8 settembre 2024. Domenica 23a
CON GESU’ UNA CHIESA CHE LIBERA

Tiro, Sidone, Regione delle dieci città, lago di Galilea…: zone frequentate da pagani considerati impuri da Israele. Il Signore ci avvicina nelle nostre zone di infedeltà e di lì passa e ripassa per fare, dello spazio della nostra incredulità, una occasione e una zona di fede.

Domenica 23 ciclo B

Preghiamo. O Padre, che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire la tua parola di coraggio a tutti gli smarriti di cuore, perché si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Isaìa 35,4-7a
Dite agli scoraggiati: «Coraggio, non temete! Il vostro Dio viene a liberarvi, Egli viene a salvarvi». 5Allora i ciechi riacquisteranno la vista e i sordi udranno di nuovo. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Salmo 145. Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre (testo ebraico: custodisce la verità in eterno)
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri, sostiene l’orfano e la vedova,
sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
 Dalla lettera di san Giacomo apostolo 2,1-5
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.  Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Dal Vangelo secondo Marco 7,31-37
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.  Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.  E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

CON GESU’ UNA CHIESA CHE LIBERA. D. Augusto Fontana

Jesucristo liberador”.
Titoli come questo si sovrappongono, si modulano, si duplicano, si mascherano nell’editoria cristiana sud americana. E sempre per ragionare sull’inevitabile funzione pasquale di Gesù, quella di salvare e liberare. Fu “Teologia della liberazione”, fatta di martiri oltre che di teologi. Ora dichiarata fuori uso senza meriti distinti, sfiancata e silenziata da decenni di procedimenti disciplinari. Nella cloaca massima delle nostre società-chiese i poveri restano ancora più poveri e gli oppressi non giungono a nutrirsi neppure delle briciole che cadono dalle mie aristocratiche scrivanie. I teologi della liberazione oggi scrivono poco, si incontrano raramente, sono sempre meno e quando si riuniscono non rilasciano dichiarazioni: si percepisce lo spessore eloquente del loro silenzio. Forse non é più tempo di denunce profetiche, per lasciar spazio al silenzio “sapienziale” che parli più con i fatti e la testimonianza che con le parole? “Siamo indisponibili – scriveva il teologo J.M Vigil – ad ogni “teologia della inevitabilità”, ad ogni “cultura del fatalismo”. La realtà è concepita come storia di salvezza e, simultaneamente, come salvezza di una storia che procede tra alti e bassi. La missione cristiana non ci separa dalla storia; al contrario ci rimanda ad essa”. Anche il profeta Isaia ha scritto la sua “piccola apocalisse” ed il capitolo 35, che viene proclamato nella liturgia odierna, ne costituisce un assaggio. È percorso da un ritmo di opposizione e di capovolgimento. Ciò che ora è sterile diventerà fecondo, la debolezza si capovolgerà in forza. Si tratta di una nuova creazione: il linguaggio e la scenografia ci autorizzano a questo collegamento. L’azione di Dio è vista come un intervento che capovolge una situazione sociale e non solo nei segreti angoli dell’anima. Anche per il brano odierno di Marco (7,31-37) la “salvezza di Dio” significa il capovolgimento della situazione: tu, catecumeno, tu eletto, senti sì o no il bisogno di un capovolgimento della situazione? I ciechi, gli storpi, gli zoppi, i muti, i sordi, gli stranieri, le vedove, gli orfani e tutti coloro che non godono delle provvidenze sociali sono i primi clienti della salvezza portata da Cristo, i primi invitati al banchetto regale, quelli che dovevano essere onorati nelle Cene fraterne dalla Chiesa (come scrive Giacomo nella seconda Lettura di oggi: 2, 1-5).
Abbiamo, domenica scorsa, meditato su un altro brano del Vangelo di Marco, nel quale Gesù attacca direttamente i farisei perché mettono al posto del comandamento di Dio l’osservanza della tradizione degli uomini. Ed è questo il primo tratto – il meno sottolineato per lo più nelle nostre assemblee cristiane – della figura di Gesù come liberatore. Oggi il vangelo ci parla dell’abbattimento di una barriera che ci è difficile immaginare quanto fosse per gli ebrei alta e invalicabile: quella nei confronti dei non ebrei e pagani. Ed ecco che Gesù compie miracoli in terra pagana e profetizza che l’eredità del regno passerà nelle mani di coloro che ne erano esclusi[1]”.
L’agire autorevole.
La guarigione del sordomuto (o come meglio si dovrebbe tradurre: sordo-balbuziente) è posta da Marco come conclusione dell’istruzione che segue il primo racconto del miracolo dei pani. Marco struttura questa guarigione nella stessa forma della guarigione del cieco (8,22-26) e intende darvi un particolare significato teologico: il sordo-balbuziente e il cieco rappresentano i discepoli della comunità di Marco, e quindi anche noi, che abbiamo occhi ma non vediamo, abbiamo orecchi ma non ascoltiamo. “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite “noi vediamo!” il vostro peccato rimane” (Giovanni 9, 41). La gente che assiste per ora è ancora in una fase di innamoramento: “Sei un dio! Sei un mito!”, potremmo tradurre con linguaggio contemporaneo la frase riportata da Marco: “Ha fatto bene ogni cosa!”. Proprio come se si trovassero ad assistere ad una nuova creazione del mondo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1,31). Applausi! “Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità”. (Marco 1,22).
A tappe verso il profondo.
Nelle guarigioni e liberazioni narrate da Marco scorgiamo gli indizi di una catechesi battesimale. Sono miracoli che avvengono in modo elaborato e quasi faticoso, sotto forma anche di esorcismo. Vediamo alcuni particolari del testo di oggi. Siamo in piena zona pagana (Tiro/Sidone/Decapoli). Il transito, dal punto di vista della razionalità del viaggio di Gesù, non si giustifica; sarebbe come andare da Firenze (Tiro) alle Marche (lago di Galilea) passando per Bologna e Rimini (Sidone e Decapoli). Una lunga deviazione. C’è dunque un’intenzionalità teologica: le zone indicate sono frequentate da pagani considerati impuri da Israele. Il Signore ci avvicina nelle nostre zone di infedeltà e di lì passa e ripassa per fare, dello spazio della nostra incredulità, una occasione e una zona di fede. Lì alcuni anonimi gli portano un sordo-balbuziente. Qui il soggetto è un sordo. Il termine usato nel testo greco (kôfos) significa anche “tonto”: l’’uomo che non intende la Parola di Dio rimane inebetito e intontito: “l’uomo nel benessere non comprende ed è come una bestia” (Salmo 49,13). L’uomo presentato a Gesù è anche farfugliante, uno che parla poco e male (mogilalos), avendo la lingua inceppata e impedita non solo per le relazioni umane ma anche per la lode nel culto. Emette solo suoni, ma non pronuncia parole sensate: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode” (Salmo 51, 17). E lo pregano: la preghiera esprime la nostra responsabilità nei confronti di tutti gli uomini. Lo pregano di imporgli la mano. Ma il Gesù di Marco fa ben di più che un gesto della mano. Nel racconto odierno si possono contare sei gesti, che corrispondono quasi a sei tappe di un cammino del Signore insieme con te:
ti porta in disparte, lontano dalla folla
“buca” l’orecchio con le dita,
tocca la lingua con saliva,
guarda al cielo,
geme,
parla.
La guarigione è l’incontro tra i tempi del Signore e i miei. Questo è l’itinerario cristiano: una paziente successione progressiva. Dio porta il popolo in disparte, lontano dalla terra della propria schiavitù. Nel Salmo 115, 5 si dice che “gli idoli hanno bocca ma non parlano, hanno orecchi ma non odono”. Gesù cerca di separarci dagli idoli che ci rendono simili a loro: marionette. Lì, in disparte gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua. E’ un’operazione di ri-creazione. Gesù ricostruisce l’icona di Dio tramite lo Spirito che qui viene indicato con la saliva, che, secondo la cultura del tempo, veniva considerata come solidificazione umida del soffio vitale. Poi Gesù, con lo sguardo, rinvia tutto al Padre attraverso la preghiera. E geme. E’ il gemito di Dio di fronte al dolore ed è il gemito che emette tutta la creazione, come dice Paolo[2]. È il gemito che Cristo lancia dalla croce, è il gemito che lo Spirito lancia verso il Padre intercedendo per gli uomini. Anche noi nella liturgia ci uniamo al gemito di Gesù: “Padre che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire una parola di coraggio a tutti gli smarriti nel cuore, perchè si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie”. La Chiesa si fa Parola attraverso la testimonianza e non solo emettendo giornalini, comunicati, chiacchiere, concerti di campane o di cori.
Orecchio salvato, lingua guarita.
Due sono i livelli emergenti dalle letture: uno più marcatamente liturgico-spirituale ed uno più chiaramente sociale-ecclesiale.

  1. Livello liturgico-spirituale. Essendo, il testo di Marco, una chiara catechesi battesimale è necessario riprenderne le sollecitazioni per la conversione della Chiesa. Il discepolo non può presumere di essere capace da solo di ascoltare la Parola di Dio nè di saper annunciare e lodare “correttamente”. La fede nasce dall’ascolto quando permettiamo al dito di Gesù di forare le membrane interiori dell’ascolto; la lode e l’annuncio nascono da un ascolto guarito. La preghiera diventa un farfugliare vano per chi non basa la propria preghiera su un profondo ascolto guarito. Noi siamo come i catecumeni della comunità dell’evangelista Marco, ciechi che non vedono i segni della misericordia di Dio e delle sue chiamate, sordi che non sanno ascoltare la sapienza delle sue parole, farfuglianti che non sanno proclamare e lodare, storpiati dalle nostre abitudini e paure. Stiamo andando verso Lui, il Signore, condotti dalla Chiesa, sottobraccio gli uni con gli altri per condurci reciprocamente a Lui, proprio come in quel tempo.
  2. Livello sociale-ecclesiale. Il secondo livello riguarda la posizione che tiene la Chiesa nei confronti del ribaltamento delle situazioni: in Isaia e nel Salmo 146 appare chiaro che Dio è “partigiano” nel senso che prende parte, prende una parte. Gesù non dà una generica “benedizione”, ma tocca i centri sensoriali e di percezione più cronicamente impermeabili ad ogni stimolo. Una delle esigenze contemporanee più urgenti è quella di abbattere le barriere che impediscono la comunicazione, soprattutto abbandonando linguaggi consolidati che ci rendono accettabile la compagnia degli omogenei, ma ci rendono incapaci di ascoltare parole che ci mettono in crisi e dire parole che abbiano un senso per sordi e muti.

[1] E.Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Borla, Vol. 2° pagg. 338ss.
[2] Romani 8,22-27

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