Settimana sociale
Zamagni. Cattolici in politica (Avvenire)

Fondamenta comuni della democrazia. Il grande compito per i cattolici italiani
Stefano Zamagni (AVVENIRE 23 maggio 2024)

 Verso la Settimana Sociale: nella realtà plurale di oggi va restituita centralità al metodo democratico, non lasciando che sia ridotto a mera procedura o a monopolio dei partiti E i cristiani devono tornare a “immischiarsi”. Dibattito aperto sul tema dell’appuntamento in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio, tra società civile, istituzioni ed economia. A poco più di 40 giorni dalla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani a Trieste il professor Stefano Zamagni, economista, già presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, offre la sua riflessione sul tema della manifestazione – la democrazia – aprendo il dibattito sull’evento.


 A metà degli anni ’90 si svolse a Torino una Settimana Sociale dei Cattolici in Italia sul tema della democrazia. A distanza di quasi quaranta anni, il medesimo tema sarà oggetto della 50esima Settimana Sociale a Trieste nei giorni 3-7 luglio 2024, il cui titolo – assai evocativo – è “Al cuore della democrazia”. Ancora una volta, il mondo cattolico si ritrova per interrogarsi sul fondamento del principio democratico in un contesto socio-politico affatto differente per mettersi, come sempre, in cammino. Le considerazioni che seguono vanno lette su tale sfondo.
Conviene iniziare da un paio di chiarimenti. Il principio democratico è molto antico. Risale alla Grecia di Aristotele. Demos kràtos significa “potere al popolo”. Aristotele e altri furono molto chiari nell’indicare i due pilastri del principio democratico. Eppure si tende a identificare la democrazia con la pratica delle elezioni, le quali appartengono alla categoria dei mezzi e non già dei fini. Infatti si possono avere elezioni anche in Paesi non democratici. Due – dicevo – i pilastri del principio democratico. Per un verso, coloro i quali esercitano l’azione di comando sono tenuti a dare conto delle azioni da essi compiute. Non solo narrare, cioè raccontare quel che si è fatto, ma dare le ragioni in forza delle quali certe decisioni sono state prese – ragioni che possano essere comprese dal cittadino. Per l’altro verso, coloro i quali non si riconoscono in quelle ragioni devono poter avere il diritto di protestare, ovviamente in modi civili, ed eventualmente devono essere liberi di lasciare la comunità (è il cosiddetto “ voting by feet”).
Questi principi basilari sono stati implementati nel corso del tempo secondo due diverse tradizioni di pensiero. L’una è la tradizione Hobbesiana; l’altra è quella Rinascimentale. La tradizione Hobbesiana si rifà al pensiero di Thomas Hobbes (Leviathan, 1651), secondo cui è lo Stato che invera la società civile; idea che verrà poi perfezionata da Hegel. Allo Stato, spetta dunque il compito di dire come la società civile deve organizzarsi e quali sono i criteri in forza dei quali una società si definisce civile. Per la tradizione rinascimentale, invece, è vero esattamente il contrario: è la società civile che dà senso e forza allo Stato e non viceversa. La ripresa in tempi moderni della tradizione neo-rinascimentale è uno dei grandi meriti di Jacques Maritain e dei pensatori del personalismo cristiano (si veda di Maritain L’uomo e lo Stato e pure Umanesimo integrale). È sempre bene ricordare che la nostra Costituzione pone il suo fondamento nella tradizione neo-rinascimentale. All’articolo 1 si legge: «L’Italia è una Repubblica democratica (non uno Stato) fondata sul lavoro». Lo Stato è parte della Repubblica. E nell’articolo 2 si legge che la Repubblica è fondata, e tenuta in piedi, anche dai corpi intermedi della società (società civile organizzata, Terzo settore ecc.). Fino a un trentennio fa il principio democratico accolto dal mondo cattolico è stato quello della tradizione neo-rinascimentale. Dopo di allora, ha iniziato a prendere corpo una sorta di slittamento semantico: senza quasi accorgersene, si è andati verso la tradizione di pensiero neo Hobbesiana. A ben considerare, è questa una sorta di tradimento dello spirito del Codice di Camaldoli. Un secondo chiarimento, concerne la confusione di pensiero tra politica e partitica. La Politica, termine che deriva da polis (città), appartiene, per il pensiero greco, alla ragion pratica; la partitica, invece, nasce nel XIX secolo dopo l’illuminismo e la rivoluzione francese e il suo ambito è piuttosto quello della ragion tecnica. Perché è importante questa distinzione? Perché ci aiuta a capire che si sbaglia sia quando si dice che i partiti sono diventati irrilevanti sia quando si pensa che la politica possa ridursi totalmente alla partitica – quanto a significare che l’unico modo di occuparsi di politica, sia quello di iscriversi a un qualche partito politico. Il che è falso. Al tempo stesso va detto che l’espressione “pre-politica” è priva di senso. Nessuno che viva in società può affermare di non interessarsi di politica. I partiti sono bensì uno strumento essenziale per fare politica ma non sono l’unico strumento. Forse quando si dice “non mi occupo di politica” si intende significare: “non mi occupo di partitica”.
Il celebre teologo Henry De Lubac ha scritto che il cristiano che non si interessa di politica – non certo di partitica – non è fedele al Vangelo. Sulla medesima posizione si collocano tre dichiarazioni recenti di altrettanti Pontefici. «La politica come servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate politica» (Paolo VI). «Sogno il ritorno diretto in politica dei laici cattolici» (Benedetto XVI). «Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Francesco). Non v’è bisogno di commenti, se non per suggerire due conseguenze che sono derivate dalla non presa in considerazione di tali ammonimenti. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che pone la sua ispirazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Si tenga presente che le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nell’anticamera della partitica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasmissione degli interessi della cittadinanza verso la politica vera e propria. Ciò precisato, di quali trasformazioni – non parlo di mere riforme – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non può mancare? Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità, un modello che alle categorie di pubblico e privato aggiunge quella del civile. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’articolo 118 della Carta costituzionale, dal Codice del Terzo settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la piena sussidiarietà: è la sussidiarietà orizzontale, che si limita alla co-progettazione e non si spinge fino alla co-programmazione. Per attuare quest’ultima occorre dare ali alla sussidiarietà circolare, il cui fondamento è negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio, di fine XIII secolo. Si badi che il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro del variegato mondo del Terzo settore e della Business Community, con compiti di co-programmazione.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha urgente bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno sia del profitto sia del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che il lavoro, nella sua duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistica, cooperativa, sociale, benefit. Non è accettabile né una prosperità senza inclusione né una inclusione senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema scuola-università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare a essere in primis luoghi di educazione e in secundis luoghi di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di con-azione – parola che deriva dalla crasi di conoscenza e azione – e il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non a partire da una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani a inserirsi “nella realtà totale”. Non si può continuare a tenere in piedi la obsoleta dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecno-scientifica. È al pensiero della complessità che occorre oggi educare, superando vetusti riduzionismi.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. Come noto, il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica unica. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su princìpi etici condivisi se non vuole ridursi a mero proceduralismo e se si vuole scongiurare il conflitto sociale. Ci si rifugia nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa né fa mai domande, da cui il relativismo oggi dilagante. Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa civitas. Invero, la comunanza che si deve cercare non può essere né quella propria di una comunità culturale né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è stato il Cristianesimo ad affermare per primo il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente quello concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Vediamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. Si tratta allora di avviare, in modo sistematico, una riflessione sull’uomo (la cosiddetta quaestio de homine) che è certamente desunta dalla fede cristiana ma che può essere esibita anche come ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile.<

Per chiudere. Pensare a nuove forme di impegno politico è, oggi, un compito di primaria rilevanza da assolvere, se il mondo cattolico vuol continuare a offrire un messaggio di speranza. Le certezze che ci offre l’esaltante progresso tecnico-scientifico non ci bastano, perché la questione odierna non è tanto decidere cosa fare per ottenere ciò che vogliamo, ma decidere cosa è bene che si voglia. Di qui l’esigenza di una nuova speranza. È comprensibile che la speranza di chi non ha sia diretta sull’avere. Continuare a crederlo oggi sarebbe un grave errore. Se è vero che lasciar cadere la ricerca dei mezzi più efficaci sarebbe stolto, ancor più vero è riconoscere che la nuova speranza va diretta ai fini.

Avere dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile di quel  trade-off[1]. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui iper-globalizzazione e quarta rivoluzione industriale stanno mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione. Restituire un’anima alla politica. Ci vogliono grandi cause, ancorché talvolta deviate dal loro alveo originale, per mobilitare le persone in gran numero. Non esiste forza politica, degna di questo nome, che non si rifaccia a un’ispirazione. Senza di essa, un partito si riduce a una mera aggregazione di interessi, sia pure legittimi. È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione come quella sopra abbozzata? Penso proprio di sì, purché se ne voglia prendere atto. Un antico proverbio tibetano dice che quando c’è un grande traguardo anche il deserto diventa una strada. Se il grande traguardo è riportare la categoria di bene comune – il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – al centro dell’agenda politica, il deserto della crisi attuale può diventare una grande opportunità. A patto che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine né solo inizio. Origine e inizio si possono anche dimenticare col tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo “zampillo d’acqua” fuoriesce in modo continuo.


[1] Scambio, compromesso (ndr)

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