17 ottobre 2021. Domenica 29a
DIO SUL DORSO DI UN ASINO

Sul mio diario segreto, ermeticamente vigilato da un’impronunciabile password, campeggia il titolo «Quando sarò Papa». A pagina due annoto: «Fare ingresso solenne sul dorso di un asino». E’ un sogno un po’ kitsch per ricordarmi che non sarei mai un evangelico Papa se non ricomincio da capo ogni giorno a entrare nei rapporti in punta di zoccoli d’asino. L’asino fu cavalcatura da servo, per sentieri umili, a differenza del cavallo che portò gli aristocratici lombi del potere e della guerra.

29 domenica B

Preghiamo. Padre, concedi alla tua Chiesa di servire l’umanità intera  a immagine di Cristo, servo e Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen
Dal Libro del profeta Isaia (53,2-5;10-11)
Davanti al Signore il suo servo è cresciuto come una pianticella, come una radice in terra arida. Non aveva né dignità né bellezza, per attirare gli sguardi e per richiamare l’attenzione. Noi l’abbiamo rifiutato e disprezzato come uno che non vale niente, e non lo abbiamo tenuto in considerazione.  Eppure egli ha preso su di sé le nostre malattie, si è caricato delle nostre sofferenze, e noi pensavamo che Dio lo avesse castigato, percosso e umiliato. Invece egli è stato ferito per le nostre colpe, è stato schiacciato per i nostri peccati e noi siamo stati salvati. Egli è stato percosso, e noi siamo guariti. Lui, servo del Signore, ha dato la vita come un dono per gli altri. Il Signore dichiara: «Dopo tante sofferenze, egli, il mio servo, vedrà la luce e sarà soddisfatto di quel che ha compiuto. Infatti renderà giusti davanti a me molti uomini, perché si è addossato i loro peccati».
Salmo 32 . Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore  e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;  dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,  su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei 4,14-16
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.  Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.  Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Dal Vangelo secondo Marco 10,35-45
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Maestro, noi vorremmo che tu facessi per noi quel che stiamo per chiederti». E Gesù domandò: «Che cosa dovrei fare per voi?». Essi risposero: «Quando sarai un re glorioso, facci stare accanto a te, seduti uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Ma Gesù disse: «Voi non sapete quel che chiedete! Siete pronti a bere quel calice di dolore che io berrò, a ricevere quell’immersione (battesimo) di sofferenza nella quale sarò immerso (battezzato)?». Essi risposero: «Siamo pronti». Gesù aggiunse: «Sì, anche voi berrete il mio calice e riceverete la mia immersione (battesimo); ma non posso decidere chi sarà seduto alla mia destra e alla mia sinistra. Quei posti sono per coloro ai quali Dio li ha preparati». Gli altri dieci discepoli avevano sentito tutto e si arrabbiarono contro Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò attorno a sé e disse: «Come sapete, quelli che pensano di essere sovrani dei popoli comandano come duri padroni. Le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere così. Anzi, se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servo di tutti; e se uno vuol essere il primo, si faccia servitore di tutti.  Infatti anche il Figlio dell’uomo è venuto non per farsi servire, ma è venuto per servire e per dare la propria vita come riscatto per la liberazione degli uomini».
DIO SUL DORSO DI UN ASINO. Don Augusto Fontana
L’omeopatia di Dio.
Sul mio diario segreto, ermeticamente vigilato da un’impronunciabile password, campeggia il titolo «Quando sarò Papa». A pagina due annoto: «Fare ingresso solenne sul dorso di un asino». E’ un sogno un po’ kitsch per ricordarmi che non sarei mai un evangelico Papa se non ricomincio da capo ogni giorno a entrare nei rapporti in punta di zoccoli d’asino. L’asino fu cavalcatura da servo, per sentieri umili, a differenza del cavallo che portò gli aristocratici lombi del potere e della guerra. Alle porte di Gerusalemme la strategia messianica di Gesù trova nell’asino un fantasioso e profetico segno sacramentale, visibile ed efficace[1]: «Andate nel villaggio; troverete un asinello legato. Scioglietelo e conducetelo» (Marco 11, 2). E così entra in Gerusalemme lui, re da burla, Signore di quei discepoli che poche ore prima avevano animatamente censurato due condiscepoli per le loro pretese da boss[2]: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»[3]. La chiesa ha un nervo scoperto sul sesto comandamento, ma concede sconti da liquidazione su altri comandamenti di Gesù che non riguarderebbero propriamente moine da galateo salottiero: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Marco 10, 35-45).
Nella vita quotidiana il potere ha una sua parte quasi ineliminabile a tutti i livelli anche se in formato ridotto: famiglia, scuola, ambienti di lavoro, parrocchia. Anche i rapporti di amore e di amicizia o religiosi possono essere avviluppati dalla tela dell’autoritarismo conscio e inconscio. L’esigenza di stabilità e di operatività di ogni gruppo favorisce paradossalmente la degenerazione dell’esercizio dei rapporti autorevoli in esercizio di potere. Anche il conformismo è un segno che c’è qualche potere “indiscusso” in atto che livella libertà e omologa coscienze.
Chi, nella convivenza o nell’evangelizzazione, ha scelto la via del “non-potere” ha potuto creare rapporti umani autentici e liberi dove i sentimenti di accoglienza e di amore hanno trovato il primo posto. Alcuni ci rimettono faccia e carriera. Altri la vita. Leggo il testamento di Christian de Chergé, abate cistercense, ucciso con altri 6 monaci il 21 maggio 1996 ad Algeri. Lo leggo con i sentimenti di stupore e sbigottimento affiorati nei discepoli nel fiutare le arie che tiravano[4]. Il monaco martire scrive parole scandalose per le orecchie di molti cattolici che “frequenteranno la Messa” di domenica, abitati da un rancoroso anti-islamismo da far invidia al migliore Jiad[5] cattolico ma neutralizzato da queste parole scritte col sangue: «Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che pregassero per me. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.  La mia vita non ha un prezzo più alto di un’altra.  Non vale di meno né di più.  In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Non posso auspicare una morte così; mi sembra importante dichiararlo.  Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo, che amo, sia indistintamente accusato dei mio assassinio.  Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la «grazia del martirio», doverla a un algerino qualsiasi, soprattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede essere l’islam. Conosco le caricature dell’islam che un certo Islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi la coscienza in pace, identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un’anima. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naïf o un idealista.  Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta.  Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come Lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando sulle differenze. Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rende grazie a Dio. E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi.  Si, anche per te voglio prevedere questo «Grazie» e questo «Ad-dio».  E che sia dato a tutti di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune.  Amen! Insciallah[6]».
Dolorosamente il testamento si sovrappone all’inno di Isaia (Isaia 53, 2-11) dedicato ad una misteriosa figura di Servo del Signore «cresciuto come un virgulto e come una radice in terra arida. Disprezzato dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità». Dio indossa l’iniquità: è la legge dell’omeopatia divina (similia similibus curantur[7]). Stenterei a crederlo senza Gesù; ed una strana rassicurazione mi invade. I testi di Isaia e della Lettera agli Ebrei sottolineano questo aspetto del servizio: prendere su di sè. Don Milani diceva che contro la cultura del «me ne frego!» occorreva contrapporre la cultura del «mi sta a cuore!». «Agnus Dei qui tollis peccata mundi – recitavano i nostri vecchi – Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Ma il verbo latino tollere ha tre significati di alto valore cristologico ed ecclesiale e non solo linguistico: portare, sopportare, portare via ( in greco= airô). Scrive la Lettera agli Ebrei (4,14-16): «Abbiamo un sommo sacerdote che compatisce le nostre debolezze, essendo lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso solo il peccato…». Molti di noi possono raccontare di essere rimasti a volte in faccia al dolore o all’errore, incapaci a togliere, ma fraterni almeno nel portare insieme. Io nelle carceri ne faccio esperienza: a quasi nessuno sono riuscito a “togliere l’iniquità”; ma mi viene chiesto comunque di “portarla” sulle mie spalle, sulla mia coscienza, sulla mia preghiera, sul mio dolore. Nella celebrazione di oggi non cercherò nei primi posti un Dio estatico e apatico (che non soffre), sperando invece di trovarLo, vivo e patetico (empatetico), a raccogliere mie malizie e gracilità con manciate del suo pathos. Come dice Bonhoeffer, «un Dio che non soffre non ci può liberare».
Attraversando equivoci e paure.
Il testo liturgico dell’evangelo odierno è stato privato di alcuni versetti che lo precedono e che si ritiene importante citare. Ci si riferisce ai versetti 32-34 che contengono il terzo annuncio della passione: «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno,  gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; e dopo tre giorni risusciterà».
Sei verbi di morte e un settimo di vita per uno sbigottimento realistico allora, più liturgico oggi. L’incertezza, il dubbio e la paura si impadroniscono di tutti: seguaci, simpatizzanti, discepoli e Dodici. Marco agisce come ottimo regista preparando la scena in movimento con molti personaggi. In questo gruppo c’è posto anche per noi lettori. Se potessi, chiederei al regista Marco di risparmiarmi il viaggio con Gesù e di farmi trovare, invece, nei primi posti a godermi la scena della risurrezione.
A questo terzo annuncio della passione segue la reazione dei discepoli, peggiore delle precedenti. Dopo il primo annuncio Gesù va in collisione con Pietro che «pensava secondo gli uomini e non secondo Dio» (8,32). Dopo il secondo annuncio segue un eloquente mutismo da parte di tutti, intenti a litigare su chi fosse il più grande (9,32). Ora i discepoli vogliono che lui faccia la loro volontà assecondando deliri messianico-politici: «Vogliamo che tu ci dia quello che ti chiediamo». Gesù sta al gioco: «Cosa volete che faccia per voi?». Altre volte nei Vangeli Gesù chiede: «Cosa vuoi?».  Normalmente la domanda di Gesù è preceduta dalla debolezza di lebbrosi e ciechi[8] che grida guarigione. E Gesù risponde concedendo quanto richiesto. La richiesta dei discepoli invece non esprime bisogni, ma presume privilegi. Resta così scritta in eterno una risposta che, più che un rimprovero, sembra un lamento: «Non sapete che cosa chiedete…!». I discepoli avevano semplicemente frainteso. Per loro, andare a Gerusalemme significava ancora andare direttamente alla gloria ed è per questo che fanno questione di posti e di potere.  Nella letteratura apocalittica giudaica si attende che in un futuro non lontano Dio giudichi il mondo dando così prova della sua potenza; nelle circostanze storiche concrete del tempo ciò significava ribaltare la situazione di Israele nei confronti degli invasori o colonizzatori. Nei testi apocalittici infatti la lingua ebraica usa preferibilmente il termine gheburah per indicare la forza di Dio che agirà alla fine dei tempi. Negli scritti della comunità apocalittica di Qumran, soprattutto nel rotolo chiamato “rotolo della guerra”, si dice che la forza di Dio si manifesterà anche per mezzo dei combattenti (ghiborrim). E’ possibile che i discepoli, come si evince da una numerosa serie di testi in tutti i sinottici, coltivassero questa cultura apocalittica tipica anche degli zeloti e continuassero a persistere nella comprensione di Gesù come quel Messia sfasciacarrozze  che avrebbe ribaltato le sorti tramite la guerra santa.
A vantaggio di…
Raccogliamo dalle tre Letture liturgiche il tema del Dio servo, che ama l’uomo caricandosi dei suoi pesi. La Chiesa non deve fare affidamento sulle gambe dei cavalli di razza o sugli strumenti di pressione tipici delle società organizzate di oggi che abbisognano di messaggi suadenti più per vincere che per convincere. L’atteggiamento dei due discepoli, che dimostrano di non capire che Dio procede a dorso d’asino, è l’atteggiamento di ognuno di noi che ha fretta di vincere e di soddisfare i narcisismi o di accorciare i cammini di crescita o di abbandonarsi alle piccole vendette “escatologiche” della propria storia quotidiana.  «Dare la vita in riscatto» significa sciogliere, liberare.  Il riscatto era ed è il prezzo che un familiare (detto in ebraico: goèl) paga per liberare un parente caduto prigioniero o rapito. Il servizio diventa “assumere su di sè responsabilmente il destino e la situazione degli altri”. Molti hanno detto che la croce è “pagare al posto di…“; meglio sarebbe dire che l’amore diventa crocifisso quando “paga a vantaggio di…“.


[1] Zaccaria 9, 9 «Esulta molto figlia di Sion, gioisci figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina».[2] Pare che per l’evangelista Matteo la richiesta fosse così insopportabilmente scandalosa in bocca ai due futuri vescovi di Gerusalemme (Giacomo e Giovanni) da indurlo a trasferirla sulla bocca della loro madre (Matteo 20, 20).
[3] Marco 10, 37
[4] «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura.» (Marco 10, 32-34).
[5] Uso il termine secondo l’interpretazione popolar-cattolica di questi tempi; ma so che lo Jiad significa sforzo, impegno sulla strada di Dio. Guerra santa è una interpretazione deviata mentre per gli islamici non fondamentalisti lo Jiad è uno “sforzo collettivo verso Dio”.
[6] Passim dal  testo integrale su https://ora-et-labora.net/ecumenismotibhirine1994.html
[7] La medicina Omeopatica si basa sul concetto del simile, secondo il quale una malattia si può curare con la stessa sostanza che assunta dall’uomo sano ne induce la malattia.
[8] Mc 1,41: il lebbroso; Marco 10,47.51: il cieco

image_pdfScarica PDFimage_printStampa