19 settembre 2021. Domenica 25a
UN CUORE GIUSTO AL POSTO GIUSTO

«L’autorità è servizio, diakonìa!»: sacrosanto principio che si è corrotto in banalità per giustificarsi, illudersi, approfittare, tagliar corto, mozzare lingue, normalizzare, gestire dissensi, sfidare volontà di Dio e di uomini. «Lo faccio per il tuo bene!»: altrettanto lagnosa autodifesa di padri-padroni, madri-utero, preti-salvamondo, insegnanti-strizzacervelli, dittatori-messia, padroni-padrini. Praticamente empi sotto mentite spoglie. 

Preghiamo. Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un bambino la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro della Sapienza 2,12.17-20
Dissero gli empi:«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita
Dio, per il tuo nome salvami, per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Poiché stranieri contro di me sono insorti e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.
Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo, loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.
Dalla lettera di san Giacomo apostolo 3,16-4,3
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Dal Vangelo secondo Marco 9,30-37
quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.  Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
UN CUORE GIUSTO AL POSTO GIUSTO. Don Augusto Fontana
«L’autorità è servizio, diakonìa!»: sacrosanto principio che si è corrotto in banalità per giustificarsi, illudersi, approfittare, tagliar corto, mozzare lingue, normalizzare, gestire dissensi, sfidare volontà di Dio e di uomini. «Lo faccio per il tuo bene!»: altrettanto lagnosa autodifesa di padri-padroni, madri-utero, preti-salvamondo, insegnanti-strizzacervelli, dittatori-messia, padroni-padrini. Praticamente empi sotto mentite spoglie : «Tendiamo insidie al giusto perché ci  è di imbarazzo, ci rimprovera le trasgressioni, ci rinfaccia i tradimenti» (Libro della Sapienza, 2, 12-20).  Escluso dalla lista resta quel bimbo chiamato al centro da Gesù: «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Matteo 18, 4). Bambino modello, dunque, in quanto bambino, buono o cattivo che sia, fosse pure uno dei trecentomila bambini-soldato a cui viene rubata l’infanzia. Bambino arrogante pure lui, competitivo per gioco o per guerra, ma sempre comunque piccola struttura umana di cartilagine, friabile sotto il peso dei grandi. Servo e ultimo, non per volontà ascetica, ma per condizione: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». Non dice: «se uno vuol presiedere lo faccia con bontà!». L’umiltà di Dio  è nella sua modalità dell’essere-con; tra “essere-con qualcuno” e “chinarsi su qualcuno” c’è un abisso. Dio non si china sui peccatori ma si mette in fondo alla fila con loro[1]. Ruoli, sessi, incarichi, professioni, rapporti affettivi: anche sul caso aperto dal Vangelo di domenica (Marco 9, 30-37) è raccomandabile ricordarci della sfida di Gesù ai rigidi moralisti dell’adultera: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Se ne rammenta la chiesa dove abitano coloro che «non comprendevano queste parole e non osavano chiedergli spiegazioni» discutendo ancora di primati e gerarchie e responsabilità.
Ho conosciuto il tormento e l’ambiguità della responsabilità amministrativa presso gli Istituti IRAIA di Parma[2]: 250 dipendenti per 500 anziani, un carrozzone pubblico da servire con onestà etica e intellettuale, un piano inclinato e scivoloso tra determinazioni irremovibili, diplomazie politiche, concertazione, accondiscendenze, rigore. Ho fatto soffrire dipendenti e sindacati, ma (come si dice di solito) “lo facevo per il loro bene!”. Ho anche conosciuto l’ultimo posto in fabbrica dove, entrato pieno di sicumera clericale, di teologia universitaria e di affabulazione forbita, ho dovuto iniziare la gavetta da una scopa finendo scolaretto di un giovane apprendista esperto che mi ha insegnato i segreti della saldatura di lamiere zincate. La mia cattedra da scriba della chiesa, nei miei 26 anni di lavoro, ha perso spesso il profumo di incenso, catapultata nei mestieri più diversi tra pungenti fetori di verdure, fumi di saldatura, esalazioni di detersivi e pettegolezzi d’ufficio.  Ultimi e servi, dicevamo. Se c’è un’umiltà possibile giungerà nel cuore, come dono, da Dio (Lettera di Giacomo 3, 16 – 4,3). Ma passerà attraverso i capolinea, i fine-corsa, le barbare periferie, là dove i linguaggi delle cose sono troppo triviali per chi è abituato a parlare in punta di lingua e a pensare col lobo nobile del cervello, là dove non ti riuscirebbe di servire l’uomo se non stando in ginocchio, là dove non ti resta più nulla che fissare volti, come mi capitava spesso nei 20 anni di volontariato in carcere: «La porta dell’umano è il volto.  Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno.  Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata[3]».  Ecco la logica che i discepoli non comprendono, mentre discutono chi sia il più grande: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Luca, nel passo parallelo al testo di Marco, specifica meglio che queste “mani degli uomini” sono “mani di peccatori”. Nelle mani di uomini e per di più impuri e peccatori: lì Gesù finisce la sua carriera. Anche Lui, piccola struttura divina di cartilagine friabile, è consegnato alla forza stritolante di queste mie mani, che sono l’ultimo impensabile posto dove mai Dio avrebbe dovuto andarsi a cacciare. Non sia inutile rimeditare le parole di Enzo Bianchi: «La minorità è un metodo relazionale da non confondersi con la falsa modestia, con l’occultamento del proprio ruolo o capacità. La minorità non è una virtù: è un punto di vista sul mondo e su di sè. E’ una “lateralizzazione” di sè rispetto al mondo, un abbandono della posizione di frontalità o centralità, un mettersi fuori o, piuttosto, ai margini, è un “diventare eccentrici”». Cioè: fuori dal centro.
Miti in graduatoria.
Il libro della Sapienza fu scritto in lingua greca ad Alessandria d’Egitto pochi anni prima della nascita di Gesù. E’ una rilettura attualizzante del Libro dell’Esodo, fatta da ebrei in diaspora tra i pagani. E’ un’esortazione alla fedeltà per credenti che vivono fuori dai circuiti religiosi centrali e proteggenti, sfidati alla resistenza non più da scorpioni del deserto e incursioni armate, ma da una tempesta di laicismo più penetrante e insidiosa della sabbia ventilata nei polmoni dei loro antichi padri. Fedeli, deboli, giusti, minoranze divenuti commestibili per la task-force degli empi. Deboli come gli ingenui che vanno a gare e concorsi senza reti protettive o conducono battaglie perdenti tra il fastidio e l’ironia di chi può, sa ed ha. Anche nel breve assaggio della liturgia di domenica vengono registrate due logiche in collisione, due collocazioni sociali e morali; eterni tormenti e sapienze di credenti che si affidano più alla mitezza della fedeltà resistente che alle sbrigative condiscendenze di palazzo, impossibilitati a imporre fondamentalismi  se non sulla propria carne. Una sommaria analisi[4] dei verbi del testo odierno qualifica le azioni degli empi e la logica che anima le loro decisioni. Otto i verbi imperativi, di ieri e di oggi: spadroneggiamo, non risparmiamo, non rispettiamo, tendiamo insidie, vediamo, proviamo, mettiamo alla prova, condanniamo. E al centro sta il giusto, quel bambino chiamato in mezzo da Gesù per farne la propria parabola e l’icona del discepolo. La sfida aperta si ripeterà sotto la croce: «Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora se gli vuol bene» (Matteo 27,43). La pensano così «ma si sbagliano» (Sap. 2,21). In attesa della controprova, non resta che resistere e pregare: «Dio, per il tuo Nome, salvami, per la tua potenza rendimi giustizia» (Salmo 54). Anche una sommaria analisi del cuore della Lettera di Giacomo individua questo scontro mai sedato perché giocato tra i sei personaggi in cerca d’autore annidati nella nostra intima personalità: «Da dove vengono le vostre liti? Bramate e non riuscite a possedere, invidiate e non riuscite a ottenere e perciò fate guerra e uccidete». Otto attributi descrivono la sapienza che viene da Dio: trasparente, pacifica, mite, arrendevole, misericordiosa, imparziale, senza ipocrisia, feconda di giustizia. C’è una virulenza infettiva anche da parte dell’autorevolezza dei giusti: l’autorità qualche rara volta cede il passo all’autorevolezza; una cortesia rara in questi tempi. Raccomandabile la lettura del Cap. 5 del Libro della Sapienza: «Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a quanti lo hanno oppresso e a quanti hanno disprezzato le sue sofferenze. Costoro vedendolo saranno presi da stupore per la sua salvezza inattesa. Pentiti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato: “Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso; giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte disonorevole. Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi? Che cosa ci ha giovato la nostra superbia, passata come ombra e come notizia fugace?”».
«Beati i miti perché erediteranno la terra» riferisce l’evangelista Matteo. La figura del mite è intercambiabile con quella del povero fin nello spirito.  Il termine greco che lo esprime è «praus», cioè uomo non violento, non aggressivo.  La mansuetudine/mitezza può essere causata da due fattori: o dalla qualità morale interiore della persona non violenta, umile, giusta e credente o da uno stato sociologico oggettivo della persona umiliata, oppressa, esautorata, diseredata. Il Salmo 37 è una preziosa fonte interpretativa di questa beatitudine. Si scoprono le identità di due soggetti:  i poveri (in ebaico ‘anawim) e i malvagi (in ebraico reshaim). Nel Salmo chi sono i poveri? Quelli che sperano nel Signore e seguono la sua via; gli spossessati, irrisi, imbrogliati, i benedetti dal Signore, gli innocenti. E chi sono i malvagi? I nemici del Signore, i perversi, gli intriganti, gli empi, i mafiosi, i furbetti. I reshaim per una sola volta sono chiamati “nemici del Signore” (v. 20b), mentre la loro azione contro il prossimo riempie il salmo; è proprio la loro ingiustizia e i loro intrighi che li rende “nemici del Signore”. Non c’è dunque nessun  intento intimista, spiritualista o psicologico: si è di fronte ad un problema sociale che è pure religioso e viceversa. Leggendo il salmo, l’attenzione viene polarizzata sul malvagio che trionfa usando l’intrigo. Otteniamo un quadro di ingiustizia aggressiva premeditata. Il Salmo inoltre si chiede: di fronte a questa ostilità aggressiva e al successo degli intrighi, cosa deve fare il giusto innocente? Deve evitare ogni violenza di sentimento  e di azione, non ripagare il male con il male, non seguire il metodo dei malvagi, non invidiarli, mantenersi sulla buona strada con generosità.  I miti, allora, sono coloro che restano umani e dolci e, non avendo alcun mezzo per far valere i propri diritti, non adottano i preparativi della guerra santa che, per esempio, gli Esseni avevano predisposto nel loro Regolamento per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre[5]. Il salmo, allora, predica la rassegnazione? Non esattamente: il povero deve desiderare, chiedere, sperare di uscire dalla sua situazione e di recuperare il suo diritto senza ricorrere alla violenza, deve, insomma, dare una mano al Signore affinchè le trame dei malvagi si rivoltino contro loro stessi. “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo 10,16).
Secondo i discepoli del Vangelo un ordine e una gerarchia erano necessari. Essere servo, nella organizzazione sociale dell’uditorio giudaico di Gesù era considerato un obbrobrio, una nefandezza.  Essere servi, nel vangelo, non è una questione solo di ordine morale o ascetico o spirituale ma di ordine teologico perché descrive il rapporto del credente con Dio e di Dio col suo popolo. Un Dio che dice «Ascolta Israele!» e un popolo che risponde: «Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi» (Salmo 123, 2).  I discepoli volevano sapere chi tra loro fosse il primo: primus inter pares (primo fra uguali) o servus servorum Dei (servo dei servi di Dio) . Chi di noi non vorrebbe migliorare la propria posizione senza danneggiare gli altri e per fare, anzi, del bene a sé e agli altri? A chi non verrebbe il sospetto che forse certi ruoli sono vere vocazioni del Signore, tremende responsabilità da assumere in “profonda umiltà”? La discussione dei discepoli rivelava una ambizione di grandezza oppure (come pare suggerisca Matteo 18,1-10) una legittima curiosità di sapere chi era più caro a Dio nel Regno dei cieli? Si trattava dunque di concorrenza o di una legittima preoccupazione di entrare nelle graduatorie di gradimento di Dio o di chi sarebbe salito più in alto nella gerarchia delle sette classi conosciute da fonte farisaiche relative al mondo avvenire?
Tra voi non sia così.
«E giunsero a Cafarnao e, davanti alla casa, domandava loro…e sedutosi chiamò i dodici…». Le folle lo lasceranno in pace fino al cap. 10; ora Gesù è ritirato con la propria comunità e l’insegnamento non è rivolto a politici rampanti, cattedratici carrieristi o dirigenti autoritari; è rivolto particolarmente alla chiesa perché almeno lì, e lì prima di tutto, i discepoli sperimentino un laboratorio e una simulazione di ciò che si vedrà quando il Regno mostrerà la sua consistente visibilità. «Questa presa di coscienza non risparmia l’ambito ecclesiastico dove anzi l’esercizio del potere appare ancora più disumano per il carattere sacrale delle sue motivazioni. Nella chiesa l’esercizio del potere è ancora predemocratico, ma non sarà certo la democratizzazione a rendere la chiesa più conforme al vangelo: sarà la rinuncia al potere come tale, in quanto dominazione coattiva sulla coscienza dell’uomo[6]». Anche nella mente di Gesù esistono dei ranghi: «Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» (Marco 10, 40). Per Dio esistono dei ranghi primi spettanti agli ultimi, ai minori, ai piccoli, ai servi: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli… Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Luca 12, 37; Marco 10, 45). I servi sono serviti. Così accadrà alla mensa eucaristica di domenica davanti all’umile Dio. «L’innocente, nel senso latino del termine, è colui che non nuoce. Né a se stesso, né agli altri. Quando l’egoismo regna, per evitare di nuocere a se stessi, ci si adopera a nuocere agli altri. Ma Gesù di Nazaret insegna al contrario che nella misura in cui si nuoce agli altri si nuoce a se stessi. Pertanto manda a monte tutto il gioco. E’ un guastatore, lo si uccide. Quel che è accaduto a Gesù accade nel corso della storia a coloro che portano un riflesso dell’innocenza eterna: li si sopprime. Sappiamo che ciò può essere fatto in molti modi: violenza, astuzia … Se l’incarnazione è atto di umiltà lo è perché Dio è essere di umiltà[7]».
Maurice Zundel[8] scrive: “Quando dimenticate voi stessi perché vi trovate in un paesaggio che vi rapisce, o davanti ad un’opera d’arte che vi toglie il respiro, o davanti ad un pensiero che vi folgora, o davanti al sorriso di un bambino che vi commuove, sentite davvero di esistere; ma lo sentite tanto più forte, quanto più l’avvenimento vi distrae appunto da voi stessi. E’ questo il miracolo della conoscenza autentica: arriviamo a noi stessi guardando un altro e perdendoci in lui…. Il vero Dio, il Dio cristiano, il Dio che si rivela in Gesù Cristo, è un Dio che ha perso tutto eternamente… Dio è Dio perché non ha nulla. Dio è il grande Povero, la cui sola beatitudine è quella di donarsi…”. Solo con un Dio così “inoffensivo” si può entrare veramente in comunione. Nessuno può sentirsi offeso da un Dio inginocchiato e se Gesù è in ginocchio, nel mondo viene introdotta una nuova scala di valori che è appunto lo stile che Gesù propone ai suoi amici “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.


[1] François Varillon L’umiltà di Dio, Qiqajòn, 2000 pag. 146. 
[2] Oggi denominati “Azienda dei Servizi alla persona”
[3] Christian Bobin, L’uomo che cammina, Ed Qiqajon – Bose.
[4] Servizio della Parola 289/97 pag. 124.
[5] P. Bonnard L’Evangile selon saint Mattieu Delachaux & Niestlé pag. 57
[6] Servizio della parola, 80/76.
[7] François Varillon L’umiltà di Dio, Qiqajòn, 2000, pag. 55 e 95.
[8] Prete svizzero, teologo contestato, poeta, scrittore. Amico del Card. Montini che, da Papa, lo inviterà a predicare il ritiro quaresimale in Vaticano nel 1972.

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