità. Gran nemico di Dio è l’ “io” umano divenuto dio, l’unico e solo dio che riusciamo ad amare lontanissimi da ogni idea di amore di Dio e del prossimo. “Nessun essere umano sfugge alla necessità di concepire al di fuori di sé un bene verso il quale si volge il pensiero in un moto di desiderio, di supplica e di speranza – dice Simone Weil -. Quindi si può scegliere solo tra l’adorazione del vero Dio e l’idolatria. Ogni ateo è idolatra – a meno che non adori il vero Dio sotto il suo aspetto impersonale. La maggior parte della gente pia è idolatra”. Non c’è alternativa a questa potenza idolatrica, dice ancora la Weil, che “cercare innanzi tutto il regno e la giustizia del Padre celeste, e ricevere ciò che è donato” (S. Weil, Quaderni, IV).

Non si può credere da soli, ma come credere se non da soli quando attorno a te è proprio la massa a dissolvere ogni possibilità di fede? Quando è proprio la parola divenuta chiacchiera e brusio ormai, a impedire ogni accesso alla verità e al Dio unico che parla con gran bisogno di ascolto? Oggi, come dice Jung: “la credenza nella Parola diventa credulità della parola, e la parola stessa un’infernale parola d’ordine, slogan capace di ogni inganno. Con credulità della parola, ossia con la propaganda e con la pubblicità, il cittadino viene ingannato, si concludono dei bassi mercati politici, dei compromessi, e la menzogna raggiunge dimensioni inaudite. Con ciò la parola, che fu originariamente messaggio dell’unità degli uomini e della loro unione nella forma di un grande Uomo, è diventata nei nostri giorni fonte di sospetto e di sfiducia verso tutti” (Presente e futuro).

Ciò che non possiamo credere da soli ma soltanto attraverso la Parola che ci giunge da generazioni credenti del passato, non può essere tuttavia accolto e creduto che da singoli capaci di trattenersi nel segreto della propria stanza, là dove solo il Padre celeste vede (Mt 6,6), là dove soltanto la fede è criterio di verità rivelata e accolta. Nella Parola rivelata è il Dio unico che parla e che possiamo ascoltare solamente se non l’accogliamo a priori come conferma di ciò che già pensiamo, ma con disponibilità a lasciarci sorprendere e spiazzare, a cambiare idea, e scoprendo persino come sia egli stesso il primo ad ascoltarci in questo modo: solo il Dio di Abramo e Mosè è infatti pronto a cambiare idea ascoltandoci (Gen 18,22-33; Es 32,11-14). Solo così riusciremo intanto a essere in comunione con lui in attesa delle stesse cose, quelle che riguardano la pienezza della comunione futura.

Comunque siamo ancora soli, noi e Dio, ma ascoltandoci col cuore, soffrendo insieme le nostre solitudini, desiderando insieme è già in qualche modo il Regno perché così, vivendo della stessa privazione e attesa, non abbandoniamo Dio nella sua solitudine. Dio vuole essere amato “con tutto il cuore” (Dt 6,4), ma non con quell’interiorità di cui certi mistici sono maestri e la Bibbia non sa nulla, piuttosto con tutta la nostra vita, con tutte le energie fisiche e mentali di cui disponiamo, mentre magari ci svegliamo di notte tutti presi dal pensiero di lui o mentre mangiamo avidamente un piatto di cose buone circondati dalla presenza di chi amiamo. Il Regno sarà fatto di questa stessa concretezza di comunione e amore con Dio e coi fratelli dopo un’interminabile, insopportabile attesa. Mangeremo a tavola serviti da Dio. Sì Dio arriverà a tanto dopo averci lasciati soli per troppo tempo per averci fatto aspettare così a lungo, per non averlo lasciato solo nell’interminabile attesa continuando a confidare in lui nonostante tutto (Lc 12,35-40).

Ma per continuare ad attenderlo così è necessario fino alla fine dei giorni accoglierlo nell’ascolto di Israele, il solo popolo a essergli fedele nei millenni, il popolo che ha saputo fargli compagnia rivelandolo a tutti gli altri popoli attraverso la sua esperienza di dispersione e dolore, di solitudine e annientamento. Vi è un ricordo di Elie Wiesel che ci fa comprendere questo con una certa immediatezza: “Mi sono rivisto nel 1945 sul treno scoperto che ci portava da Auschwitz a Buchenwald: la sera prima del nostro arrivo al campo una terribile tempesta di neve ci aveva completamente ricoperti. All’improvviso in quel vagone ci mettemmo tutti a gridare ‘Shemà Israel’; al vento, alla neve, al cielo, al mondo, a Dio urlavamo ‘Shemà Israel’. In quell’istante sentii che la preghiera, tratta dalla Bibbia, aveva atteso noi per assumere un significato diverso. In quel preciso momento un legame fortissimo si stabiliva tra la Bibbia e noi” (Il male e l’esilio).

Nel mistero trinitario Gesù testimonierà con una certa forza la solitudine in Dio, desideroso di scendere in anticipo in nostra compagnia, come uno di noi. Unico, anche in questo, a farsi uomo fino in fondo per stare tra noi, aprendoci a un futuro di salvezza in cui staremo eternamente con lui. Via tutt’altro che facile.

Volgiti a me e abbi pietà / perché sono povero e solo” (Sal 25,16). Questo grido lanciato verso il cielo da tanti suoi figli fino a oggi, è stato in bocca a Dio stesso in un giorno di duemila anni fa, quando si fece uomo tra noi provando la stessa solitudine e gli stessi bisogni. Gesù sarà abbandonato dai suoi amici nel Getsemani, là dove aveva più bisogno che mai della loro compagnia, quando la paura di quel che gli stava per capitare lo faceva sudare “sangue” (Lc 22,44), quando andando a cercare conforto trovò i suoi amici che beatamente dormivano. Almeno lui, Pietro, avesse retto, no nemmeno lui: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora?” (Mc 14,37).

In un momento di facili entusiasmi, in cui tutto sembrava andare a gonfie vele, Gesù non si lascerà illudere: “Adesso credete?” – dirà ai discepoli – “Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32).

E tuttavia non ci fu limite al peggio per il Signore: persino il Padre ad un certo punto sembrò non rispondere più. “Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: ‘Eloì, Eloì, lemà sabactàni?’, che significa: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’” (Mc 15,33-34). Per tre ore ha atteso muto nel buio il Figlio e il Padre non ha risposto. Tre ore in quelle condizioni sono un’eternità. Ma dov’era il Padre se non lì che pativa nel cuore del Figlio? Un Dio svuotato, rimpicciolito e sofferente in balìa degli uomini, bisognoso di compagnia era lì a gridare nel buio fino a morire, questo è il cuore del mistero cristiano, il sommo vertice in cui la solitudine di Dio è scesa fino a toccare la solitudine dei più soli tra noi.

L’amore più grande si manifesta là dove un uomo riesce a soffrire col proprio fratello, a penare del suo stesso dolore per non lasciarlo solo, proprio come ha fatto Dio in Gesù agonizzante e crocifisso. Ma se Dio è riuscito a tenerci compagnia fino in fondo, come potrà qualcuno almeno tra noi tener compagnia a lui?

Dio soffre da solo, muore da solo e solo così pare che possa salvarci per essere in compagnia con noi e per sempre nell’ultimo giorno.

(continua prossimo articolo: 4- SILENZIOSO)