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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)

7- POVERO

Nessuno può aspirare a essere più ricco di Dio: tutto è suo, da sempre. Ma vedendoci nella povertà e nella miseria volle ad un certo punto consolarci venendo “ad abitare in mezzo a noi”, scendendo nella povertà della nostra condizione umana. “Era Dio”, “senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,1-3.14), e tuttavia nacque come il più piccolo e povero tra noi, in una greppia d’animali. Gli ultimi e i più soli tra gli uomini non potranno mai trovare una vicinanza maggiore di quella con cui Dio ha voluto abbassarsi fino a mendicare il nostro amore dalla povertà e dal bisogno.
Di questo s’accorse, come pochi, una donna, sconosciuta, “a Betania, nella casa di Simone il lebbroso”, quando, accostandosi a Gesù che “era a tavola”, ruppe un “vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore”, che teneva in mano, rovesciandoglielo fino all’ultima goccia “sul capo”. Un spreco enorme, “trecento denari” valeva quel profumo, buttato via così, in un attimo. I presenti “erano infuriati contro di lei” (Mc 14,3-5). “Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!”, disse qualcuno secondo l’evangelista Matteo. Ma Gesù subito intervenne lodando la donna, che aveva “compiuto un’azione buona” verso chi in quel momento aveva un gran bisogno di compassione, un bisogno uguale a quello di tutti i poveri della terra e della storia messi insieme. “I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”, disse il Signore alludendo alla propria povertà, “in vista” della propria “sepoltura”. Nei versetti successivi l’evangelista mette addirittura in luce Giuda Iscariota che, in trattativa coi “capi dei sacerdoti”, fissa in “trenta monete d’argento” il prezzo per tradire Gesù (Mt 26,6-15): circa un terzo di quanto valeva il profumo rovesciato in precedenza dalla donna. Preziosissima è la povertà di Dio, il suo bisogno di compassione. Capire questo è cristianesimo, non capirlo è restare prigionieri delle logiche dell’affanno più o meno filantropico, più o meno affaristico e traditore, e comunque superficiale.
Nel Diario di un curato di campagna, Bernanos immagina il Signore che  ci invita a non amare i poveri “come le vecchie inglesi amano i gatti sperduti”, poiché quelle altro non sono che “abitudini da ricchi”. La povertà va invece amata “d’un amore profondo, riflessivo, lucido - da uguale a uguale - come una sposa dal fianco fecondo e fedele”, la povertà è “umile e fiera, non servile”, tanto che “a volte il ventre di un miserabile ha più bisogno d’illusione che di pane”. Forse in quel momento Gesù a Betania fu invaso da questo tipo di povertà fiera e bisognosa d’amore unico e irripetibile, un tipo d’amore che, a volte, solo le donne sanno offrire e, forse, chiedere. È necessaria molta apertura di cuore per cogliere il bisogno di chi ci sta di fronte, tanto più necessaria quanto più in alto abita colui che rivela la propria povertà. Il vero atto d’amore è proprio quello umile di chi chiede, non quello, per quanto generoso, di chi dà, e Dio, in Gesù s’è presentato a noi più come colui che chiede di come colui che dà.
Lo sapeva bene anche Kierkegaard: “Si predica sempre di generosità e di beneficienza in modo devotamente-mondano e mondanamente-devoto – ma anche nelle prediche, si dimentica la misericordia. Dal punto di vista cristiano questa è un’indecenza”. Tu puoi anche riempire di denaro le tasche al povero, ma se lo fai senza “avere un cuore nel petto”, se lo fai senza partecipazione sincera alla sua povertà, rischi di umiliarlo, meglio l’amore senza denaro che il denaro senza amore. “Senza misericordia il denaro ha un cattivo odore”, solo “la misericordia è il profumo forte”, il “soave odore per il naso di Dio” (Kierkegaard Gli atti dell’amore).
I piani di Dio e del mondo sono diversi: per Dio conta la misericordia, per il mondo conta il denaro. Difficile immaginarsi il Regno con abbondanza di denaro mentre facilmente ci viene da pensare il Regno come colmo di misericordia, di compassione, di agàpe, di quell’amore generoso e delicato di cui parla Paolo in una delle sue lettere dicendo essere quella la cosa più importante, quella che “non avrà mai fine” (1 Corinti 13,1-8).
Dio poteva farci ricchi colmandoci di salute e di beni, rendendoci magari immortali, ma ha scelto, invece, di farci ricchi regalandoci la libertà, con tutti i rischi che ne sarebbero derivati, fino a quello di diventare povero accanto a noi poveri. Dove si manifesta davvero agàpe? Non nel potente che aiuta i bisognosi, magari fino a partecipare con sincerità alla sofferenza loro, ma nel ricco che diventa povero, che non ha più nulla da dare se non la partecipazione alla gioia del povero che riceve inimmaginabile consolazione da tale vicinanza. Non è tanto ciò che si dà a costituire il valore di agàpe, ma il modo con cui si dà, il movimento di ciò che è interiorità e commuove, dà lacrime agli occhi, al punto che è proprio quando diminuisce ciò che si dà, a far apparire, paradossalmente, più importante il modo con cui si dà e viceversa. Se la “vedova povera” ha dato più di tutti, proprio nel momento in cui ha dato meno di tutti, “due monetine”, è perché ha offerto “tutto quanto aveva per vivere”, diventando così ancor più povera di quel che già era (Mc 12,41-44). Chi non dà tutto, fino a dare la sua stessa vita, non dà come ha dato a noi il Signore.
Dio non scelse d’essere ricco, e nemmeno d’essere povero, scelse soltanto d’essere uomo, uomo come noi. Durante i suoi anni a Nazaret, Gesù visse e crebbe nelle condizioni di tutti i suoi coetanei del villaggio, lavorando insieme a suo padre Giuseppe in bottega, senza dare nell’occhio con scelte ascetiche, rivoluzionarie o provocatorie. E nemmeno quando improvvisamente si deciderà per il pubblico annuncio cercherà d’essere più povero di quel che era, semplicemente sentirà d’avere cose così forti su cui concentrarsi, da non potersi occupare che di quello. Se c’è povertà in Gesù in quel momento, se “non ha dove posare il capo” (Mt 8,20), è perché deve agire con tutte le forze e con molta fretta ad annunciare il Regno, ai poveri soprattutto, a quelli che gridano al cielo da sempre, a “quelli che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Non c’è altro fine che non sia quello del Regno nella missione di Gesù e dei discepoli. A Gesù non passa nemmeno per la mente di metter su una cooperativa di pescatori o di falegnami attraverso la quale poi annunciare il Regno, tanto per fare un esempio: Gesù non ha tempo per simili cose.
E per mangiare? Gesù ha lavorato molti anni per guadagnarsi il pane con i calli nelle mani, ma quando s’accinse a dedicarsi tutto alla “buona notizia del regno di Dio”, furono donne - la Maddalena, Giovanna, “Susanna e molte altre” - a servire “con i loro beni” lui e i “Dodici” (Lc 8,1-3). Puro dono è il Regno e puro dono dunque il salario offerto a chi, nel frattempo, se ne occupa dandone notizia: “gratuitamente” si è ricevuto, “gratuitamente” si dà, nelle logiche del Regno, ben sapendo che “chi lavora ha diritto al suo nutrimento” (Mt 10,8-10).
Non è stato mendicante di pane il Cristo, piuttosto mendicante d’amore, fino a farsi lui pane, fino a morire per dircelo, con gran desiderio di essere ascoltato, compreso, amato. Se “il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12), si sappia che la violenza del Regno è la violenza dei poveri, di coloro che vogliono il Regno a ogni costo e prima possibile. Se potentissimo è il povero è perché nel suo desiderio abitano i “gemiti inesprimibili” dello Spirito (Rm 8,26): il desiderio del povero è il desiderio di Dio.
Se il ricco si trova nei “guai” non è perché sia più cattivo degli altri; qui l’etica non c’entra per nessun verso; nei guai ci si trova perché non riuscirà mai a desiderare il Regno, avendo già la vita colma di beni  e di noia, avendo insomma già ricevuto la sua “consolazione” (Lc 6, 24). Se il Regno è di Dio e dei poveri (Lc 6,20)  è perché tutti gli altri hanno il cuore e la mente già gonfi di altre cose, magari oneste per carità - “un campo” appena comprato, “cinque paia di buoi” -, ma lontanissime dal Regno e da Dio: dalla “cena” che ci sta preparando e che in troppi tra noi, pur “invitati”, non gusteranno (Lc 14,15-24).
Dio va amato seguendolo nel suo modo d’amare. Come? Amandolo nei nostri fratelli, se infatti non amiamo coloro che vediamo come possiamo dire di amare Dio che non vediamo (1Gv 4,20)? Ma si può amare il fratello se non ci spogliamo del nostro essere noi stessi, fino a volere per gli altri tutto ciò che vorremmo per noi, cercando cioè ciascuno “non l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”? Questi infatti sono i “sentimenti di Cristo Gesù”, che è sprofondato dalla “condizione di Dio” negli abissi della kenosis (Fil 2,3-8).
Solo la povertà evangelica permette questo, solo l’annullamento dei propri interessi e persino della “propria vita” (Lc 14,26), creando il vuoto in sé, accogliendo i bisogni dell’altro da sé. E facendolo con gioia, esattamente come si gioisce quando sono gli altri ad agire così nei nostri confronti.
Dio ha creato tutto, facendo Tzimtzùm, dice la mistica ebraica di Luria, facendo cioè il vuoto in sé, tramite una contrazione potentissima con la quale si lasciò precipitare nel fondo di se stesso, nella più tremenda solitudine, nel più forte bisogno di compagnia; fino a provare infinita gioia nel lasciar esistere di fronte a se creature dotate di libertà, parola e amore. Felicissimo fu Dio udendo per la prima volta l’uomo parlare, esprimere grande gioia nel sentire accanto la compagna uscita dalla sua stessa “carne”, dalla “costola” che Dio gli “aveva tolta” lasciandogli il vuoto nel “torpore” del sonno (Gen 2,23); gioia che Dio stesso riuscirà a provare diventando a sua volta “Verbo” fatto “carne” dal grembo di Maria (Gv 1,14), uomo come noi, bisognoso d’amore e di tenerezza. Gioia dunque del supremo donarsi, del supremo esser povero per amore.
Dice bene Iacopone da Todi al termine della sua lauda 36: “”Povertat’è null’avere / e nulla cosa poi volere / e onne cosa possedere / en spirito de libertate”, ma non è solo questo in Gesù e in Francesco, che lo seguì fedelmente più di mille anni dopo, spogliandosi di tutte le sue ricchezze con gioia. Non è solo nulla possedere e nulla volere con spirito di libertà, è persino gioia anche al solo pensiero che povero ha scelto di farsi prima di noi Dio. Una gioia che dovrebbe radicarsi nella profondità del nostro essere, fino a farci sentire tutto il dolore e tutto l’amore che lo ha portato negli abissi della kenosis
[1]. Una gioia che si dà proprio provando povertà e dolore tramite agàpe, scendendo cioè a far compagnia a Dio nel suo esilio, con i suoi stessi sentimenti di mendicante in attesa. Insomma, gioire per consolare Dio.
Il messaggio evangelico più efficace e profondo è quello in cui Dio si rivela come il più povero di tutti, il più bisognoso di consolazione, per due motivi almeno: perché nella sua povertà sono contenute tutte le povertà del mondo e dei secoli, e perché solo attraverso la sua povertà ogni povero verrà un giorno riscattato, salvato.


[1] Spogliazione e umiliazione totale.

(continua prossimo articolo: 8- SCONOSCIUTO)