I miracoli sono insufficienti a condurre alla fede, sono inaffidabili. Il vento che scuote, il sisma che abbatte, il fuoco che ustiona, il cieco che vede, il pane che si duplica, l’acqua che è vino, la mummia che si rianima sono SEGNI, come dice l’evangelista Giovanni. Ma solo la croce è, come direbbe Lévinas, voix de fin silence, voce di sottile silenzio.
13° domenica B
Preghiamo. O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa’ che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Libro della Sapienza 1,13-15; 2,23-24
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.
Salmo 29. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
2 Corinti 8,7.9.13-15
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
Dal Vangelo secondo Marco 5,21-43
In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Mentre ancora parlava, [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
CREDERE PER TOCCARE. Don Augusto Fontana
La compagnia dei cercatori…
Chi presiede alla morte e alla malattia? Una divinità, un demone, il destino, l’uomo? Mettere le mani sui codici della vita appartiene all’umanamente divino o alla trasgressione? Come classifichiamo le devote carezze a piedi marmorei di Madonne consunti da mani rinsecchite e da esaurite speranze umane? Dove collochiamo questi corpi infragiliti e questi spiriti incupiti dal male che inseguono santi e santoni ondeggiando come sciami d’api dietro un profumo di nettare salvifico? Sono illusi superstiziosi che toccano per credere o sono poveri di Dio che credono per poter finalmente toccare? Io non ho mai chiesto a Dio per la mia vita e dintorni, pur avendone bisogno, la manutenzione straordinaria di un miracolo; sto forse scivolando sulla china dello scetticismo o sono ancorato sul nudo pavimento della fede? Mi conforta questo Dio che “conosce le mie parole prima ancora che escano dalla bocca” (salmo 139). Mi consola il fastidio di Gesù: «Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione» (Marco 8, 12).
Dio non ha creato la morte – dice la prima lettura della liturgia odierna – e non gode per la rovina dei viventi. La morte dunque c’è, ma non doveva esserci. La Parola di Dio insiste a dare sulla morte quel tocco di illegittimità che è fondamentale per una visione della vita che sia conforme alla fede. E’ lecito simpatizzare con Paolo:«Chi libererà me, povero disgraziato, da questo corpo votato alla morte? Gesù Cristo nostro Signore, grazie a Dio![1]». Ovunque c’è istinto della vita, da quella parte c’è Dio, sembra ribadire anche l’evangelista Marco con quella sua quasi maniacale ossessione di narrare i miracoli di Gesù. Ben due miracoli in un colpo nel brano evangelico di oggi e 18 miracoli in tutto il suo vangelo[2]. Senza dimenticare che per Marco anche la morte di Gesù in croce è paradossalmente un miracolo, anzi «il miracolo vero».
Il testo evangelico di oggi contiene due racconti di miracoli disposti a sandwich: la rianimazione della figlia di Giairo e la guarigione della donna colpita da inguaribile emorragia.
Marco prosegue così nella sua catechesi battesimale. La fede è un toccare in profondità Cristo e lasciarsi toccare in profondità.
I due episodi si illustrano a vicenda e sono legati tra loro dalla ricorrenza di alcuni verbi: salvare, credere, toccare[3]. Ma sullo sfondo dell’attenzione dell’evangelista fanno capolino i due quesiti a cui Marco, dal primo all’ultimo capitolo, tenta di dare risposta: «Chi è Gesù?» e «Chi è il discepolo?». Nel contesto di tali quesiti sviluppa i suoi temi teologici[4].
La nuca e il volto di Dio.
I giudei non credevano nella risurrezione; la morte era un viaggio verso lo Sheòl, luogo dei morti, senza ritorno. La preghiera ebraica poteva osare chiedere solo che Dio ritardasse la morte[5]. Giairo, capo della sinagoga, osa una rottura della tradizione religiosa del proprio popolo. Chiede una guarigione così radicale da sembrare una risurrezione. Giairo sospetta che Gesù riveli un Dio imprevedibile. Resiste a chi lo invita a desistere: «Tua figlia è morta. Non disturbarlo più!». Matteo esplicita meglio di Marco: «Signore mia figlia è morta, ma tu vieni». E’ in questo “ma” che consiste la fede. «Ma tu, Dio misericordioso, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore e di fedeltà, volgiti a me e mostrami la tua grazia: dona al tuo servo la tua forza, salva la figlia del tuo servo». (Salmo 86,15-17). Il “Ma” serve a distinguere. La storia della salvezza è la storia dei “ma” con cui reciprocamente si incontrano e si contraddicono Dio e gli uomini.
Anche la donna viene presentata come donna di fede, benchè nel suo gesto i confini tra fede e feticismo abbiano lo spessore di un filo da equilibrista: «Mi basta toccare la sua veste…». Costa poco giocarsi gli ultimi brandelli di speranza toccando simulacri, reliquie, lembi di taumaturghi. O la va o la spacca. L’intreccio tra credere e toccare è problematico, come ce lo potrebbe ricordare l’apostolo Tommaso, quello che non sa credere se non ci mette il naso. Per 3 volte oggi risuona la parola “toccare”. Pare che Marco punti molto su almeno tre significati.
Il primo: la donna mestruata, secondo le prescrizioni di Levitico 15, era impura e trasmetteva impurità religiosa a chiunque venisse in suo contatto. Lei sa dunque di commettere una trasgressione grave. Ma le prescrizioni valgono meno della vita e molto meno di un rapporto di fiducia con il giovane Rabbi Gesù.
Il secondo: toccare suppone vicinanza. Forma prima e fondamentale di conoscenza è il contatto con l’altro. Le cose e i corpi diventano luoghi di comunione; il toccare è reciproco. Esiste un tocco epidermico e un tocco profondo che trasforma il cuore; al tocco delicato del rapporto interpersonale si contrappone l’improduttivo schiacciare delle folle oceaniche.
Il terzo: la veste di Gesù è quella che ci ha lasciato in eredità ai piedi della croce, denudato. Forse è bene che il discepolo non lasci a terra quella Sua tunica sacerdotale e regale, il suo mantello profetico: occorre prendere più che toccare, rivestirsi più che sfiorare.
Anche Giairo aveva chiesto a Gesù di “stendere le mani perché la figlia sia salva e viva”. Chiede una liturgia del corpo, più che una scaramantica benedizione a distanza. E Gesù, quando prende sua figlia per mano, non vuole intorno folle di piagnoni strepitanti; li “caccia fuori”, come aveva malamente estromesso i commercianti dal tempio. Con lui entrano solo i tre discepoli della Trasfigurazione e del Getsemani insieme al piccolo gruppo di catecumeni. «Talità kum! Alzati!» dice. Non è l’abracadabra della magia. E’ la parola creativa che i discepoli sentiranno sussurrare nel cuore tra la croce e la tomba. E’ liturgia pasquale. Mi spiacerebbe davvero, venutone il momento, essere tra quelli cacciati fuori.
La fede di questi due catecumeni ha delle tappe: dalla periferia al centro.
Anche la fiducia che nasce nel nostro bisogno estremo e che ci fa toccare il calcagno di Dio è pur sempre fede, benchè incipiente, acerba. Quanti storpi e lebbrosi e oppressi dai faraoni hanno gridato: Signore, pietà! restando in attesa che Dio mantenesse le sue promesse. Anche davanti al depresso e fuggiasco Elia nella caverna dell’Oreb «si presentano tre fenomeni (vento, sisma e fuoco) che sembrano rivelare il Signore, ma che in realtà non lo rivelano, o meglio: non lo rivelano come il quarto (la voce di un silenzio). Non è questione di tutto o niente, di sì e no. La prospettiva adottata è relativa: nella quarta esperienza il Signore è molto più presente che nelle prime tre. Si tratta di gradi diversi. Anche la rivelazione del Sinai era consistita in questo: «Voi non vedevate alcuna figura: soltanto una voce» (Deut. 4, 12). Che significa “vedere una voce?”. L’essenziale nell’incontro con Dio è una voce che parla silenziosamente[6]». E’, forse, per questo motivo che gli evangelisti costruiscono le narrazioni dei miracoli attorno ad un perno concentrico: le parole di Gesù.
La donna parte da una posizione di fede anonima e ad alto rischio di superstizione (“tra la folla, alle sue spalle, toccò….”) lentamente viene condotta ad una esposizione pubblica (“gli disse tutta la verità”), all’ascolto della Parola e ad una relazione (“figlia…va in pace”). C’è un itinerario della fede: dalle spalle di Dio al suo faccia a faccia, dalla sua nuca al suo volto.
Miracolo si, miracolo no!
Il miracolo, per gli uomini dell’epoca pre-cristiana e del primo secolo cristiano, era un evento possibile, atteso, narrabile[7]. La natura e la storia erano concepite costantemente come campo aperto dove Dio continuamente agiva e dove tutto, ogni volta, era frutto della sua azione. Dio agiva nel miracolo straordinario, ma non meno nella crescita del seme, nella nascita, vita e morte degli uomini. La gente del popolo era particolarmente soggetta ad epidemie o malattie spesso di origine oscura le cui cure erano possibili solo a chi aveva soldi. Accanto a Dio potevano agire anche altre forze angeliche o demoniache per cui ogni miracolo era da discernere. Anche i miracoli di Gesù sono stati attribuiti a Beelzebul. Esorcismi, guarigioni, miracoli sulla natura: il corpo, la psiche, l’ambiente sono attori che esprimono il dramma umano in cui Dio, in qualche modo, non è estraneo. Forse sorridiamo. La scoperta della sequenza del DNA ha lacerato residue verginità teologiche. Ci sentiamo adolescenti cresciuti. O forse siamo vecchi senza più stupore negli occhi, con quel velo di cataratta che appiattisce tutto, meno quando contiamo i soldi. Per noi quelle erano generazioni di creduloni: anche quei rabbini per i quali la Toràh, la Parola del Signore, conservava sempre un valore più grande di ogni miracolo.
Nel ricordo dell’attività taumaturgica di Gesù emerge un’interessante contraddizione: Gesù ha compiuto segni, prodigi, miracoli (comunque li vogliamo chiamare), ma si è mostrato perplesso circa il loro valore. Sono stati spesso il frutto della sua commozione per la debolezza umana, della sua irritazione per la durezza di cuore, del suo pianto, del suo stupore per la fede di pagani, donne e piccoli. I suoi miracoli si saldano sempre, sempre, con la sua predicazione. Gesù intende parlare all’uomo “in situazione”. Predicazione e miracoli fanno parte dello stesso movimento. Sono i segni del bisogno di salvezza che c’è nell’uomo e del potere liberante di Dio in Cristo. Il termine greco che Marco usa preferibilmente per indicare questi eventi è “dynamis”, atto di potenza, ma a volte li chiama anche “insegnamenti”. A noi che attendiamo i miracoli come prova certificante, fa un po’ meraviglia sapere dai vangeli che attorno ai miracoli circola un’evidente incomprensione dei discepoli e soprattutto l’ordine perentorio di Gesù di non dire nulla, non divulgare, fino alla grande rivelazione della passione. I miracoli sono insufficienti a condurre alla fede, sono inaffidabili. Il vento che scuote, il sisma che abbatte, il fuoco che ustiona, il cieco che vede, il pane che si duplica, l’acqua che è vino, la mummia che si rianima sono segni, come dice l’evangelista Giovanni. Ma solo la croce è, come direbbe Lévinas, voix de fin silence, voce di sottile silenzio (in ebraico: Qôl demamâ daqqâ).
«Dio si rivolge ad ognuno in modo diverso: a qualcuno attraverso un segno, a qualcun altro a voce alta. Tutto dipende da quanto si è lontani da Dio» (Rabbi Nachman di Breslav).
[1] Romani 7, 24-25
[2] Su 661 versetti del vangelo secondo Marco ben 180 sono dedicati ai miracoli: il 25% dell’intero suo vangelo.
[3] AA.VV. Una comunità legge il vangelo di Marco, Dehoniane, pag. 179.
[4] Servizio della parola, Queriniana, n.138/1982, pag. 85-87.
[5] Salmo 16,10; 49,16.
[6] Alberto Mello La passione dei profeti, Qiqajon, 2000, pag. 42.
[7] “La sezione dei miracoli e delle parabole nel vangelo di Marco” in Servizio della parola,138/1982, pagg. 35-55.