Con la liturgia di oggi sfumano le Epifanie del Signore, quelle accadute tutte fuori dal Tempio: in una grotta di campagna tra i poveri del suo popolo; in una casa di villaggio tra pellegrini pagani; sulle rive di un fiume tra peccatori vogliosi di disintossicarsi; ora in un pranzo di nozze tra sposi, servi e discepoli attoniti. Queste Epifanie noi le celebriamo nel Tempio, ma non ci rassegniamo a doverle trovare solo lì.
Epifania di Gesù alle nozze di Cana
Preghiamo.
O Dio, che nell’ora della croce hai chiamato l’umanità a unirsi in Cristo, sposo e Signore, fa’ che in questo convito domenicale la santa Chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore, e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Isaia 62,1-5
Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più “Abbandonata” né la tua terra sarà più detta “Devastata”, ma tu sarai chiamata “Mio compiacimento” e la tua terra, “Sposata”, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa, una vergine, così ti sposerà il tuo creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.
Salmo 95 – Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore
Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunziate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo ai popoli narrate la sua gloria, a tutte le nazioni dite i suoi prodigi.
Date al Signore, o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra i popoli: “Il Signore regna!”.
Sorregge il mondo, perché non vacilli, giudica le nazioni con rettitudine.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 12,4-11
Fratelli, vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole.
Dal Vangelo secondo Giovanni 2,1-12
[Tre giorni dopo][1] vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me?[2] Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio [il principio] dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
RINCORSI DA UN AMORE. Don Augusto Fontana
A Cana di Galilea, confinante con i nostri villaggi e siepi, l’orologio di Maria invitata a nozze era in anticipo di alcuni anni sull’Ora pasquale di Gesù: «Donna, non è ancora giunta la mia Ora» (Gv 2, 9-11). Gesù decide comunque di dissotterrare frammenti del suo futuro e di servire un antipasto di gioia sponsale come sacramento di quell’Ora. Affinché noi, discepoli novizi, impariamo che le nostre Galilee non sono abbandonate e maledette: «Sarai un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più “Abbandonata” ma tu sarai chiamata “Mio compiacimento” e la tua terra “Sposata”» (Isaia 62, 1-5).
Da quel momento i discepoli credettero in lui. Il che vuol dire che prima erano discepoli, ma non credenti. Falsi griffati, patacche come me e, forse, come te. L’evangelista Giovanni ci dice che quel primo segno non basterà a garantire la longevità della loro fede. Avranno bisogno di altri sei segni di Gesù[3]. Che non basteranno ancora. La fatica del nostro credere è tutta fatica Sua, di questo povero Dio cireneo che porta e solleva periodicamente tradimenti, affievolimenti, cadute di tensione, smarrimenti, eclissi fino al Giorno in cui “sarà innalzato e attirerà definitivamente tutti a sé” (Giovanni 12,32).
Con la liturgia di oggi sfumano le Epifanie del Signore, quelle accadute tutte fuori dal Tempio: in una grotta di campagna tra i poveri del suo popolo; in una casa di villaggio tra pellegrini pagani; sulle rive di un fiume tra peccatori vogliosi di disintossicarsi; ora in un pranzo di nozze tra sposi, servi e discepoli attoniti. Queste Epifanie noi le celebriamo nel Tempio, ma non ci rassegniamo a doverle trovare solo lì. Curiosiamo nello spazio non-liturgico e non-clericale per trovare i suoi segni da leggere e per cantare: «Hai fatto nuove, Signore, tutte le cose».
Oggi, durante un’umanissima festa di matrimonio, c’è un gesto di Gesù che è un’espansione del suo “prendersi cura”. Questo primo “prendersi cura” è una sigla di apertura, la prima “orma liturgica” di quell’Ora di Gesù che incombe in tutto il Vangelo di Giovanni fino al capitolo 13 :«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua Ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». Poi lava i loro piedi trasformando l’acqua del catino delle purificazioni nel buon vino dell’amore servizievole e liturgico. Un amore sponsale.
«Le tue tenerezze sono più dolci del vino» (Cantico 1,2).
Dicono che subire un deficit affettivo procura infezioni che si annidano nel sistema di autostima e di relazioni umane; l’aggressività, il pessimismo, l’insicurezza, la fragilità sentimentale, il legalismo trovano nel deficit affettivo il loro principale peccato originale. Senza scomodare analisi freudiane, qualcosa del genere lo riscontriamo nel contesto storico della prima lettura liturgica di oggi e risalente a 540 anni circa prima delle nozze di Cana. Il pagano imperialista Ciro aveva concesso agli Israeliti di rientrare in patria. Fu la fine dell’esilio iniziato circa cinquant’anni prima. Cinquant’anni durante i quali la fede di migliaia di piccoli Giobbe fu sottoposta a prove durissime: crollo della monarchia e delle strutture culturali e religiose, invidia per lo splendore rituale e politico dei vincitori, tracollo dei sistemi di trasmissione delle tradizioni popolari e religiose, defezione di molti. I profeti avevano per anni tenuta sveglia la capacità di leggere i segni dei tempi, di effettuare un esame di coscienza per comprendere responsabilità della catastrofe, per sostenere fedeltà di popolo, per combattere disperazione disgregante. La liberazione effettivamente avvenuta aveva confermato le parole dei profeti: la fedeltà di Dio si era manifestata con lo straordinario segno del ritorno da Babilonia. Poi l’entusiasmo si affievolì, il Tempio ricostruito fu modesto, riaffiorarono le tensioni sociali non meno che l’abitudinario grigiore dell’ordinaria follia quotidiana. E ripresero vita l’aggressività, il pessimismo, l’insicurezza, la fragilità sentimentale, il legalismo. A questo popolo parla il discepolo del profeta Isaia che mette in campo una delle carte considerate vincenti: Dio è tuo sposo.
Mi chiedo se oggi gli sposati reggono alla responsabilità di narrare Dio e di esserne il suo simbolo. Quote crescenti di fallimenti matrimoniali sono sociologicamente registrabili mentre altre percentuali si consumano in striscianti divorzi consumati in casa. Siamo povere creature bisognose di dire “Dio” con parole povere prese in prestito dal circuito delle nostre esperienze: padre, pastore, sposo. «Le parole sono cose pericolose. Dio è un mistero così grande che non ha nome che gli si possa applicare. I nomi sono gabbie»[4]. Eppure, come scrive il biblista Alonso Schökel, «per rivelare il suo amore Dio chiede in prestito all’amore umano i suoi simboli e la capacità dell’uomo di rispondere a questo amore»[5]. Dio “sposo”, dunque, non solo di suore, frati o chiese verginelle, bensì di tutta l’umanità. Quell’umanità, dentro e attorno a noi, che è come una ragazza nubile afflitta dall’ansia di un amore che la innalzi e la nobiliti, la distolga da sé, colmi il senso della sua esistenza sentendosi dire dal suo Dio: «Mi hai rubato il cuore, mia sposa, con uno dei tuoi sguardi, con una sola gemma della tua collana»[6]. Umanità curata e accudita come una vigna/sposa da cui si attendono acini dolci e vino buono non solo per sé, ma anche per i passanti: «La vigna del Signore, il suo vivaio preferito sono gli uomini di Giuda; da loro aspettò diritto ed ottenne omicidi, si aspettò giustizia ed ecco invece lamenti»[7]. Un’umanità che ha ormai esaurito tutta la sua produttività e scialacquato ogni residuo di dolcezza e di gioia, come nel banchetto di Cana: «…venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino». Nell’umanità di Gesù tornano spremute di fedeltà, di vino buono: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto»[8].
Nella parabola di oggi il tema centrale pare che sia il vino, richiamato per cinque volte con tutto il suo sapore di vitalità e di gioia. Paolo, nella seconda lettura liturgica (1 Corinti 12, 4-11) elenca i carismi che pendono come grappoli e gioielli in mezzo al fogliame delle nostre poco encomiabili vite: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune».
Nella promessa di un Dio com-promesso.
Anche noi abbiamo il nostro “Ritorno da Babilonia” fatto di sogni frantumati. Basta leggere i quotidiani di due giorni. Anche noi abbiamo dato fondo al vino frizzante e siamo a bocca secca. Abbiamo da offrire, al massimo, barilotti d’acqua, fondi di bicchiere. Siamo una vecchia chiesa zitella, in attesa che qualcuno ci baci con la rassicurazione di una fedeltà e di una promessa sponsale: «Dio non esaudisce tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse» scrive Bonhoeffer dal carcere[9]. Il bisogno di sentirci inseriti in un regime di fedeltà e di promessa, nasce dall’esigenza di essere riconosciuti come soggetti da non buttare, di poter contare su qualcuno che mantiene le promesse perché si com-promette.
Noi abbiamo la potenza del disdire le nostre promesse. I nostri AMEN spesso non sono che rantoli d’agonia su speranze, relazioni, preghiere e futuro. Potrà dissuaderci la promessa di salvezza nuziale in Gesù? Fintanto che non arriva la società felice, oseremo chiedere a questo sfuggente Dio di scodellarci sulla mensa e nelle nostre anfore almeno frammenti, assaggi, acconti della sua Ora, brandelli di speranza servita come sacramento. Saremo: bambini stupiti per un mondo che può essere diverso; discepoli credenti benché in manutenzione; servi che fanno ciò che Lui ci dirà; spazi di carismi che Dio si crea per esprimere storicamente la ricchezza della sua offerta.
«Vorrei che i miei fratelli di fede possedessero il carisma del segno. Un gesto appena abbozzato, una parola sussurrata, un accenno. Un segno piccolo, contenuto, dimesso, rispettoso. Che faccia sospettare un Dio che mi ama e che vuole intervenire nella trama ordinaria della mia vita per invitarmi (o invitarsi) alla festa»[10].
[1] Il testo ufficiale omette “tre giorni dopo” che per l’evangelista è invece un linguaggio in codice per indicare che in quell’evento inizia già il tempo pasquale di Gesù e della chiesa.
[2] Letteralmente: “cosa a me e a te, donna?“. Il testo originale greco è di difficile traduzione e interpretazione. Per S.Giovanni Crisostomo la madre è invitata dal Figlio a superare la sua maternità carnale per nascere come discepola. Enzo Bianchi avvalora questa interpretazione: «in quanto madre fisica di Gesù non può pretendere nulla. In altri termini Maria da madre si fa discepola che ascolta, obbedisce al figlio e chiede agli altri di fare lo stesso».
[3] Guarigione del figlio di un funzionario a Cafarnao ((4,54); guarigione di una persona disabile alla piscina di Betzaetà (5,2); moltiplicazione dei pani (6,4); guarigione di un cieco (9, 16); rianimazione di Lazzaro (11,4); morte e risurrezione di Gesù.
[4] R. Alves Dire Dio, CEM mondialità, 1/1999.
[5] Luis Alonso Schökel, I nomi dell’amore. Simboli matrimoniali nella Bibbia, Piemme, 1997. Il biblista seleziona e analizza tutti i testi biblici in cui Dio si rivela partendo dall’universale esperienza della vita matrimoniale.
[6] Cantico dei cantici, 4,9
[7] Isaia 5, 7.
[8] Giovanni 15, 5
[9] D. Bonhoeffer Resistenza e resa, Bompiani, 1969, pag. 282.
[10] Alessandro Pronzato «Parola di Dio!». Commenti alle 3 letture della domenica. Ciclo C,Gribaudi, 1988, pag. 146