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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

6- L’UMILIATO

Umile non è chi, da mediocre per natura, resta quel che è giorno dopo giorno, come nascondendosi sotto la coltre della propria indolenza: siamo chiamati a moltiplicarli i "talenti", non a nasconderli (Mt 25,14-30). E nemmeno lo è chi, avendo qualche talento, assume aria d'apparire umile, ma come mettendosi i tacchi per guardare gli altri dall'alto in basso: in certe apparenze d'umiltà c'è più orgoglio di quanto s'immagini. Un maestro chassidico parlava di gente che è solita nascondersi per poi osservare di continuo se c'è intanto qualcuno ad ammirarlo per questo. Gli aculei della vanità sono sempre in agguato: credersi umili ci pone già nella inconsapevole situazione di non esserlo affatto.
Umile è invece chi, stando molto in alto, decide ad un certo punto di abbassarsi davvero, a livello dell' humus, della terra, così che da nessun'altra parte è espressa umiltà come in Dio nel momento in cui, da grande che era, decise di farsi il più piccolo tra noi, che pure giganti non eravamo. "L'umiltà è il vestito di Dio", dirà Isacco il Siro (Prima collezione, 82).
È di Francesco d'Assisi forse l'espressione più autentica di tale umiltà, là dove invita non solo gli uomini, ma "l'universo intero" al timore e tremore, allorché "sull' altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo" a farsi presente tra noi con l'Eucaristia. Pochi come lui hanno saputo intuire nel profondo come "il Signore dell'universo, Dio e Figlio di Dio" sia riuscito a umiliarsi fino a "nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane!". È famosa la sua esclamazione: "Guardate, frati, l'umiltà di Dio!" (Fonti Francescane, 221).
Di fronte a tale abbassamento, vero guaio sarebbe accettare tutto come niente fosse. Chi di noi ha ancora abitudine di frequentare la messa domenicale, sa di quanta stanchezza e noia siano invasi i presenti allorché ci si mette in fila, spesso con stonati canti di sottofondo, per mangiare il corpo di Colui che s'è dato a noi umiliandosi fino all'inverosimile. Ma lo percepiamo ancora lo scandalo di questa nostra indifferenza? O, peggio: lo scandalo di avere ridotto il cristianesimo all' altera religiosità di chi ama governare la cosa pubblica, magari passeggiando in "lunghe vesti", occupando "i primi posti", addirittura pregando "a lungo per farsi vedere" (Mc 12,38-40), mentre, secondo le stesse parole del Signore, dovremmo piuttosto digiunare e pregare nel chiuso della nostra stanza, là dove soltanto il Padre vede e ricompensa "nel segreto" (Mt 6,6)?
L'umiltà di Gesù non appartiene all' orizzonte delle virtù: è stato fatto notare che areté (virtù) è parola del tutto assente nei Vangeli. Gesù non era umile alla maniera di certi asceti o filosofi che considerano l'umiltà come pista di lancio verso perfezioni che portino ad "essere ammirati dalla gente" (Mt 23,5). No, l'umiltà di Gesù era del tutto priva di scopi superiori, Gesù era umile e basta. Per questo evitava le città e i grandi della terra, preferendo i villaggi e la solitudine delle campagne, scappando via "sul monte, lui da solo" se a qualcuno veniva in mente di "farlo re" (Gv 6,15). Gloria e potere li fuggiva quanto la peste, ben sapendo da dove venivano (Mt 4,1-10). Quando si spinse sulla scena pubblica ad annunciare la buona novella del Regno e cercò collaboratori, non andò a sceglierli tra sacerdoti, eruditi e re, ma tra pescatori, tra persone comuni del tutto prive di rilevanza. Persone che pure non accetteranno di buon grado il suo patire e morire umiliato e crocifisso (cfr. Mt 16,21-23).
Umiltà e mitezza in Gesù verranno fin da subito trasformate in umiliazione da parte di chi, intorno a lui, arriverà a odiarlo e tradirlo, fino a spezzargli il cuore. E a farlo soffrire di più fu certamente l'incomprensione. Se Dio non si fosse reso disponibile all'umiliazione non avremmo mai compreso fino a che punto fosse disposto ad arrivare pur di salvarci, di farci abitare accanto a sé nel Regno. Ma il dramma allora è che più Dio si è dato a noi, per essere compreso e amato, più noi lo abbiamo disprezzato. In noi a vincere non è stata umiltà d'uomo che comprende l'umile Dio, ma la superbia, la logica dell'uomo che si fa dio.
Se per Spinoza umiltà era un ripiegamento triste nella debolezza, per il credente in Cristo è invece la spinta più forte al bisogno di redenzione, non solo al proprio, ma anche a quello di tutte le creature che gemono incessantemente intorno a lui (cfr . Rom 8,22-23), compresi gli uomini naturalmente. "L'umiltà - dice Kafka - dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini, e lo dà subito, a patto, s'intende, che l'umiltà sia assoluta e continua" (Quaderni in ottavo). Umile è colui ch' è sempre attento ai bisogni degli altri, ai bisogni stessi della verità. Non si ama la verità se non si è umili e fortemente bisognosi di essa, fino a comprendere il bisogno che anch'essa ha di noi. E il bisogno di Gesù, non è forse il bisogno stesso della "verità" (Gv 14,6)?
Solo chi è umile ha coscienza di quanta menzogna abiti nel narcisismo e nell'orgoglio: se "padre della menzogna" è "il diavolo" (Gv 8,44), capace di sedurre tutti fino a diventare "principe del mondo" (Gv 1,30); principe dell'umiltà è Dio, "Dio potente" e "Principe della pace" insieme, bambino "nato per noi" (Is 9,5).
Umile dunque non è chi triste si rassegna al proprio limite, ma chi dalla sua debolezza osa credere e attendere le grandi cose che Dio ci ha promesso. Umiltà e salvezza sono i due poli estremi, non solo della speranza del credente, ma anche dell'agire di Dio, un Dio, quello biblico, che si abbassa per innalzare, che si umilia per salvare, salvare gli ultimi soprattutto, i piccoli e gli indifesi.
Nessuno è mai stato, né mai sarà, in un punto più basso di quello dal quale Gesù ha sofferto pene indicibili, inimmaginabili. E ha potuto raggiungerlo perché era Dio, aveva la potenza di Dio. Ma se è giunto così in basso è per spingere in alto tutti: il peggiore tra noi, giungendo nel "regno di Dio", sarà "più grande di Giovanni" il Battista, sebbene nessuno lo superi ora, "fra i nati da donna" (Lc 7,28). Lì saremo talmente grandi che con gioia si umilierà il Signore servendoci a tavola (Lc 12,37).
Per desiderare la redenzione è necessario comprendere tutto questo, comprendere Dio, cioè, guardandolo come dall'alto, e con una buona dose di compassione. Non la paura e il terrore desidera trovare il Messia nei nostri cuori, quando di nuovo verrà nella gloria, ma la "compassione": siamo tutti chiamati a essere samaritani del Dio percosso da noi "briganti" (Lc 10,29-37). Compassione e umiltà si implicano a vicenda, in noi e in Dio, attraverso il vincolo dell'agàpe, dell'amore che "non avrà mai fine" (1 Cor 13,8).
Da quel che s'intuisce si dovrà consolare Dio che soffre indicibilmente per non essere riuscito a farsi comprendere, a farci amare la sua salvezza. Dio non può salvare chi non ha bisogno di essere salvato, chi non ha capito quanto bisogno abbia di salvarci. La pena sarebbe per noi eterna, perché eterni sarebbero anche il suo dolore e la sua umiliazione, avendolo noi considerato come spazzatura, mentre era Dio. L'amore con cui ci ama, lascerebbe un vuoto incolmabile in Dio, per averci amato fino a morire pur di salvarci e non esserci alla fine riuscito. Non si capirà mai abbastanza che non è Dio a salvarci ma la nostra "fede" (Mc 10,52).
È con dolore umile, non con severità, che Gesù annunciò essere "stretta" la porta che "conduce alla vita", e il conseguente essere pochi coloro "che la trovano" (Mt 7,13-14). Le tenebre della croce del Signore arriverebbero infatti così a invadere anche la luminosità dell'ultimo giorno.
E la stessa Bibbia cos'è se non autentica espressione dell'umiliazione del Logos, del "Verbo", che per ricevere ascolto "si fece carne", venendo "ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14)? Sì Dio fu come costretto ad abbassarsi per farsi capire, fino a diventare Parola, quel libro impolverato e mai aperto che stancamente conserviamo negli scaffali delle nostre case. Egli abbassandosi assunse parole umane esattamente come ne assunse la carne. Noi leggendo la Parola di Dio presente nella Bibbia ne percepiamo tutta l'umiltà, i balbettamenti, le contraddizioni, l'impasto con le culture vissute in precisi periodi storici. "Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell 'uomo, come già il Verbo dell' eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece 'simile all'uomo" (Dei Verbum, 13). Al punto che la "parola di Dio" è finita nella condizione di avere bisogno di noi per crescere ed essere diffusa e compresa (At 12,24).
Solo scendendo col Cristo nel suo stato di umiliazione lo si comprenderà davvero, per poterlo attendere nel suo stato di gloria. Che Dio sia vissuto, anche se per pochissimo tempo, come un semplice falegname, è uno scandalo di fronte al quale o fuggi o inizi a credere sul serio. Alla fede adulta non si arriva se prima non si prova una sorta di repulsione, di fronte a un Dio caduto così in basso. Se davanti al Dio umiliato e massacrato di botte, non rimane la possibilità dell'incredulità e dello scandalo, la fede si riduce a un giochetto della domenica, a un fatto piacevole con cui ci illudiamo di trovare pace in questo mondo e pace nell' aldilà, senza troppo pensiero, senza agitazione, senza traumi, ma anche senza verità. C'è una falsa pace che indicibilmente offende Dio e gli umiliati. L'umiltà di Gesù non era mai rassegnazione: solo così potremo comprendere perché diceva di essere "venuto a portare non pace, ma spada" sulla terra (Mt 10,34).
Lo abbiamo umiliato molto il Cristo, nella sua vita terrena, dall'inizio alla fine, fino a farlo cadere con la "faccia a terra" (Mt 26,39), fino a farlo sudare "sangue" (Lc 22,44), fino a ucciderlo come il peggiore tra gli uomini. Il Signore, come ci ha fatto notare Kierkegaard, non è venuto come un attore per indossare "cenci" per "l'illusione di un'ora", ma è "nella vita reale e quotidiana" che li ha fino all'ultimo indossati come "un mendicante". Quando si vive nel mondo "al riparo dal bisogno" e senza troppi problemi ci si può anche avvicinare a Gesù, volendo gli bene, pregandolo, persino versando "qualche lacrima a parlarne", e tuttavia mantenendosi "del tutto tranquilli nel fondo dell' anima e personalmente insensibili a ciò di cui si parla" (Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo). Fino addirittura a scambiare tutto questo con la presenza di Gesù nella propria anima, senza lontanamente sospettare come invece sia proprio questa tranquillità a dannare noi e a far soffrire Dio.
Nell'umile c'è una serenità e una pace che scompare quando lo si umilia, o viene. circondato da creature che soffrono. Per questo, nel mondo, sono proprio gli umili a soccombere e soffrire per primi. Ma la parola di speranza è che un giorno: "gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore" (Isaia 29,19). Per il popolo "umile e povero", che entrerà nel suo regno, Dio si abbasserà ancora, alla maniera del re Davide davanti all' ''arca'' santa (2Sam 6,12-16.20-22), mettendosi a danzare gridando "di gioia" (Sofonia 3,12.17).

(continua prossimo articolo: 7- POVERO)