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I dodici volti di Dio
Daniele Garota
(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)
5- SENZA BELLEZZA
Una cosa ci
appare bella prima di tutto perché la vediamo e di cose belle ne possiamo
vedere ogni giorno: la creazione è uno spettacolo continuo. Qoèlet dice che
Dio "ha fatto bella ogni cosa a suo tempo" (3, 11). Ma anche certe opere
fatte da mani d'uomo non sono da meno. Quando però si ha a che fare con la
fede, la bellezza diventa una cosa sola con la speranza, col futuro atteso,
perché la fede si rivolge a ciò che ancora non si vede ma solo si attende
dalle santissime mani di Dio.
Di qui una domanda ci viene spontanea: se sono così belle le sue creature, e
persino ciò che le sue creature riescono a fare (pure un uccellino sa fare
bello il suo nido col becco) come non dovrà essere bello il "Dio vivente" (Ger
10,10) che le ha create e continua a tenerle in vita in ogni istante? Ma è
domanda destinata a restare tale per il momento, perché "Dio nessuno lo ha
mai visto", come è scritto nel Vangelo di Giovanni (1,18).
E tuttavia, com'è scritto subito dopo: "Il Figlio unigenito, che è Dio / ed
è nel seno del Padre, / è lui che lo ha rivelato" (Gv 1,18). Dunque chi ha
visto in faccia Gesù ha visto Dio stesso, un privilegio di pochi ignorato
persino da chi lo possedeva: Filippo non si era accorto di chi aveva davanti
e continuava a cercare "il Padre" (Gv 14,8-9). E comunque privilegio di un
istante: Gesù dopo un po' sparirà inghiottito dalla "nube" (At 1,9) e
nessuno lo vedrà più. Avere fede, da allora, è percepirlo vivente "alla
destra del Padre" in attesa che "di nuovo" venga tra noi (At 1,11), sì da
poterlo finalmente vedere "così come egli è" (l Gv 3,2).
Ma Gesù allora, era bello? Nemmeno questo possiamo sapere, nessuno ci ha
lasciato detto qualcosa al riguardo. Piuttosto troviamo scritto, come in
Giustino martire nel suo Dialogo con Trifone, che "era brutto di aspetto,
come avevano annunciato le Scritture" (88,8), alludendo a Isaia che descrive
il "Servo" senza "apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi",
uno che a causa del suo soffrire vedendolo "ci si copre la faccia" e lo si
disprezza, ritenendolo "percosso da Dio e umiliato" (Is 53,3-4).
Sì, una persona può essere brutta anche e proprio a causa del suo soffrire:
ci sono donne bellissime ridotte a mostri dalla malattia. La bellezza che
viene da Dio più che con la contemplazione estetica ha dunque a che fare con
la vita e con il coinvolgimento esistenziale delle creature che vivono
accanto a noi e che sono soggette alla mostruosità del dolore. Gesù ha
sofferto pene indicibili e nessuno s'azzardò a rappresentare la sua
crocifissione se non dopo almeno tre secoli dall'accaduto, quando la croce
iniziava già ad essere percepita come un segno di trionfo, dunque in una
maniera lontanissima da quel che davvero era stata. Davanti a uno ridotto
come Gesù dopo le percosse e la croce, tutto può venire in mente ma non la
bellezza e tantomeno il trionfo. Davanti alla raffigurazione del
Cristo nel
sepolcro dipinta da Hans Holbein, Dostoevskij si
sentì male e disse che di fronte a una tale immagine si potrebbe persino
perdere la fede.
C'è una bellezza che induce a superficialità, a struggersi per ciò che
appare distogliendo ogni attenzione dall'essenziale, dai contenuti veri di
ciò che è davvero importante per la concretezza del vivere. Quando a
prevalere è la passività dell'incanto estetico, o consolatorio, si finisce
per essere vuoti spettatori che hanno del tutto perduto il senso nudo e
crudo della realtà, del dolore e dei bisogni dei viventi.
Se ci si trova di fronte al quadro di Van Gogh che raffigura anche soltanto
un paio di scarpe consumate, che rivelano la quotidiana fatica del vivere di
chi le ha portate, si ha a che fare con un tipo di bellezza che rimanda ad
altro, a ciò che è vita, sudore di fronte di una persona che quotidianamente
si reca al suo lavoro fino a sera quando, tornato a casa sfinito dalla
fatica, si toglie le sue scarpe per andare a letto e riposare. In quella
semplice immagine dipinta si condensano significati assoluti che non possono
essere colti da chi si ferma alla superficie del bello. Se c'è dunque
bellezza in questo caso è lontanissima da quella greca contemplabile in
tutta la sua già sufficiente armonia, perché è bellezza che, lungi da ogni
incanto, spinge a compassione per i viventi che soffrono. Qui la bellezza
abita cioè nel bisogno che abbiamo di essere salvati in quel che cogliamo
nell'istante in cui un brivido ci attraversa improvviso e qualcosa di molto
reale lo sentiamo piantarsi in noi fino a renderci insaziabili e agitati. È
un fremito che ci prende il cuore, quando la creatura davanti a noi tribola
e noi con lei, quando la bellezza davvero non c'è, essendone come rimasta la
traccia, insieme al dolore che spinge a ricordare, a cercare chi non c'è
più, anche e soprattutto se a inghiottirlo è stata la morte. Una delle
pagine più commoventi che ci ha lasciato Dostoevskij'è quella in cui, verso
la fine de I fratelli Karamazov, il padre di Iljùsa si getta sui
"vecchi stivalini ormai rossicci, rattrappiti e rappezzati" del figlio
appena morto, per coprirli di baci gridando: "Bàtjuska, Iljùscecka, dove
sono i tuoi piedini?".
Ad Auschwitz si dice che a commuovere di più, andandoci oggi, siano le
piccole scarpe lasciate lì dai bambini prima di essere ridotti a cenere nei
forni. Si doveva far di tutto perché quei bambini credessero "bella" la
vita, fino all'ultimo, anche nei più terribili luoghi (come si è cercato di
dire in un fortunato film italiano di qualche anno fa), ma di quale bellezza
si poteva parlare se non di una traccia di essa, di un piccolo resto
strappato alle fauci dell'orrore?
La bellezza può persino diventare "spaventosa", a causa della sua ambiguità
e potenza, dice ancora Dostoevskij vedendoci continuamente sballottati tra
l'ideale del bello che ci viene dalla "Madonna" e quello che ci viene da "Sodoma".
È infatti attraverso la bellezza - come troviamo scritto ancora in certe
pagine dei Karamazov - che si accende la lotta tra Dio e il diavolo, con
campo di battaglia "il cuore dell'uomo". Nella bellezza può nascondersi
infatti il vertice del bene ma anche quello del male.
Vi sono versetti dal significato misterioso e strano, nel libro della
Genesi, in cui si parla di una pericolosa bellezza di donne che spinge gli
angeli stessi a prenderle "per mogli a loro scelta". Un fatto che si
ripercuote sulla volontà e il desiderio di Dio, come costretto a intervenire
per ridurre la vita dell'uomo: "Il mio spirito non resterà sempre nell'uomo,
perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni". Non solo, ma
pare essere questa la causa della diffusione del male sulla terra, del
pentirsi di Dio di avere creato i viventi, animali compresi, dello
scatenarsi, infine, del diluvio (Gen 6,1-8). Neher ne evidenzia il dramma:
"Ciò che chiedeva di essere Spirito divino di equilibrio nell'uomo, armonia
di bellezza, non era più che inferno carnale ... Il Rinascimento intravisto
in un lampo di forme pure e ideali si era trasmutato in un bordello di
soldatacci e di lanzichenecchi, in una guerra di ... centoventi anni, il cui
esito finale fu la catastrofe del genere umano" (L'esilio della parola).
Diversi nodi che vengono al pettine nella nostra modernità (si pensi anche a
quello del dramma della vita nascente e manipolata, Gen 3,22-24) hanno
radicamento fin dal principio della creazione: significati autentici e
misteriosi abitano nel cuore della Rivelazione; significati antichissimi
capaci di illuminare il nostro presente, ma anche il nostro futuro di
salvezza, se riusciamo a radicare il pensiero e la speranza sul "fondamento"
della fede (Eb 11, l). Se con Dostoevskij ci chiediamo: "Quale bellezza
salverà il mondo?", la risposta deve tenere conto del dramma della salvezza.
Solo la salvezza renderà bello il mondo: nel Regno sarà guardando il Signore
negli occhi, occhi umidi crediamo, che ci renderemo conto di come la
bellezza di prima fosse una primizia appena, percepita ancora "in modo
confuso, come in uno specchio" (l Cor 13,12).
La bellezza primordiale delle creature, sottolineata dallo stupore di Dio
che dopo averle create le vedeva belle e buone, è stata sfigurata dalla
"caduta". E così la bellezza di Dio, che ha iniziato da subito a soffrire,
fino a scendere tra noi facendosi uomo, cadendo sotto i colpi della frusta e
il peso della croce. L'uomo più bello percosso in quel modo diverrebbe
orribile e brutto, inguardabile. Nel cristianesimo ogni idea di bellezza va
alla fine a sbattere ai piedi della croce e di lì attende. Per questo solo
la luce della risurrezione potrà ridare bellezza a ciò che è stato sfigurato
dal male e dalla morte. E tuttavia una bellezza che continuerà, in eterno, a
portare i segni del dolore patito. La gioia e la bellezza del Regno avranno
il carattere della consolazione perché saranno una cosa sola col dolore
sofferto dalle creature e da Dio. Una gioia che non ha perciò nulla a che
spartire con quella a cui gli spensierati, i ricchi e i belli di questo
mondo, accanitamente aspirano. "Guai a voi ricchi, / perché avete già
ricevuto la vostra consolazione" (Lc 6,24).
Così com'è diventato piccolo, umile e mortale, Dio è diventato anche brutto,
per così dire, fino a diventare "verme" non "uomo" (Sal 22,7). Solo così ha
potuto precipitarsi come "redentore", in aiuto del "vermiciattolo di
Giacobbe", della "larva di Israele" (Is 41,14). Il male quando attacca
spazza via ogni bellezza. La sventura "è sempre privazione di bellezza -
dice la Weil -, invasione dell'anima da parte della bruttezza" (Quaderni, IV).
Non solo la bellezza del mondo, ma anche quella di Dio potrà essere
recuperata soltanto nell'ultimo giorno quello in cui persino cieli e terra
saranno rifatti nuovi. In quel giorno, dice ancora Isaia: "La luce della
luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di
più, come la luce di sette giorni" (Is 30,26). Saranno bellissimi i morti
risorti, illuminati dalla luce che si sprigionerà dal volto del Signore, del
"pastore bello" (kalòs) e buono, che è stato sfigurato dalle percosse
e dal dolore, mentre dava la vita per noi sue pecore (Gv 10,11), per
salvarci, per regalarci la bellezza dell' eternità.
(continua prossimo articolo: 6- UMILIATO) |