29 marzo 2020- domenica 5a Quaresima
ASPETTO

In tempi di pandemia noi entriamo come protagonisti nell’evento narrato dal Vangelo e nella profezia di Ezechiele: siamo sfiniti con i nostri medici e infermieri e con chi lotta per la guarigione, morti e sepolti con chi non ce la fa e con i loro familiari. Progetti, speranze, illusioni, persone: siamo una catasta di ossa inaridite. Ma drammaticamente capaci ancora di paure e di domande. Il nostro Symbolum (il Credo) non dice “credo nella risurrezione dei morti”, ma “aspetto la risurrezione dei morti”. Sono pochi a crederci, ma molti a sperarla.

Preghiamo. Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente; tu che hai manifestato la tua compassione nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, guarda oggi l’afflizione della Chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali a vita nuova. Per Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò».

Sal 129 Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora.
Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore, 
perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,8-11
Fratelli, quelli che seguono le inclinazioni dell’egoismo non possono piacere a Dio, perché vivono secondo il proprio egoismo. Voi, però, non vivete così: vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi.

Dal Vangelo secondo Giovanni 11,1-45 (Forma breve: Gv 11, 3-7.17.20-27.33b-45)
In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».Gesù si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

ASPETTO[1]. Don Augusto Fontana
In tempi di pandemia noi entriamo come protagonisti nell’evento narrato dal Vangelo e nella profezia di Ezechiele: siamo sfiniti con i nostri medici e infermieri e con chi lotta per la guarigione, morti e sepolti con chi non ce la fa e con i loro familiari. Progetti, speranze, illusioni, persone: siamo una catasta di ossa inaridite. Ma drammaticamente capaci ancora di paure e di domande.
Il nostro Symbolum (il Credo) non dice “credo nella risurrezione dei morti”, ma “aspetto la risurrezione dei morti”. Sono pochi a crederci, ma molti a sperarla. La spera chi è stato ferito a morte da un’improvvisa o martoriata scomparsa di un familiare che era carne della sua carne, la aspetta chi è sfinito dalle velenose porzioni di morti sul lavoro e stragi di piazza o dei Caini di casa, la spera chi vede i giorni rosicchiati dalla malattia o accelerati dalla vecchiaia. Molti la sperano con occhi accecati dalle lacrime, molti con occhi chiusi sul barato della preghiera, molti mormorando un dolce o amaro rimprovero al Padre del Crocifisso: «Dio, se tu fossi stato qui mio fratello Gesù non sarebbe morto». Sì, perché la storia di Lazzaro racconta tutti noi e anticipa l’altro sepolcro, quello di Gesù, con bende, massi e pianti al seguito, e dubbi e dialoghi e stupori sospesi e incredulità e adoranti prostrazioni. Tutto ciò che accade a Betania accade nel giardino del sepolcro di Cristo. E la Chiesa è la stessa, quella militante seppur ancora catecumena di Marta, Maria e discepoli, quella spettatrice curiosa, inquirente e scettica dell’entourage giudaica. E al centro sempre Lui, Gesù, un Dio in ritardo sulle nostre aspettative, un Dio capace di amicizia e di pianto, un Dio che non teme la puzza di vite putrefatte, un Dio che chiama il mio nome con la voce di una madre che risveglia da un sonno che tornerà e da una morte che non tornerà mai più: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Signore, per ora non credo, ma lo attendo. Anche perché non so cosa intendi per “risurrezione dai morti”. Quando diciamo Dio, vita, morte, risurrezione, occorre il rispetto che ci ha chiesto la Bibbia: Non nominare invano, a sproposito…Anche quando diciamo RISURREZIONE occorre l’afasia adorante e il silenzio rispettoso che si conviene al Nome di Dio. Tra l’altro quella di Lazzaro non fu vera risurrezione ma solo rianimazione di cadavere. Ma è un segno. Cioè un evento che ci fa sospettare di essere dirimpettai di un mistero davanti al quale non potremo mai dire “Adesso ho capito!”.
Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà».   C’è un fraintendimento. Pare che Gesù e i suoi interlocutori parlino due linguaggi diversi. L’evangelista Giovanni in altre parti del suo Vangelo dimostra questo scontro di incomprensioni. Gesù parla di «rinascere dall’alto» e quel burlone di Nicodèmo gli chiede se deve «rientrare nell’utero della madre» (Gv 3, 3-4). Gesù offre alla samaritana « acqua viva» e lei, sveglia, gli fa notare: «Signore, tu non hai un secchio per attingere e il pozzo è profondo» (Gv 4, 10-11). Gesù parla ai discepoli di «lievito» e loro pensano che li stia sgridando perché si erano dimenticati di prendere il pane per la colazione; e lui: «Come mai non capite ancora che non alludevo al pane?» (Mt 16, 6-12). Equivoci, diversi livelli di ascolto, allusioni incomprensibili, mancate sintonie tra Gesù e noi. Gesù parla in una lingua diversa dalla nostra; il nostro ascolto è fatto a partire dalle idee che abbiamo già dentro di noi. E’ difficile imparare la lingua di Dio. Gesù, spesso, quando parlava della resurrezione o compiva opere stupende, ordinava ai suoi di non parlarne a nessuno: perché gli eventi che toccano le fibre più profonde delle nostre attese, possono, nella promiscuità con le altre parole, deturparsi e cambiare senso. A questa legge appartengono parole come “risurrezione”, come “vita” e, ogni volta che dobbiamo parlarne, dobbiamo farlo con cautela. Noi gridiamo dai microfoni, dai video, parole che diventano profane ed equivoche. Da una parte l’annuncio va gridato, dall’altra va taciuto.
Scoperchiare i sepolcri.
La parola “vita”, in questi tempi, rimbalza in ogni ambiente con sensi diversi e con cariche normative diverse. Noi dobbiamo dichiarare guerra ai sepolcri e a tutti coloro che li costruiscono in una strategia di morte. Ancora oggi, il confronto tra due potenze – morte e vita – si è fatto radicale e si è esteso dovunque. Ma la speranza dobbiamo custodirla nel segreto e nel pudore. Per poterla gridare dobbiamo pagarla attraverso tutti i giorni della nostra vita. Allora possiamo dire: “resusciterò” ma dopo che avremo in concreto lottato contro ogni opera di morte: «Togliete la pietra… liberatelo e lasciatelo andare».
A noi non compete far risuscitare, ma togliere la pietra, slegare, rimettere in pista. Dare una mano al nostro Dio. Marta reagisce: “Signore, già puzza… è di quattro giorni!”. Gesù incalza la fede debole delle sorelle e coinvolge anche gli spettatori con tre verbi imperativi: «Togliete la pietra… liberatelo …lasciatelo andare». Tutti possono fare qualcosa per la risurrezione di un morto, di una persona spenta, depressa, schiavizzata. Siamo invitati ad essere figli ed operatori di risurrezione, a partire dalle concrete piccole situazioni della vita quotidiana. Così pare ci riveli anche la straordinaria pagina della prima Lettura presa dal profeta Ezechiele: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete». (Ez. 37, 12-14). Il profeta scrive dall’esilio di Babilonia per svegliare il popolo alla fiducia e far riemergere l’orizzonte della fine della deportazione. Ma anche per noi il pericolo di vivere congelati nelle abitudini, rassegnati a subire ciò che gli altri decidono per noi, costituisce un vivere nei sepolcri. Il vento di Dio, il Suo soffio vitale ci spinge ad uscire, a “risorgere” dai nostri sepolcri: «Lazzaro, vieni fuori!». Ci chiama tutti per nome ad “uscire” dai sepolcri della morte, della schiavitù, dell’egoismo, della paura. Forse ci crediamo vivi mentre siamo morti. Lazzaro è un nome promettente. Il suo significato ebraico è EL-AZAR=”Dio aiuta”. Dunque la risurrezione è per noi una speranza fondata sulla Parola di Dio, ma la risurrezione è prima di tutto una strada da percorrere. Le nostre risurrezioni, i piccoli passi di risurrezione che compiamo – in attesa di quelli definitivi – sono sempre fragili, precari, provvisori, incompleti. Ognuno di noi è tentato di rientrare in qualche “sepolcro” e deve ricollocarsi ogni giorno sui sentieri della risurrezione, non darla mai come una realtà scontata ed acquisita per sempre. Per questo leggiamo le Scritture, preghiamo, ci lasciamo correggere e cerchiamo di discernere i segni che Dio ci fa giungere dalla vita di ogni giorno. Risurrezione fa rima con conversione perché alla risurrezione occorre convertirci quotidianamente.
Dio è mio amico, che piangerà per me quando morirò.
Disse Gesù «Il nostro amico Lazzaro…»…Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!»…
Padre Ermes Ronchi scrive: «Gesù si reca a Betania chiamato dall’amicizia. Di Lazzaro non sappiamo nulla se non che era amico di Gesù. Questa la sua identità: colui che Gesù amava molto. Di Lazzaro sappiamo anche tutte le lacrime versate per la sua morte: piangono Marta e Maria, i giudei, Gesù stesso. Le lacrime sono l’annuncio che l’amore è sempre minacciato, che la felicità è fragile, perché troppe cose sfuggono al mio controllo. Io invidio Lazzaro non per la vita che Dio gli ha ridato, ma per il fatto di essere circondato da amici, segno di una vita riuscita. La sua santità è l’amicizia, sacramento che conforta la vita. Eppure a me che cosa importa di Lazzaro, cosa me ne faccio della sua resurrezione? Lazzaro non è mio amico, non è mio padre o mia madre, non è uno dei miei morti. A me non importa Lazzaro, a me importa Gesù e il suo amore per l’amico, amore fino alle lacrime. È questa la salvezza: il pianto di Dio. Io non morirò per sempre a causa del Suo amore che non accetta di finire. Ognuno di noi è Lazzaro malato e amato. Sono io l’amico che Egli non accetta di veder finire nel nulla della morte. Se amico è un nome di Dio, il mio nome è: amato per sempre. Quante volte sono morto! Quante volte mi sono addormentato. Era finito l’olio della lampada, finita la voglia di amare, forse anche la voglia di vivere. E mi dicevo in qualche grotta oscura dell’anima: Dio non mi interessa più, non mi importa se mi ama. Poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, né so perché. Una pietra si è mossa, è entrato un raggio di sole, un grido d’amico ha percosso il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le bende. La resurrezione è possibile per le lacrime di Dio. Perché il Signore prova dolore per il dolore del mondo. Se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe morto. Parole che sono mie: se Tu sei con me, non morirò. Parole gridate da Gesù sulla soglia della morte: Dio mio perché mi hai abbandonato, perché non sei qui con me? Nel giorno delle lacrime Dio sembra essere lontano. Il suo ritardo pesa. Quattro giorni pesò su Marta e Maria. Eppure Lui è qui, non come esenzione dalla morte, ma come resurrezione dentro la morte. Io lo credo, con la fede dell’anonimo morente che scriveva: “Credo nel sole, anche se non splende; credo nell’amico anche se non lo sento; credo in Dio anche quando tace”»[2].
«Gesù si commosse profondamente, si turbò….Gesù scoppiò in pianto… Intanto Gesù, ancora profondamente commosso…». Nella scena di Betania, la nostra attenzione è richiamata dalla efficace frequenza con cui l’evangelista mostra la commozione di Gesù. Il brano della resurrezione di Lazzaro è un evento fondamentale della rivelazione di Gesù. Ecce homo: ecco qui l’uomo perfetto nella sua umanità, che piange la morte dell’amico. Ecce Deus: ecco qui Dio, il Signore della vita e della storia. Umano, molto umano, uguale a noi in tutto. Tutti piangono. Gesù si commuove. Quando i poveri piangono, Gesù si emoziona e piange. Dinanzi al pianto di Gesù, gli altri concludono: “Vedi come l’amava!” Questa è la caratteristica delle comunità di Giovanni (e nostra?): l’amore mutuo tra Gesù e i membri della comunità. Alcuni ancora non credono e dubitano: “Non poteva costui, che ha aperto gli occhi del cieco, fare che questi non morisse?” Per la terza volta Gesù si commuove (Gv 11,33.35.38). È così che Giovanni mette l’accento sull’umanità di Gesù contro quelli che, alla fine del primo secolo, spiritualizzavano la fede e negavano l’umanità di Gesù.
«Lev Sestov ha fatto notare (Sulla bilancia di Giobbe) quanto sia per noi penosa l’attesa, presi come siamo dalle cose presenti, dal sistemarci comodamente nel mondo, quasi dovessimo starci per l’eternità. Al punto che nemmeno le cose più terribili sono in grado di svegliarci da questa pigrizia di persone sazie. Ci sono magari dei soprassalti, ma subito dopo ci si riconcilia con la realtà, in attesa paziente che le cose tornino a posto per poter ricominciare a vivere come prima, gradevolmente, senza pensieri. Marta e Maria non si adeguano alla morte del fratello, ma interrogano Dio e lo pungolano affinché si sbrighi a trasformare la realtà secondo le sue promesse di giustizia. Il perfetto disperato è un uomo tranquillissimo e annoiato che si è seduto impassibile davanti al cadavere di suo fratello. Noi comprendiamo che Gesù è uomo di speranza quando piange e grida di non voler morire, quando risuscita da morte e promette che risusciterà anche noi nell’ultimo giorno. Dio è morto per dirci che sta dalla nostra parte e che mai dobbiamo rassegnarci a morire. Croce e risurrezione sono inscindibili ormai, in Dio e nella storia dell’umanità: la speranza sorge dal grido di un crocifisso e dalle buie cavità di una tomba rimasta vuota»[3].


[1]Rielaborazione da: Ernesto Balducci, Adista 26/02/05; P. Stefani, Un tempo per cercare, Morcelliana, Brescia, 1997; Franco Barbero. 
[2] P. Ermes Ronchi La fede che resiste al dolore
[3] Daniele Garota, Fame di redenzione, Paoline.

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