Scriveva David Maria Turoldo[1]: «L’Amore vero, profondo, il misterioso amore non ha parole. E invece noi parliamo, parliamo. Signore, Ti abbiamo sempre sulle labbra, mentre il Tuo santuario è il cuore dell’uomo. Allora se non amo mi muoia la parola sulla bocca. Chi non ama non predichi da nessun pulpito, da nessuna cattedra. Senza amore non c’è magistero. E Dio rimane senza epifania». Se non amo, queste mie parole moriranno sulla tastiera. C’è chi ha scheletri negli armadi; io temo di trovarne nei miei pulpiti come chi, anche in buona fede, inflaziona il nome di Dio e il suo cognome, l’amore.
31° Domenica
Preghiamo. O Dio, tu se l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal libro del Deuteronòmio 6,2-6
Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Salmo 17. Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato.
Dalla lettera agli Ebrei 7,23-28
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Dal Vangelo secondo Marco 12,28-34
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
SI FA PRESTO A DIRE AMORE. Don Augusto Fontana
L’indivisibile amore.
Quando, nell’anno 2000, ero a Goiàs in Brasile mi era giunta notizia di una Messa record a São Paulo. Due milioni e mezzo di fedeli brasiliani avevano partecipato alla messa celebrata nell’autodromo di Interlagos, dal prete carismatico brasiliano Marcelo Rossi, famoso come cantante di canzoni religiose e per le sue Messe aerobiche. Alla Missa pela Vida (Messa per la Vita) hanno partecipato in veste di cantores i maggiori nomi della musica sertaneija (country brasiliano). «Abbiamo trasformato in allegria e salute quello che prima era tristezza – ha detto padre Marcelo – La gente sta ritornando alla religione».
Appena il tempo di tornare dal Brasile e qualcuno mi scrisse: «Soltanto durante quest’anno, 10 appartenenti al Movimento dei Senza-Terra sono stati assassinati, mentre sono stati aperti processi contro 180 dirigenti del movimento. Non contento di questo, il governo federale ha appena condannato alla miseria 250.000 famiglie di lavoratori già insediati, ossia, più di un milione di persone, rifiutandosi di concedere l’indispensabile credito per la produzione del 2000/2001, secondo quanto previsto dalla Legge di Riforma Agraria». Sospetto che i due milioni e mezzo di fedeli magnetizzati all’autodromo fossero, nel frattempo, un po’ distratti. A chi era diretto il tifo da stadio? Al Gesù friabile e martire, ai propri pruriginosi estetismi religiosi o all’angelico padre Marcelo intento a far tornare le masse alla religione? Già: tornare alla religione o all’amore? «Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi» (Deuteronomio 6,2-6; Marco 12,28-34).
Scriveva David Maria Turoldo[1]: «L’Amore vero, profondo, il misterioso amore non ha parole. E invece noi parliamo, parliamo. Signore, Ti abbiamo sempre sulle labbra, mentre il Tuo santuario è il cuore dell’uomo. Allora se non amo mi muoia la parola sulla bocca. Chi non ama non predichi da nessun pulpito, da nessuna cattedra. Senza amore non c’è magistero. E Dio rimane senza epifania». Se non amo, queste mie parole moriranno sulla tastiera. C’è chi ha scheletri negli armadi; io temo di trovarne nei miei pulpiti come chi, anche in buona fede, inflaziona il nome di Dio e il suo cognome, l’amore.
La questione del legame tra l’amore a Dio e l’amore agli uomini è vecchia come la religione. La storia delle tre principali religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam), registra vistosi sbandamenti tra santità mistico-carismatiche e integralismi politico-sociali. I termini del problema sono tanto chiari e accettabili nella loro formulazione teorica, quanto problematici ed instabili nella loro traduzione pratica. Molti di noi sono tratti in inganno dall’ovvia indiscutibilità del teorema giudaico-cristiano «amerai il Signore Dio tuo e il tuo prossimo»; altre proposte evangeliche le sentiamo estranee ai nostri istinti e l’atto di fede-adesione arriva (se arriva) dopo una lotta con Dio, una morte sul duro legno di una decisione contrastata. Detto in altri termini: il giovane ricco “se ne va triste” dopo la proposta del radicalismo della sequela, mentre l’intellettuale del brano evangelico di oggi trova modo di consentire con Gesù “Hai detto bene, Maestro!”. Chi dei due prevale in noi e tra noi? Spesso questi facili consensi teorici sull’unico amore a Dio e al prossimo nascondono il troppo facile trucco esistenziale dell’eliminazione della tensione tra i due termini dell’amore. Non riconoscere il sostanziale sostegno reciproco dei due amori conduce a deformazioni striscianti o palesi che compromettono l’equilibrio della fede e creano lacerazioni all’interno della chiesa ed in ogni nostra storia personale. Ed il problema non si risolve semplicisticamente nel giusto rapporto tra attività di culto ed attività sociale. La liturgia odierna affonda il bisturi fino alle radici e parla di “amore”; dunque si tratta di orientamento esistenziale prima ancora che di equilibrismi organizzativi sul filo delle varie attività giornaliere. Riconosco che nella mia vita religiosa non è ancora risolta una certa schizofrenia e che nella pletora di attività e sentimenti sto ancora cercando la coordinata unificante. Rileggendo Erich Fromm[2] mi sono sentito sul collo il fiato di idoli che impongono il loro imprinting: «Ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa. Nessun osservatore obiettivo della nostra vita occidentale può dubitare che l’amore sia un fenomeno relativamente raro e che il suo posto sia stato preso da tante forme di pseudo-amore che in realtà sono altrettante forme della disintegrazione dell’amore».
Ascolta Israele!
Gli ebrei recitano mattina e sera la preghiera dello Shemà Israèl (Ascolta Israele!)[3]. Durante la recita si pone una mano davanti agli occhi: il mistero di fede proclamato è accessibile all’ascolto e non alla visione. In essa si proclamano quattro principi della fede ebraica:
– prima di amare Dio, si è amati da Lui in modo liberante e gratuito;
– amare Dio significa non rendere culto ad altre divinità[4];
– l’amore a Dio non è un sentimentalismo del cuore, ma una prassi delle mani verso coloro che ci sono stati resi consanguinei da Lui;
– questo amore deve essere integrale (con tutto il cuore, la mente e le forze).
Uno dei problemi posti dall’esegesi giudaica dello Shemà è quello della ricerca del significato delle tre facoltà richieste per amare Dio. La risposta a questo problema è stata codificata dai maestri della Mishnà (2°sec. d.C.)[5]: «con tutta l’anima» significa «perfino se Egli ti strappa l’anima chiedendoti il martirio»; e «con tutte le forze» significa «anche con tutti i tuoi beni». Si forma, dunque, un’esperienza religiosa che è sia teologica che antropologica. Si alimenta un “circolo virtuoso” tra uomo e Dio per cui è proibito costruire immagini di Jahwè in quanto l’unica immagine tollerabile di Dio è uomo-donna[6]. L’uomo diventa il “roveto ardente” entro cui Dio abita per essere adorato e da cui Dio parla per essere ascoltato (Esodo 3).
Un secondo presupposto biblico che ci serve per entrare nello Shemà lsrael è capire il circuito «fare-ascoltare-fare»: come esiste un indissolubile rapporto tra Dio e uomo, così la stessa indissolubilità si estende al rapporto tra ascoltare e fare. Già nel termine ebraico THORA’ si fondono tutti gli elementi dell’ascolto e della prassi in quanto con tale termine si intende tradurre congiuntamente legge, insegnamenti, precetti, parole, comandi, giudizi, promesse. In Deuteronomio 5,27 il popolo dice a Mosè: «Noi ascolteremo e faremo tutte le Parole che Dio ci avrà rivelato per tuo tramite». In Esodo 24,7 il popolo dice: «Tutto ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo». In ambedue i casi, ascoltare e fare la Parola di Dio vengono associati, ma la dichiarazione del testo di Esodo opera una sorprendente inversione di termini quasi a sottolineare che la prassi precede l’ascolto. Da questo testo dell’Esodo è nato un racconto ebraico edificante secondo cui Dio offrì la sua Legge a tutti i popoli del mondo prima che ad Israele; alla domanda se fossero disposti ad accoglierla, tutti i popoli risposero di voler prima conoscere ciò che vi era scritto per sapere se avrebbero potuto impegnarsi. Senonchè, una volta saputolo, si sentirono come schiacciati dal peso di esigenze troppo radicali e respinsero al mittente la proposta. Soltanto Israele non pose a Dio alcuna condizione preliminare di conoscenza, non volle misurare in anticipo le proprie forze, accettò tutto il rischio di quel dono a caro prezzo e rispose: <Noi lo faremo> ancor prima di conoscere e di ascoltare. Martin Buber, un famoso autore ebraico, traduce la frase di Esodo così: «Noi lo faremo al fine di saper ascoltare». Un insegnamento rabbinico dice: «Colui la cui conoscenza supera le sue azioni, si può paragonare ad un albero che ha molti rami e poche radici e quando viene il vento lo sradica e lo abbatte. Ma colui le cui azioni superano la sua conoscenza è paragonabile ad un albero che ha pochi rami ma molte radici e potrebbero venire tutti i venti del mondo senza riuscire a sradicarlo».
L’evangelista Marco oggi ci presenta Gesù che interpreta lo Shemà. Una serie di controversie con i gruppi emergenti fa da contesto di questo dialogo con uno scriba sul grande comandamento. Siamo di fronte ad un insegnamento fondamentale di Gesù che si inserisce coerentemente nel tracciato della tradizione giudaica ma con alcune novità. Il porre quesiti ai rabbini apparteneva all’uso comune. Nella somma di precetti tramandati dalla morale ufficiale del tempo ( 613 precetti di cui 365 negativi e 248 positivi ) era invalsa non solo la distinzione tra precetti grandi e piccoli, facili e difficili, ma anche il tentativo di individuare un precetto unitario. L’amore è costitutivamente legato al culto e alla prassi: «Nessuno ha mai visto Dio: se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi e l’amore di Lui giunge a perfezione…Se qualcuno dicesse <Io amo Dio> e odiasse il proprio fratello, è un bugiardo; poichè chi non ama il proprio fratello che continuamente vede, non può amare Dio che non ha veduto[7]» . L’amore del prossimo è costitutivamente legato all’amore di Dio: «Vi dono un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Poichè io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri. Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri»[8].“Come io ho amato voi” così dice Gesù. Logicamente ci aspetteremmo : “Così voi amate me”. E invece no:”amatevi gli uni gli altri”. Il suo amore non accaparra il discepolo ma al contrario è un dinamismo che lo spinge verso gli altri. E’ amando i fratelli che si ricambia Gesù. In altri termini direbbe l’apostolo Giovanni[9]: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui».
Il monaco Enzo Bianchi commenta: «In questo senso l’amore è il carisma fontale: solo da Dio trae origine ma non è tanto un «amore di ritorno» quanto invece di ampliamento e propagazione. Noi diamo troppo per scontato di essere capaci di amare. L’agape è fuori dalla possibilità dell’umano ed è iniziativa di Dio. L’ascolto è l’esperienza di fede che significa fare un’esperienza passiva dell’amore di Dio su di noi. Paolo scrive: «La fede che opera attraverso la carità[10]». L’agape nasce da una sophìa, da una conoscenza che nascono da un ascolto»[11]. Scrisse Madeleine Delbrêl[12], una cristiana controcorrente: «Un amore senza misura, senza le nostre misure. Soltanto la preghiera ci fa perdere le nostre misure e ci dà la misura di Dio»
[1] D.M.Turoldo Amare, Edizioni Paoline, 1989, pag. 25.
[2] E.Fromm L’arte di amare, Mondadori, 2000.
[3] Deuteronomio 6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41.
[4] Deut. 6,14-15; 11,13-17; 13,2-3; 30,16-18.
[5] La Mishnah costituisce la fonte della tradizione della Torah orale rivelata agli uomini della Grande Congregazione che sono gli antenati dei maestri farisei. Solo i Sadducei ritenevano infatti che la Torah rivelata fosse solo quella scritta. I farisei, invece, ritenevano che la Torah non può limitarsi al testo scritto che, invece, deve essere ascoltato, interpretato, attualizzato attraverso la Tradizione orale.
[6] Genesi 1,26:”Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”
[7] Prima Lettera di Giov. 4,12 e 20
[8] Giovanni 13, 34-35. Il termine greco kathòs può essere tradotto sia con “COME” e sia con “POICHE’; è il fatto di essere amati da Gesù che diventa motivo, norma, conseguenza per l’amore ai fratelli.
[9] 1 Giovanni, 4, 16
[10] ai Galati 5,6
[11] E.Bianchi Il Vangelo della carità. Aspetto spirituale in Caritas Italiana Il Vangelo della carità per le nostre chiese EDB, 1992.
[12] M. Delbrêl Indivisibile amore, Piemme, 1998. Madeleine nasce in Borgogna nel 1904 e muore nel 1964. E’ già stata introdotta Causa di beatificazione per la gioia e la passione con cui ha vissuto -dopo una stagione di ateismo convinto – un’esistenza semplicemente cristiana in una comunità laicale da lei fondata ad Ivry. Coinvolta da Padre Loew – prete scaricatore di porto – spenderà la sua vita per animare la missione operaia e sanare la frattura tra cattolici e comunisti.