10aprile.Venerdì Santo
LA CROCE E’ TEOLOGA (Gregorio di Nissa)

LA PASSIONE GLORIOSA (Gv. 18-19)
“La croce è teologa” (Gregorio di Nissa)

Ogni evangelista ci presenta la Passione con una propria sottolineatura teologica. Giovanni narra tutta la vita di Gesù, e a maggior ragione la Passione gloriosa, sotto forma di:

  • GRANDE PROCESSO, di un vero scontro, senza chiaroscuri né aree di mezzo. Ci trascina a uscire dal nostro osservatorio, a entrare negli eventi per prendere posizione. Questo dibattimento processuale ha alla base una domanda di legittimazione: Da dove vieni? Chi ti manda? Chi sei? Gesù accetta la discussione, interroga lui gli inquirenti, allega prove, chiama testimoni.
  • INTRONIZZAZIONE REGALE, una cerimonia di incoronazione senza i particolari doloristici degli altri evangelisti. Dichiara che la risurrezione di Cristo incomincia sulla croce.

Giovanni, leggendo con noi il filmato storico degli eventi, ininterrottamente ci trasferisce sul piano del mistero che penetra al di là della superficie degli eventi e del loro involucro scandalizzante.

a) Prima scena: 18, 1-11, l’arresto di Gesù.
C’e una mobilitazione generale che rivela la pericolosità di Gesù e l’intensità della violenza messa in campo. «Disse loro Gesù “IO SONO”». «IO SONO» è il Nome di Dio, quello rivelato a Mosè. C’è una vera epifania, una “trasfigurazione”. E Pietro (noi) è sempre generoso, ma fuori tema. Ha in testa una sua idea di riforma religiosa. L’Ora di Gesù è venuta, ma la sua non ancora.

b) Seconda scena. 18, 12 – 27. Il processo giudaico.
E’ composta da quattro scene: Il giudizio di fronte ad Anna – negazione di Pietro – il giudizio di fronte a Caifa – negazione di Pietro. A confronto il coraggio di Gesù che si offre (IO SONO) e la paura di Pietro (noi) che si ritira (IO NON SONO).

c) Terza scena: 18, 28 – 19,16. Il processo romano. 
E’ la scena centrale e la più lunga della Passione. Se seguiamo il movimento di Pilato attraverso i verbi entrò… uscì, si evidenziano 3 scene esterne (Pilato che parla 3 volte con la folla, cioè con noi), 3 interne (Pilato che parla 3 volte con Gesù). Al centro la scena principale: Gesù re da burla con tanto di corona, mantello e genuflessioni; per Giovanni è il VERO RE.

I Giudei, però, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter partecipare al banchetto pasquale”. L’hanno portato perché Pilato mettesse una firma ad una condanna già sentenziata. Uomini scrupolosi di “non contaminarsi” per poter celebrare le feste di Dio; gente molto “religiosa”, ma poco “umana”; gente testarda nel resistere all’autorità politica che per 4 volte dichiara Gesù innocente e poi cede agli interessi di piazza e di potere.

Il primo balordo salvato da Gesù è un ribelle il cui nome ebraico Bar’abbã significa Figlio del Padre. Ma il vero Bar’abbã, Figlio del Padre, è Gesú che si sostituisce all’altro Bar’abbã, anche lui uno dei figli del Padre.

Nell’ora precisa in cui al tempio, alla vigilia della Pasqua, il popolo stava tradizionalmente pregando e dicendo «Noi non abbiamo altro re all’infuori di Te, nostro Signore», qui i Sommi sacerdoti dicono: «Noi non abbiamo altro re all’infuori di Cesare!». I sacerdoti diventano blasfemi, perdono autorevolezza. L’antico sacerdozio è finito: Gesù sarà il nuovo e vero Sacerdote.

d) Quarta scena : 19, 17-22. La crocifissione.
«Egli portando la croce da sé»: nei Sinottici Gesù viene aiutato da un cireneo. Mentre per Giovanni è lui che porta la croce. Gesù è un Kyrios, il Signore che va avanti.
«Lo crocifissero e con lui due altri, uno di qui e uno di là». Giovanni precisa puntigliosamente: «e Gesù nel mezzo». Per Giovanni la posizione del Signore Gesù è stare in mezzo. Nella risurrezione «venne Gesù, stette in mezzo a loro». Anche in croce Gesù «sta in mezzo», regna.
«Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce»: è il capo d’accusa che diventa un ”titolo” teologico proclamato in ebraico, greco e latino, per tutti. Lettera ai Filippesi. 2, 9-10: « …per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome affinchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre».

e) Quinta scena : 19, 23-30. La missione di Gesù. 
Come protagonista c’è un oggetto di Gesù, il kitòn, la tunica. L’unico che portava una tunica senza cuciture nell’interno del tempio era il sommo sacerdote. E quindi Gesù viene visto come sommo sacerdote. Per Giovanni l’abito sacerdotale di Gesù non viene lasciato in eredità alla Madre né ai discepoli; tocca in sorte a dei pagani, anzi ai suoi carnefici. È una tunica senza cuciture, che non viene squarciata. Gv. 11,52 «egli doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi». È la tunica indivisa che viene gettata addosso all’umanità perché ci sia una sola comunità.

Disse: «Tutto è compiuto in pienezza»: segnali non di una fine ma di un fine, di un grande approdo della storia.

E “…consegnò lo spirito”; per Giovanni, la Pasqua e la Pentecoste accadono in questo istante della morte di Gesù.

f) Sesta scena: 19, 31-37. I segni: croce/trono, ossa, sangue e acqua. 
Giovanni considera la croce come il trono di Cristo. L’Evangelo di Luca termina con l’ascensione. Per Giovanni questa “ascensione” è contemporanea alla “elevazione” sul palo della croce.
E’ “l’agnello le cui ossa non dovevano essere spezzate” come dice il libro dell’Esodo.
Lo hanno colpito al lato (in ebraico=selah). La Chiesa è la nuova EVA che viene tratta dal lato (selah) del nuovo Adamo. Ed esce sangue ed acqua. In Ezechiele cap. 47 e Zaccaria al cap. 14, 8 si immagina che dal lato del tempio esca un’acqua freschissima che dilaga fino al deserto di Giuda e precipita verso l’acqua salata del Mar Morto e dove passa tutto fiorisce. Una morte fonte di vita. Da “guardare con intensità”.

g) Settima scena: 19, 38 – 42. Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Il coraggio postumo degli amici. L’amicizia che Gesù aveva seminato nella sua vita comincia a fruttificare. Il compito fondamentale, per chi è interessato ad essere credente, non è tanto cercarsi le croci, ma continuare a squilibrare il proprio baricentro perché il sassolino della buona notizia possa lentamente mettere in movimento. Nicodemo aveva accettato la sfida…

PER MEDITARE
1. LUI E’ IL MIO RE. IN CHE SENSO, OGGI?
«Fino a quando zoppicherete con due piedi?» (1 Re 18, 21). La frase non è chiara, ma pare significhi «decidetevi per chi danzare» o «Se il Signore è Dio, seguitelo». Nel culto liturgico domenicale proclamiamo a favore di chi vogliamo muovere i passi o danzare la vita. Riconoscere che Cristo è mio-re significa – come dice il Card. Martini[1] – « che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese».
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa mantenere vivo il sospetto contro le multiformi idolatrie. Come scrisse Carlo Carretto[2]Mi sono chiesto sovente: dove risiede il pericolo dell’idolatria? Io penso che il pericolo è in noi e che il peccato di idolatria sia un peccato di tutti i tempi. L’uomo dell’Antico Testamento aveva la tentazione di farsi un idoletto per metterlo penzoloni alla sella del suo cammello e l’uomo d’oggi ci prende gusto a mettere un santino in tasca al posto di Dio. E’ la stessa cosa, più o meno. L’uomo vuol fuggire allo sforzo di pensare Dio nel suo Mistero e trova più comodo dargli un volto a buon mercato che rimpiazzi la sua intoccabilità con qualcosa che si possa toccare e che soprattutto abbia tanti poteri taumaturgici da guarire quando si è malati e da arricchirci quando si è poveri.
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa ridare anche consistenza al ruolo Sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benchè piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.
Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa che ogni battezzato dovrà scoprire il valore sacramentale e salvifico della sua pratica messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi.
Per suggerire una qualche forma di interpretazione di questa “regalità” cito una pagina di Fr.Enzo Bianchi che parla di MINORITA’:«La minorità è un modo di essere e non un modo di parlare o di scrivere. E’ uno stile di vita diffuso, capillare. E’ una “lateralizzazione” di sè rispetto al mondo, un abbandono della posizione di frontalità (o centralità), un mettersi fuori o, piuttosto, ai margini, è un “diventare eccentrici”. Il “farsi piccoli” implica uno stare nel mondo in un certo modo più che un giudizio sul mondo. La minorità, come l’amore, vive solo di GESTI, come ha fatto S. Francesco. La “mimica” di Francesco dello spogliarsi davanti al vescovo è il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di “dire” la minorità che appartiene invece all’orizzonte del comportamento senza “se” e senza “ma” più che a quello delle dichiarazioni di principio o dei documenti».

2 -L’INDIFFERENZA E LA TESTIMONIANZA.
Il conflitto, la provocazione, la violenza ci fa muovere quasi d’istinto. Nella vita e nella passione di Gesù è molto chiaro: non si può affrontare un conflitto stando fermi. Uno dei nostri problemi, nel seguire Gesù, è che stiamo sempre piantati su tutti e due i piedi. Non c’è mai lo squilibrio necessario perché la parola di Dio ci possa raggiungere e far rotolare improvvisamente in avanti. L’indifferente è colui il quale non avverte più la tragicità dell’esistenza, non è scosso più dalle questioni ultime. La metafora giusta è quella del turista. Il turista non mira ad incontrare, vede senza guardare, così come ode senza ascoltare. Il turista al più si presenta come vicino non come prossimo. Farsi prossimo implica invece un prendersi cura, un essere responsabili dell’altro e per l’altro.
Di fronte a questo clima che alimenta l’indifferenza, ha ancora senso testimoniare? E come testimoniare? È difficile pensare ad un cristianesimo senza testimonianza, senza cristiani che rendano ragione della loro fede con la loro vita. La testimonianza è il caso serio della fede, perché testimoniare il Vangelo comporta un continuo riferimento alla persona cui il Vangelo si riferisce, colui che ha fatto di sé una consegna: Gesù Cristo.


[1] C.M.Martini, Il Dio vivente, PIEMME, 1991, pagg. 59-61.
[2] Carlo Carretto, Ciò che conta è amare, Editrice A.V.E. 1966, pagg. 104-110.

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