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I dodici volti di Dio
Daniele Garota
(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)
9. IL
DEBOLE
A volte si ha l’impressione che Dio
vorrebbe farsi maggiormente vivo e presente, in mezzo agli uomini, ma esita,
come di fronte a distanze incolmabili, differenze abissali, di comprensione
soprattutto. Chi è l’uomo per sopportare anche la sola presenza
dell’“Onnipotente” (Gb 40,2; Ap 1,8), del “Principio della creazione” (Ap
4,14)? Per questo forse, ci sono momenti in cui Dio si fa presente in forma
indebolita, in “un sussurro di brezza leggera” (1Re 19,12), oppure come per
farsi vincere, un po’ come accade a un padre quando s’accascia sul prato
mentre il suo bambino gli è saltato sopra convinto di averlo battuto. Così
dev’essere stato al guado dello Jabbok, là dove Dio si fece presente fino ad
assalire Giacobbe, lottando con lui per una notte intera, fino a pregarlo di
allentare la morsa, di lasciarlo libero. È un’immagine a noi vicinissima
quanto misteriosa di Dio, che mostra quasi la voglia di essere battuto da un
figlio d’uomo come Giacobbe, uno abituato a non mollare fin da dentro il
grembo della madre (Gn 25,26). Percepiamo gioia in Dio quando dice: “Non ti
chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli
uomini e hai vinto”, là dove un uomo osò affrontare Dio guardandolo “faccia
a faccia” restandogli salva la vita (Gn 32,23-31).
Ma c’è forse altro ancora da comprendere in questo senso. La storia della
salvezza non è secondo copione e a lieto fine, ma un dramma aperto, dal
primo all’ultimo giorno e che mai riusciremo a comprendere fino in fondo,
perché è anche il dramma di Dio, di un Dio che avrebbe voluto che le cose
andassero magari diversamente. Dalla lotta con Giacobbe si dovrebbe allora
passare a riflettere a quella tra Dio e il suo servo Giobbe, colui che
giunse, non potendone più, a chiedergli ragioni del proprio ingiusto
soffrire, una lotta di giustizia e d’amore che finì per trascinare Dio
stesso giù dal cielo, nella polvere e nella cenere della terra, con carne e
sangue del tutto umani, fino a condividere con l’umanità gli abissi del
dolore e della domanda gridata a Dio senza risposta (Mt 27,46; Mc 15,34).
Tutto ciò che è accaduto a Gesù di Nazaret lo dobbiamo considerare come
accaduto a Dio stesso. Dio è onnipotente e glorioso ma nell’amore e quando
chi ama è onnipotente allora può persino giungere alle vette dell’umiltà e
dell’impotenza, fino “a dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13),
potendo così non solo salvare la loro libertà, dunque la loro stessa
possibilità di ricambiarlo con amore, ma persino salvare la propria
credibilità di fronte alle ingiustizie e al male che affliggono il mondo e
la storia. Solo Dio poteva non ritenere “un privilegio l’essere come Dio”
riuscendo così a svuotare se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a
una morte di croce” (Fil 2,6-8). È attraverso il fulcro dell’amore che
l’onnipotenza, in Dio si ribalta in debolezza, in abissale impotenza. Il
paradosso del cristianesimo è questo: l’unico Dio capace di promettere
l’impossibile, mostrando d’avere straordinaria potenza è anche l’unico che
finisce per rivelarsi nella debolezza e nell’impotenza e solo così
diventando a noi credibile, amabile.
Il Dio che si rivela all’interno della storia e della fede di Israele, è
dunque l’unico Dio capace di camminare con noi per le vie della storia, fino
a morire umiliato come il più debole tra coloro che hanno abitato la terra.
I sentimenti d’amore più autentici e veri non sono di fronte ai potenti
bisognosi di nulla, ma di fronte a chi è debole e grida, e nessuno ha mai
raggiunto in questo senso una condizione di debolezza simile a quella di Dio
che in Gesù crocifisso ha raggiunto per amore, come per pagare un debito
nei confronti di una umanità sofferente in eccesso.
Ma come l’umanità dovrebbe rispondere a questo radicale movimento di Dio
verso il basso? Su questo punto pochi sono andati in profondità di pensiero
quanto Bonhoeffer. In una famosa lettera a un suo amico dice così: “Dio
ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla
vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)!
Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio
davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza
Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e
debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È
assolutamente evidente, in Mt 8,17 (‘Perché si compisse ciò che era stato
detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è
caricato delle malattie’), che Cristo non aiuta in forza della sua
onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!”.
È un movimento del cuore prima di tutto, quello che ci trascina “nella
sofferenza messianica di Dio”, al punto che non “l’atto religioso” ci fa
essere cristiani, “ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita
del mondo”. Lontanissima dunque la testimonianza biblica da certe tendenze
religiose attraverso le quali l’umanità che tribola si rivolge “alla potenza
di Dio nel mondo”, percepito come “il deus ex machina”, e questo perché “la
Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio”, al fatto che
“solo il Dio sofferente può aiutare” (Resistenza e resa).
Mentre ogni meta del pensiero umano tende a utilizzare l’idea di Dio
finalizzandola a proprio vantaggio, i credenti sono invece chiamati,
paradossalmente, a vivere nel mondo come se Dio non ci fosse, dunque da
adulti, come se toccasse a noi comprendere e aiutare Dio nel suo dolore e
nella sua solitudine, più che viceversa. Dunque vivere nel mondo senza Dio
proprio come egli in Gesù ci ha vissuto, dall’agonia dell’orto alla croce.
Troppo spesso i cristiani dimenticano il dolore del Cristo che muore nella
massima debolezza. Noi pensiamo che con la risurrezione tutto si sia
risolto, e invece non è così, perché il nostro compito è quello di vegliare
ancora con Dio ogni giorno perché, come diceva Pascal: “Gesù sarà in agonia
sino alla fine del mondo: durante questo tempo, non bisogna dormire”
(Pensieri, 806). L’attesa della sua venuta, che abita nel cuore della fede
cristiana, è uno stato agonico di tormento e d’angoscia nel quale ad avere
più bisogno di conforto e compagnia è, come duemila anni fa, forse ancora
Dio non l’umanità, che piuttosto tende ad assopirsi indifferente e annoiata
come già i discepoli nel Getsemani.
Non è che il Signore non sia più in agonia perché è risorto, lo è, anzi,
proprio perché è risorto: solo un vivente, infatti, può agonizzare e
soffrire. Se non siamo rimasti “orfani”, è perché ci è stato inviato il “Paràclito”,
il “Consolatore”, lo “Spirito della verità” (Gv 14,15-18), ma lo Spirito, a
saperlo udire, non fa che intercedere per noi “con gemiti inesprimibili”,
mentre tutta “la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi” e
“anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente
aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rom
8,18-27). Il discepolo è uno che piange e geme davanti a un “mondo” che
invece, e forse per gli stessi motivi, si rallegra, ma è tale come quando
una donna “partorisce”, è dolore di doglie per un frattempo perché poi sa
che presto e “di nuovo” rivedrà il suo Signore, e allora il suo “cuore si
rallegrerà e nessuno potrà” togliergli la sua gioia (Gv 16,20-22). Ogni
credente fedele al suo Dio crocifisso è, se lo ama, con lui in agonia, in
attesa delle doglie messianiche, del parto apocalittico. Ma se è così
allora, questo non altro, più di ogni altra cosa, siamo chiamati a fare: non
lasciarlo solo nella sua agonia continuando a vegliare con lui, continuando
a soffrire con lui, fino al giorno della sua venuta.
Se Dio sa già di quali cose abbiamo bisogno ancora prima che gliele
chiediamo (Mt 6,8), vuol dire che ne soffre già, come un padre e una madre
sanno già e partecipano profondamente ai bisogni e ai dolori del loro
bambino, al di là di ogni sua esplicita richiesta. “La finalità di ogni
preghiera – diceva Levinas – resta il bisogno che ha l’Altissimo
della preghiera dei giusti per far esistere, per santificare e per rialzare
i mondi. Ma nella misura in cui la sofferenza di qualcuno è già la grande
sofferenza di Dio che soffre per lui, per questa sofferenza che, ‘mia’, è
già sua, divina, l’io che soffre può pregare e allora può pregare per sé:
prega per sé in vista di far cessare la sofferenza di Dio che soffre nella
sofferenza dell’io” (Nell’ora delle nazioni).
La risurrezione non ha eliminato in questo senso, anzi, ha solo protratto
quel dolore e quell’attesa che la morte avrebbe contribuito a eliminare
definitivamente insieme alla fede. A Pascal stava a cuore il fatto che “dopo
la risurrezione” Gesù si lasciasse toccare “solamente le sue piaghe, come se
a lui potessimo di lì in poi “unirci soltanto alle sue sofferenze”
(Pensieri, 789). A vincere il mondo sarà la potenza della croce, la potenza
del dolore, la potenza dell’amore, la capacità che Dio ha avuto, e avrà di
indebolirsi, fino a condividere la sorte delle sue creature. Cos’è del resto
l’amore, non solo quand’è agàpe e si dona nel dolore, ma anche quand’è eros
e possiede nella gioia - se vissuto in Dio - una forma che conduce a
indebolirci nelle braccia di chi amiamo dicendogli: ho bisogno di te?
La fede ci unisce così a Dio a cominciare dalla condivisione del dolore e
dell’attesa, poiché in qualche misteriosissimo modo anche Dio spera e
attende come noi speriamo e attendiamo. Una condivisione che non può essere
tale se non ci si libera da quell’idea di onnipotenza di Dio nella quale in
troppi, a causa di un sentimento immediatamente religioso, ci si trova del
tutto irretiti. Ma liberarsi da tale idea significa pure liberarsi – come
diceva Paul Ricoeur – da quell’idea di provvidenza che, proprio quando è
intesa come “una sorta di protezione divina individualizzata – ‘io sono al
sicuro perché sono un buon cristiano’ – non è giusta nei confronti di tutte
le vittime”. Per questo, continua Ricoeur, sarebbe auspicabile riformulare
l’idea di onnipotenza di Dio “in termini di amore. Da onni-potente Dio
diventa l’onni-amante. È una visione della potenza, quella dell’amore. Ma
non è onnipotente: è forte quanto la morte” (La logica di Gesù).
Dio, di fronte al dolore patito ingiustamente dalle sue creature, si mostra
debole non perché non voglia ma perché non può proprio fare di più. Non solo
non potendo eliminare il dolore alle sue creature, ma avendo persino bisogno
di esse, a volte, per portare il peso delle proprie: di fronte al male
spaventosamente presente e in ogni attimo della storia del mondo, vi è come
un immenso credito di dolore che Dio stesso fa enorme fatica a saldare.
E allora, ma solo allora – lungi dunque da qualsiasi calcolo in vista di
utili da conseguire, percependo piuttosto in sé tutta la compassione per il
suo Dio, altrimenti non farebbe di se stesso che un compiaciuto idolo di
bassa lega - il credente può persino diventare “lieto nelle sofferenze”,
sapendo di dare con esse “compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo,
manca” (Col 1,24).
(continua prossimo articolo:10- MORTO) |