«Credo che per leggere onestamente la parabola dobbiamo non tanto identificarci con il protagonista positivo, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono momenti di un unico faticoso movimento verso una vera compassione»[1], arrivare non solo a “sentire compassione”, ma a “fare la compassione” (S.Gerolamo traduce “fecit misericordiam” = fece la compassione).
Domenica 15 domenica per annum C
Preghiamo. Padre misericordioso, che nel comandamento dell’amore hai posto il compendio e l’anima di tutta la legge, donaci un cuore attento e generoso verso le sofferenze e le miserie dei fratelli, per essere simili a Cristo, buon samaritano del mondo. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen
Dal libro del Deuteronòmio 30,10-14
Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Salmo 18 I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro, rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro, di molto oro fino,
più dolci del miele e di un favo stillante.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi 1,15-20
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.
Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
IL SAMARITANO: PSEUDONIMO DI GESU’. E DELLA CHIESA. Don Augusto Fontana
«Credo che per leggere onestamente la parabola dobbiamo non tanto identificarci con il protagonista positivo, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono momenti di un unico faticoso movimento verso una vera compassione»[1], arrivare non solo a “sentire compassione”, ma a “fare la compassione” (S.Gerolamo traduce “fecit misericordiam” = fece la compassione).
Si chiama “reato di omissione di soccorso” quello del sacerdote e del levita che transitano fischiettando accanto all’uomo colpito dai rapinatori. Reato diffuso oggi sui cigli delle strade da criminali che feriscono o uccidono e tirano dritto; reato che assume proporzioni intollerabili quando non si compie on the road ma nella mia e, forse, tua coscienza. Lì abbiamo steso una pellicola impermeabile ad ogni notizia che riguarda la carne ferita di uomo, donna, vecchio, bambino, carne della nostra carne. Il samaritano della parabola fu, tutto sommato, fortunato: incontra un ferito una volta nella vita ed è, per questo, santificato da Gesù nel suo vangelo per i secoli dei secoli. Ma noi, ogni giorno vediamo, sappiamo, conosciamo carni maciullate, schiave esposte, bimbi violati di sesso o di armi o di lavoro. Siamo all’assuefazione, alla indifferenza inescusabile ma inevitabile. Don Milani difendeva il “principio della cura” (I care = mi preoccupo) contro quella qualunquistica indifferenza di ieri che oggi ha infettato anche me. E mi chiedo come fa Dio, il Signore, a non diventare un po’ assuefatto pure lui che da quel giorno sul monte Oreb continua a guardare, ascoltare e scendere per liberare: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto» (Es. 3,7-8). Non sempre ne vedo chiaramente gli esiti e Lo attendo al varco nell’invocazione: «Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione» (Siracide 51, 10).
Padre Antonio Izquierdo scrisse, con una felice intuizione, che «il buon samaritano è lo pseudonimo di Gesù».
I Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino, Gerolamo e altri) tenendo conto di tutto il simbolismo di Gerusalemme, la città santa della salvezza, interpretano in modo particolare questa parabola. Nell’uomo che scende da Gerusalemme verso Gerico vedono la figura di Adamo ribelle che rappresenta tutta l’umanità espulsa dall’Eden, la Gerusalemme Celeste. Nei briganti che assalgono l’uomo, vedono il tentatore che ci spoglia dall’amicizia con Dio. Nella figura del sacerdote e del levita vedono l’insufficienza dell’antica Legge per la nostra salvezza che sarà portata a compimento dal nostro Buon Samaritano, Gesù Cristo, che partendo anche lui dalla Gerusalemme celeste ci cura con l’olio della consolazione e il vino dello Spirito e della speranza. Nella locanda i Padri vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore intravedono i fratelli nelle mani dei quali Gesù affida la cura dei con-fratelli. La partenza del samaritano dall’albergo, i Padri la interpretano come la risurrezione e l’ascensione di Gesù che promette di ritornare per dare a ciascuno il suo merito. Alla chiesa Gesù lascia per la nostra salvezza i due denari: la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Questa interpretazione allegorica e mistica del testo ci aiuta a cogliere bene il messaggio di questa parabola.
Un uomo incappò nei ladroni.
Gesù ambienta la parabola in questa strada tra Gerusalemme e Gerico, nota per le sue insidie. Quest’uomo è ognuno di noi camminatori imprudenti su sentieri che conducono lontano dall’Eden. «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri… Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti» (Salmo 24, 4. 10). Questa strada si presta a interpretare bene anche la nostra situazione di discepoli: “Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10, 3); “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Un sacerdote e il levita, vedendolo, passarono dall’altra parte
I primi personaggi che transitano sono professionisti della religione, conoscono la Torah di Mosè, guidano la preghiera, passano il loro tempo in chiesa, quindi si trovano per caso sulla via della sofferenza dell’uomo ma, appena la sbirciano, girano alla larga. L’essere accanto all’uomo che soffre, non fa parte dei loro programmi pastorali: devono interessarsi delle cose di Dio. Rappresentano coloro che, nella Chiesa o nella parrocchia, sono notai di Leggi, di Immobili e di Tradizioni secolari e sanno distinguere bene le eccellenze, le eminenze e i monsignori, le Rubriche rituali e i commi dei Codici. E Gesù li ripudia come eterni rappresentanti dell’indifferenza del cuore. Se non sapessimo che questa parabola risale a Gesù la diremmo nata dalla mente dissacratrice di un nemico della religione, un’invenzione sacrilega di un anticlericale denigratore di preti. Ma siccome è Gesù a parlare ci mettiamo in ascolto di una profezia che vuole colpire liturgie e pratiche religiose avulse dalla carità e dalla vita: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è uno schifo per me; non posso sopportare delitto e assemblee sacre. io detesto le vostre feste, sono per me un peso» (Isaia 1,13-14). Anch’io devo passare dall’orto-dossia (“hai risposto bene [in greco = orthôs]”) alla orto-prassi (“fai questo e vivrai”).
Tutti e due “passano dall’altro lato” con un gesto non solo di indifferenza, ma di esplicito scostamento. E’ diverso dal Gesù-samaritano che arriva “vicino a lui“.
Un samaritano era in viaggio…
Il terzo personaggio è Gesù, questo “extracomunitario samaritano” che si avvicina: «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» e io non possa accampare scuse dicendo che Dio è irraggiungibile. L’Incarnazione è un Dio che anziché chiudersi in se stesso in maniera narcisistica e oziosa sceglie di aprirsi all’esterno. Un Dio “in uscita”. E’ ciò che i Padri antichi della chiesa hanno sintetizzato con l’idea della “con-discendenza” (syn-katàbasis), cioè il suo essere-per-l’uomo. Il teologo Chenu, in periodo di Concilio Vaticano II°, chiamava questa modalità dell’agire di Dio, “legge dell’estroversione[2]. Il Concilio Vaticano II° nella “Gaudium et spes” scrive: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo … egli si è fatto veramente uno di noi” (GS n. 10). E’ per questo motivo che “chiunque segue Gesù Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (GS n. 41). Il Gesù-samaritano sembra non gradire certi riti che privilegiano più il salotto che la strada, più le pantofole che gli scarponi da viaggio, più la vestaglia da camera che il bastone del pellegrino.
…passandogli accanto…
Altre volte questo “passare accanto” di Gesù ha scatenato campi magnetici tonificanti: Mat. 20, 30 «Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la strada, sentendo che passava, si misero a gridare: «Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!»; Mc 1,16 «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare…»; Mc 2,14 «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì»; Lc 19,4 «Allora Zaccheo corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là».
Lo vide.
Anche il “vedere” è una qualità di Dio e un suo dono. Non per niente Gesù guarisce parecchi ciechi. Ci vogliono occhi per vedere i poveri. “La povertà non è solo quella del denaro, ma anche della mancanza di salute, la solitudine affettiva, l’insuccesso professionale, la disoccupazione … gli handicap fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono dall’incapacità di integrarsi nel gruppo umano più prossimo” (Paolo VI). Sono i drop-out: i “caduti fuori” dal circuito, i caduti in disgrazia. Per loro il Gesù-samaritano ripete il rito del Padre misericordioso: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20).
Ne ebbe compassione.
Significa sentirsi provati emotivamente nell’indignazione e nella compassione materna, guardare la storia e la geografia dall’angolo dei poveri. Uno dei termini con cui l’A.T. indica la misericordia è rahamim, che propriamente designa le “viscere materne” ed è usato per esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore. Is 49,15: “Forse che la donna si dimentica del suo bambino, cessa di avere compassione del figlio delle sue viscere? Anche se esse (viscere) si dimenticassero, io non ti dimenticherò”.
Lettera enciclica “Fratelli tutti”.
Il capitolo secondo della “Fratelli tutti” è completamente dedicato alla rilettura e attualizzazione di questa Parabola:
https://sestogiorno.it/wp-admin/post.php?post=2545&action=edit
[1] Eucaristia e parola, a cura della comunità di Bose, Ed. V&P.
[2] Chenu M.D., “Pour une anthropologie sacramentelle”, in La Maison Dieu 119 (1974) 86.