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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

4- SILENZIOSO

Una delle domande più robuste che il credente dovrebbe porsi è quella sul silenzio di Dio. Se Dio resta per troppo tempo chiuso nel suo silenzio, non è per noi che confidiamo nella sua Parola quanto di più tremendo possa accadere? Ciò è espresso con una certa forza da un Salmo attribuito a Davide: "A te grido, Signore, mia roccia, / con me non tacere: / se tu non mi parli, / sono come chi scende nella fossa" (28,1). Il silenzio è il regno dei morti.
Certo in molti si dice che Dio tace perché in troppi tra noi e per troppo tempo hanno rifiutato di ascoltarlo, troppo ha bussato alla porta del nostro cuore e non gli abbiamo aperto. Questo è vero, come negarlo soprattutto oggi? Ci fu un'udienza generale, diversi anni fa, in cui l'allora papa Giovanni Paolo II suscitò una certa risonanza con queste parole: "Oltre alla spada e alla fame, c'è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dall' agire dell'umanità" (11 dicembre 2002). Perfino il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, rimase colpito da quelle parole, sia "per la natura del tema" che "per la forza con cui è stato trattato". Non va dimenticato che 1'11 settembre dell' anno prima il mondo intero e quasi in diretta assistette col fiato sospeso alla tragedia dei due aerei che uno dopo l'altro s'infilarono nelle altissime torri causando morte, distruzione e fuoco.
Il silenzio di Dio pesa in particolare a chi è fedele e continua ad attendere, e pesa soprattutto quando a mancare è il senso di ciò che di tragico è accaduto e accade nel mondo a danno dei suoi fedeli e degli innocenti. Ad Auschwitz quel silenzio fu pesantissimo, e quando i! silenzio diventa insopportabile a venire meno è la speranza, la credibilità stessa di Dio: come si può continuare a credere e sperare in un Dio che non risponde a chi ingiustamente soffre e muore? Nulla vi è di più scandaloso del silenzio che cala sulle vittime, su coloro a cui la morte ha soffocato il grido. È vero, c'è un silenzio che l'aggredito dal dolore chiede, è quando gli diventa insopportabile ogni parola banale e vuota - così fu per Giobbe attorniato dai soliti logorroici saputelli -, ma ve n'è un altro che invece lo ferisce nel profondo: è quando mendica una parola di conforto e non la trova.
È stato pure detto che quando uno vorrebbe gridare con tutte le proprie forze e non ci riesce, è allora che grida veramente, ma è un grido muto, confuso col silenzio, un grido soffocato dal dolore e nel malinteso e dunque ancora più tragico perché incompreso, travisato, senza parole. Dunque un silenzio di verità, che tutto consegna alla luce del giudizio ultimo. Ma allora, non potrebbe il silenzio stesso di Dio assomigliare a questo grido soffocato, a questa attesa di luce e giudizio?
Vi è certamente un silenzio utile all'ascolto della Parola che ci viene da Dio e dagli altri, per lasciarla risuonare in noi: non comprenderemmo nulla di quella Parola senza un silenzio che la precede per poterla accogliere e uno che la segue per farla risuonare nel nostro cuore e nella nostra mente. È il silenzio necessario al respiro del dialogo; giacché, in definitiva, ancor più della parola o del silenzio a essere fondamentale è il dialogo: è dialogando che si può arrivare al chiarimento e alla comprensione. Pensiamo a Dio che dialoga con Abramo davanti a Sodoma.
Ma nella Bibbia il silenzio può essere decisivo in se stesso, pensiamo anche soltanto a certi silenzi di Gesù. Oppure al profeta Geremia, quando il popolo accorse a lui supplicando: "Il Signore tuo Dio ci indichi la via", e solo "al termine di dieci giorni, la parola del Signore fu rivolta a Geremia" (Ger 42,1-9). Come, lì c'è un popolo in fuga, decimato e impaurito, che chiede con la massima urgenza se restare in Canaan o scappare in Egitto, e la risposta non arriva che dopo dieci giorni? È come se la Parola ad un certo punto necessiti di pazienza e attesa più che di urgenza, da parte del profeta stesso. C'è nella Parola un silenzio che la precede come per dargli autorevolezza e risalto, come per dire che non è parola come tutte le altre, che non appartiene agli uomini e nemmeno al profeta, ma a Dio soltanto che con benevolenza decide ad un certo punto di farcene dono.
La Parola ha pure un silenzio di cui è impastata, un silenzio che la rende docile e leggera, simile a una brezza che improvvisamente ci sfiora e se ne va, per essere di nuovo attesa. Al profeta Elia Dio non parlò attraverso elementi incontrovertibili e potenti, né attraverso il vento impetuoso, né attraverso il fuoco e nemmeno tramite la potenza del terremoto, ma - come traduce André Neher - nella "voce sottile del silenzio" (I Re 19,12).
Eppure il credente è tale proprio perché arde dalla fame della Parola, non del silenzio, che viene da Dio. Come possiamo comprendere la volontà, il desiderio di Dio se egli tace, se "non ci sono più profeti / e tra noi nessuno sa fino a quando" (Sal 74,9)? Se a diventare insopportabile, non è "fame di pane o sete di acqua, / ma di ascoltare le parole del Signore" senza trovarle da nessuna parte (Am 8, 11-12)? Ci sono periodi in cui Dio ha parlato con più o meno forza e altri, invece, in cui Dio è rimasto in silenzio, e forse nel momento in cui si sentiva più che in altri il bisogno della sua Parola. Mentre "l'uomo può pregare Dio nella stessa maniera e in tutti i luoghi", Dio, da parte sua "non parla alla stessa maniera, in tutti i tempi - dice Heschel-. Ad un certo momento, per esempio, lo spirito della profezia abbandonò Israele" (Dio alla ricerca dell 'uomo).
Vi sono al capitolo 21 del libro di Isaia un paio di versetti che hanno richiamato l'attenzione di molti. Pare un frammento a sé, scritto in un misto di ebraico e aramaico, forse tratto da un canto di sentinella a cui qualcuno ansioso della luce del giorno chiede a che punto si è della notte (11-12). La riflessione è necessaria fin dal titolo: "Oracolo su Duma". Letteralmente più che "oracolo" la parola originale ebraica significherebbe "fardello", qualcosa di pesante. E "Duma" più che a un luogo geografico alluderebbe al "silenzio". Dunque qui saremmo di fronte a un "fardello del silenzio" espresso con particolare potenza profetica. Non è detto chi sta gridando ma soltanto da dove: "da Seir". Ma quel luogo, quella montagna, subito spinge la nostra mente al ricordo delle benedizioni di Mosè, destinate a tutte le tribù prima di salire sul Nebo, vedere "tutta la terra" promessa da lontano e poi morire (Dt 34,1-4). Tra gli altri è Peter L. Berger a sottolineare questo, consapevole di come "anche noi aspettiamo nell'oscurità che venga l'alba del giorno di Dio" (Una gloria remota).
Tra l'episodio di Mosè e il "fardello" di Isaia la differenza è abissale. Nel primo caso ad arrivare da Seir non sono semplicemente grida di qualcuno, ma il Signore stesso, "venuto dal Sinai" per gli israeliti, "tra miriadi di consacrati", e "dalla sua destra, per loro, il fuoco della legge" (Dt 33,1-2). Lì la presenza di Dio e della sua Parola è schiacciante, mentre in Isaia non si fa nemmeno cenno a Dio, ma soltanto all'arrivo del giorno dopo un'interminabile notte. "Sentinella, quanto resta della notte? / Sentinella quanto resta della notte?", La domanda è insistente e la risposta della sentinella più che evasiva è disperante, poiché non c'è da entusiasmarsi nemmeno dell'arrivo del mattino: "Viene il mattino, poi anche la notte; / se volete domandare, domandate, / convertitevi, venite!" (Is 21,11-12). Insomma, è un continuo dover ricominciare da capo.
Mosè morì senza avere visto la terra promessa, e persino Gesù, Parola fatta carne - al quale sul monte apparirono Mosè ed Elia a confortarlo (Lc 9,30-31) sarà messo a tacere con la morte. Così che alla sentinella, che invita a domandare ancora, coloro che gridano non possono andare ormai che invocando col penultimo versetto dell'ultimo libro della stessa parola di Dio chiusa da ormai duemila anni: "Vieni Signore Gesù" (Ap 22,20).
Quando Dio tace è necessario chiedersi se non siamo noi a impedirgli di dirci quel che dovremmo fare o perché accade questo e quello. Il cuore stesso di ogni domanda sul male e su Dio ha a che fare con quella che Hermann Broch ha voluto chiamare: "una delle nozioni più spaventose inventate dalla terribile e dura logica della teologia ebraica: la libertà dell'uomo". L'uomo ha facoltà di inchiodare Dio al silenzio e alla croce.
Per questo, forse, il dialogo autentico, come dice Neher, "implica l'improvvisazione. È nella prospettiva dell'imprevisto che occorre quindi concepire il dialogo nella Bibbia. Il mondo è aperto. I giochi non sono fatti. I silenzi biblici costituiscono talvolta dei momenti in cui le chiavi sono andate smarrite". Ci sono momenti in cui proprio all'uomo di fede è chiesto l'esercizio del non so e del silenzio, ad Abramo fu chiesto questo, quando venne "lanciato da Dio in avanti, verso il silenzio dell'avvenire" (L'esilio della parola).
In principio fu la Parola a irrompere, squarciando l'infinito silenzio per dare esistenza alla creazione tutta, alla storia che conosciamo. Alla fine, -dopo il lungo silenzio di Dio sofferto da molti, sarà di nuovo la Parola, "il Verbo di Dio" a tornare con potenza, dal "cielo aperto", a giudicare quel che è stato. Ce lo rivela l'Apocalisse, assicurandoci come egli sia "Fedele e Veritiero", come non scordi nulla e come tutto davanti a lui che "giudica e combatte con giustizia" non possa essere, alla fine, che verità. "È avvolto in un mantello intriso di sangue", anche se avrebbe dovuto da gran tempo essere dato "in pasto al fuoco ... ogni mantello intriso di sangue", visto che "un bambino" sarebbe "nato per noi" (Is 9,4-5). "Dalla bocca gli esce una spada affilata": non è uno che spreca parole di superficie, quando parla va dritto al cuore, di tutti. Infine, "sul mantello e sul femore porta scritto un nome: Re dei re e Signore dei signori" (Ap 19,11-16).
Il credente resta fino all'ultimo in ascolto di colui che disse di se stesso: "Viene l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno" (Gv 5,28). Noi attendiamo non solo di udire, ma persino di "vedere la voce" (Ap 1,12). Risurrezione è anche uno sfolgorare di luce sulle tenebre della morte.
Il Dio che ha parlato e fatto promesse, non soltanto è Parola creatrice, ma anche Parola fatta carne per essere vista é toccata insieme a tutto ciò che sarà in grado di fare nel nuovo mondo promesso. Il Risorto s'è fatto vedere e toccare. Chi vuol decidersi a "fare" ora qualcosa "per compiere le opere di Dio, deve anzitutto "credere in colui che egli ha mandato" (Gv 6,28-29). Solo così "fa la verità e viene verso la luce", mostrando come le sue opere siano "fatte in Dio" (Gv 3,21).  ''Quando come il sole un'unica verità regna, allora è giorno" (J.G. Hamann, Aesthetica in nuce).

(continua prossimo articolo: 5- SENZA BELLEZZA)