VIVERE LA COMUNITA’ di Don Battista Borsato

VIVERE LA COMUNITÀ CON RELAZIONI DI AMICIZIA E DI COLLABORAZIONE
di Battista Borsato (Servizio della Parola 480/2016)

O ci salviamo insieme, o non ci salveremo mai. Di fronte all’insidia dell’indivi­dualismo presente anche nella comunità cristiana, questa affermazio­ne ci può sembrare sconvolgente. Anche il rapporto con Dio prima di essere individuale è comunitario.
Il creden­te (come pure l’uomo) non si fa da solo, ma insieme; sono gli altri che lo stimolano, lo allargano, lo fanno crescere. I credenti formano una comunità in cui tutti sono uguali per dignità, pur nella diversità di compiti e carismi e, quindi, tutti ugualmente responsabili della liberazione e della salvezza del mondo.
L’idea di fraternità dovrebbe contrassegnare la vita della Chiesa. Il centro non è l’autorità, ma il popolo di Dio, la comunità.
Il cristianesimo non è fondato sul dovere e sulle funzioni ma sul­le persone e sulle relazioni. Persone animate dalla passione. Al centro non possono esserci delle attività, fossero pure delle attività sacramentali, catechistiche, “religiose”, ma la passione. Oggi si sta riscoprendo il valore del sentimento.
Il riconoscimento del “femminile”, attualmente presente an­che all’interno della Chiesa, porta a privilegiare il sentimento sulle idee, il cuore sulle attività.
Anche i Padri della chiesa nelle loro catechesi miravano a parlare al cuore delle persone. Essi non sono contro l’intelli­genza, né contro la cultura, soprattutto biblica. Hanno ragiona­menti finissimi, però non sono ragionamenti per sapere, sono ragionamenti per vivere, per amare. L’uomo è visto nella sua to­talità di intelligenza e di sentimenti. Oggi la cultura e la teo­logia stanno riscoprendo e valorizzando il “cuore” considerato come quello non che acceca, ma che illumina l’intelligenza. Solo uno che ama vede chiaro (Saint-Exupéry).
Anche Dio è un abbraccio di relazioni tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Papa Francesco lo afferma nella Lettera Laudato si’: «Tutto il mondo è intimamen­te connesso…tutte le creature sono connesse tra loro…tutto è in relazione…tutto è intimamente relazionato». Tutto compreso, anche Dio. Nulla esiste da solo, nep­pure Dio, nulla esiste a prescindere dalle relazioni.
Proveniamo da secoli di individualismo che ha così esaltato il privato da appannare e affossare il valore della comunità. La comunità era considerata un pericolo per la libertà del singolo, diventava solo una necessità per la sopravvivenza, ma non per la promozione delle persone. Anche la fede era vissuta per lo più così. Essa sottolineava il rapporto con Dio e meno, molto meno, il rappor­to con la comunità. Questa rimaneva periferica e irrilevante nei riguardi della fede. Pure i sacramenti erano intesi come l’incon­tro con Dio e non come l’inserimento e il crescere nella comuni­tà.
Una secolare catechesi preoccupata della “salvezza” dei sin­goli, ha oscurato il senso della comunità. Ci coglie di sorpresa l’affermazione del concilio Vaticano II: «Piacque a Dio di san­tificare e di salvare gli uomini non individualmente e senza al­cun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (LG 9). Chiara è l’affermazione che prima siamo comunità, Chiesa e poi ci incontriamo con Dio. L’altro viene prima dell’io. L’io nasce dalla relazione e cresce nella relazione. Pure Christos Yannaras, teologo ortodosso, dichiara: «Nessun sacramento mira alla santificazio­ne dell’uomo come individuo, ma al suo inserimento in quella comunione di persone che si chiama Chiesa». E aggiunge: «Dio è comunione e desidera che questa si sveli e si attivi nella comu­nione degli uomini» (cfr. La cella del vino, ed. Servitium).
Nella Evangelii Gaudium viene ripresa questa prospettiva: «Dio ha scelto di convocare gli uomini come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo né con le proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della com­plessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana» (n. 113).
Soggetto è la comunità, non tanto il presbitero. Egli suscita la responsabilità, non la fonda, né la assorbe. Questa comune responsabilità non è una concessione della gerarchia. Ora, per la ca­renza (provvidenziale?) di presbiteri, viene riscoperta la comu­ne responsabilità del popolo di Dio nel quale vivono vari mi­nisteri e vari carismi, per lungo tempo soffocati dalla «autorità quasi padronale» del ministero presbiterale. E se oggi il popolo di Dio diventa attore di questi momenti religiosi, non deve es­sere considerato un cedimento alla mentalità attuale, mentalità democratica partecipativa, ma appartiene alla linea più au­tentica e vera della parola di Dio e anche della Chiesa dei primi secoli. Il concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium, afferma (è una delle più basilari espressioni del concilio!) che mediante l’unzione dello Spirito i battezzati formano un popolo sacerdo­tale, profetico, regale (n. 10). È il popolo di Dio nel suo insieme che è chiamato a celebrare le grandi meraviglie di Dio, perché queste siano presenti anche oggi (compito sacerdotale); è il po­polo che ha il compito di ascoltare la Parola, di annunciarla, di renderla viva dentro la storia (compito profetico); è sempre al popolo che è affidata la missione di «far crescere il mondo», sull’esempio di Cristo, che è un «re» venuto non per «farsi servi­re», ma per servire (compito regale).
Nella chiesa delle origini esisteva un forte senso comunitario (At 2,42), in parte o del tutto andato perduto lungo il corso del­la storia.

Come aprirsi a relazioni di collaborazione e di amicizia nella parrocchia?

1) Vivere il valore della diversità e del pluralismo

L’accoglienza della diversità è il rispetto e la valorizzazione di ogni singola persona, della sua originalità e irripetibilità. La Chiesa è una comunione di persone e gruppi differenti, senza omologazione o intruppamento, ma anche senza conflittualità, competitività, indifferenze reciproche. Essa è chiama­ta ad essere la convivialità delle differenze.

  • Educarci all’attitudine del «pensare insieme» valorizzando il dialogo!

 

Se la differenza è una risorsa, nella Chiesa deve instaurarsi la cultura del «pensare insieme», e dello «scegliere insieme». Per­ché vi sia un vero dialogo occorrono alcune indispensabili at­tenzioni:

  • Sapersi ascoltare.
  • Essere disposti a essere flessibili e mettere in discussione proprie idee e progetti rinunciando ad essere irremovibili.
  • Non dialogare per convincere l’altro o per “convertirlo”.
  • Amarsi è accogliersi nell’imperfezione, senza pretendere persone e comunità perfette

Occorre imparare ad essere misericordiosi verso se stessi e verso gli altri, permet­tendo a ciascuno di essere quello che si è, rinunciando ad essere perfetti.

Nel suo libro Non perfetti, ma felici (EDB), fratel Michael- Davide Semeraro così si esprime: « Per essere uomini e anche credenti occorre accettare l’ambiguità che è in noi, saper vivere nella debolezza senza interrompere il cammino, prendere coscienza che mai saremo la persona che abbiamo sognato, un militante puro e duro. Occorre saper morire alle attese su noi stessi e saper vivere nella fragilità. Questo non per rinunciare a crescere, ma per accettarci come siamo e vivere in maniera realista: saremo più vicini al pubblicano che si pente e accetta la sua debole umanità, che al fariseo che si sentiva supe­riore perché era un rigoroso osservante» (cfr. Lc 18,9-14).

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