LA PREGHIERA: VOCE DELLA SPERANZA
(Alberto Neglia – HOREB 1/2012)
È difficile oggi sperare! Negli ultimi decenni si è guardato alla storia non solo sotto il segno della crisi, ma in modo radicale della fine: fine della modernità, fine della civiltà occidentale, fine della cristianità. Il presente, poi, specialmente in Italia, è un tempo caratterizzato con particolare acutezza dal senso della precarietà e dell’incertezza del futuro. È quindi un tempo in cui si pone con palpabile drammaticità la domanda: “che cosa posso sperare?”. E da questo interrogativo non è esente il cristiano.
La speranza cristiana, infatti, è bene chiarirlo, in un’epoca in cui molti disperano, non vuole semplicemente consolare o favorire facili ottimismi, ma vuole ricordare che la promessa biblica non ha certo risparmiato ai suoi testimoni la lunga attesa nella notte. La Parola di Dio non ci permette di calcolare le probabilità di un avvenire felice. Ma essa è presente là, è “promessa” dove noi operiamo per superare la fatalità.
Dal racconto biblico emerge con chiarezza che la speranza è dono connesso all’ascolto della parola di Dio insperata e gratuita: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is 41,10), dice il Signore al suo popolo, attraverso il profeta. Essa, quindi, non si fonda sulle proprie capacità di mutare le cose ma sulla fede in Dio motivata dall’ amore.
La speranza ha la sua voce: la preghiera
Se la speranza è dono di Dio, dono offerto a noi nel Figlio, per Paolo, Cristo stesso è la nostra speranza, l’unica cosa da fare è cercare Dio e vivere insieme a lui. Dallo stare con lui scaturisce la speranza che va oltre ogni disperazione.
Uno degli spazi determinanti per cercare Dio è la preghiera. «La preghiera è un’opera infinita, un’arte che supera ogni arte e scienza. Nella preghiera entriamo in comunione con l’Essere che non ha inizio. O ancora: la vita stessa di Dio, colui che realmente è, viene in noi per questa porta. La preghiera è un’operazione della più alta sapienza, di una bellezza e dignità superiori a ogni cosa. In essa risiede la santa ebbrezza del nostro spirito[1]».
Allora, «dobbiamo restare nella preghiera, il più a lungo possibile, affinché la sua forza invincibile penetri in noi e ci renda capaci di resistere a ogni influenza distruttiva. Quando dentro di noi sorgerà questa forza, rifulgerà in noi la gioia della speranza nella vittoria definitiva[2]».
Ma se oggi è difficile sperare, c’è da dire che, non risulta facile nemmeno pregare. Si possono dire tante preghiere e attivare tante devozioni, ma la preghiera vera quella che si fa accoglienza della vitalità di Dio nella propria vita e che quindi coinvolge il cuore non è facile.
Con il termine cuore, ovviamente, non intendiamo l’intelligenza discorsiva con cui si ragiona, e neppure la sensibilità per la quale ci si volge verso l’alto, o l’affettività superficiale che noi chiamiamo sentimento.
«Il cuore – come chiarisce A. Louf – si situa molto più profondamente in noi, è il germe più segreto del nostro essere, la radice della nostra esistenza, o, al contrario, il suo culmine. Nella vita di tutti i giorni il nostro cuore resta ordinariamente nascosto. Emerge appena alla coscienza. Viviamo quasi del tutto immersi nei sensi esteriori. Ci perdiamo nelle nostre impressioni e nei nostri sentimenti. In tutto ciò che ci attira o si oppone. Anche se vogliamo vivere a un livello più profondo, deviamo di solito verso l’astratto: soppesiamo, tiriamo delle conclusioni logiche. Frattanto il cuore sonnecchia non batte ancora al ritmo dello Spirito[3]».
Allora, ritrovare il cammino verso il proprio cuore, dove ognuno porta, secondo la mirabile espressione di Pietro, «l’uomo nascosto» (1 Pietro 3,4), cioè, ciò che costituisce la nostra realtà più profonda e più vera, è il compito più importante dell’uomo. «Là Dio ci incontra e soltanto a partire di là noi possiamo a nostra volta incontrare gli uomini. Là Dio ci parla e a partire di là possiamo anche noi parlare agli uomini. Là riceviamo da lui un nome nuovo e ancora misterioso, che lui solo conosce e che sarà il nostro per l’eternità nel suo Amore[4]».
Lì siamo abitati dallo Spirito che grida in noi: Abba, Padre. Lì preghiamo!
Ogni metodo di preghiera non ha altro scopo che renderci coscienti di ciò che abbiamo già ricevuto, e di sintonizzarci con lo Spirito che ci apre al dialogo con il Padre. Perché questo avvenga bisogna «liberare il cuore dalle sue scorie, ascoltarlo là dove già prega, donarci a questa preghiera finché la voce dello Spirito in noi divenga la nostra propria preghiera[5]».
Il cuore di chi prega veramente è invaso da una presenza, acqua viva, che lo dilata verso i confini del mondo e lo educa a farsi carico delle sue bellezze e dei suoi drammi. Questa presenza ci apre al futuro e ci fa sperare e ci rende responsabili della storia.
La preghiera, esperienza tra abbraccio e silenzio di Dio.
Tutto sembrerebbe risolto, perché nella preghiera, a volte, abbiamo l’impressione della carezza di Dio che ci accompagna, ma, poi, sperimentiamo, anche, che non è sempre così perché, pur pregando, ci troviamo spesso di fronte ai drammi della vita e di fronte a Dio che tace. E allora diventa difficile pregare e sperare, il nostro cuore si fa arido e riusciamo a gridare a Dio le paure, i dubbi, la disperazione.
Allora si affaccia la tentazione di smettere di pregare e di sperare. Non dobbiamo meravigliarci, questa difficoltà affiora anche nella preghiera biblica, nei Salmi. Ma in essi è presente un filo rosso che educa a resistere nel cammino di fede, a pregare e a sperare.
È significativo, in merito, il salmo 42-43, dove si intrecciano preghiera e speranza e sono espresse nel ritornello che ritorna tre volte e che dà un tono a tutto il salmo:
«Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio». (Sal 42,6.12; 43,5)
In questo salmo, è presente un desiderio vitale verso Dio e nello stesso tempo l’esperienza della sua assenza, potremmo ancora dire, dei ritardi di Dio. La manifestazione di Dio e quindi la percezione della sua presenza è sottesa fra due poli opposti, espressi nella duplice e opposta valenza del simbolo dell’ acqua:
– acqua che è portatrice di vita: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia … ha sete del Dio vivente» (Sal 42,2-3);
– acqua che è portatrice di morte: «Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati» (Sal 42,8).
Il salmo, quindi, si presenta come una metafora della vicenda umana e della speranza cristiana.
Il ritornello in cui emerge il lamento: «Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me?», non esprime solo una qualunque tristezza dell’animo, ma dice l’angoscia, l’abbattimento, il gemito dell’anima per l’esperienza di lontananza, di abbandono, di repulsione da parte di Dio e di oppressione da parte dei nemici. Tale situazione è resa plasticamente dall’immagine: «Le lacrime sono il mio pane giorno e notte» (Sal 42,4).
L’imperativo della speranza nella seconda parte del ritornello: «Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio», non è un invito a rifugiarsi in Dio, scavalcando o chiudendo gli occhi sulle sofferenze presenti, ma è un invito a vivere il presente, aprendosi al Dio della salvezza. La parola ebraica che significa “sperare” suggerisce un atteggiamento vigile, paziente, una fiduciosa attesa di Dio.
Nella prospettiva di questo salmo, sperare comporta la conversione dell’orientamento del cuore, per cui l’orante non fissa più con sguardo nostalgico il passato (Sal 42,5), ma si volta e guarda fiducioso verso il futuro. La speranza poggia sulla parola di Dio e il suo cammino è illuminato e guidato dalla Parola. Sperare nella parola di Dio è rendere la Parola operante nella propria vita e nella storia[6].
La preghiera e la speranza di Gesù di fronte ai ritardi di Dio
Questa condizione, tipica dell’arante biblico, non è estranea all’esperienza dello stesso «Cristo Gesù nostra speranza» (l Tm 1,1) e di conseguenza del cristiano. Gesù, infatti, più di tutti i giusti dell’AT ha vissuto lo scandalo dei ritardi di Dio. E il battezzato, immerso in lui, non può sottrarsi a questa logica. Gesù ha pregato molto spesso. Ha passato persino notti intere in preghiera (Lc 6,12). Ma prega soprattutto nei momenti più critici della sua vita terrena, quando la tentazione assale anche lui. Egli affronta la tentazione pregando, soprattutto l’ultima tentazione nell’orto degli ulivi e sulla croce.
Gesù aveva detto: «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Quando, durante la passione bisogna fare questa volontà, si scatena il dramma. Si apre un confronto sanguinoso con la volontà del Padre. Non appena, infatti, tenta di vivere questa obbedienza nella sua natura umana, scoppia la crisi. Il suo corpo l’abbandona, suda sangue e acqua, muore.
E Gesù affronta questo confronto sanguinoso con la volontà del Padre pregando: «Padre mio, se è possibile, passi da me, questo calice! Però ,non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39): E’ pregando che Gesù ha sostenuto questa lotta ed è stato esaudito al di là della morte.
Sulla croce la tentazione si fa ancora più insidiosa. Qui viene schernito su ciò che gli sta più a cuore, ciò per cui è venuto: la salvezza. Con sarcasmo gli viene detto: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto … Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,35.37).
Gesù non nasconde l’angoscia e pregando fa suo il grido del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Gesù sente improvvisamente l’assurdità della sua morte e dell’incomprensibile assenza del Padre. Egli sperimenta fino in fondo come sia difficile cambiare il cuore, la vita degli uomini, ma questo non lo porta alla disperazione, perché egli sa che il regno di Dio è là dove non si dà ritorno su di sé, non si dà dimostrazione di potenza, ma comunione con Dio e desiderio di rendere tutti, anche nel più profondo dolore, partecipi della gioia di Dio.
A partire da questa situazione drammatica, quindi, Gesù continua a credere, contro ogni speranza umana, che il Padre nonostante tutto lo ama. E lo ama, non senza la morte, neppure sfuggendo alla morte, ma mediante la morte per una vita nuova. In questa prova senza misura, sull’ orlo della disperazione, la preghiera di Gesù ha saputo pronunciare il suo sì alla volontà del Padre. La sua preghiera è un bacio d’amore nel quale egli consegna il suo ultimo respiro: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46)[7].
Gesù accetta di lasciarsi andare … nelle mani di suo Padre. È un abbraccio che non sfocia nella morte, ma nell’ Amore, nella resurrezione.
Egli dalla croce consegna il suo spirito, il suo respiro al Padre, ma lo consegna anche a noi, come bacio d’amore, perché anche noi possiamo vivere del suo soffio vitale, del suo respiro e perché anche a noi sia concesso di vivere la stessa speranza e lo stesso abbandono nel progetto del Padre.
Gesù con il suo corpo risuscitato, è ora la Via della speranza. E lo è perché è colui che prima di tutto, pregando, ha attivamente sperato nell’oscurità della nostra storia.
Gesù risorto, il Vivente, è la speranza dell’uomo perché, come scriveva fratel Christophe, nella Pasqua del 1995, il più giovane dei monaci di Tibhirine, certamente uomo di speranza, ucciso nel 1996: «…il peggio, Gesù non l’ha fuggito. L’ha affrontato, l’ha desiderato fino all’angoscia e alla ribellione. Sulla croce, l’ha accettato come una tavola imbandita – preparata – da Dio, suo Padre, “di fronte al nemico” (Sal 22). Ci consegna allora il soffio della speranza. Alcune donne, tra cui – in piedi – Maria, sono presenti, così come il discepolo amato. È l’ora della speranza contro ogni speranza. La Chiesa inizia qui: in uno sguardo di speranza verso “colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Ap l,7). Trafitta anche lei, riceve la missione di portare la speranza al pieno compimento, fino alla fine (cf. Eb 6,12). “Per Cristo, noi crediamo in Dio che l’ha risuscitato … così che la nostra fede e la nostra speranza sono salde in Dio” (cf. l Pt 1,21).
[1] Archimandrita Sofronio, La preghiera:un’opera infinita, Qiqajon, Bose, 2001, 5
[2] Ivi, 6
[3] A.Luof, Lo Spirito prega in noi, Qiqajon, Bose, 1995, 18
[4] Ivi, 18-19
[5] Ivi, 23
[6] Cf. B.MARIN, «Spera in Dio» (Sal 42,6), in Parola spirito e vita, 9 (1984/1) 39-50
[7] Cf. A.LUOF, Lo spirito prega…, 37-38