Allora il padre uscì a pregarlo (Lc 15,11-32)
Virginia Isingrini, missionaria saveriana.

Allora il padre uscì a pregarlo (Lc 15,11-32)
Virginia Isingrini, missionaria saveriana.
Ritiro presbiteri Parma 2022.

La volta scorsa siamo entrati nella casa di Marta e Maria. Marta, la donna coraggiosa che accoglie tra le mura domestiche il profeta di Nazaret e si dà da fare in mille servizi per offrirgli la migliore ospitalità; Maria, la donna altrettanto coraggiosa che scavalca una barriera allora insormontabile: si siede ai piedi del Maestro e ascolta la sua parola, si fa cioè sua discepola senza essere stata chiamata da Gesù. C’è un servizio diverso e più alto da cui Marta la vorrebbe a tutti i costi distogliere invocando il consenso di Gesù. Il dissenso nasce anzitutto in casa e si insinua nei rapporti più stretti e sacri. Ebbene, dice Gesù, la parte scelta da Maria non le verrà mai tolta, anzi, non le dovrà essere mai tolta.
La casa nella quale cercheremo – il verbo è dovuto – di entrare oggi è una casa fittizia perché fa parte della parabola del padre compassionevole del cap. 15 di Luca. Conosciamo la storia e il contesto in cui è inserita: è la terza di una serie di parabole, dopo quella della pecora perduta e della moneta smarrita, raccontate a motivo delle mormorazioni degli scribi e dei farisei circa il suo mangiare coi peccatori e i pubblicani. C’è una comunione di vita che dà fastidio e che si vorrebbe far saltare. La parabola è dunque raccontata in un contesto di polemica religiosa. Qui si fronteggiano due modi di rapportarsi con coloro che hanno intaccato gravemente la loro relazione con Dio e la sua Legge.
Alcune osservazioni. Le prime due parabole ripetono lo stesso schema: c’è qualcosa che si perde (una pecora, una moneta), c’è qualcuno che se ne accorge (il pastore, la donna) e fa di tutto per ritrovarlo. Una volta che si è ritrovato, si organizza una grande festa. Uscendo dal racconto parabolico in entrambi i casi Gesù conclude che allo stesso modo si fa più festa in cielo per un peccatore convertito che per gli altri che non si sono persi. Per non cadere nell’allegoria ideologica, dobbiamo conservare il contrasto tra l’uno e i molti, tra il perdere e il trovare. Le 99 pecore rimaste nell’ovile – come le 9 monete ancora nel portafoglio della donna – non sono «cattive», come non lo sono i giusti che non hanno bisogno di conversione, né debbono essere identificate con i farisei e gli scribi, pure loro «cattivi» perché hanno cercato di osservare la Legge. Tale interpretazione, oltre che faziosa, sarebbe scorretta.
Ci pensa la terza parabola a sparigliare lo schema delle prime due. Infatti il parallelismo si inceppa più di una volta. Ed è su questa somiglianza/contrasto che possiamo trovare una luce di interpretazione più inerente al racconto.
La parabola si divide in quattro scene. Nella prima vengono presentati i personaggi e ciò che dà avvio alla trama. Il personaggio principale è un padre che ha due figli. Il più piccolo gli chiede la sua parte di eredità. In ciò non v’era nulla di sconveniente o peccaminoso, né significava dichiarare il padre come morto. Il figlio minore esercita un diritto previsto dalla Legge. Vuole fare la sua vita. Quanti figli non hanno fatto, seppure con le dovute differenze, la stessa cosa? Il padre accetta senza opporre resistenza, tuttavia la parabola si scosta ben presto dalla realtà. Egli infatti non dà al figlio minore la terza parte dei suoi beni, come era prescritto, ma la metà della sua «vita» (tÕn b…on), divisa in parti uguali tra i due figli. Come mai?
Le pecore e le monete si perdono quando ti accorgi che non ci sono più. Esse infatti non hanno coscienza delle loro azioni. Soltanto nel momento in cui il pastore e la donna si rendono conto che manca qualcuno o qualcosa, il «perduto» diventa tale. Senza questa coscienza, non ci sarebbe stata nessuna preoccupazione e quindi nessuna ricerca. Nella terza parabola le cose cambiano radicalmente. Nella seconda scena il figlio minore se ne va portandosi via tutto quello che poteva. Certo, era un bello screanzato, senza riguardi verso il padre e il fratello, ma così voleva la sua smania di libertà e autonomia. Conosciamo com’è finita la sua fuga: senza un soldo, senza amici, senza lavoro. In più in un periodo di grande carestia. Si ritrova a pascolare porci in un paese lontano (rispetto a cosa e da chi?), senza nessuno: avrebbe voluto mangiare le carrube dei porci «ma nessuno gliele dava». È in preda alla fame e alla solitudine. Ha toccato il fondo. Non vuole morire e l’unica salvezza che gli si apre in quel drammatico soliloquio – non gli è rimasto che sé stesso con cui parlare! -, è il ricordo del padre. A che altro si pensa quando si sta per morire di fame se non al pane? Del padre ricorda la generosità con cui trattava i suoi lavoratori: «hanno pane in abbondanza». Del resto non aveva lui ricevuto in eredità più di quanto gli spettava? Decide così di tornare. La svolta cruciale della parabola sta qui. Senza questa decisione sarebbe morto. Tutto il bel discorso che ha tessuto nella sua mente non ha altro fine che di farsi riammettere dal padre alla tavola, seppure alla tavola dei servi. I motivi non sono così sublimi, ma il barlume di una relazione ancora possibile non si è spento.
Eccoci alla terza scena. Il padre lo vede arrivare quand’è ancora lontano. Non è andato a cercarlo, come invece avevano fatto il pastore e la donna delle parabole precedenti. Gli corre incontro, ma il primo passo l’ha dovuto fare il figlio. Ricordiamo bene la sinfonia di gesti messa in moto dalla compassione, gesti affastellati l’uno sull’altro e riversati sul collo di quel figlio tornato finalmente a casa. Il vestito nuovo, segno della figliolanza ritrovata; l’anello al dito, segno di un legame che non vorrebbe spezzarsi mai; i calzari ai piedi, segno della vera libertà riconquistata. E scoppia la festa: tutti a banchettare, suonare e danzare, «perché questo figlio mio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Non importa perché sia tornato, importa solo che abbia capito che nella casa del padre si sta meglio. Al padre è bastato questo per ridargli ciò che simbolicamente gli aveva già consegnato quando era partito: la vita. La parabola, se avesse seguito l’orma delle precedenti, avrebbe potuto fermarsi qui. Invece no. Manca qualcuno. Forse non ce n’eravano accorti. È il figlio primogenito, di cui finora sappiamo soltanto che aveva ricevuto la metà dei beni fin da quanto il fratello se n’era andato. Siamo così all’ultima scena. E qui le cose si complicano perché il maggiore non poteva sapere del ritorno del fratello: «si trovava nei campi» a lavorare. Mentre a casa si fa baldoria lui fatica alacremente. Il contrasto è stridente e fa intravvedere il profondo conflitto che vi si nasconde dietro. Infatti, appena sente la musica e le danze, si ferma fuori. Perché non entra e manda invece un servo ad informarsi di quanto sta succedendo? Da lui viene a sapere il motivo della festa, ripetuto così una seconda volta: il fratello è tornato, per questo il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso «perché lo ha riavuto sano e salvo». Il padre ha appena riconquistato un figlio che credeva morto ma sta per perderne un altro, anzi, l’aveva già perduto senza accorgersene. La famiglia è divisa più di prima.
«Allora il padre uscì a pregarlo». Chi si converte è ancora una volta lui, il padre. È lui che esce di casa e percorre il pezzo di strada che lo separa dal figlio maggiore. Adesso il divario da colmare non è più soltanto tra un padre e un figlio, ma anche tra due figli che non vivono da fratelli ( dice «tuo figlio», non «mio fratello»), a riprova del fatto che fratelli non si nasce – non è un dato ontologico! -, ma si diventa. Padre e figlio sono ora uno di fronte all’altro. Il figlio maggiore gli butta in faccia tutta la rabbia e il dissenso che covava da tempo nel cuore. No, lui in quella casa in festa per un disgraziato che ha sperperato tutti i suoi averi vivendo da dissoluto, non ci vuole entrare. L’osservante, l’ossequiente a tutti gli ordini del padre non puòcondividere il banchetto con chi è andato a prostitute. E poi c’è quel reclamo acido che nasce da un confronto impari: «a me non hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici». Sebbene non fosse mai andato via fisicamente e fosse stato ligio al dovere, era interiormente lontanissimo dalla casa paterna e dal cuore grande del padre. Viveva più da mercenario che da figlio, agli ordini di un padre-padrone tenuto a «pagargli» il prezzo della sua fedeltà. Alla fin fine i due figli si assomigliano più di quanto possa sembrare. li minore voleva i beni paterni per vivere senza regole, il maggiore per essere ricompensato della sua ossequienza.
La supplica che il padre rivolge al maggiore per convincerlo a entrare fa cogliere il punto nodale della parabola: se i due fratelli non stanno insieme, se non gioiscono della stessa festa che desidera per i due, che rimane della sua paternità? che rimane della figliolanza e della fraternità? «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo», assicura il padre al figlio ostinato. Non gli aveva già concesso la sua parte di eredità dopo la richiesta avanzata dal minore? S’era dimenticato di avere ricevuto tutto gratuitamente, prima ancora della sua pedissequa obbedienza? Si può pagare l’amore e la vita che sono dati sempre prima e gratuitamente di ogni nostra risposta? Il silenzio del figlio minore, dopo che si è visto accogliere con una festa inimmaginabile, è più eloquente di quanto sembri. Che si può dire o fare di fronte allo sperpero della compassione? In fondo, non rimane che la gioia di essere salvati per via impensabili e imprevedibili. Ma di tale gioia il maggiore ora non ne vuole sapere. E neppure il padre è nelle condizioni di instaurare la fratellanza se tra i suoi due figli continua ad esserci ostilità. Perché si dispieghi la riconciliazione, forse non è sufficiente la festa, occorrono anche le lacrime. A indicarcelo non è però la parabola evangelica. Il finale della parabola rimane infatti sospeso sull’affermazione del padre: «tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Tocca ora al lettore concludere il racconto e scrivere la quinta scena, tocca a lui decidere se entrare o no nella casa in festa per il ritorno del figlio perduto, se accettare vie di salvezza al di fuori dei suoi schemi. Ma, riprendendo quanto ci hanno lasciato le prime due parabole finite entrambe in gloria, c’è da chiedersi anzitutto se ci siamo accorti di avere perduto qualcuno. La nostalgia, il senso di perdita, viene solo da chi è capace di provare amore, di sentire che senza l’altro, sia come esso sia, non si può vivere. Anche il ritorno è possibile a patto che si colga ciò che manca e che soltanto un altro può offrire: il pane, la festa, un capretto, una tunica, dei calzari. Il figlio minore ha saputo colmare, spinto dal suo bisogno, la distanza tra lui e il padre. Non importa il punto da cui si parte, fosse anche il più miserabile, disperato, lontano anni luce da dove ci troviamo noi, conta il punto d’arrivo: nella casa del padre si sta meglio. Questo è il miracolo inaspettato che ha fatto scoppiare la gioia. Ma in quella casa il padre ci vuole a fare festa insieme. Come fare sì che sotto lo stesso tetto, sotto il medesimo cielo, mangino allo stesso tavolo giusti e peccatori, amici e nemici, credenti e non credenti, conservatori e dissidenti? Si può tornare da un paese lontano dove si era in mezzo ai porci. Si deve poter fare anche un altro viaggio altrettanto importante: varcare la soglia di casa ed accogliere in festa chi tra i porci c’è stato ma ha preferito tornare. La seconda distanza può essere infinita, soprattutto quando si crede di non doverla percorrere. La fratellanza è una parola tremante nella notte, involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità, direbbe Ungaretti.

Il Padre accoglie il figlio a bandiere spiegate. Non gli domanda nulla: donde è venuto, con chi sia venuto, perché sia venuto. Ciò che veramente importa è che sia venuto, che egli abbia ora nel cuore la certezza della grazia che nella casa c’è quanto invano e tormentosamente ha cercato altrove, che ceda finalmente all’amore, che sia nuova creatura. Che triste spettacolo la nostra frequente incomprensione della larghezza infinita di Dio e come essa infastidisca, inceppi, se non stronchi addirittura, il passo delle anime che cercano Dio! La conseguenza più nefasta del peccato e di farci disperare dell’amore di Dio, incutendoci la paura, che uccide il figliolo e fa lo schiavo. Un tale sentimento è naturale nell’uomo, ove i torti diminuiscono e spengono addirittura l’affetto. Schiavo del peccato vuol dire essere sotto il dominio di questa paura che toglie ogni possibilità di risurrezione. Se la porta è chiusa, se le braccia del padre non sono spalancate per me, a che ritornare? Come strappare dall’animo del prodigo un tale scoramento, che per di più legato alla certezza d’avere meritato tutto ciò e più ancora? Come può l’uomo peccatore credere e abbandonarsi all’amore? La redenzione s’innesta sul tronco umano spezzato dal peccato, proprio a questo punto… L’incarnazione e la passione sono la follia dell’amore di Dio per farsi accettare dall’uomo peccatore. Dopo tale follia si capisce come il più grande peccato sia il non credere all’amore di Dio per noi. Noi possiamo dimenticarci di Dio, egli non ci dimentica; noi possiamo allontanarci da Lui, Dio non si allontana. Egli ci attende su ogni strada d’esilio, a qualunque muricciolo di non so qual pozzo di quaggiù, ai piedi di qualunque albero di sicomoro… Ci attende non per rimproverarci, neppure per dirci: “Te l’avevo detto”, ma per coprirci della sua carità, per salvarci perfino dal guardare indietro con troppo rammarico. Dostoevskij fa dire alla donna colpevole: “Dio ti ama a causa dei tuoi peccati”. Non è esatto: Dio ci ama come siamo, per farci diventare come vuole. (Don Primo Mazzolari, La più bella avventura)

Davide Maria Turoldo:

Ho l’anima rossa di ricordi
ultimo sangue che ancora mi resta:
poi tutto ho perso
cuore sostanze
lungo le strade.
Ricordo la tua mano protesa verso la mia casa
e mi dicesti: «Sali
a metterti la veste».
Ora la Tua calma riappare
sopra la grande città.

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