La lunga estate nelle carceri italiane.
AVVENIRE

Dietro le sbarre
La lunga estate nelle carceri italiane. Il lavoro? Resta ancora un miraggio
Fulvio Fulvi (AVVENIRE 6 agosto 2023)
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Continuano, dietro le sbarre, i suicidi, le aggressioni agli agenti, le rivolte, gli scioperi della fame. Le carceri sovraffollate, insalubri e quindi “insicure” per chi ci abita, sono un’emergenza nel nostro Paese. E lo diventano ancora di più nel mese di agosto, quando nelle celle si scoppia dal caldo, il personale di sorveglianza si riduce a causa delle ferie estive e vengono sospese le attività ludiche e formative che nel resto dell’anno aiutano i reclusi ad allontanarsi dall’inedia e dalla solitudine, potenziali malattie mortali.
Sovraffollamento e organici insufficienti: due questioni che si trascinano da anni ma che rimangono inevase nonostante gli allarmi e le continue denunce di chi è impegnato nella tutela dei diritti delle persone private della libertà e dei lavoratori del settore. Perché il carcere, in Italia, è un “pianeta dimenticato”. Eppure i numeri parlano chiaro: alla data del 31 luglio, nei 189 istituti di pena per adulti presenti sul territorio nazionale, i detenuti erano 57.749 (2.510 donne e 18.044 stranieri), cioè oltre 10mila in più rispetto alla capienza regolamentare, con un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. E fa riflettere anche che tra quelli costretti a vivere “dentro”, solo 42.918 devono scontare una pena definitiva mentre il resto è in attesa di un primo giudizio (7.946), di una sentenza di appello o dell’esito di un ricorso (5.897). Risulta largamente insufficiente, poi, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà) che invece consentirebbero uno sfoltimento delle presenze all’interno delle strutture. Vite inafferrabili, quelle dei detenuti, per i quali il tempo diventa, nella maggior parte dei casi, non un’occasione di redenzione umana e di reinserimento sociale come dovrebbe essere in base all’art. 27 della Costituzione, ma un pesante macigno che ne schiaccia l’anima e qualche volta anche il corpo: i suicidi, che nel 2022 sono stati 85 – un tragico primato – e 42 dal 1° gennaio di quest’anno a oggi, sono la conseguenza di una condizione esistenziale divenuta impossibile.
Se le morti per mano propria aumentano (e si verificano soprattutto nei primi sei mesi di detenzione e durante l’estate) è anche perché chi è rinchiuso in una cella trascorre le giornate solo in attesa dell’ora d’aria e dei pasti, guarda la tv o fuma una sigaretta e non è impegnato in altre attività. Solo il 31,6% dei carcerati, infatti, è iscritto a un corso scolastico mentre il 35,2% lavora, dentro oppure in regime di semilibertà, per l’Amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di un’impresa esterna. È invece quasi del tutto assente la formazione professionale, che riguarda il 4 %. «Il tempo sprecato dietro le sbarre distrugge, perde di significato, perché sono altri a decidere per te, quando devi mangiare, fare la doccia, uscire in cortile, telefonare ai parenti» spiega Carla Lunghi, docente di Sociologia dei processi culturali all’università Cattolica di Milano la quale, oltre a studiare il “fenomeno carcere”, insegna italiano come volontaria nella Casa circondariale di San Vittore. «Il rischio è che queste persone, quando escono, siano peggiori di prima, larve umane, incattivite e incapaci di decidere anche le minime cose quotidiane, come comprare il biglietto del tram o pagare le tasse. Figuriamoci trovare un lavoro…» commenta Lunghi. «È necessario invece che il carcere come istituzione si assuma la responsabilità di educare – conclude – e di creare nuovi cittadini anche attraverso esperienze di lavoro che abbiano spazi di operatività e una retribuzione soddisfacente per favorire l’autostima o un’idea positiva di sé». «D’estate, i ritardi e le emergenze, presenti in un carcere anche quando tutto funziona, rischiano di diventare esplosivi perché fanno crescere l’insofferenza di chi vi è rinchiuso, le ristrettezze quotidiane diventano più pesanti – avverte Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – e aumenta l’incapacità di gestire il tempo vuoto, con effetti psicologici spesso devastanti». «Inoltre, a dominare quasi sempre nelle decisioni di chi gestisce le strutture – spiega Palma – è l’applicazione pedissequa della “norma neutra” rispetto, per esempio, all’esigenza di una vicinanza accogliente, di un incontro in più in parlatorio o di una telefonata». Nascono anche da qui gli atti di autolesionismo e i suicidi.
E non va dimenticata, poi, “l’altra parte della “barricata”, anche se così non dovrebbe essere: gli agenti di polizia penitenziaria. Quelli in servizio a tutt’oggi nelle carceri italiane sono 32.260. Quasi un agente ogni due detenuti. E con un’età media alta. «Ne servirebbero almeno 4.364 in più per far fronte alle esigenze di sicurezza interna e all’organizzazione delle attività quotidiane dei reclusi previste dal regolamento» sostiene Massimo Vespia, segretario generale della Fns-Cisl. E molto spesso i sorveglianti vengono aggrediti e minacciati, anche con violenza da detenuti scalmanati o con gravi problemi psichici. «Ci sono colleghi che ogni giorno entrano da soli in sezioni con cento detenuti, spesso con tutte le celle aperte» spiega Giovan Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo della categoria. Cosa fare, allora? «Ministero della Giustizia e Dap devono provvedere senza più rinvii alla carenza degli organici – chiede Vespia –, a rinnovare e ammodernare gli istituti penitenziari vecchi e inadeguati (alcuni risalgono all’epoca borbonica), a creare spazi per il personale e ausili tecnologici per migliorarne il servizio».

LA STORIA

A Locri, dove si riparano vite. Coi saponi.  Dall’olio esausto lavorato dai detenuti è nata la linea di prodotti “Bergoglio”, benedetta dal Papa. Il progetto voluto da Caritas, Tribunale e Casa circondariale. E chi vi partecipa, una volta uscito, trova occupazione.

Antonio Maria Mira (AVVENIRE 6 agosto 2023)

Gli scarti delle produzioni che vengono lavorati dagli scarti della società. Accade nel carcere di Locri, tra profumi di bergamotto e ulivo. Profumi di impegno e cambiamento. È il progetto “Profeti di speranza, mendicanti di riconciliazione” della Caritas della diocesi di Locri-Gerace in collaborazione col Tribunale e la Casa circondariale di Locri, l’Uepe e la cooperativa “Felici da matti”. Un’iniziativa per dare lavoro a detenuti e ex detenuti, ma anche di più, come ci spiega la direttrice della Caritas diocesana, Carmen Bagalà. Un progetto fortemente voluto e sostenuto dal vescovo Francesco Oliva che più volte è stato in carcere per incontrare i detenuti. Un carcere strapieno.
La capienza sarebbe per 60 persone, ma attualmente ne ospita 120, metà stranieri. Con questi numeri le attività lavorative diventano difficili anche se ancor più necessarie. Ecco il motivo del progetto della Caritas, finanziato coi fondi dell’8xmille, che per ora coinvolge 4 detenuti tra i 30 e i 40 anni, due italiani e due stranieri. Non hanno diritto al lavoro esterno, così il lavoro è entrato in carcere grazie alla Caritas. Lavoro che diventa poi fondamentale per chi esce dal carcere dopo aver scontato la pena. Così 3 ex detenuti, che avevano già cominciato a lavorare durante la pena, una volta usciti hanno trovato occupazione, uno per la Diocesi, due per il Santuario della Madonna di Polsi, occupandosi della manutenzione e dei terreni agricoli. «È giustizia riparativa» commenta con soddisfazione Carmen. Come tutto il progetto. E allora torniamo in carcere. Qui in un laboratorio i 4 detenuti confezionano i saponi prodotti dalla cooperativa “Felici da matti” utilizzando oli esausti da frittura e l’essenza del bergamotto, il profumatissimo agrume tipico calabrese e in particolare della Locride. I detenuti non possono produrre i saponi perché in carcere è vietato far entrare sostanze chimiche come la soda necessarie per la realizzazione. Così si limitano a confezionarli in belle scatolette che portano scritto “Naturali Terre di Calabria”. Inoltre nella falegnameria del carcere realizzano portasapone in legno di ulivo riciclato, materiale di scarto regalato da agricoltori e falegnami. Ancora una volta lo scarto che ha una nuova vita.
Come la storia della cooperativa nata nel 2003 a Roccella Jonica, quando vescovo era padre Giancarlo Bregantini, come gesto concreto del Progetto Policoro della Cei per l’imprenditoria giovanile al Sud. «Nasce da un’esperienza di fede e volontariato, dall’associazione che gestiva la mensa e lo sportello per i poveri» ricorda la presidente Teresa Nesci. Poi si passa alla raccolta di abiti usati trasformati in stracci per le pulizie che vengono acquistati anche da Trenitalia e Medcenter. «Il nostro obiettivo è il recupero di quello che per altri è uno scarto, sia ambientale che sociale». Così la cooperativa lavora coi disabili, soggetti fragili e detenuti. Produce saponi e anche una serie di detersivi e detergenti per la casa che portano sull’etichetta il nome “Bergolio”, bergamotto e olio. «Abbiamo scritto a Papa Francesco per chiedergli se era dispiaciuto per l’uso di questo nome che ricorda il suo. Ci ha risposto che era molto contento e ci ha benedetto ». La loro è vera economia circolare, dalle 60 tonnellate di olio esausto raccolto ogni anno, all’utilizzo di materie prime naturali e legate al territorio come il latte di capra, il fico d’India, la menta, gli agrumi. Ora il progetto in carcere. I quattro detenuti sono regolarmente pagati grazie a tirocini formativi finanziati dalla Caritas della durata di sei mesi prorogabili, inoltre la cooperativa acquista i portasapone. Per queste attività sono seguiti da due tutor, anche questi pagati dalla Caritas. Un sostegno economico importante perché questi detenuti hanno famiglie che devono essere aiutate. E non ci si ferma qui. Il progetto vuole unire l’attività lavorativa al miglioramento delle condizioni personali dei detenuti. Così si sta realizzando un emporio solidale presso il quale potranno reperire vestiario e prodotti per la pulizia. Coinvolte le parrocchie del territorio chiedendo però abiti nuovi, «perché non è giusto dare i nostri scarti a chi è già scartato». Il percorso di ricostruzione personale viene completato da uno di spiritualità grazie al cappellano don Crescenzo De Nizio e alla squadra educativa Caritas, e che prevede momenti indicati con le tre “P” di Presenza, Preghiera e Parola, ed è indirizzato a detenuti di tutte le religioni. Inoltre sarà attivato proprio presso la Cappellania un laboratorio artigianale per la realizzazione retribuita di braccialetti e Corone del Santo Rosario della Pace. Un vero lavoro di squadra, col sostegno determinante e convinto del presidente del tribunale di Locri, Fulvio Accurso, che ha portato addirittura alcuni detenuti a lavorare per la ristrutturazione del Palazzo di giustizia.

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