Carcere: senza alternative?
Elisabetta Laganà

Carcere: senza alternative?

Elisabetta Laganà (psicologa e psicoterapeuta, ex presidente del coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziario (SEAC) e della Conferenza nazionale volontariato giustizia).

http://www.settimananews.it/lettere-interventi/carcere-senza-alternative/

Il monito del presidente Sergio Mattarella sul tema del carcere espresso nel suo discorso di insediamento – «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza» – richiama con vigore la politica, la società, gli Enti Locali e il volontariato a operare sinergie atte a realizzare la costituzionalità della pena nella sua interezza e articolazione, quindi anche nella parte che prevede il reinserimento sociale della persona carcerata.
Pena non significa (solo) carcere
Anche il Garante nazionale Mauro Palma, ospite autorevole dell’ultimo Convegno dei cappellani delle carceri (Assisi, 2-4 maggio), ha chiesto che chi ne ha la competenza e responsabilità istituzionale si attivi per fare in modo che per coloro che dovrebbero stare in carcere per poco tempo si possano trovare nuove forme di detenzione.
Il nuovo aumento dei ristretti, ha dichiarato, è un segnale che dovrebbe far riflettere magistrati, politici e amministrazione penitenziaria «affinché vi siano volontà, rapidità nelle procedure e risorse che permettano di affrontare con modalità alternative – e certamente socialmente più utili – pene di così lieve entità».
Del resto, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo ripete spesso: pena non significa necessariamente carcere. In merito, i dati riportati dalla relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale indicano che, nel 2021, erano in carcere persone:

  • 212 per pene di 1 anno
  • 149 per pene di 2 anni
  • 757 per pene entro i 3 anni
  • 177 per pene dai 3 ai 5 anni

Sappiamo che vi sono dei casi, indicati dall’art. 656 co. 5 c.p.p., in cui il pubblico ministero può disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, notificando al condannato e al suo difensore sia l’ordine di esecuzione sia il decreto di sospensione dell’ordine. Con questa notifica, il pubblico ministero avvisa che entro trenta giorni il condannato può presentare un’istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione, in particolare l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 l. ord. pen.), la detenzione domiciliare (art. 47-ter l. ord. pen.), la semilibertà (art. 50 co. 1 l. ord. pen.).
Recidiva e sovraffollamento
Da quanto detto consegue che, se vi fossero le condizioni strutturali di accoglienza, alcune migliaia di persone potrebbero beneficiare di pene alternative.Le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva nel reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16% contro il 70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero spingere la realizzazione di opportunità di accoglienza atte a favorire la concessione di misure alternative, soprattutto per coloro che non hanno la possibilità di poterne fruire per mancanza di risorse, pur essendo nei termini. Questo numero potrebbe deflettere le cifre preoccupanti del sovraffollamento carcerario, tornato progressivamente ad aumentare, garantendo quindi maggiore sicurezza, dato che solo nello 0,63% dei casi sono stati revocati perché, una volta all’esterno della cella, i detenuti hanno commesso reati. A questi possiamo aggiungere lo 0,45% (quindi 247 casi) di persone non rientrate in prigione quando dovevano rientrarvi. Risultato finale: nell′1,08% dei casi qualcosa è andato male, nel 98,92% è andato tutto bene.
Il cambio di rotta dell’Italia a seguito della condanna della CEDU ha potenziato le norme per incrementare le misure alternative; ma a fronte di questi cambiamenti, nulla di progettualmente organico è stato fatto, a livello nazionale e regionale, per il potenziamento sul territorio di un sistema dei servizi in grado di accogliere persone con pene brevi.
Certamente il lavoro è un passaggio importante per l’integrazione sociale dei detenuti, ma non può essere disgiunto dall’alloggio, specialmente per i detenuti che non ne dispongono.
A fine marzo 2022 i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. È evidente quindi come un piano di potenziamento di strutture di accoglienza provocherebbe una deflazione dei numeri del carcere, tornato ad essere sovraffollato di alcune migliaia di unità con conseguente peggioramento della qualità della vita delle persone ristrette.
Contro la centralità del carcere
Pertanto, proprio nell’ottica costituzionale della pena, riteniamo sia giunto il momento di progettare interventi nell’ottica di un modello di governance che neghi la centralità del carcere e affermi l’importanza dello sviluppo delle misure alternative al fine di realizzare un modello stabile e organico sul piano nazionale.
A questo proposito la Conferenza Stato-Regioni, su impulso ed indicazioni delle articolazioni del Ministero della Giustizia (PRAP), potrebbe svolgere un ruolo determinante nella progettazione di luoghi destinati all’accoglienza e inserimento lavorativo, comprese anche attività di giustizia riparativa, di persone che non hanno la possibilità di domicili alternativi, attraverso rilevazioni dei bisogni dei territori; progetti che andrebbero finanziati con fondi ministeriali, perché possano garantire stabilità nel tempo; la buona volontà dei privati, risposta straordinaria offerta in questi anni dal volontariato e dai religiosi, non può costituire l’unica soluzione, tanto meno esaustiva, per un piano organico e stabile  nel tempo per le misure alternative.
Le riforme, per essere realmente democratiche e fruibili da chiunque – e non divenire privilegi – non possono essere realizzate a costo zero. Evidentemente un progetto nazionale come quello descritto richiede un investimento economico. Tale investimento andrebbe a beneficio di quelle fasce di popolazione più esposte ai rischi di recidiva in mancanza di un opportuno reinserimento; quindi, in realtà, costituirebbe non solo un risparmio, stante il costo elevatissimo (non solo economico) della recidiva, ma anche la ratifica della riduzione discriminatoria tra chi, per status, ha la possibilità di poter disporre delle condizioni di accesso alla pena territoriale e chi invece non le ha.

 

image_pdfScarica PDFimage_printStampa