Famiglia di Nazaret icona di una Chiesa

Famiglia di Nazareth, icona di una chiesa. Don Augusto

Sulla famiglia, sacra ma non santa, oggi c’è rissa: famiglia naturale, famiglia laica, sacramentale, omo o etero, unione di fatto. Scendono in campo grossi calibri ecclesiastici (celibi!) per difendere i valori famigliari “non negoziabili”, da trasformare in leggi dello Stato usando la lobby (quelli di “Dio-patria-famiglia” bigami o quasi). E noi preti, senza moglie e figli, pontifichiamo dai nostri scranni come gli scribi e i farisei a cui Gesù diceva: «Guai a voi, esperti della Legge di Mosè, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11, 46).  Io ho sperimentato il lavoro e per esperienza so che lì si sono infranti tutti i modelli ideali profilati dalle Encicliche sul lavoro, obbligandomi ad una quotidiana mediazione (a volte al ribasso, a volte al rialzo) tra principî allo stato puro e contingenze problematiche. Se mi fossi sposato potrei parlare di famiglia, avendo custodito e confrontato nel cuore la Parola di Dio con la mia carne e storia. Rinuncio a cercare una corrispondenza diretta tra Bibbia e famiglia, come se la Santa Scrittura di oggi offrisse un prontuario di ricette o modelli di famiglia. Eppure mi intriga questo Dio-per-noi che si è fatto carne, prendendone su di sé tutte le conseguenze: appartenere ad un nucleo familiare, ad una etnia, ad una tradizione religiosa, ad un contesto politico nazionale e internazionale, reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele» (Eb 2,17).
Mai come oggi la pastorale si è mobilitata per Corsi di catechesi pre e post matrimonio. Il matrimonio Concordatario non lo si nega a nessuno: tutti (sempre meno) lo pretendono come diritto individuale acquisito o come una prudente vaccinazione. Quasi tutti i matrimoni nascono in chiesa e finiscono in tribunale. Ne sento l’aspra responsabilità. Resta immutato il dramma di una profonda separazione tra quanto si celebra e il suo esito post rituale. Se voglio affondare lo sguardo dentro la ferita aperta, posso intonare il Dies irae: tutte le ricerche in atto ci assicurano che stanno aumentando le violenze e gli omicidi intra-familiari, che aumentano le separazioni e le conflittualità. E tutti sappiamo che con l’andar del tempo lo smalto dell’innamoramento si opacizza, la coppia vivacchia, i modelli educativi sono liquidi e scivolosi. Ma tu hai capito che sarebbe ingeneroso generalizzare e amalgamare tutte le famiglie nella poltiglia delle statistiche, dei morbosi talk show televisivi e dei patologici rapporti giornalistici. Grazie a Dio conosco, come te, stupende famiglie santificate e santificanti, dolci, solidali, aperte, celebranti, carismatiche; immagini sacramentali di un Dio sposo fedele e famiglia trinitaria. E conosco le lacrime inconsolabili quando la morte, e non la fine di un amore, infrange un’alba o un giorno talmente luminoso da non mettere in conto mai che possa venire sera.
In questo contesto medito le letture di oggi con un occhio alla famiglia e uno alla comunità cristiana. Perché non so bene se oggi si celebra la Santa Famiglia o la Santa Comunità. E’ vero che il Concilio Vaticano II° ha scritto: “La famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa e a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società” (Gaudium et Spes 52). Ma è pure vero che Giovanni Paolo II° nella sua Familiaris Consortium (n.21) ha scritto: «la famiglia cristiana offre una rivelazione e una realizzazione specifica della comunione ecclesiale». Il Catechismo della Chiesa cattolica offre interessanti indicazioni (nn. 1655-1657): «Cristo ha voluto nascere e crescere in seno alla santa Famiglia di Giuseppe e di Maria. La Chiesa non è altro che la «famiglia di Dio». Fin dalle sue origini, il nucleo della Chiesa era spesso costituito da coloro che, insieme con tutta la loro famiglia, erano divenuti credenti. Ai nostri giorni, in un mondo spesso estraneo e persino ostile alla fede, le famiglie credenti sono di fondamentale importanza, come focolai di fede irradiante. È per questo motivo che il Concilio Vaticano II, usando un’antica espressione, chiama la famiglia  “Chiesa domestica”  in cui «i genitori devono essere per i loro figli, con la parola e con l’esempio, i primi annunciatori della fede».
«È qui che si esercita in maniera privilegiata il sacerdozio battesimale del padre di famiglia, della madre, dei figli, di tutti i membri della famiglia… con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità... È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita»[1].
Dalla Scrittura ci vengono alcuni dati di fondo. Occorre non dimenticare oggi che Gesù  ha relativizzato la famiglia: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,35-37). A chi gli faceva notare che sua madre e i suoi familiari lo stavano aspettando, Gesù reclama: «E chi è mia madre o i miei fratelli? Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50).
Vorrei entrare nei testi dei “Vangeli dell’infanzia” di Matteo e Luca ed evidenziarne alcune scoperte: Giuseppe e Maria sono una coppia pressata dalla vita e da problemi. Giuseppe ha una bella grana da sbrogliare, tra una dubbia moralità della moglie e una precisa disposizione delle Legge mosaica in materia. Maria pure ha la sua rogna con una maternità inusuale e un’altrettanta inusuale discussione con Dio. Tutti e due devono affrontare un lungo viaggio per sottoporsi a un censimento partorito dalle paranoie del potere. E poi quel parto avventuroso. E poi quella fuga all’estero con neonato al seguito. E poi quel rientro alla chetichella, come due perseguitati politici. E poi quella vita senza storia a Nazaret interrotta da qualche pellegrinaggio a Gerusalemme dove l’adolescente Gesù, da loro educato alla Sinagoga e alla Torà, non risparmia un indimenticabile divino grattacapo. Tutto ciò che è detto e ciò che non è detto ma immaginato, ci parla di una comunità non esentata dalla storia, non ritirata in mistici conventi o monasteri, ma travolta e ferita da eventi. Come me e te.
Immagino che domenica molti preti si daranno un gran da fare per tuonare contro le unioni di fatto, il malcostume della convivenza prima del matrimonio e via di questo passo verso un’esaltazione e un’ideologia del “modello di famiglia cristiana”. Esempio tipico dell’uso strumentale della Parola di Dio; un peccato sempre dietro l’angolo, anche per me. D’altra parte pare che tutti sentiamo il bisogno di non tenere la Parola di Dio nell’alto dei cieli di una teologia senza storia, ma di farne lievito nella pasta delle nostre contorte e contingenti quotidianità. Credo, tuttavia, che i primari interessi catechistici dell’evangelista Luca fossero altri, per rispondere alle domande: Chi è Gesù? Chi è la chiesa?
«Il mistero dell’incarnazione non si limita all’evento della nascita di Gesù, ma si estende alla sua crescita fisica, psicologica e spirituale, al suo divenire umano nello spazio di una famiglia e di un contesto culturale e religioso precisi (il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, la festa di Pasqua, il Tempio, l’apprendimento della Torah)[2]».
Il “Natale-nascita”,dunque, non è che una piccola parte del grande evento dell’Incarnazione e della Epifania di Dio che comprende anche un Gesù che “cresce”.  «Anche per il figlio di Dio diventare uomo non ha significato solo nascere come individuo, ma anche vivere la sua esistenza umana in rapporti familiari forti e significativi. La nostra comprensione dell’incarnazione del figlio di Dio non può trascurare la riflessione sul significato dei 30 anni che Gesù vivere radicato dentro una famiglia umana. Il nascere è l’inizio di un cammino di umanizzazione che ha nei rapporti familiari il terreno necessario»[3]. Ma sarebbe riduttivo cercare nel Vangelo di Luca solo l’icona della “Santa Famiglia” o, peggio ancora, della “Sacra Famiglia”; meglio sarebbe cercarvi l’icona di ogni comunità cristiana “famiglia di famiglie” come viene esplicitato al n° 23 del documento della CEI “Comunione e Comunità”: «Una parrocchia è fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che della Chiesa rivelano la dimensione familiare e del mistero della Chiesa, la sua “maternità,” il suo essere “famiglia di Dio”».
Credenti celebranti.
«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore». E’ una comunità (familiare) abbarbicata alla fedeltà verso i grandi appuntamenti che celebrano la “Memoria” degli interventi di Dio nella storia del popolo. La fede individuale diventa corale, popolare, liturgica, celebrante. Luca annoterà: «I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza» (Luca 2,41-42). Ciò che Maria e Giuseppe sussurravano al cuore del loro piccolo figlio catechizzandolo nelle mura domestiche, si materializza e si esternalizza nelle celebrazioni e nel culto al Tempio secondo le prescrizioni: “Tre volte all’anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi…Osserverai la festa della mietitura…la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio” (Es 23,14-17).  Forse Gesù era già nell’età prevista per diventare un “figlio del precetto” (bar mitzwah). Quando un bambino ebreo raggiunge l’età della maturità diventa responsabile per sé stesso nei confronti della legge ebraica, è ammesso a partecipare all’intera vita della comunità con gli adulti e diventa responsabile della ritualità, dell’osservanza dei precetti, della tradizione e dell’etica ebraica. Gesù era stato educato in famiglia a celebrare; da adulto lo troviamo ancora fedele ad uno dei grandi riti “memoriali” quale quello di “mangiare la Pasqua”: «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare”… Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo:  “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoriale di me”».   (Lc 22, 7-8.19).  La sua/nostra Pasqua nasce dalle radici di una fedeltà cresciuta in una comunità (familiare) che abilita non solo a credere, ma anche a celebrare. Una comunità cristiana (familiare) credente e celebrante.


[1] Lumen gentium, 10; Gaudium et spes, 52.
[2] EUCARISTIA E PAROLA, a cura della comunità di Bose. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale. Ed. Vita e Pensiero, 2006, Milano.
[3] Servizio della parola, n. 293, dicembre 97.

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