Ascoltando la parola di questa domenica il tema fondamentale che si presenta è quello di un forte invito alla speranza, alle mie speranze esauste. D’altra parte le letture bibliche di oggi nascono da situazioni concrete depresse e deprimenti, ma lette e vissute nella coscienza che Dio vi abita dentro e che nulla potrà impedire all’amore di Dio di portare a compimento la sua volontà di salvezza: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia…».
11° Domenica ord. B-
Preghiamo. O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica, ben sapendo che c’è più amore e giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 17, 22-24)
Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (5, 6-10)
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
Dal Vangelo secondo Marco (4, 26-34) In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che ha gettato il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto si concede, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
DIO NON PIANTA ALBERI, MA GETTA SEMI. Don Augusto Fontana
La vita.
Bambini che lavorano come schiavi, che vengono prostituiti, che imbracciano armi. Corpi dilaniati tra fango e macerie; torture; esecuzioni capitali; stupri, folle immense che migrano; fame, scontri etnici; corpi dilaniati dalla malattia, dallo squallore, dall’indifferenza; la finanza speculativa che affama e ruba potere, risorse ed economie ai popoli; il gioco d’azzardo è la quinta industria in Italia; adolescenze criminali, mattanza di donne che chiedono libertà affettiva; corruzione e politici ladroni. Ce n’è da farsi mancare il respiro. Qualcuno ha detto: « Ma almeno in chiesa si tacciano queste cose; vogliamo respirare un momento!». La liturgia però non ci educa a depositare per un attimo lo zaino fuori dalla porta per poi doverlo riprendere, ma anzi a trovare i criteri per traghettare questo zaino verso il suo scopo e con un senso ed una energia diversa. Ascoltando la parola di questa domenica il tema fondamentale che si presenta è quello di un forte invito alla speranza, alle mie speranze esauste. D’altra parte le letture bibliche di oggi nascono da situazioni concrete depresse e deprimenti, ma lette e vissute nella coscienza che Dio vi abita dentro e che nulla potrà impedire all’amore di Dio di portare a compimento la sua volontà di salvezza: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia…».
La parola. Ezechiele.
Il brano di Ez. 17,22-24 fa seguito ad una grande allegoria con la quale il profeta indica ai suoi contemporanei il significato degli avvenimenti che hanno coinvolto il Regno di Giuda culminati con la drammatica deportazione in Babilonia in due ondate successive (597/587). Una grande aquila (17,2), Nabucodonosor, ha strappato la cima del cedro e ha piantato un suo germoglio in terra di mercanti: è la chiara allusione alla prima deportazione dei notabili del popolo con il re Ioachim e la sua famiglia. Nabucodonosor lascia lo zio di Ioachim nel paese di Giuda e lo mette come reggente con il nome di Sedecia nella speranza di avere un collaboratore. Invece Sedecia ben presto si rivolge ad un’altra aquila (17,7), l’Egitto, nella speranza di essere liberato dal vassallaggio babilonese. Pura illusione che provoca la reazione di Nabucodonosor con il totale annientamento di Giuda e la deportazione in massa a Babilonia. Di fronte a speranze e illusioni tramontate, Ezechiele scrive le righe che sono risuonate in questa assemblea. Dio interviene come restauratore. Prenderà un ramoscello e lo pianterà in Gerusalemme; diventerà un cedro magnifico e ospiterà ogni volatile che avrà bisogno di riposo. I potenti saranno abbattuti e i deboli saranno ricostruiti. A fare la storia non sono i potenti di turno. Anche se non appare, è Dio che tesse la trama degli avvenimenti.<
La parola. Marco.
Anche nel Vangelo di Marco il Cap. 4 costituisce una svolta: fino a questo capitolo, Marco ci ha detto che Gesù insegnava e ci ha informato delle reazioni contrastanti: entusiasmo e stupore della folla (1,27; 2,12), opposizioni e scetticismo delle autorità religiose (3,6; 3,22). Ora Marco cerca di rispondere a chi, vedendo incrinata la popolarità di Gesù o vedendo crescere il malumore tra le autorità religiose, incomincia a chiedersi se quanto Gesù ha seminato avrà un seguito oppure se tutto finirà come per altri che si erano presentati come messia (es. Teuda e Giuda il galileo: Atti 5, 36-37). Marco fa un’affermazione coraggiosa: le opposizioni che il regno di Dio incontra non sono un’eccezione, ma la normalità e comunque non fermeranno l’azione di Dio. Il regno di Dio, di cui Gesù è l’inizio, ha una logica diversa. Non è appariscente, non fa rumore; Dio ha parametri diversi e in contrasto spesso con i nostri. Marco riferisce la parabola del seminatore dove l’attenzione è posta più sulle disposizioni interiori del discepolo. Poi narra la parabola del seme, riferita nella liturgia odierna, dove l’accento è messo sulla fecondità irrefrenabile del seme, della terra e del sole, dopo che l’agricoltore, il missionario, ha lavorato. Allora la parabola non è un invito al disimpegno o alla smobilitazione. L’intento è quello di infondere fiducia a chi, come Gesù, trova risultati deludenti o catastrofici. La breve similitudine descrive la storia del seme e del Regno in tre tempi: la semina, la crescita e la raccolta.
Il primo tempo è il momento dell’azione del contadino, espressa con un solo verbo (“ha gettato”) che indica un fatto concluso. Per il contadino è solo un tempo che passa («dorme e veglia, notte e giorno»), durante il quale ignora ciò che sta accadendo ( «come, egli stesso non sa»).
Il secondo tempo è dedicato alla descrizione del tempo del seme e della terra. Il narratore invita l’ascoltatore a fermarsi su questo tempo. Per il seme è il tempo importante della crescita («germina e si allunga»). E per la terra è il tempo in cui essa opera – per forza propria (automàte) – straordinarie trasformazioni: lo stelo, la spiga, il grano nella spiga.
Nel terzo tempo ricompare, il contadino. La sua azione è inquadrata da due altre, di cui egli non è il protagonista:
– «Appena il frutto lo consente (si concede)»,
– «Il tempo della mietitura è sopraggiunto».
«Appena il frutto si concede». Il verbo è paradidonai: «dare», «permettere», «concedere», «regalare». E’ il frutto stesso che si dona all’uomo. L’uomo non fa, ma accoglie. È il seme che in realtà fa tutto: germina, cresce, matura, si offre all’uomo per la raccolta. E per dire che è giunto il tempo della mietitura, si usa un verbo (è arrivato) che allude a qualcosa che è iniziato e rimane a disposizione per un urgente raccolto. Il tempo della mietitura è anche un tempo da afferrare. Le azioni che vi si svolgono richiedono rapidità: «appena … subito». L’unica cosa che ci si aspetta dal contadino è che quando la messe è matura egli usi la falce immediatamente, senza aspettare: un forte vento e una grande pioggia potrebbero far cadere le piante di frumento e rovinare tutto il raccolto. Il contadino diventa in qualche modo il custode del seme che cresce. La similitudine, dunque, indugia sul tempo intermedio, tanto lungo da costituire per molti un problema: «perché, dopo che è caduto nella terra, il seme tarda a manifestarsi? Che significato ha questo tempo che si protrae tanto e in cui tutto pare inerte, nulla si vede e Dio sembra tacere?». Questo tempo intermedio è tempo di crescita e di impensabili trasformazioni, tempo decisivo, tempo dell’azione di Dio, non della sua assenza. E’ inattivo il contadino, non il seme o il terreno. Che tutto avvenga invisibilmente, misteriosamente, non è segno della assenza di Dio, ma del suo modo mite di parlare e agire. Non delusione, dunque, né turbamento né inutili impazienze, bensì attesa fiduciosa. Ma è una fiducia non facile. I credenti hanno sempre la (legittima) pretesa di ‘vedere’: «Signore, mostraci il Padre!»…«perché Dio non si manifesta apertamente?» (Gv 14,8; 7,4).
Oltre al contrasto tra il tempo dell’azione visibile e dell’azione nascosta, c’è n’è un secondo tra l’inerzia del contadino e l’incessante lavoro del seme e della terra. La terra fruttifica automàte, cioè da sé e senza causa visibile. Così è il Regno: un’azione di Dio incessante e prodigiosa, ma nascosta e autonoma. È il Regno stesso, già deposto nella storia come un seme che viene; non sono gli uomini a farlo venire. Così il discepolo viene liberato da un affanno inutile. Non sta a lui garantire il successo del Regno, perché egli deve semplicemente assicurare l’annuncio e – quando sarà l’ora – la raccolta. A decidere il tempo della mietitura è il frutto, non il contadino. Certo, non si nega il valore dell’impegno nella storia, verso cui anche Gesù più volte ci ha indirizzati. Ma qui pare che il regno di Dio non sia una realtà da ‘forzare’ come facevano gli zeloti al tempo di Gesù o come sono tentati di fare gli attivisti cristiani in ogni tempo. Il regno di Dio non è questione di organizzazione efficiente, ma semplicemente di accoglienza.
A chi sono rivolte queste parabole?
- A chi presume di salvarsi o di salvare: il verbo del cristiano non è “salvarsi”, ma “essere salvato”. «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi per primo» (I Giov. 4,10.19). Dice il Signore, in Isaia 10,20: «Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano». Dice Paolo: « Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualcosa, ma Dio che fa crescere»( (I Cor. 3,6-7);
- A chi si sente abbandonato a se stesso, piccolo, destinato alla insignificanza. Agli scettici, ai lamentosi, ai pessimisti, ai polemici che si adeguano nel compromesso o si ritirano o non sanno riconoscere la crescita.