O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito.
Liturgia
«In sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo giorno ha cessato e ha ripreso fiato» (Esodo 31,17). Prendere fiato, respirare profondo: non è un’oziosa eccezione per borghesi, ma vocazione universale per creature interpellate dal Qoelet: «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?».
Il Regno di Dio non è una partita di Champions League, pochi campioni che giocano incitati dal tifo di molti. Chi lo vuol seguire non può stare in panchina. Tutti ad evangelizzare. E senza attrezzi o, meglio, con quei soli attrezzi compatibili con il suo, una croce.
I simboli della Chiesa cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba, il pesce, ma mai il camaleonte.
I miracoli sono insufficienti a condurre alla fede, sono inaffidabili. Il vento che scuote, il sisma che abbatte, il fuoco che ustiona, il cieco che vede, il pane che si duplica, l’acqua che è vino, la mummia che si rianima sono SEGNI, come dice l’evangelista Giovanni. Ma solo la croce è, come direbbe Lévinas, voix de fin silence, voce di sottile silenzio.
Proprio in questa notte si compie il contro-esodo, dalla terra dei circoncisi al territorio dei non-circoncisi, Gerasa nel territorio della Decapoli; oggi diremmo: dalla chiesa parrocchiale alla moschea musulmana o al mandir induista.
Le letture bibliche di oggi nascono da situazioni concrete depresse e deprimenti, ma lette e vissute nella coscienza che Dio vi abita dentro e che nulla potrà impedire all’amore di Dio di portare a compimento la sua volontà di salvezza: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia…».
I patti di sangue oggi si sono trasformati in una firma in calce a contratti che hanno tutto meno che il linguaggio della comunione di vita e il vigore dell’impegno assunto in fiducia. Sul collo dei contraenti alita il fiato degli avvocati, in un tempo di fragili impegni e amori flessibili.
Cacciari: «La Chiesa non è più di fronte a un ateismo militante, ma a un’indifferenza radicale. Non si trova più di fronte a un Nietzsche che dice “Dio è morto”, ma a chi dice “di Dio che me ne importa”. È un salto pazzesco». E noi continuiamo a dire: “Trinità…”.
Pentecoste è un sogno, una promessa, ma che tarda sui tempi delle mie attese e dei miei desideri.