ENCICLICA FRATELLI TUTTI
Capitolo secondo

LETTERA ENCICLICA FRATELLI TUTTI di Papa FRANCESCO
SULLA FRATERNITÀ E L’AMICIZIA SOCIALE

CAPITOLO SECONDO

UN ESTRANEO SULLA STRADA
56. Tutto ciò che ho menzionato nel capitolo precedente è più di un’asettica descrizione della realtà, poiché «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore»[1]. Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare.
«In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.  Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).
Lo sfondo
57. Questa parabola raccoglie uno sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (). Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri.
58. Il libro di Giobbe ricorre al fatto di avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: «Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in modo diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo»[2].
59. Nelle tradizioni ebraiche, l’imperativo di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle relazioni tra i membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai connazionali. Tuttavia, specialmente nel giudaismo sviluppatosi fuori dalla terra d’Israele, i confini si andarono ampliando. Comparve l’invito a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (cfr Tb4,15). Il saggio Hillel (I sec. a.C.) diceva al riguardo: «Questo è la Legge e i Profeti. Tutto il resto è commento»[3]. Il desiderio di imitare gli atteggiamenti divini condusse a superare quella tendenza a limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir 18,13).
60. Nel Nuovo Testamento, il precetto di Hillel ha trovato espressione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt7,12). Tale appello è universale, tende ad abbracciare tutti, solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il Padre celeste «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt5,45). E di conseguenza si esige: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
61. C’è una motivazione per allargare il cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare già nei testi più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo ebraico di aver vissuto come straniero in Egitto: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 23,9).  «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). «Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto» (Dt 24,21-22).
Nel Nuovo Testamento risuona con forza l’appello all’amore fraterno: «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14). «Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre» (1 Gv 2,10-11). «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14). «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
62. Anche questa proposta di amore poteva essere fraintesa. Non per nulla, davanti alla tentazione delle prime comunità cristiane di formare gruppi chiusi e isolati, San Paolo esortava i suoi discepoli ad avere carità tra di loro «e verso tutti» (1 Ts3,12); e nella comunità di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli, benché stranieri» (3 Gv5). Tale contesto aiuta a comprendere il valore della parabola del buon samaritano: all’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là. Perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità»[4].
L’abbandonato
63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.
64. Con chi ti identifichi?
Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente.
65. Aggrediscono una persona per la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla. Spesso ci sono persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre, poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.
66. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro»[5].
67. Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana.
68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.
Una storia che si ripete
69. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.
70. È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
71. La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada. Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative, come ad esempio: che cosa sarebbe stato di quell’uomo gravemente ferito o di colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero trovato spazio nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome.
I personaggi
72. La parabola comincia con i briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione già consumata. Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona ferita a terra per correre ciascuno a ripararsi dalla violenza o a inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre divisioni inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri intestini?
73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa pericolosa indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno triste riflesso di quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in alcuni Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della loro cultura, e un vivere con lo sguardo rivolto al di fuori, come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro posto. Così si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal loro orizzonte di interessi.
74. In quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani: «Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo. Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire il freddo e la nudità»[6]Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti.
75. I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada guardando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità del delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi personali o corporativi, e altri mali che non riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del “tutto va male” corrisponde un “nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e di generosità. Far sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
76. Guardiamo infine all’uomo ferito. A volte ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra sul bordo della strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e carenti, o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e all’interno. Infatti, «nella società globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi»[7].
Ricominciare
77. Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene.
78. È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8]. Rinunciamo alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine. Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne. La riconciliazione riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri.
79. Il samaritano della strada se ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al servizio era la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per questo un dovere. Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.
Il prossimo senza frontiere
80. Gesù propose questa parabola per rispondere a una domanda: chi è il mio prossimo? La parola “prossimo” nella società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio gruppo, alla propria razza. Un samaritano, per alcuni giudei di allora, era considerato una persona spregevole, impura, e pertanto non era compreso tra i vicini ai quali si doveva dare aiuto. Il giudeo Gesù rovescia completamente questa impostazione: non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi.
81. La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si è fatto prossimodel giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri.
82. Il problema è che, espressamente, Gesù mette in risalto che l’uomo ferito era un giudeo – abitante della Giudea – mentre colui che si fermò e lo aiutò era un samaritano – abitante della Samaria –. Questo particolare ha una grandissima importanza per riflettere su un amore che si apre a tutti. I samaritani abitavano una regione che era stata contaminata da riti pagani, e per i giudei ciò li rendeva impuri, detestabili, pericolosi. Difatti, un antico testo ebraico che menziona nazioni degne di disprezzo si riferisce a Samaria affermando per di più che «non è neppure un popolo» (Sir50,25), e aggiunge che è «il popolo stolto che abita a Sichem» (v. 26).
83. Questo spiega perché una donna samaritana, quando Gesù le chiese da bere, rispose enfaticamente: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (Gv4,9). Quelli che cercavano accuse che potessero screditare Gesù, la cosa più offensiva che trovarono fu di dirgli «indemoniato» e «samaritano» (Gv8,48). Pertanto, questo incontro misericordioso tra un samaritano e un giudeo è una potente provocazione, che smentisce ogni manipolazione ideologica, affinché allarghiamo la nostra cerchia, dando alla nostra capacità di amare una dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini.
L’appello del forestiero
84. Infine, ricordo che in un altro passo del Vangelo Gesù dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt25,35). Gesù poteva dire queste parole perché aveva un cuore aperto che faceva propri i drammi degli altri. San Paolo esortava: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm12,15). Quando il cuore assume tale atteggiamento, è capace di identificarsi con l’altro senza badare a dove è nato o da dove viene. Entrando in questa dinamica, in definitiva sperimenta che gli altri sono “sua stessa carne” (cfr Is 58,7).
85. Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt25,40.45). In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro, perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che «gli conferisce con ciò una dignità infinita»[9]. A ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale. E se andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune. La teologia continua ad arricchirsi grazie alla riflessione su questa grande verità.
86. A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti.


[1] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.
[2] S. Ireneo di Lione, Adversus haereses, II, 25, 2: PG 7/1, 798-s.
[3] Talmud Bavli (Talmud di Babilonia), Shabbat, 31 a.
[4] Discorso agli assistiti delle opere di carità della Chiesa, Tallin – Estonia (25 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 8.
[5]Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
6] Homiliae in Mattheum, 50, 3-4: PG 58, 508.
[7] Messaggio in occasione dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – USA (10 febbraio 2017): AAS 109 (2017), 291.
[8] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 235: AAS 105 (2013), 1115.
[9] S. Giovanni Paolo II, Messaggio alle persone disabili. Angelus a Osnabrück – Germania (16 novembre1980): L’Osservatore Romano, 19 novembre 1980, Supplemento, p. XIII.

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