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I dodici volti di Dio
Daniele Garota
(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)
8.
SCONOSCIUTO
Non si crede a seguito di conoscenza, ma
in base a un atto di decisione convinta che ci sorge dal profondo senza
nemmeno sapere il perché. Ad agire, quando crediamo, è “la potenza dello
Spirito Santo” che, generando in noi “profonda convinzione”, ci spinge a
scelte e comportamenti decisivi giorno dopo giorno (cfr. 1Ts 1,2-5).
La conoscenza è tanto più ardua quanto più grande è la realtà da conoscere.
Conoscere il movimento dei pianeti o il brulicare interno delle nostre parti
corporee non è tutto sommato difficile, lo sappiamo, difficile è invece
conoscere ciò che non è, per così dire, naturale, come la realtà di un uomo
che si dice essere risorto dai morti. Cose come queste non possono essere
conosciute che attraverso la domanda incessante e la fede che ne dona
“fondamento” (Eb 11,1). Credere è un continuo e appassionato atto di ripresa
con cui ogni volta si vince l’incredulità, riprendendo il cammino verso ciò
a cui si anela e che ancora non si vede.
Il “Dio vivente” (Dt 5,26) lo si può conoscere nel calore del suo muoversi,
nel suo esserci e parlare non -come il “vitello di metallo fuso” (Dt 9,16) -
nella sua muta e gelida fissità: YHWH che cammina insieme al suo popolo e
dona parole, non è che sta lì, immobile e senza parole. Con Israele ci
troviamo di fronte a una divinità che, attraverso la rivelazione del suo
nome e del suo amore, mette in movimento la storia, in agitazione gli uomini
desiderosi di conoscere la liberazione, la salvezza che egli ha promesso in
un patto di alleanza duratura.
Conoscere, in ebraico biblico, è jada‘, verbo che non riguarda
principalmente l’aspetto cognitivo, ma quello con cui veniamo concretamente
a contatto con le cose, fino addirittura a riguardare il rapporto sessuale
che un uomo ha con la sua donna. Conoscere Dio ed essere da lui conosciuti
implica un atteggiamento di promessa e d’amore a cui rimanere fedeli per
tutta la vita, proprio come in un legame di nozze (Os 3,22). Un legame che è
tuttavia possibile solo attraverso la comunità credente a cui si appartiene:
quando si tratta di Dio, nessuno riuscirà mai a credere e conoscere da solo.
Pochi come san Paolo, hanno vissuto la lotta tra fede e conoscenza per
arrivare a Dio. Egli non soltanto non conosceva il Dio rivelato da Gesù
Cristo, ma addirittura perseguitava la comunità di coloro che dicevano di
conoscerlo. Ebbene, san Paolo come conobbe Gesù? Andando a scuola e
studiando sui libri? No, lo conobbe “cadendo a terra”, udendo “una voce”,
rimanendo cieco “per tre giorni”; tanto che altri dovranno condurlo là
dov’era diretto, a Damasco, “guidandolo per mano” (At 9,1-9). Un fatto
dunque sconvolgente e improvviso dettato dall’alto, accaduto nemmeno dieci
anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. Gesù e Paolo erano quasi coetanei
e tuttavia mai s’incontrarono, mai si videro in faccia, prima di
quell’avvenimento.
Udita la voce Paolo rimase come smarrito biascicando domande: “Chi sei o
Signore?...Che devo fare, Signore?” (At 22,8-10). Fu esperienza reale quella
del Risorto e della sua voce, e tuttavia solo una fede vissuta nel cuore
d’Israele e radicata nella domanda predispose Paolo alla fame di conoscenza,
allo slancio apostolico, all’attesa di ciò che sarebbe dovuto accadere. Per
condurlo alla fede nel Cristo, oltre alla fede e alla domanda interiore fu
tuttavia necessario un intervento ulteriore e prodigioso che gli operasse
direttamente nell’intimo, fino a trascinarlo “al riconoscimento che lo
folgorò dinanzi a Damasco”, dice Rudolf Otto. Un intervento che “gli
comunicò quella comprensione così immensamente profonda della venuta di
Cristo, da far dichiarare a un critico come Welhausen che in realtà nessuno
ha mai inteso Cristo così a fondo come Paolo” (Il sacro). Paolo
arrivò a sentirsi “crocifisso con Cristo”, a non essere più lui che viveva
ma “Cristo” in lui (Gal 2,19-20). Quella di Paolo fu fede diventata carne e
sangue: egli portava “le stigmate di Gesù” sul suo “corpo” (Gal 6,17).
Paolo ricevette una “rivelazione” potentissima che gli consentirà di parlare
“senza chiedere consiglio a nessuno”, è vero, e tuttavia nemmeno uno come
lui riuscì a credere da solo. Tanto che dopo “tre anni” sentirà il bisogno
di salire “a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa”, fino a rimanere
“presso di lui quindici giorni”. Soltanto dopo continuerà a viaggiare per
diffondere quella “fede che un tempo voleva distruggere”. Ma nemmeno quello
fu sufficiente: dopo “quattordici anni”, infatti, sentirà di doversi di
nuovo recare a Gerusalemme, “in seguito a una rivelazione”, esponendo
“privatamente, alle persone più autorevoli” il “Vangelo” che aveva
annunciato “tra le genti”. Ne riceverà conferma, al punto che, alla fine,
“Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne”, diedero a lui “e a Bàrnaba
la mano destra in segno di comunione” (Gal 1,11-2,9). Difficile conoscere
Dio e la sua volontà senza essere in comunione di fede coi fratelli. “Lo
Spirito del Dio vivente” non scrive lettere su carta o “su tavole di pietra,
ma su tavole di cuori umani”. È la “straordinaria potenza interiore” del
testimone che è capace di far “risplendere la conoscenza della gloria di Dio
sul volto di Cristo” (2Cor 3,3. 4,6-7).
Tra la crocifissione di Gesù e la prima tra le Lettere di Paolo passano meno
di vent’anni, un periodo nel quale – dice Martin Hengel – è accaduto, sul
piano della fede, più “che in tutti i successivi sette secoli di storia
della chiesa”, e tra questi, davvero cruciali, sono stati “i primi quattro o
cinque” anni (Between Jesus and Paul). Riguardo al messaggio poderoso delle
Lettere di Paolo più che a una evoluzione si dovrebbe pensare a un
avvenimento improvviso esploso al centro della storia, nel quale a risaltare
è l’uomo Gesù di Nazaret creduto, quasi subito dopo la sua morte, “Figlio
unigenito, che è Dio” (Gv 1,18). In pochi e con sempre maggiore difficoltà,
nelle nostre società secolarizzate, riescono ancora non dico a credere, ma
anche soltanto a conoscere Dio. E tuttavia nessuna divinità conosciuta dal
principio della storia del mondo, ha inciso tanto profondamente sulle nostre
identità secolarizzate quanto “Gesù Cristo” e “Dio Padre che lo ha
risuscitato dai morti” (Gal 1,1). Giacché davvero decisivo, nelle Lettere di
Paolo e nella nostra storia d’Occidente, è in tutto e per tutto il
Crocifisso Risorto dai morti. Persino i nostri anni vengono contati
riferendosi a quell’evento.
Dio è da sempre tanto più grande di noi, perciò “il mondo” non lo conosce, e
non avendo “conosciuto lui”, nemmeno conosce i “figli di Dio”. Anzi, loro
stessi non sono ancora davvero tali: come saranno, infatti, “non è stato
ancora rivelato”. Sappiamo però, che “quando egli si sarà manifestato”, essi
saranno “simili a lui”, perché lo vedranno “così come egli è” (1Gv 3,1-2).
Fin che si è nel mondo si può già essere “figli di Dio”, ma con tutti i pesi
e le oscurità che comunque ci invadono (Gv 17,14-15). Quel che di Dio ora
possiamo conoscere, è dato soltanto dalla fede e dalla speranza di vedere e
incontrare “ciò che è perfetto”. Solo allora conosceremo e saremo conosciuti
“perfettamente”, senza invidia e senza orgoglio, rallegrandoci “della
verità”, vedendo tutto e tutti non più come “adesso”. Ora infatti “vediamo
in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a
faccia” (1Cor 13,4-13).
Chi dice con tono di sfida: credo, mostrami però, fammi conoscere, provami
che quanto devo credere sia vero; si pone già al di fuori dell’orizzonte
della grazia, dell’accoglimento del dono della fede. La fede è un dono che
si riceve non la conquista di verità attraverso la potenza del miracolo o
del ragionamento filosofico. Davanti ai miracoli più poderosi di Gesù la
gente a lui ostile anziché credere lo odiava ancora di più. Risuscitato
Lazzaro, molti “alla vista di ciò che aveva compiuto, cedettero in lui”, è
vero, ma i capi religiosi “da quel giorno decisero di ucciderlo” (Gv
11,45-53).
Per questo leggere la Scrittura interpretandola col metro della sola ragione
conduce fuori strada, perché il rischio è quello di far dire e compiere a
Dio soltanto ciò che non scandalizza la nostra ragione. Profeti, salmisti e
apostoli non si sarebbero mai sognati di considerare vero solo ciò che si
poteva considerare ragionevole: la verità rivelata non è tenuta a
giustificarsi di fronte al tribunale delle nostre conoscenze. Le Lettere di
Paolo – dice Lev Šestov – “parlano di una verità che è incomprensibile e
persino contraria a tutti i costumi del nostro pensiero, una verità che si
rivelò migliaia di anni fa ad un piccolo popolo semi-selvaggio”, una verità
che “non accetta fondazioni e dimostrazioni”. Mentre Abramo partì senza
sapere dove sarebbe finito, “noi non abbiamo il coraggio di muoverci senza
preventivamente domandare che cosa ci attenderà alla destinazione”. Né
Abramo, né i profeti, né l’apostolo, metteranno mai “la ragione, la propria
o un’altra, singola o universale, al posto di Dio”. Mentre la ragione impone
i confini tra il possibile e l’impossibile attraverso la conoscenza di
“leggi immutabili ed eterne”, la fede si affida totalmente a Dio e alla sua
parola, alle sue promesse, e attraverso tale fiducia si mette in cammino.
Nessuna verifica intellettuale conduce alla conoscenza del Dio vivente, ma
soltanto la credibilità di un testimone capace di trasmettere fedelmente ciò
che Dio stesso ha rivelato. Questo è il motivo per cui “il mondo istruito
non poté accettare la rivelazione dei profeti ebrei e fece sforzi disperati
per trasformare le visioni profetiche nelle razionali idee elleniche”
(Speculazione e rivelazione).
Di fronte al Signore che esplicitamente gli dice: “Hai trovato grazia ai
miei occhi e ti ho conosciuto per nome”, Mosè ebbe l’ardire di chiedergli:
“Mostrami la tua gloria!”. No, questo non è possibile. Sì, Dio farà “passare
davanti” a lui tutta la sua “bontà” e la proclamazione del suo “nome”, ma
“il volto” non potrà essere visto, perché “nessun uomo” lo può vedere “e
restare vivo”. Poi Dio indica a Mosè un luogo lì vicino, una “rupe” su cui
dovrà stare mentre passa la “gloria” di Dio. Ma Dio lo porrà “nella cavità
della rupe” e lo coprirà “con la mano”, finché non sarà passato. Subito dopo
toglierà la mano, ma a quel punto non sarà possibile vedere che le sue
“spalle”, non il suo “volto” (Es 33,17-23).
Dice bene Lévinas: “Essere a immagine di Dio non significa essere l’icona di
Dio, bensì trovarsi nella sua traccia. Il Dio rivelato conserva tutto
l’infinito della sua assenza”. Non solo, ma “andare verso di lui” è in
qualche modo “andare verso gli Altri che sono nella traccia della
trascendenza” (Umanesimo dell’altro uomo). È, insomma, desiderare anche noi
d’esser posti, come Mosè, “nella cavità della rupe” in attesa che Dio passi
ancora in tutta la sua gloria di Risorto, ma senza che ci copra più con la
sua mano, piuttosto mostrandoci il suo volto. La promessa infatti è che un
giorno “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv
3,2). Sì, lo conosceremo da vicino, vedremo il suo volto, ora non possiamo
che accogliere le parole di un profeta che ne ha veduto le “spalle”, il
volto di un fratello che di questo continua a raccontarci.
(continua prossimo articolo: 9- DEBOLE) |